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Autore: kk549210    14/04/2015    5 recensioni
Augusto, Lea, Bologna: una storia d’Amore e di memoria.
1^ classificato al contest “Città d’Italia” indetto da BabyJenks
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sul filo di Arianna


 
NdA: Questo racconto è stato appositamente scritto in occasione del contest “Città d’Italia” indetto da BabyJenks sul Forum di efp. È una storia d’amore e di memoria.  Un piccolo omaggio a una delle città del mio cuore.
Ringrazio i miei carissimi amici Eleonora (Feles85) e Luciano per avere tradotto con amabile pazienza e perizia filologica i miei strafalcioni dialettali dal mio modestissimo toscoromagnolo all’autentico dialàtt bulgnais, necessario per dare il giusto “colore” alla storia.
 

***

 
 
Appena varcata la soglia, una nube dolce e pungente lo accolse nel suo grembo. Quell’aroma inconfondibile che regnava nell’antica bottega gli pervase l’olfatto, discese diritto alle cavità del cuore, per poi risalire distillato alle eteree camere della mente. Un inebriante viaggio nei meandri della voluttà, sorprendentemente nuovo, ogni volta, e visceralmente ancestrale al contempo: Augusto era intimamente convinto che quella malìa d’ambrosia al cioccolato, che lo intrideva fin nelle midolla, fosse sempre esistita e che sarebbe durata in eterno, anche se un’orda di neobarbari fosse giunta ad invadere e distruggere Bologna. Quel profumo faceva parte del DNA della città, ma anche del suo.
 
Una gioiosa frenesia allora si impadronì di lui e  quasi gli si inumidirono gli occhi per la commozione. Si sentiva di nuovo un cinno[1] di tre anni – o forse erano solo due e mezzo, perché la Carla non era ancora nata- e sgranava gli occhioni, dall’alto delle spalle di suo padre, sui cremini FIAT sotto le cupolette di vetro, sulle fette di salame al cioccolato dietro il vetro  del bancone che gli facevano venire l’acquolina in bocca. “Dove sei, bab?”. I sottilissimi fili della memoria s’addipanarono a catturare quel volto tanto amato e perduto troppo presto, al quale si sovrappose subito un altro, sorridente e gioioso. Quello dell’Arianna, il suo Tesoretto, che lo riportò al motivo concreto per cui era entrato da Majani. O forse a richiamarlo alla realtà era stata la voce della commessa, un po’ seccata che un settantenne trasognato si fosse piantato davanti al banco a bloccare la fila. “Agli ordini, signora!” si disse scherzosamente, pensando alla Lea che gli aveva affidato quell’incombenza speciale, ben sapendo che per lui ogni visita alla cioccolateria era un’autentica fonte di piacere.
 
 
“Niente scorza, però, a quel maraglio[2] di Gianpaolo!” rimuginò  uscendo dalla bottega, facendo un proposito un po’ cattivello. Per quanto si sforzasse, infatti, non riusciva proprio a digerire il moroso dell’Arianna. E il pensiero di averlo a pranzo in casa sua, quel giorno, non gli andava affatto a genio. Era visceralmente geloso , quasi come se lei fosse sua figlia. E in effetti era quasi così: era cresciuta in casa sua, da quando era nata, fino all’anno prima, quando aveva finito il Liceo. La Sandra la portava la mattina, prima di andare al lavoro, e ad Augusto non importava se era appena smontato dal turno di notte: il suo Tesoretto era tutto, per lui, unicamente, così dal profondo, così pienamente, e non conosceva, e non sapeva, e non aveva altro che lei.  Quell’esserino di appena due chili e sette lo aveva conquistato al primo sguardo, e nel tempo tra loro si era creato un legame profondissimo e indissolubile, tanto che ora gli toccava di ammettere, anche se un po’ a malincuore, di esserne veramente geloso. Lui che non lo era mai stato né di sua moglie né di sua figlia.     
 
 
Via d’Azeglio. Un fumo di gente in giro: la tiepida mattinata di quel sabato mattina di metà primavera aveva fatto riversare tutti nella strada, tra negozi e tavolini dei bar. Ma l’antica via dietro Piazza Grande, tolti gli edifici medievali, ormai conservava ben poco del passato tanto familiare ad Augusto: da quasi un quarto di secolo si era trasferito in periferia anche il vecchio negozio di giocattoli. Era lì che aveva trovato il suo primo lavoro, quando un coccolone[3] si era portato via suo padre e lui aveva dovuto lasciare le “Laura Bassi” e l’aspirazione di diventare maestro – e, perché no?, professore di francese- per andare a fare il fattorino. Non era più il tempo dei sogni e bisognava aiutare la mamma a tirare avanti la famiglia. Ma non si era trovato male: in fondo, quel lavoro era persino divertente. Quanto aveva pedalato, in città e su e giù per i colli! Una volta, per la strada di San Luca, per poco il triciclo non si era ribaltato con tutto il suo prezioso carico di bambole e trenini…  Che ridere! Gli piaceva troppo andare in discesa senza freni: in fondo, era solo un ragazzino.    
 
Oltrepassando le tre vetrine un tempo lussureggianti di colori vivaci, alle quali la Sandra e Marco da piccoli rimanevano impaniati per ore, Augusto pensò “Uno di questi giorni devo andare con Fausto a fare scorta di palloncini per il reparto”. Dopotutto, gli eredi del suo vecchio datore di lavoro continuavano a fargli prezzi di favore.
 “Perché, nonno?” gli aveva chiesto l’Arianna seria seria un giorno. Aveva solo otto anni, ma voleva capire perché lui continuasse ad andare al Sant’Orsola nonostante fosse già andato in pensione. “Come fai, nonno?” gli domandava ancora, ogni volta che entravano in argomento.  La morte e il dolore lo avevano visitato tanto precocemente, che Augusto aveva scelto, come impegno di vita, di non lasciare mai spegnere la speranza. Era stato questo il senso che aveva dato ai quasi quarant’anni di servizio come infermiere. Ed era lo stesso motivo che ora lo spingeva a fare volontariato nel reparto di oncologia pediatrica. Il suo Tesoretto l’aveva capito e quando aveva compiuto dodici anni, aveva voluto regalare tutte le sue Barbie alle bambine senza capelli. E lui era orgoglioso della sua nipotina, oggi come allora. Fiero che fosse una brava ragazza, con la testa sulle spalle – “Ma a me Gianpaolo, am pies brisa[4]” -, matricola alla scuola interpreti di Forlì. Una scuola di eccellenza per l’Arianna, che era una promettente francesista.
 
 
Tutto ingalestrito[5] di paterno orgoglio, allungò il passo verso il Pavaglione. Erano appena le dieci: giusto il tempo per una capatina da Nanni. Spulciando un po’ tra i libri usati, chissà che non gli capitasse tra le mani qualche rarità di letteratura francese da regalarle. “Altro che questi posti qua, dove i librai sono poco più che commessi di supermercato!” osservò fermandosi per un momento davanti all’ex libreria Zanichelli di Piazza Galvani, ora in mano a una celebre catena. Nella cornice delle ultime novità dell’industria editoriale, la vetrina gli restituì riflessa la sua immagine: naso grifagno e zucca pelata. “Nonno, sembri proprio Marescotti!”: mai commento estetico era stato più azzeccato.
 
 
Appena svoltato l’angolo di via dei Musei, Augusto si ritrovò davanti la serie delle bancarelle a cassettone che occupavano gran parte dello spazio sotto il portico. Proprio come i bouquinistes del lungosenna parigino, dove a ottobre contava di passeggiare a braccetto di Lea, durante il viaggio che stava progettando per le  loro nozze d’oro. Si avvicinò alla prima scansia, facendosi spazio tra alcune ragazze – studentesse fuori sede, come il loro accento faceva presagire-, e scorse una raccolta di volumi finemente rilegata che attirò la sua intenzione. Le giovani abruzzesi si allontanarono quasi subito, più interessate ai loro telefonini che ai libri e lui non poté trattenersi da regalare loro uno sguardo più di rammarico che di indignazione.  La conoscenza era la vera strada per la libertà, e soprattutto  giovani vi stavano rinunciando a favore di giocattoli digitali pieni di effetti speciali ma vuoti di significato. Augusto non aveva certo bisogno di ritrovarsi in mano un dizionario etimologico ormai introvabile per ripensare con gratitudine al suo amico Gino, patito di radici e ardito scopritore dei più astrusi collegamenti tra parole di lingue non imparentate tra loro nemmeno alla lontana, tanto da meritare lo scherzoso appellativo di Isidoro. I due avevano lavorato insieme all’ospedale di Castel San Pietro, quando entrambi erano ancora alle prime armi, e subito si erano riconosciuti nella loro affinità elettiva. Lo specializzando in internistica aveva intuito con occhio clinico che quel giovane infermiere presentava già gravi sintomi della bibliofilia, aggravata da letture un po’ casuali attinte alla biblioteca di quartiere. E Augusto aveva accolto di buon grado i suoi consigli e i libri che gli prestava.
-Me lo può tenere da parte, per favore? – chiese a un commesso che stava sistemando dei volumi alcuni scaffali più avanti - Torno lunedì, oggi non posso caricarmi troppo…
-Ma certo, signor Magnani. 
I vantaggi di essere ormai un cliente d’annata, buono come il vino. Augusto pregustava già la contentezza di Gino Malerba, primario di medicina interna all’Ospedale Santa Maria delle Croci di Ravenna, riconvertito da pensionato in allevatore di oche a Ganzanigo, con buona pace dell’Alba, quella santa donna che lo sopportava da più di mezzo secolo.
Ma ora doveva puntare ad altro, un bel regalo per il suo Tesoretto: scovare un Queneau sarebbe stato un ottimo colpo.    
 
        
 
 
 
Il vecchio quadrilatero tra San Petronio e le Due Torri era affollatissimo. “Ci credo, l’è sabat incû[6]”. Massaie come lei, con le buste stracariche, in pellegrinaggio tra le ultime botteghe che ancora resistevano all’assalto globalizzante dei negozi impersonali tirati a lucido, studenti fuori sede che ciondolavano nelle stradine, famigliole in libera uscita ai tavolini all’aperto con carrozzine girellini e monopattini, qualche sparuto turista che si era avventurato alla ricerca di uno scorcio caratteristico. Davanti a Santa Maria della Vita, attorniato da un drappello festante e tutto in tiro, uno sposo con il bouquet, in nervosa attesa della sua dolce metà. Lea pensò che a ottobre per loro sarebbero stati cinquant’anni esatti. Ne avevano passate, insieme. I figli, la casa da pagare, le autoblindo a Porta Zamboni, nel Settantasette, quando aveva una paura matta di far uscire la Sandra e Marco di casa. Ma non era quello il momento di abbandonarsi alle nostalgie e alla ricerca del tempo perduto. Erano già le dieci e mezzo e doveva finire di fare la spesa per il pranzo. Per i cappelletti non aveva avuto modo per farsi avanti con il ripieno, quindi doveva ripiegare sui passatelli. Dopotutto, all’Arianna piacevano molto di più.
-Maestra Magnani, che cosa le do oggi?
 
Per un momento il quarantenne alto e un po’ stempiato si dissolse ed ecco al suo posto il cinno timido che si aggrappava spaurito alle gambe della madre, all’appello dei nuovi scolari sulla porta della scuola. Cirenaica, settembre 1981. Il primo giorno per tutti e due: lui, in prima elementare. Trasferita finalmente a Bologna, lei, dopo vent’anni di scuola in provincia.
I profumi avvolgenti della drogheria di via Drapperie – altro che quella robaccia lì che ti rifilano alla Coop!- la riportarono alla realtà. Alla corsa del tempo reale, che aveva fatto crescere i suoi tre bambini e che da un pezzo  incrostava di artrosi le sue giunture. “Come si chiamava quel fisioterapista amico di Marco? Soccia![7] Altro che artrosi, m’è venuta l’arterio, m’è venuta”.
 
-Oggi viene a trovarci l’Arianna. Voglio farle i passatelli.
-Bé mo alora, ho per lei una forma speciale. Me l’hanno portata proprio stamattina. Le uova, ce l’ha?
 
Le oche del dottor Malerba erano diventate un po’ pigre. Occorreva ricorrere altrove. Uova di pennuti ruspanti, s’intende, e la fattoria a cui Malaguti Giulio si riforniva era più che fidata. Ancora più carica di prima, Lea Zanetti in Magnani uscì dal negozietto e si riavventurò nelle strade affollate, con la promessa di farsi latrice dei saluti che il suo vecchio scolaro mandava a Gustino. “In du l’andé a finir, qual l’è?[8]. Quella che le ronzava nella testa era una domanda retorica: di sicuro lui ora era da Nanni, col naso dentro a qualche libro, alla ricerca di un regalo speciale da fare all’Arianna. O a se stesso. O meglio ancora, a tutti e due. Una profonda tenerezza la pervase tutta e le strappò una lacrima da sotto gli occhiali: due erano i grandi Amori di suo marito, e lei aveva smesso da tempo di esserne gelosa. Erano amori così grandi, puri, esaltanti che non poteva fargliene una colpa. Dopotutto, non era a lei che era toccato di interrompere gli studi per farsi un mestiere a soli quindici anni, rimanendosene con la fame insaziabile delle letture perdute. E il dolcissimo e indifeso fagottino che era entrato nella loro vita nell’inverno del 1995 si era conquistato un amore indiviso totale assoluto. Tesoretto – la chiamava lui. E ora gli sembrava strano e inaccettabile che qualcun altro la potesse avere cara come lui, come loro.
 
Si stava facendo tardi. Anche se sapeva che sarebbe andata a colpo sicuro dirigendosi verso il Pavaglione, Lea preferì tirare fuori il telefonino per chiamare all’appello il fedifrago bibliomane. Non le piaceva certo di trascinarsi dietro le buste andando in direzione opposta a quella di casa. Gustino poi, con la sua gamba da maratoneta, non avrebbe impiegato molto a raggiungerla. 
 
    
    
 
 

[1] Bambino
[2] Ragazzo un po’ volgarotto che ama mettersi in mostra
[3] Infarto
[4] Non mi piace per niente
[5] Ringalluzzito
[6] È sabato, oggi
[7] O soccmel, intercalare bolognese che non è il caso di tradurre letteralmente
[8] Dove è andato a finire, quello lì?
  
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