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Autore: Emily Doe    24/12/2008    12 recensioni
Quando lui parlò, lo fece piano, come per paura di rompere o incrinare un qualcosa di molto delicato. Vellutato ed avvolgente e triste, come sempre era stato. Come lei lo conosceva.
“Non mi hai mai perdonato.”
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Disclaimer: Tutti i personaggi citati appartengono a J.K. Bowling (accontentiamo Word e teniamo compagnia ai Gabbani), ovvero a J.K. Rowling. Purtroppo per me, non ne posseggo neppure un pezzetto… checché ne dica lei, non ne possiede alcuno neppure mia moglia, anche se tutti sappiamo fin troppo bene quali siano le sue mire riguardo al fondoschiena di Draco Malfoy (AnthonO è un’altra storia, Sav me l’ha concesso, te lo ricordo, prima che inizi a lamentarti!). Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro sadism-ehm, piacere personale. Non si ritiene leso alcun copyright.
Solite (per me :lol:) incongruenze con il settimo libro ^^. Una storiella scritta per sfizio, niente di che :)







Quasi Palpabile



Passeggiare nella Londra Babbana aveva un che di piacevole. C’era lo smog, c’era il traffico, il rumore delle auto cullava i suoi pensieri sconnessi, ottenebrati nel ricordo di un’adolescenza un po’ troppo lontana. Era quella porzione di mondo che non aveva mai dimenticato e che le forniva, da molti anni a quella parte, un ritorno ad una realtà altra, esattamente da quando ogni suo istante, ogni suo momento, ogni suo respiro era stato invaso dalla presenza di una seconda persona.
Non si trattava certamente di un pensiero, di un ricordo: era qualcosa di molto più reale, quasi palpabile.
Quasi.
“Sei insopportabile.”
Hermione Granger, trent’anni, sorrise al nulla.
Percepiva con estrema chiarezza la presenza al suo fianco e se riusciva a comportarsi come se nulla fosse, lo doveva solamente alla lunga esperienza.
“Mi correggo: sei sempre stata insopportabile, ora lo sei anche di più.”
La giovane donna represse uno sbuffo, evitando un bambino con l’uniforme di una scuola poco distante, che per poco non l’aveva travolta.
“Insopportabile ed infantile!” Rincarò la dose il suo compagno. “E poi… non riesco a capire perché tu debba sempre recarti in mezzo a tutti questi… Babbani, per rilassarti. Un buon libro non svolge più il suo compito?”
“Possibile che tu non abbia ancora superato le vecchie fobie?” Rispose finalmente Hermione, fermandosi ad un semaforo ed osservando distrattamente il proprio riflesso in una pozzanghera: il cielo era livido, non che fosse una novità, ed i suoi occhi le restituivano uno sguardo un po’ troppo segnato, per una persona della sua età.
“Oh, finalmente ti degni di rispondermi! Grazie mille, ho blaterato per ore ed ore da solo, sentendomi anche vagamente idiota, ed ora…” La ragazza scosse il capo a quelle parole, chiedendosi come dovesse apparire lei, nel parlare apertamente a se stessa, all’incrocio di due strade e fissando la propria immagine riflessa in una pozza di acqua sporca. “… cosa sarebbe quella non molto leggera ironia che ho percepito?”
Si accese la luce verde del semaforo, ed una volta attraversata la strada, Hermione non si fermò al solito bar per il solito caffè prima di tornare a casa, ma proseguì decisa, senza svoltare dove avrebbe dovuto.
“Gradirei che mi rispondessi, una volta tanto e…” Una breve pausa esitante, poi riprese, vicino come sempre, eppure immensamente distante. “Dovevamo girare due angoli fa, non te ne sei resa conto? Proprio dove quel tizio con la faccia da idiota – quale indubbiamente era - ha osservato decisamente troppo a lungo il tuo fondoschiena.”
Anche senza guardarlo, poteva immaginare lo sguardo truce nei suoi occhi, il broncio ancora di adolescente mentre fulminava con quegli occhi trasparenti il malcapitato di turno.
Comunque non rispose, si limitò a frugare brevemente nella borsa, ad estrarne il cellulare ed a spegnerlo.
“Posso almeno sapere dove stiamo andando? No? Bene. Vorrà dire che mi limiterò a farmi trascinare qui e lì per tutta Londra… anzi, per tutta la Londra Babbana, senza scopo alcuno.”
Lei rallentò il passo, gettò una rapida occhiata all’orologio, le labbra incurvate nell’ombra di un sorriso.
“Non ho mai detto che questo vagare non abbia uno scopo.”
Quando lo udì rimanere – miracolosamente - in silenzio, capì che aveva cominciato ad intuire.
Percorsero ancora qualche metro, evitando accuratamente le pozzanghere, fino a trovarsi di fronte ad un cancello in ferro battuto, dalla lavorazione semplice, che dava su un verde vialetto. Appoggiò una mano sul ferro freddo, con una spinta delicata lo aprì e se lo richiuse alle spalle. Fu solo dopo un profondo respiro che riprese a camminare.
Era assurdo, forse era anche infantile essere ancora così presi nei ricordi di quegli anni ormai passati, eppure non era ancora riuscita ad arginare la sensazione di vuoto che la pervadeva ogni volta che metteva piede in quel posto. Più che presa dai ricordi, lei si definiva, amaramente e con un sorriso lontano, persa in quegli stessi ricordi.
Ricordi come meandri, da cui puoi uscire solo mettendo da parte una parte di te. Cosa che non si può fare per sempre.
La calma irreale di quel luogo la assalì con dolcezza, come sempre, mentre l’unico rumore, oltre a quello degli uccellini che cinguettavano sui diversi alberi che costeggiavano il vialetto, era quello dei suoi passi, delle foglie ormai secche che si sbriciolavano sotto il suo peso.
Non si voltò per controllarlo, non si voltò per vedere l’espressione tesa sul suo volto, né per subirne lo sguardo profondamente addolorato: l’aveva seguita sempre ovunque, in ogni luogo, in ogni istante ogni suo passo era stato anche quello di lui, tranne in quello. Erano passati anni, oramai, eppure non una volta l’aveva seguita per quel vialetto, fino a quella svolta, seguendo il sentiero ben tenuto tra le tante – troppe, per la vista e per il cuore; per l’amore di chi ha lasciato e quello di chi rimane, per quegli ultimi abbracci e la luce negli occhi di perfetti sconosciuti – lapidi grigie e bianche, alcune un po’ sconnesse, altre ricoperte in parte dall’edera, o non ancora lì da un tempo sufficiente perché quella bizzarra – eppure, in un certo senso, tristemente graziosa – decorazione potesse rampicarvi su.
“Non andare dove non posso seguirti.” Udì la sua voce scivolarle lentamente alle spalle ed avvolgerla quasi fisicamente, le parole morte in gola già molto tempo prima di nascere. “Ti prego.” L’aggiunta mormorata era diretta come una Avada Kedavra in pieno petto, fulminea, ed un doloroso strappo più e più volte tormentato.
Tu puoi seguirmi.” Era tutta lì la differenza tra loro due.
Almeno qui, almeno adesso.
“Non servirà a nulla. È tutto come allora.”
Sapeva benissimo che sotto quella constatazione, substrato molto più sofferto e più profondo, radicato nella consapevolezza di entrambi, la domanda, anzi, l’affermazione latente era un’altra, di calibro ben diverso.
Fa ancora così male.
A lei, a lui, a tutti loro.
“Niente può più esserlo.” Tranne quel dolore. Lo sguardo fisso nel nulla, le labbra incurvate in una smorfia che aveva voluto essere la bozza di un sorriso malriuscito. “Non servirà a nulla, ma non riesco a dimenticare, né a farmene una ragione. Non aspettarmi, non so quanto ci metterò.”
Non riesco a dimenticare, né a farmene una ragione.
Il silenzio di lui era il suono più assordante che avesse mai udito, nell’attesa di anni ed anni e nel rifiutarsi di riconoscere come tutto, in fondo, fosse andato avanti – e come tutto quel che non l’aveva fatto dovesse farlo.
Né a farmene una ragione.
Forse era semplicemente un dolore che doveva affrontare, anche se parzialmente, per ricordarsi di come stessero le cose – e per punirsi per non averle sapute cambiare. Sperava solo che non fosse così lampante la spossatezza nei suoi occhi, che traspariva senza sforzo alcuno anche dalla sua voce; sperava che non fosse chiaro a lui ed al mondo intero il male che faceva ancora quel passato, il male che faceva riviverlo, il male che faceva – ad entrambi – il non saper andare avanti.
Non aspettarmi. Un po’ per entrambi.
Riprese semplicemente ad andare, stringendo al fianco la borsa, i battiti del cuore rallentati, quasi annullati, fino a svoltare a quell’angolo, seguendo il sentiero fino a due lapidi in pietra, di un bianco spento. Sapeva che Ginny era passata appena due giorni prima, per cui non aveva portato con sé nulla, neppure un fiore. Le due semplici margherite che l’amica aveva lasciato davanti a ciascuna delle due fredde pietre – come quel cielo d’inverno e la sua mano, nella consapevolezza di non poterla mai più stringere, non come prima – erano sufficienti, si era detta, il resto era solo – e forse era tutto – conservare vivo il loro ricordo dentro di sé. Nella memoria, nel cuore, nella vita di tutti i giorni.
Avevano scelto proprio quel luogo, forse da alcuni ritenuta una scelta curiosa, in quanto nessuno dei familiari di nessuno dei due defunti era ospitato in quello stesso cimitero, per rimanere lontani dal passato, per tentare di allontanare tutto quel che c’era stato almeno quella volta, per tentare di essere, almeno in quell’occasione, semplicemente i ragazzi che erano ed erano stati.
Curioso vedere quei due nomi, l’uno di fianco all’altro? Sì, un po’.
Niente più Guerre per la salvezza del mondo magico e non, niente più strategie di battaglia, cognomi, Case o quant’altro. Un’eredità diversa, questa, che circolava con il sangue, dal cuore, al cervello, a tutto il resto.
Rimase in piedi, immobile ad osservare quei nomi un poco rovinati dalle piogge, ad osservare quei numeri beffardi che ricordavano a chiunque avesse mai potuto dimenticarlo quanto freddo si fossero lasciati dietro.
Non seppe mai quanto tempo rimase così, senza fare nulla, senza quasi neppure respirare – non un respiro di cui lei si sia resa conto, una sospensione di quell’atto che dolorosamente portava avanti da tanto tempo.
Poi lo sentì, come sempre era stato, come sempre lei e lei sola aveva saputo sentirlo. Nel nulla fatto di ricordi di quel posto così triste, pieno d’amore e di sofferenza e di odio mescolati indissolubilmente tra loro, la sua presenza la colpì piano, gradualmente, nell’unico luogo in cui non era abituata a percepirla.
E vide la sua mano – quella mano – allungarsi a deporre un altro unico fiore di campo, raccolto sui bordi di quel semplice sentiero, davanti ad una sola delle due lapidi, quella di Harry James Potter.
Lasciò che lo sguardo scivolasse sulla sua sagoma ancora chinata in terra, sul suo profilo familiare e sul modo che aveva di corrucciare quasi impercettibilmente le sopracciglia; sulla sua mano, ora stretta in un pugno, senza forza, ma con una rabbia che si irradiava con altrettanta efficacia in quel silenzio. Nel silenzio vissuto per anni, sotto le sue scorbutiche, assurde ed infantili chiacchiere, sotto lo sguardo di chi non può vedere e di chi, invece, è costretto a farlo. Sotto ogni sorriso, lontano. Troppo lontano.
Aveva perso ormai del tutto la cognizione del tempo e dello spazio, quando lo vide di fronte a sé, così vicino da poterlo toccare semplicemente chinando appena appena il capo contro il suo petto.
“Ron ti sta aspettando.” Una sfumatura lieve, nella sua voce, leggera traccia di malinconia. “Si starà chiedendo che fine abbia fatto.”
Si accorse di avere le guance umide.
“È ora di andare.” Le disse. “Per tutti e due.”
Per tutti e due.
Hermione annuì e si Smaterializzò.

***


I colori sembravano ora stranamente accesi, stranamente vivi: persino il marrone chiaro della sua porta di casa appariva diverso, eccezionalmente reale. Un effetto che quel luogo aveva sempre su di lei: ci si faceva l’abitudine, dopo un po’.
Stringeva ancora a sé la borsa, senza sapere consciamente perché, quando si voltò ad incrociare nuovamente il suo sguardo.
Lo sostenne senza fatica, come se fosse naturale, limitandosi a stringere ancor più a sé quel pezzo di cuoio e stoffa in cui erano racchiusi i suoi pochi affetti materiali – qualche lettera, qualche foto, un taccuino ed una penna dal tappo mangiucchiato. Tutti oggetti a lui correlati.
“Dobbiamo salutarci, adesso.”
La sua stessa voce le parve lontana, dentro di sé sentiva risuonare solamente i lenti battiti del cuore, come duri colpi al petto, feroci nel sangue, eppure così pochi.
Sapevano entrambi che sarebbe successo, sapeva lei, che l’aveva cercato per lui, e sapeva lui, che l’aveva evitato per rimanere ancora con lei.
Non rispose, fissandola con quello sguardo di tale malinconia da raggiungere senza sforzo alcuno la sfumatura più lieve e più persistente di dolcezza.
“Ma dobbiamo farlo insieme.”
Come sempre era stato, in quegli anni ed anche prima.
Si sistemò una ciocca dei ribelli capelli crespi dietro l’orecchio, infine, seppur a fatica, tolse una mano dalla preziosa quanto banale borsa che stringeva spasmodicamente a sé, e la allungò verso il pomello della porta di casa. Vide le proprie nocche sbiancare, stringendo con forza il freddo oggetto, poi si voltò, osservando un punto sulla sua spalla, tentando di trovare quella forza che aveva sempre temuto di non possedere.
Quando lui parlò, lo fece piano, come per paura di rompere o incrinare un qualcosa di molto delicato. Vellutato ed avvolgente e triste, come sempre era stato. Come lei lo conosceva.
“Non mi hai mai perdonato.”
Lo fissò negli occhi, unica a poterlo fare. Il sorriso dolce e sfinito, una sofferenza conosciuta, ma non per questo meno presente.
Bruciava esattamente come il primo giorno.
Il ricordo della Guerra e di quel giorno, del suo stupido gesto eroico, di quel sacrificio con cui le aveva salvato la vita… l’inizio di tutt’altra vita.
Quel sorriso era il tocco del vento sulla pelle sensibile.
“Ti perdono, Draco.”
Ti perdono per avermi abbandonata.
Morbido, appena un sussurro. Eppure quasi palpabile.
Non sapeva se i fantasmi potessero piangere, ma quella fu l’unica spiegazione – neppure molto plausibile – che le venne in mente quando, in un soffio leggero, vide la figura perlacea piegarsi piano verso di lei, negli occhi socchiusi qualcosa di liquido, lucido, e la sentì sfiorarle appena le labbra.
Ti perdono per avermi amata troppo.
“Questo non è un addio.” Precisò alla sagoma indistinta che aveva già cominciato a scomparire nel nulla.
Non poteva più vederlo, eppure fu quasi certa di averlo sentito sorridere dolcemente, mentre le rispondeva.
“Spero che sia un arrivederci molto lungo.”
La Londra Babbana continuava a scorrerle attorno con il suo frastuono; la sua mano ancora poggiata sul freddo pomello della porta di casa.




Fine






NdA: *scosta cadavere di Word, occultandolo meglio* Ennesimo esperimento malriuscito, nato quest’estate tra due esami, e se lo studio mi fa quest’effetto… :lol: *brucia libri - si fa contento Il Piromane - e calpesta Word defunto, evitando accuratamente di postare l’altro esperimento (natalizio) malriuscito*.
Approfitto di questa occasione per ringraziare tutti coloro che hanno commentato le mie stupidaggini storielle, in particolare Photograph e le ultime pubblicate ^^.
Auguri di buon Natale e buon anno :) ed un (altro :p) abbraccino traumatizzante alla mia Tarta ^^.
Alla prossima – se mai sarà (spero di no :lol:) ^^
Emy *le caprette tibetane salutano :p*
   
 
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