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Autore: Caelien    15/04/2015    3 recensioni
"È un foglio bianco. Potrei scriverci pagine e pagine di bugie, ricordi, impressioni fittizie, solo per farlo diventare ancora peggio di come è, un burattino.
Ma non posso. Ho troppo rispetto per la vita umana.
Strano, detto da una psichiatra addestrata ad uccidere con le parole."
дело 17: caso 17.
Sage Trope è un ex agente S.H.I.E.L.D. Più precisamente, una psichiatra, maledettamente analitica e certosina. Le è stato assegnato il recupero del caso numero 17.
In questa storia, raccontata dal suo punto di vista, il suo percorso volto alla riscoperta della memoria. Non la sua. Ma quella di James Buchanan Barnes.
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff, Nick Fury, Nuovo personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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Servi all'esercito, servi ai servizi segreti, sei un uomo buono, ti hanno solo manipolato per anni ed eliminato la memoria a loro piacere.

Quanto poteva essere facile il mio lavoro, con un soggetto così soggiogabile?
Facile come contare: Uno – Ti chiami James Bachanan Burnes.
Due – Hai ucciso quasi un migliaio di persone coscientemente, ma non è colpa tua.
Tre – Nick Fury ti vuole arruolare nel suo corpo di vendicatori.
Ma se in ogni istante tutto muta, tutto è nuovo, facile non lo è più niente.


 

 

Avevo attraversato quasi metà del tragitto verso Denver; mancavano dodici ore, ma io ne avevo al massimo otto. Non c'era fretta, ma non amavo la puntualità, tanto meno il ritardo. Anticipare. Era stata quella la mia miglior qualità, da quando facevo il mio lavoro. Riuscivo, interpretando parole, sguardi, movimenti impercettibili, ad essere quasi sempre un passo davanti agli altri.
Quando il sonno tentava di vincermi, le sante iniezioni made in S.H.I.E.L.D. di non so quale sostanza, mi rendevano vigile per altre due o tre ore. Chissà quanto avrebbe pagato quel drogato all'angolo del supermercato lì a destra, per un goccio di questa roba.
Il viaggio era ancora lungo. Dovevo sfruttare il tempo 'libero' in qualche modo. Ripresi il mio studio sul soggetto.

"Comando, leggi il documento numero diciassette."

Non avrei mai pensato che ci si sentisse così stupidi a dare ordini ad un' atuomobile, prima di provare a farlo.

"Documento numero diciassette: verbale dell'agente Bell, settore Psichiatria. Trentesimo test sul soggetto diciassette."

Che sfortunata coincidenza numerica. Mi ricordavo di Bell. Mai saputo il suo nome. Ricordavo solo quella voce, che se avessi raffigurato, sarebbe stata un pozzo.

"Количество семнадцать*'. Soggetto in stato confusionario. Rientra oggi dalla missione in Siberia. Esaminato dall'agente Trope, riporta informazioni circa il riconoscimento di un luogo. Un campo di prigionia abbandonato. Dice di riconoscere l'odore dell'aria e l'aspetto dei capannoni. Simili a quelli di un imprecisato luogo degli Stati Uniti. Presenta ferite da sparo sull'anca sinistra. L'agente Trope riferisce uno stato emotivo malinconico, nostalgico. Viene dato l'ok per l'elettroshock. Il soggetto non si oppone. Si sdraia sul lettino. Le calamite vengono poste sulle tempie. Il morso di gomma inserito nella sua bocca. L'agente Trope fa domande al soggetto e gli stringe la mano, prima di lasciare la stanza. Il soggetto annuisce. Le rivolge uno sguardo, poi annuisce verso i dottori. Il corpo del soggetto subisce scariche elttriche. Urla. Esce sangue dalla bocca. Il soggetto perde conoscenza. Test numero trenta: esito positivo."

"Comando, cripta il documento numero diciassette."
Abbassai il finestrino: accesi una sigaretta. Inspiravo consapevolezza. Esalavo colpevolezza.

Perché se ne stava lì, senza reagire? Ogni volta.
Era come se a parlare fosse lui. Tutte le volte.
Non conosceva niente di migliore di quello che aveva ora.
Era stato riformato in qualcosa che non doveva pensare. Qualcosa che doveva solo rispondere ad ordini che gli venivano dati.
'Sono un'arma' disse. 'Sono un giocattolo' disse.'Sono un burattino, i cui fili sono strattonati e tirati in ogni direzione.' Ripeteva 'Sono qualcosa che non ha libertà di scegliere.'
Era consapevole. Quando parlava, era consapevole. Sempre, prima di quella scarica di vuoto plumbeo e bugie.

*

Passai davanti ad una farmacia. Quindici Marzo. Denver. Diciannove e quarantuno. Meno dieci gradi. Sessanta percento di umidità.
"Del paracetamolo per favore."

Chiesi a... Elizabeth. Così diceva la sua targhetta di plastica.

"Bayern o generico, signora?"
Disse, con una voce al limite dello stridulo.

"Generico per favore."
Mi sforzai di non sorridere. Bayern. Sorrideva fin troppo il suo amministratore delegato, quando lo interrogai, durante lo scandalo dei vaccini placebo in Kenya.
Tornai in macchina. Ad est della città mi era stata assegnata una casa, strategicamente acquistata da Las. Quando vi fui davanti lo chiamai.

"Sono qui. Potevi avvisarmi del sonnifero. Trentotto e mezzo."
Dissi, con voce atona.

"Pensavo lo spessi. Come hai fatto ad arrivare lì in dodici ore? Ti ha dato un passaggio Stark?"
Rise.

"Rogers?"
Chiesi.

"Ancora a Los Angeles. Dice di aver scoperto qualcosa di interessante. Se volessi raggiungerlo.."

"Sai che non voglio. Dormo tre ore ed esco."

"D'accordo. Avvisami su qualunque spostamento o novità. Sta' attenta."

Entrai nella casa e accatastai le valige dove capitava. Non prestai minimamente caso a come fossero disposti i mobili o se la casa rispecchiasse il mio giusto.
Mi capitò solo un'altra volta di vivere una situazione del genere, e fu durante la mia prima missione all'NSA. Imparai a non affezionarmi troppo alle cose, al prezzo di una coltellata nella spalla.
Le valige di vetranio dello Shield avrebbero trovato posto nel mezzo dei due materassi del letto. Finito l'iter di controllo, mi feci un'altra puntura di sonnfiero; dormii poco e sudai molto.

*

La Luna era calata, dovevano essere le ventitrè passate. Mi toccai la fronte; la febbre era sparita, anche se sapevo sarebbe tornata in poche ore.
Feci una rapida doccia. L'acqua gelida faceva dolere i miei muscoli, ma era l'unico modo per lavarmi senza urlare di dolore. La cicatrice sulla spalla non aveva mai finito di fare male, e l'acqua calda era come quella santa sul demonio. Non capì mai il perché.
Indossai abiti dimessi e nascosi i capelli in un cappuccio, per poter passare il più inosservata possibile. Attivai le armi automatiche e i sensori di movimento, prima di uscire.

 

Percorrendo la strada a piedi verso la periferia Sud di Denver, cominciai a ripercorrere con la mente tutti gli istanti passati nel mio 'ufficio' con lui.
Cercai di ricordare ogni minimo particolare; gli abiti indossati, le capigliature, i gioielli, i profumi, le scarpe, il loro rumore e quello della stoffa, a contatto con il corpo e con le sedie in alluminio. E ancora, i miei gesti abitudinari, le mie parole, il suono della mia voce, il mio modo di respirare, di arricciare le labbra, di sbattere le palpebre.
Tutto era fondamentale, ai fini di un rapido riconoscimento, o al contrario, di un sicuro nascondiglio.
Jenna Smith doveva essere rumorosa, doveva avere un accento marcato, una postura ingobbita, una voce acuta o troppo profonda, essere sbadata e svogliata, perennemente annoiata. Il contrario di Sage.
Mentre sforzavo la mia mente per tornare agli istanti delle visite psichiatriche, non potevo fare a meno di ricordare quell'uomo distrutto, demolito. Ricordo quando, il primo giorno, annotai: 'discarica del cinismo della società. Anima in cenere'. Sembrava davvero, allora, di avere davanti un automa. Era incredibile che quello, in passato, potesse essere stato un uomo. 'Ricorda il suo nome?' 'Ne ho uno?' 'Ricorda da dove viene?' 'Dove sono adesso?'
I primi tempi era stato solo uno scambio di domande. Non ottenni risposte per lungo, lungo tempo. Fu dopo la missione dove fu ferito in modo grave, che mi riferì di starne sensazioni, fuggevoli nebbie.
Niente di rilevante, sosteneva lui, ma per me erano fitte galassie.

La mappa mi aveva segnalato proprio il sud della città; tipico, pensai, rifugiarsi ai margini, quando ti senti un estraneo. Precisamente, mi indicò un'area abbandonata, che quando raggiunsi si rivelò essere un grande, brullo, campo nomadi. Mandai immediatamente la mia posizione a Las, attraverso il dispositivo che avevo al polso.

Jenna Smith nacque a mezzanotte del sedici Marzo.

Con la sua insospettabile figura trascinata, guardinga, iniziai a perlustrare la zona. Un fortissimo odore di scarichi fognari mi riempiva le narici; l'aria era pesante, sudicia, rarefatta. Constatai dopo poco che in lontananza si scorgevano le ciminiere di una fabbrica di metalli. Vi erano venti roulotte in tutto; solo sei avevano le luci accese. Lui doveva essere in una delle altre quattordici. Bussai cautamente a quella con le ghirlande di fiori finti fuori dalla porta; un finestrino era aperto e l'odore di sigarette vi usciva serpentino. Pesanti passi fecero scuotere la casa mobile da un lato all'altro.
Davanti a me un vecchio uomo, sudaticcio e lentigginoso.

"Che vuoi a quest'ora?"
Chiese, per poi tossire. Asmatico, cancro ai polmoni in fase terminale. Non aveva qualsi capelli in testa.

"Una sigaretta. Le ho finite."
Sfoderai un formidabile accento del luogo.

L'uomo grugnì, per poi passarmi una Pall Mall unta all'inverosimile. La misi tra le labbra e mi sporsi in avanti. La accese, per poi guardarmi dritto in faccia.

"Sei nuova? Vuoi entrare? Ti do sessanta dollari." 
Rise, per poi tossire un'altra volta. 
"Ti do io sessanta dollari se mi.."

In lontananza, un rumore di passi veloci mi fece troncare la frase. L'uomo continuava a parlare a Jenna, mentre io rimanevo con l'orecchio vigile. Analizzai la cadenza della corsa. Lo stesso che imparai, a suon di urla, nei campi vicino Washington. Il terreno non veniva calpestato con energia, ma veniva scalfito velocemente. Mi allontanai dalla roulotte a passo lento buttando la sigaretta e lasciandomi indietro quell'uomo robusto e le sue squallide proposte.
Svoltato l'angolo a sinistra, alla fine della linea delle poche altre case mobili, quello che doveva essere un ex campo di rugby era completamente inabissato dal buio. Mi accostai di fianco ad un capannone lì vicino.
Nella totale oscurità, una figura percorreva l'area con agilità e altrettanta velocità. Sapevo che era lui. Avrei riconosciuto quel passo rassegnato, rigido, austero e perso dovunque. Iniziai a modulare il respiro, in modo da renderlo impercettibile. Dovetti costringere me stessa a dimenticare in che situazione mi trovavo, ad un passo dal mio potenziale assassino. Avevo paura. Tanti allo Shield se lo dimenticavano, quando me lo trascinavano in ufficio cieco di rabbia, ma ero un essere umano anche io.
Continuava la sua ritmica corsa; quello poteva essere il suo mantra, il suo modo per non sentire il peso di quello da cui fuggiva. O forse contava i suoi ricordi, quelli rimasti, racchiudendoli nei cerchi che disegnava correndo, come in un rito.
Smisi di analizzare i suoi movimenti, così banali, ma così simbolici. Un rumore proveniente dalle roulotte vicine mi fece distrarre. D'istinto, allungai la mano all'interno della mia maglia, estraendo la pistola e tenendola pronta ad uccidere. Vidi qualcuno aggirarsi, poco lontano, con quella che sembrava una spranga, diretto chissà dove. Allora non mi importava.
Cominciai a sentire una fastidiosa sensazione all'altezza del plesso solare, come un bruciore: pericolo.
La sensazione si amplificò, quando i passi che contavo con tanta minuzia divennero muti. Rimasi immbile dov'ero, anche se con una certa fatica, conscia che ora ero avvolta da un vuoto plumbeo; nulla più mi avrebbe permesso di distinguerlo.

"Il maledetto si è attaccato di nuovo alla mia corrente! Chi pensi di essere? Mi hai sentito, figlio di puttana?!"
Una voce, prepotente, si alzava dal campo. Il parlante, probabilmente l'uomo che avevo scorto poco prima, cominciò a sbattere la sua spranga sulla roulotte di fronte alla sua.
Mi sporsi, quel tanto da capire meglio cosa stesse accadendo.

"Vieni fuori bastardo! Cos'è, stanotte non te ne vai a correre?!"
Il fastidio, fino ad ora sopportabile, mutò in bisogno di agire, implacabile. Sapevo che, se avesse reagito, non lo avrebbe mai risparmiato: nè lui nè un goccio del suo sangue.
Mossi ancora qualche passo, quando una pesante spallata mi travolse come un uragano, quasi facendomi rovinare a terra. Senza aver tempo di intervenire, il rumore secco di uno scontro contro qualcosa di metallico, mi disse ogni cosa.
Dovevo essere scaltra e veloce. Niente sviste, niente errori.
Con la pistola ben stretta e ben nascosta, mi avvicinai. In un lago di sangue, occhi pieni di orrore e un uomo agonizzante: il mio sileziatore gli risparmiò altro dolore. 
Non fui pronta, forse non lo sarei mai stata, quando James Buchanan Barnes riapparve ai miei occhi, intento a gettare in uno zaino delle armi e altro, pronto a scappare ancora. Lo stesso James che mi fissava con quello sguardo vacuo e allo stesso tempo infrangibile, ad ogni nostro incontro.
Lui, che non sarebbe mai scappato 'nemmeno accanto ad una bomba atomica in esplosione', mi disse, cercava ora un altro rifugio, un altro ancora, come un cane randagio alla vista dell'accalappia cani.
Con rapide pressioni del polpastrello, inviai, tramite il dispositivo che avevo al polso, un codice a Las. Gli avrebbe segnalato la mia situazione. Deglutì, forse troppo forte. Tolsi le scarpe, tenendo gli occhi ben puntati sul terreno, il primo a muoversi ad ogni vibrazione.
Scalza, silenziosa, mi avvicinai alla porta della casa mobile. Le luci spente. I rumori ridotti a qualche flebile fruscio.

Mi sembrò surreale, come durante le esercitazioni virtuali che facevo all'NSA, che nessuno fosse accorso in aiuto di quell'uomo. Forse erano le leggi della strada, e non erano quelle che conoscevo io. Un'occhiata a destra. Una a sinistra.
Mi costarono care. La spalla bruciava, come se l'acido muriatico vi fosse colato sopra. Il braccio era immobile, la pistola a terra. Jenna Smith era fuggita, lontano, terrorizzata, dissolta. In un ironico protosecondo pensai che fosse assurdo che, quella che mi stava per rompere una scapola, non fosse nemmeno la sua mano artificiale.
Per quella che mi parve un'infinità di tempo, non alzai lo sguardo.

"Chi diavolo sei."
Mi chiese. Tono automatico.
"Mi segui da venti minuti, chi diavolo sei."
Voleva risposte rapide, automatiche. Come le sue, agli ordini.

"Venivo ad avvertirti che lui" mossi il capo verso il cadavere "voleva venire a farti il culo."
La ghiaia del terreno calcò circoletti sul mio viso, quando vi venni scaraventata. Così fece anche la suola di uno stivale da marines sulla mia trachea.
Avrei voluto respirare, sparargli alla gamba e immobilizzarlo, ma la copertura, già allora fragile, si sarebbe frantumata.

"Menti. Rispondimi."

Scostai il cappuccio dagli occhi e li vidi; i suoi fondali senza un'età, fissarmi come la canna di un fucile, pronti ad uccidermi ed inghiottirmi. 
Richiamai Jenna, ma non tornò più. 
Il suo peso era assassino, sulla mia gola.

"Ho dei figli" Mentì ancora. "Ti prego. Ti ho detto la verità." L'aria era diventata una sconosciuta, il cuore un tamburo rotto.

Vecchio, ma infallibile amico, il cianuro era dietro il mio terzo molare destro. Ruppi la capsula con i canini; sentì bruciore. Vidi follia in quegli occhi.
Una botta allo sterno. Una alla schiena. Gli occhi si chiusero.


*Количество семнадцать: numero diciassette


Buonasera a tutti! Ecco qui il secondo capitolo! Mi ha fatto piacere ricevere le vostre recensioni e vi ringrazio davvero tanto di aver inserito la storia fra le seguite, qualcuno addirittura tra le preferite! Grazie della fiducia, spero di non deludervi.
James ha fatto la sua entrata in scena, brusca, ma l'ha fatta. Che ne pensate? Sage stringe i denti, è abituata al dolore, ma proprio non riesce ad abituarsi a quello che vede ora in lui.
Che dirvi? Spero davvero che la storia continui a piacervi! Un grande bacio e un abbraccio. Alla prossima!
Crys*
p.s. Come sempre, grazie di cuore a Giovanna 

 

   
 
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