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Autore: Lady Vibeke    26/12/2008    2 recensioni
C’era un insopportabile odore di chiuso, là dentro, ma lei profumava. Sapeva di fumo e di bagnoschiuma alle spezie. Riuscivo quasi a vedere il cielo dei miei occhi nella terra dei suoi. Eravamo così, io e lei: da una parte lo spirito creativo, mistico, bizzarro, sempre fra le nuove, e dall’altra l’animo razionale, scientifico, sempre attento a non perdere di vista il concreto. Nessuno sapeva come potessimo stare insieme, noi due, e tanto meno come potessimo essere così felici. Non lo sapevamo nemmeno noi, ma che importanza aveva? Non ci serviva un perché per amare quello che avevamo.
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Hai smesso di dipingere.”

Il rumore frastagliato della metropolitana mi assordava le orecchie, riempiendole di un ronzio sordo. Tenevo gli occhi fissi sul vetro che avevo di fronte, studiando il mio riflesso tra le teste delle due persone che sedevano sull’altro lato del vagone. Quella gelida mattina di gennaio avevo un aspetto anche più trascurato del solito. Soliti vestiti neri, solito colorito lunare, soliti capelli raccolti nel modo più casuale possibile.

Sorridevo, però.

“Non dipingi più da un pezzo.” Insisté la voce roca alla mia destra.

Mi voltai e scoccai a Rose un’occhiata paziente. Mi piaceva quel suo cappotto rosso, e la sciarpa a righe bianche e nere era un mio regalo. Non sapevo se era davvero così bella o ero io,  per l’amore che provavo per lei, a vederla così. Era una domanda che si sarebbe protratta per tutta la mia vita, senza risoluzione.

C’era un insopportabile odore di chiuso, là dentro, ma lei profumava. Sapeva di fumo e di bagnoschiuma alle spezie. Riuscivo quasi a vedere il cielo dei miei occhi nella terra dei suoi. Eravamo così, io e lei: da una parte lo spirito creativo, mistico, bizzarro, sempre fra le nuove, e dall’altra l’animo razionale, scientifico, sempre attento a non perdere di vista il concreto. Nessuno sapeva come potessimo stare insieme, noi due, e tanto meno come potessimo essere così felici. Non lo sapevamo nemmeno noi, ma che importanza aveva? Non ci serviva un perché per amare quello che avevamo.

Sorrisi alla sua espressione seria ed un po’ preoccupata. Avevamo quattro anni di differenza. Da donna matura, o così le piaceva dire, si sentiva sempre in dovere di occuparsi di me, come se fosse stata mia sorella maggiore, e non la mia amante.

“Ho cominciato a dipingere per cercare i colori nei miei giorni,” le risposi. “Sai quanto Londra sappia essere crudelmente grigia, qualche volta.”

Non credo che lei lo sapesse davvero. Io ero di natura pessimista e chiusa, molto melanconica e cupa, mentre Rose era sempre stata una di quelle persone che sapevano percepire il meglio di tutto e di tutti, non capiva i miei picchi di negatività universale, anche se era bravissima a farli sparire. Se tu le mettevi di fronte un bicchiere d’acqua, Rose non ti diceva che era mezzo pieno o mezzo vuoto: prendeva il bicchiere, beveva, lo posava e diceva “Adoro l’acqua!”.

“Non mi dipingi più,” insisteva lei, con un tono triste ed accusatorio al contempo. “Una volta non facevi altro che dipingermi.”

Da come lo disse, ebbi quasi la sensazione che ne fosse offesa, come se il fatto che io avessi smesso di ritrarla ogni giorno, in mille modi diversi, significasse che io la trovassi meno attraente, meno degna di una delle mie tele.

“Abbiamo una stanza intera piena di tuoi ritratti,” le feci notare. Non era mai stata un tipo vanitoso, ma le aveva sempre fatto piacere ritrovarsi costantemente al centro delle mie attenzioni. “Ho cominciato a disegnarti prima ancora di conoscerti veramente…”

“E ora sono diventata un soggetto noioso?”

Le cinsi la spalle con un braccio e le appoggiai le labbra su una guancia. Amavo baciarla. Aveva una pelle morbida e liscia, con un buon profumo che sapeva di lei.

“Vuoi sapere perché ho smesso di dipingerti?” le domandai, allontanandomi di un millimetro dal suo viso, per poi baciarla ancora.

Lei faceva l’offesa, o almeno ci provava. Voltò il viso dall’altra parte, ma io riuscivo a vederla, con la coda dell’occhio, riflessa nel vetro: non riusciva a non sorridere.

Ricordai com’era la mia vita prima che la incontrassi, quel pomeriggio d’autunno di due anni prima, in quel bar di Oxford Street. Io un’artista, lei un medico, attaccammo bottone davanti a due tazze di caffè che dicevano tutto di noi: espresso nero per me, macchiato lungo per lei, doppio zucchero. In quelle tre ore che passammo a parlare, divenne già chiaro quanto fosse labile e sottile, ed altrettanto confondibile, il confine tra amicizia ed amore. Tre ore soltanto, e, congedandoci, io già mi chiedevo se e quando l’avrei rivista.

“Ho cominciato a dipingerti perché volevo riempire di te i giorni in cui tu eri lontana,” le confidai sottovoce. “Volevo che tu, guardando i miei quadri, capissi come ti vedevo, e quello che provavo per te.”

Lei tornò a guardarmi, con un’espressione incerta.

“E tutto il resto? Hai smesso di dipingere qualsiasi cosa.”

Il treno rallentò gradualmente e si fermò: Charing Cross.

“Vieni,” Presi Rose per mano e la feci alzare. “Scendiamo qui, voglio fare due passi.”

Fuori l’aria era fredda e pungente, come piaceva a me. A Rose no, lei preferiva il caldo delle giornate estive. Avremmo rischiato il congelamento da lì a Piccadilly, ma un tè caldo avrebbe risolto ogni cosa.

“Dipingevo per sognare, Rose,” le dissi mentre percorrevamo mano nella mano il marciapiede deserto. “Volevo vedere nei miei quadri tutte quelle cose meravigliose che non avrei mai avuto, come se fossero delle fotografie di eventi mai accaduti.”

Lei si fermò e mi guardò negli occhi, ma tacque. Le sue gote arrossate erano la cosa più bella che avessi mai visto.

“Non vuoi più sognare?” mi domandò timidamente. Trent’anni da compiere entro poche settimane, eppure era sotto diversi aspetti una bambina. Nella sua dolcezza e nella sua sensibilità, nei suoi modi di essere e di fare, e soprattutto nei suoi sorrisi, a cui, per quanti fossero stati i miei sforzi in passato, non avrei mai potuto rendere giustizia, ritraendoli.

Risi e le presi entrambe le mani fasciate dai morbidi guanti di lana con le mie, nude.

“Adesso ho te,” le risposi dolcemente. Mossi un passo verso di lei e lei attese finché io non sfiorai la punta del suo naso arrossato e freddo con il mio. “Cosa me ne faccio dei sogni?”

La baciai sulle labbra attraverso una folata di vento freddo. Era morbida e calda e sapeva di zucchero. Era buona, in una miriade di sensi diversi.

Mi era capitato spesso, la notte, appena dopo averla conosciuta, di sognarla, di sognare un momento così, ma spesso le cose troppo belle apparivano irraggiungibili e surreali. Rose invece era umana, con i suoi limiti e i suoi difetti, che non di rado si scontravano con i miei, ma il bello di noi due era che, in un modo o nell’altro, sapevano capirci e farci sentire bene. A lei piaceva la mia ironia, il mio humour cinico, il mio approccio filosofico verso ogni cosa; a me piaceva la sua concretezza, la sua calma, la sua forza di volontà. Eravamo agli antipodi: un’artista ed una scienziata, ma era stato così facile trovarsi che non avevamo mai avvertito questa differenza.

Avevo smesso di dipingere, era vero, ma solo perché non mi servivano più fotografie false per immortalare attimi non miei.

Potevo vivere quei sogni, adesso, e se volevo vedere qualcosa di bello, se volevo vedere Rose, non avevo più bisogno di sperare di incontrarla presto, o di farle l’ennesimo ritratto.

Da più di un anno, ormai, Rose era lì, accanto a me, e non ci importava se qualcuno trovava inaccettabile che noi due stessimo insieme. Lei era la pennellata di colore sul bianco e nero della mia vita, e, in un certo senso, aveva sempre saputo dipingere molto meglio di me.

 

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A/N: scritta di getto, in seguito ad un bellissimo sogno, e non sono nemmeno troppo soddisfatta di com’è uscita, ma così è. Come sempre, come ogni altra cosa, è dedicata a te, nella speranza che questi sogni non restino sogni in eterno.

   
 
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