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Autore: Biohazard    17/04/2015    0 recensioni
La storia racconta di Brian Irons, il Capo della Polizia di Raccoon City, e del suo lento scivolare nella follia. Durante l'infezione gli viene affidata la vita della figlia del sindaco, ma la ragazza sarà davvero al sicuro?
Genere: Azione, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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NdA: Buonasera! Meglio tardi che mai! Scherzi a parte, è ripartita la mia passione per la scrittura, ho deciso di concludere le fic già iniziate (The Chief è una di queste) per poi concentrarmi su lavori nuovi. Spero che la fic sia di vostro gradimento il prossimo sarà l’ultimo capitolo e non ho ancora deciso se sarà rating rosso oppure no…Purtroppo ho la tendenza a non avere mai un copione già impostato per le mie storie, vado come dire “a braccio” – si dice così?- Vedremo come si comporterà Irons nel prossimo capitolo! Beh, a presto! Enjoy <3


 
The Prey

 
 
 
Michelle correva, senza neanche sapere dove. Aveva la mente annebbiata dalla paura e l’unica cosa che sentiva di poter seguire era il suo istinto. Dove allontanarsi il più possibile, nascondersi, ma dove? Non aveva un’arma, non aveva protezione. Che cosa poteva fare da sola? Attraversò il grande salone principale, cercando di mettere a fuoco un percorso. Non sarebbe andata lontana se il terrore cieco avesse continuato a dominare la sua mente. Si bloccò per prendere fiato.
Quanto tempo le restava, non lo sapeva. Aveva detto un quarto d’ora, ma non poteva certo fidarsi delle parole di un pazzo.
Se ne avesse avuto il tempo, si sarebbe abbandonata ad una risata isterica: l’uomo che era stato incaricato di proteggerla era andato fuori di testa, voleva ucciderla, impagliarla come un animale, trasformarla in un trofeo da esposizione. La situazione non poteva essere peggiore, da un lato un pazzo maniaco, dall’altro zombie affamati di carne. E lei sola e indifesa che cosa poteva fare?
Mi serve un’arma e poi un posto per nascondermi.
Corse verso la porta di fronte alla reception, i tacchi delle sue scarpe sembravano produrre un rumore assordante, rimbombando tra le pareti silenziose, il che equivaleva ad un “il pranzo è servito” o ad attirare l’attenzione di qualcosa di ancora peggio. Gli zombie erano stupidi, lenti, si potevano schivare facilmente se non si trovavano in gruppi numerosi. Ma il suo inseguitore non era stupido e conosceva la stazione di polizia come le sue tasche. Michelle c’era stata qualche volta, ma non era mai andata oltre gli uffici antistanti l’ingresso. Sapeva che quello della stazione di polizia era un complesso enorme con centinaia di stanze e sotterranei immensi, collegati da un sistema fognario indipendente. Sicuramente avrebbe trovato un posto in cui potersi nascondere, almeno per qualche ora.
Si tolse le scarpe. Il pavimento in marmo era gelido e non riuscì a reprimere un brivido, tuttavia si fece coraggio e arrivata in prossimità della porta, vi appoggiò l’orecchio: nessun lamento.
Con cautela aprì la porta, cercando di non far cigolare i cardini e con sollievo vide che non c’erano mostri barcollanti. L’ufficio era completamente sottosopra, migliaia di fogli erano riversi sulla grande scrivania centrale, altri erano sul pavimento macchiati dal sangue di alcuni poliziotti privi di vita lì vicino. Aprì alcuni degli armadietti della stanza, alla ricerca di una pistola o un’arma di qualsiasi tipo. Con foga, spostò scrivanie e cassettiere fino a che qualcosa di luccicante attirò la sua attenzione. Un grosso coltello da combattimento, lungo almeno una ventina di centimetri, svettava come un faro su un promontorio, tra le mani di uno dei cadaveri sul pavimento. Riluttante, Michelle si avvicinò all’uomo, trattenendo il fiato. Era assolutamente terrorizzata, ma aveva anche bisogno di quell’arma. Si accovacciò e, con cautela, allungò il braccio verso la lama. Era una posizione precaria e poco stabile, ma avvicinarsi di più equivaleva ad affondare i piedi nella pozza vermiglia intorno al corpo riverso sul pavimento. Le tremava la mano, ma con un gesto fulmineo afferrò la lama e ritrasse subito l’arto, cadendo con tonfo.
Osservò l’oggetto per qualche istante, rincuorata appena da quella piccola vittoria. Il momento di gioia durò solo qualche istante, un lamento lugubre le fece venire la pelle d’oca. Il poliziotto a cui aveva sottratto il coltello aveva cominciato ad arrancare verso di lei, trascinandosi sugli avambracci. Michelle trattenne un conato di vomito alla vista delle interiora che si spargevano sul pavimento dalla ferita che aveva al ventre. Con molta probabilità lo avevano mangiato vivo.
La ragazza arretrò di alcuni centimetri, ma il mostro aveva già afferrato un lembo del suo lungo vestito bianco, strappando la leggera stoffa. Michelle trattenne a stento un grido, incapace di muoversi. Poi sentì l’oggetto freddo tra le sue mani e colpì, affondando tutta la lama nel cranio della creatura.
Non voglio morire.
Si alzò in piedi, ansimando e giurò a se stessa che se ne fosse uscita viva, non avrebbe mai più indossato abiti lunghi e scarpe col tacco. E pensare che quello che era uno dei suoi vestiti più costosi, era ormai ridotto ad uno straccio. Le sembravano trascorsi secoli da quando solo dieci giorni prima, era uscita con la sua migliore amica Nina a fare shopping. Aveva per forza bisogno di un nuovo vestito per la festa di beneficenza che si sarebbe svolta al municipio.
Che sciocchezza!
Scarpe, borse, vestiti firmati, tutte cose che adesso non valevano più nulla. Cose a cui lei aveva dato tanta importanza, come la maschera ristrutturante settimanale da sessanta dollari per la sua splendida chioma bionda, adesso non valevano più niente. Eppure le erano sembrate così importanti, così necessarie. Poi, quando l’orrore aveva bussato alle porte di Raccoon City, tutto aveva perso importanza, tranne la sua sopravvivenza.
Erano nel grande salone perfettamente addobbato e allestito per quella serata. Avevano partecipato tutte le persone più influenti della città e suo padre, il sindaco Warren, poteva dirsi più che soddisfatto. Forse sarebbe ancora riuscito a salvarsi dopo tutte le critiche che aveva ricevuto per la gestione degli omicidi sui Monti Arkaly. Gli invitati erano intenti a bere, mangiare, mentre discutevano di politica, arte e molti altri argomenti che Michelle trovava assolutamente soporiferi. Poco dopo degli spari incessanti avevano sovrastato la delicata musica da sala, suscitando il panico e lo sconcerto tra gli invitati. Tutto si era svolto nell’arco di pochi minuti, in cui il tempo sembrava essersi fermato all’interno della sala. C’era anche lui quella sera, ma era stata troppo presa dalle sue amiche e dal sorriso seducente di Julian Rush, figlio del curatore del museo e prestante giocare di hockey, per rendersi conto che non le aveva mai tolto gli occhi di dosso. Quando il silenzio era sceso in sala, il capo della polizia aveva estratto la ricetrasmittente per chiedere notizie e chiamare altri rinforzi, ma la voce che aveva risposto sembrava in preda al panico, totalmente terrorizzata. Non ci volle molto agli invitati per capire che cosa stesse succedendo. I lamenti erano giunti per primi, per poi susseguirsi a rantoli e gorgoglii inquietanti. Tonfi pesanti al portone, una, due, tre volte. Gli incaricati alla sicurezza avevano già le pistole puntate, ma niente poteva prepararli a quello che si sarebbero trovati ad affrontare. Con uno schianto il pesante portone si era aperto e un’orda di mostri si era riversata nel salone. Molti avevano urlato, altri correvano all’interno del palazzo, spingendo e strattonando senza ritegno amici e conoscenti, pur di allontanarsi il prima possibile dall’orrore. Michelle, insieme a suo padre e al capo della Polizia, Brian Irons, si era rifugiata al piano superiore. Ricordava ancora lo stato confusionale in cui era piombata, forse si trattava addirittura di shock. Tremava convulsamente e non riusciva a muoversi o a proferire parola, solo il sonoro schiaffo di suo padre in pieno volto le fece nuovamente prendere coscienza.
“Devi muoverti!” le aveva urlato.
Aveva annuito con la testa, ma non riusciva comunque a dimenticare il volto pregno di terrore della sua amica Nina, quando un mostro l’aveva afferrata e trascinata nell’orda, dilaniandola. Il suo sangue si era rappreso sulla mano di Michelle quando aveva cercato di afferrarla e uno zombie l’aveva addentata alla giugulare, schizzando sangue ovunque. Poi erano arrivati, inaspettati, una trentina di poliziotti in tenuta anti-sommossa, con un arsenale da fare invidia ad un esercito, nella hall principale uccidendo gli infetti. In seguito tutto si era svolto molto rapidamente: i feriti erano stati portati in ospedale e ai sopravvissuti era stato imposto di ritornare alle proprie abitazioni. Nel frattempo suo padre parlava animatamente con il capo della polizia e quello delle forze speciali. Michelle aveva sentito solo discorsi frammentari, ma sembrava che il loro non fosse un caso isolato. Le sirene delle ambulanze e delle volanti risuonavano per le strade di tutta Raccoon City. Mentre se ne stava in un angolo con un paramedico a visitarla, suo padre le si era avvicinato, afferrandola per le spalle.
“Non tornerai a casa con me, andrai con il Sig. Irons alla stazione di Polizia e mi aspetterai lì. Sarai al sicuro e ti proteggeranno.”
“Perché non vieni anche tu?”
“Ti raggiungerò tra poche ore, devo coordinare le operazioni di soccorso e capire come arginare la situazione insieme alle altre autorità. Ci saranno migliaia di persone terrorizzate là fuori.”
“Sono una di quelle…” aveva risposto Michelle, nella speranza che il padre decidesse di non lasciarla sola.
“Stai tranquilla, ti raggiungerò il prima possibile.” Si erano abbracciati qualche minuto, poi Michelle era salita su un’auto della polizia e aveva salutato suo padre dal finestrino.
Quella era stata l’ultima volta che lo aveva visto.
Alla stazione di polizia erano stati tutti molto gentili e il Capo Irons l’aveva alloggiata nella stanza attigua a quella del suo ufficio, dove c’era un grande camino. Era rimasta impressionata dalla grande quantità di animali impagliati che aveva visto nel suo ufficio e nel corridoio che portava alla sua nuova stanza, per non parlare della teca che occupava l’intera stanza affianco alla sua. S’intuiva chiaramente la passione dell’uomo per il collezionismo.
“Vedrai sarai al sicuro qui” le aveva detto, e come una stupida ci aveva anche creduto. Poi due giorni dopo lo aveva sentito, si era alzata perché aveva bisogno di andare in bagno, e lo aveva sentito imprecare di là dalla porta. Aveva appoggiato l’orecchio alla porta, ascoltando ogni parola dell’uomo: la complicità con l’Umbrella, il piano per la distruzione della città e, purtroppo, il suo non era un monologo, stava parlando da solo. Parlava di sabotare la stazione di Polizia, di uccidere tutti, di uccidere lei. Si era portata una mano davanti alla bocca per impedire al respiro affannoso di tradire la sua presenza dietro quella porta. A quel punto aveva capito che doveva avvertire qualcuno, fuggire, ma la situazione era velocemente degenerata nei giorni successivi; i mostri avevano ormai conquistato l’intera città e avevano fatto irruzione nella stazione, uccidendo quasi tutti gli agenti. Era convinta di non avere più speranze, quando Irons aveva bussato alla sua porta e lei aveva pregato, convinta che fossa arrivata la sua ora, che tutto fosse il più rapido possibile. Invece l’aveva guardata e con lucida follia le aveva detto “Cara Michelle ho deciso di darti un’opportunità, lascerò la porta aperta e dal momento in cui la varcherai, avrai quindici minuti di tempo, poi verrò a cercarti, vedremo se riuscirai a sfuggirmi, ma sappi che sono molto determinato ad averti nella mia collezione, del resto, la tassidermia è la mia passione.”
Michelle aveva annuito tremando e, rispondendo ad un atavico istinto di sopravvivenza, era corsa fuori dalla porta.
 
 
 
 
 
 
  
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