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Autore: AlfiaH    26/04/2015    4 recensioni
[Destiel/Sabriel/ lievissimi accenni alla DeanXLisa, alla Megstiel e alla SamXRuby - Castiel ispirato alla sua End!Verse - AU]
Dean e Castiel si sono lasciati un anno fa e non si parlano da allora, ma Gabriel ha bisogno d'aiuto e Sam è piuttosto disperato.
Dal testo:
“Vuoi dirmi perché sei qui – perché siamo qui, o devo aspettare che Dio mi conferisca il potere della chiaroveggenza?” sbotta Castiel. È nervoso, nasconde la mano destra in una tasca, spera che smetta di tremare.
“Lo sapresti se ti fossi degnato di rispondere a quel cazzo di telefono!”
[...]
“Ho lasciato anche medicina. Ho mollato tutto quando- Cristo, non sono abbastanza fatto per affrontare questa conversazione”. Castiel preme i palmi sulle tempie, la testa gli sta per scoppiare.
Genere: Angst, Commedia, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Gabriel, Sam Winchester
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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Nulla si crea e Nulla si distrugge: Tutto si trasforma



Castiel è abituato a chiedere scusa, ha chiesto scusa miliardi di volte: a sua madre quando prendeva un brutto voto a scuola, ad Anna quando entrava in camera sua senza bussare, a Dean per aver alzato la voce (perché Castiel poteva sopportare che a Dean piacessero le donne fintanto che non flirtava con loro quando uscivano insieme), a Gabriel per avergli fatto fare tardi a scuola – non che il biondo se ne fosse mai dispiaciuto.
Castiel ha chiesto scusa talmente tante volte che adesso, quando lo fa, Dean alza gli occhi al cielo e scuote la testa perché le sue parole non hanno più valore; anche se non cambia le cose, però, si scusa comunque perché il primo passo per essere perdonati è riconoscere i propri errori – Castiel riconosce di aver fatto una cazzata, ma non è sicuro che Gabriel lo perdonerà (e Dean l’ha già fatto o si è semplicemente rassegnato?).
“Non volevo…” ripete per l’ennesima volta, muovendosi a disagio sul sedile dell’Impala, “mi dispiace, sono stato uno stronzo”. Dean tiene lo sguardo fisso sulla strada, prende una curva, stringe le mani sul voltante e, quando parla, la sua voce è piena di rassegnazione (può un sentimento così passivo fare così male?): “lascia perdere, okay? Non è a me che devi chiedere scusa. Gabe sarà anche il peggiore stronzo sulla faccia della Terra, ma non meritava quello. Non da te”, gli lancia una rapida occhiata prima di correggersi, “o da quello che ne è rimasto”. No, Castiel non ha veramente nulla da obbiettare poiché le uniche cose che potrebbe dire in sua difesa – sono un tossico, Dean, questo è quello che i tossici fanno – finirebbero con l’aggravare la sua situazione; meglio tacere e riflettere sull’accaduto. O parlare d’altro.
“Hai ragione”, risponde cautamente seguendo con lo sguardo l’allontanarsi dei cartelloni pubblicitari: birra, abiti da sposa, parrucche colorate, sorrisi bianchissimi; da adolescente i cartelloni pubblicitari lo mandavano sempre in bestia, così come le pubblicità in generale e fenomeni mediatici del genere. Castiel, che non sapeva lottare per se stesso, ha passato i suoi anni ribelli a lottare contro il sistema e non è riuscito a cambiare nulla – d’altronde che si aspettava? Gabriel aveva ragione a ridergli dietro.
 Ora si sente più un hippie: non lavora (non ufficialmente), si prende cura del suo giardino (e di quello che Meg ci coltiva), guadagna abbastanza per permettersi ciò che gli occorre – un tetto sulla testa, un letto in cui dormire, una siringa nel braccio – e ha capito che non si può lottare contro il sistema quando il sistema è dentro di te (alzati lavora, guadagna, vai a dormire), lo si può soltanto aggirare di poco, illudendosi di poter evadere, di poterlo fottere – Castiel si è già fottuto abbastanza.
“Che succederà adesso?” chiede dopo qualche minuto di silenzio, la fronte poggiata al finestrino, ancora dolorante. “Vediamo di trovare questo diario e di scoprire qualcosa sul conto di Gabriel”, risponde il biondo, pratico come al solito, “se ha qualche parente in vita sarà tutto molto più semplice, altrimenti ci aspettano tempi duri; Gabe impallidisce ogni volta che qualcuno nel reparto nomina la chemio. Ma tu sei davvero sicuro che…”
“Che sia stato adottato?” Dean annuisce. “Si. Io e mia madre abbiamo lo stesso DNA, lo so da quando abbiamo cominciato la genetica al secondo anno. Penso che sia la prima curiosità di ogni bambino conoscere le proprie origini e-”. “Si, abbiamo capito, sei sempre stato un secchione”, lo canzona l’autista con un ghigno che Cas potrebbe mangiare. “Il massimo delle origini che è mai interessato a me, come ad ogni moccioso sano di mente, riguardava la nascita dei bambini. Una piacevole scoperta”. “Forse avresti dovuto informarti meglio”, ribatte, più acido di quanto vorrebbe. La convivenza con Meg deve avergli fatto male. Dean fa una smorfia e tenta palesemente di non irrigidirsi (non ci riesce): “sono contento di non averlo fatto. Ben è un ragazzino in gamba, sono fiero di essere suo padre”. “Lo so, non intendevo questo”. I suoi occhi ritornano fuori dal finestrino: certo che intendeva quello. “Ti sarebbe piaciuto, se ti fossi preso la briga di conoscerlo”, il tono del biondo non è così leggero questa volta, ma Cas non riesce a biasimarlo: “lo so, mi dispiace. Non voglio litigare, Dean. Era una battuta”. “Non stiamo litigando”. “Però sei arrabbiato”, arguisce il moro inarcando le sopracciglia; Dean emette uno sbuffo spazientito – meglio questo che la sua versione rassegnata, pensa. “Beh, ho letteralmente mandato quel tossocio mio ex all’ospedale, quello in cui è ricoverato anche mio cognato, sai, il ragazzo di mio fratello: alto un metro e una montagna, pettinato come una ragazza, costantemente sull’orlo di una crisi di nervi”.
“Ho capit-”
“E ho appena scoperto che il mio piano geniale è andato in fumo e che la salute mentale di mio fratello dipende dal ritrovamento di un vecchio pezzo di carta che chissà se esiste. E oh. Come se non bastasse, qualcuno si è fatto pestare una seconda volta. Dio, potevi dirmelo, Cas. Te l’avrei data io una ripassata”. Il moro apre la bocca per dire qualcosa, ma Dean si volta verso di lui, per la prima volta da quando sono entrati in macchina, e lo zittisce prima che possa dire qualcosa – quella cosa. “Non ci provare, chiedere scusa non risolverà le cose”. “Stavo per commentare qualcosa riguardo alla ripassata che vorresti darmi, in realtà”, mente. “E mi sono leggermente offeso per “quel tossico del mio ex”. Voglio dire, dopotutto non ci siamo mai lasciati ufficialmente”. Il suo, lo sa, è un patetico tentativo di sdrammatizzare, di alleggerire la tensione (di pararsi il culo in qualche modo), ma sa anche che Dean vuole ancora prenderlo a pugni – probabilmente lo farà appena Cas pronuncerà le famigerate parole “non mi fa più così male” e, ancora una volta, non può biasimarlo. Eppure, forse Castiel l’ha sognato (e non sarebbe così assurdo), c’è un sorriso a piegare gli angoli della bocca del biondo quando dice: “hai capito il figlio di puttana”.
 
*****
 
 
Casa Novak è più grande di quanto ricordi, ma Dean suppone che lo sembrino tutte le case quando non c’è nessuno ad ingombrarne lo spazio: da quando Sam è al college e Castiel si è (era) trasferito da Dean, è rimasto soltanto Gabriel ad abitare lì, proclamandosi contento di avere finalmente una casa tutta per sé; d’altronde, se così non fosse, non ci sarebbe più nessun motivo per non vederla e Gabriel non permetterebbe mai una cosa del genere poiché, infondo, è più nostalgico e sentimentalista di quanto voglia ammettere – i suoi amici fingono di non saperlo, glielo ricordano soltanto di tanto in tanto, quando fa troppo lo stronzo.
Dopotutto anche Dean è affezionato a quella casa, al piccolo spazio al bancone della cucina conquistato durante anni e anni di colazioni a casa Novak; all’unico, grande divano rosso del piccolo salotto dove si accampava sempre la signora Novak con le sue scartoffie, avvallato su un lato perché, ovviamente, sul pavimento c’era sempre la lava e l’unico modo per evitarla, diceva Gabe, era saltare dal tavolo al divano – Castiel, la voce della prudenza, li aveva avvertiti più di una volta di lasciar perdere quel gioco assurdo (alla loro età, poi), ma Dean stava cadendo e alla fine si è dovuto lanciare per forza, per evitare che quell’idiota si sfracellasse la faccia. Dean gliene è tutt’ora grato, benché ricordi di esserne uscito un po’ ferito, e non solo per il grosso livido sulla spalla. Ferito nell’orgoglio: da quel giorno Cas non l’ha più guardato allo stesso modo e Dean avrebbe dato qualsiasi cosa per riconquistare la sua ammirazione, inconsapevole di aver guadagnato qualcosa di molto più grande.
“Sembra che tu non ci metta piede da anni”, commenta il moro alle sue spalle; Dean non ha voglia di rispondergli perché non può dargli torto: non ha frequentato molto casa Novak negli ultimi tempi – in effetti, non ha frequentato nessun posto negli ultimi tempi. “Gabe ci ha detto di cercare in camera da letto”, dice invece, sbrigativo, chiedendogli implicitamente di fargli strada. Cas sembra capire. “Dopo la morte di nostra madre abbiamo deciso di non spostare nulla, di lasciare tutto com’era: odiava che si toccassero le sue cose”, spiega asetticamente. “Se avessi avuto un segreto come quello, anche io me la sarei presa se qualcuno avesse ficcanasato tra le mie cose”, non riesce a non inarcare le sopracciglia, mentre lo segue attraverso il corridoio rosa pallido; è sicuro di aver sentito l’altro sospirare, ma non chiede nulla.
 La camera della signora Novak è proprio come Dean se l’era sempre immaginata: ha delle graziose tende fatte di ricami in tinta con l’abatjour sul comodino, il letto diligentemente in ordine, l’armadio a molti specchi e qualunque cosa Dean, da bambino, abbia mai supposto che una madre dovesse avere nella propria camera – quello che suppone ora, pensando alla camera da letto di un’avvenente madre single, è piuttosto diverso. “Se io avessi avuto un segreto come quello, non lo avrei certo nascosto nella mia camera da letto. Non con un fratello rompipalle come Gabriel”. Castiel esita di fronte alla cassettiera in noce, ma Dean teme di non poterlo aiutare: non è così disperato da desiderare di mettere le mani sulla biancheria della madre defunta del suo migliore amico (o qualcosa del genere), e non ha nemmeno tempo da perdere con discorsi di incoraggiamento – non che abbia voglia di fargliene, comunque. “E dove lo avresti nascosto?” chiede distendendo le braccia lungo il corpo, a disagio; non sa proprio dove mettere le mani, così decide di incrociarle dietro la schiena. “Posso dirti dove non l’avrei nascosto”, risponde l’altro senza guardarlo. Il cassetto fa un po’ di storia prima di aprirsi a causa dell’umidità e Cas, piegato in avanti, quasi non finisce col sedere per terra – Dean potrebbe essere davvero cattivo, ma per questa volta evita di ridergli dietro. “Ottima idea, questo si che ci sarà d’aiuto. Perché non ci ho pensato prima? Io potrei dirti cosa ho mangiato a colazione e potremmo fare una lista di cose inutili”, ma il moro ignora bellamente il suo patetico tentativo di fare del sarcasmo e: “ad esempio, non lo avrei nascosto nella mia giacca, nella quale il mio fidanzato geloso poteva tranquillamente incappare senza saperlo. Non startene lì impalato, controlla nell’armadio”. “Beh, se io avessi avuto un segreto, non lo avrei mai nascosto nella mia giacca, dal momento che non avrei avuto nessun segreto!” ribatte scioccato, un po’ per il colpo basso dell’altro, un po’ per l’ordine appena ricevuto – si prende anche la libertà di dargli degli ordini, proprio lui?!
“Quello che hai detto non ha senso”, come se stesse parlando ad un infante,  “devi controllare in basso, Dean, sul fondo. E guarda che ti sento”.
“Guarda che ti sento”, ripete sottovoce scostando di tutto fuorché qualcosa che somigli vagamente ad un diario. “Davvero molto maturo. Trovato qualcosa?”
“Hai cominciato tu!” risponde oltraggiato, la voce ovattata e la testa infilata per metà nell’armadio, “solo un centinaio di borse, sciarpe colorate, qualche maglione, una ehm- scarpa da ginnastica, e il portale per Narnia. Niente diario”.
 

 *****

La primavera in Kansas non aveva niente a che fare con il ragionevole concetto di primavera che aveva il resto del mondo – gli alberi in fiore, la neve che si scioglie, il sole che scalda i volti e bla bla bla, un sacco di altre cose che Sam leggeva nei libri e che Dean diceva di non invidiare per niente (mentendo spudoratamente).
La primavera in Kansas significava una sola cosa: pioggia. E tornadi, di tanto in tanto.
L’acqua sembrava venir giù a secchiate, si infrangeva con fragore contro le vetrate di casa Novak; il vento le scuoteva come se cercasse un modo per entrare e, oltre a far apparire ancora più spaventosa l’abitazione (da bambino Dean era sceso più di una volta in cantina a caccia di mostri), ne costringeva all’interno inquilini e non.
Era stata una pessima idea dall’inizio, avrebbe dovuto immaginarlo: organizzare una festa di bentornato per Castiel per la pausa di primavera era solo un pretesto per conoscere di persona il suo, Dean avrebbe potuto citare testualmente le parole di Ellen, adorabile fidanzato.
La cosa peggiore era che, checché volesse dirne, Alfie era davvero una persona adorabile: tutto occhioni blu e sorrisi gentili, un ammasso di “grazie” e “prego” e “per favore”; lavorava partime al mcdonald’s e si manteneva da solo all’università, facoltà di archeologia e storia dell’arte; una specie di enciclopedia camminante – andiamo, Bobby l’aveva praticamente invitato nel suo club del libro, Dean era ancora sconvolto dal fatto che ne avesse uno.
“Quindi lei non è davvero un parente di Cas, ho capito bene? E nemmeno di Sam e Dean” Alfie aggrottò le sopracciglia e si portò un dito alle labbra, tentando di comprendere l’arcano meccanismo che teneva unite le loro famiglie – la loro famiglia. Dean dovette fare violenza a se stesso per non strozzarlo; lanciò un’altra occhiata alla finestra; pioveva ancora a dirotto (così come due minuti prima), pertanto non poteva ancora levare le tende. Tutto in quella casa gli dispiaceva: l’aria sognante della signora Novak, il sorriso sornione di Gabriel, i grugniti di approvazione di Bobby – la mano di Castiel sulla spalla di Alfie. Soltanto Sam sembrava capirlo e, quando pensava che Dean non potesse vederlo, lo occhieggiava preoccupato. “Certo che hai capito male”, fu la risposta antipatica di Bobby. Quando gli toccavano la famiglia era anche più scorbutico del solito (Dean non l’aveva mai amato tanto). “Non abbiamo bisogno di avere lo stesso sangue che ci scorre nelle vene per essere una famiglia”. “Bobby ha ragione”, sorrise la signora Novak offrendogli un biscotto dall’ampio vassoio che aveva tra le mani, “la profonda amicizia che lega i Singer, i Novak ed i Winchester ormai è centenaria – io, Bobby ed il buon vecchio John siamo praticamente cresciuti insieme, sono come dei fratelli per me. Ed i piccoli Winchester i miei nipotini. Anche se a volte mi fanno arrabbiare, non è vero, Dean?” concluse, tirandogli una guancia con un po’ troppa forza. In tutta risposta il biondo, ancora stordito da “i piccoli Winchester”, si afflosciò sul divano e mise su un broncio di prima categoria, con tanto di braccia incrociate al petto. “Si, ma…”, tentò Alfie, ma si bloccò al sopracciglio sollevato di Eve e Bobby. “Non vincerai una discussione con loro”, rise Castiel e fu allora che Dean lo guardò, per la prima volta da quando era tornato dal campus. Era felice. Che diritto aveva di rovinargli la festa – di desiderare di rovinargliela? Che razza di persona orribile era? Non riusciva ad essere felice per lui né a fingere di esserlo; perché fingere, poi? Non aveva nulla da nascondere: Alfie non gli piaceva a pelle, tutto qui, e okay, poteva suonare superficiale, ma quale altra spiegazione avrebbe potuto propinare alla sua coscienza?
“I piccoli Winchester”, scimmiottò Gabriel, ma Sam fu veloce ad allungargli un calcio sullo stinco – che non era comunque nulla in confronto all’occhiataccia di sua madre. “Da quando i nostri genitori sono morti, Ellen e Bobby si sono sempre presi cura di noi”, annuì convinto il più giovane. “Mi sembra una cosa magnifica. Adesso capisco perché Cas parla tanto di voi, perché è sempre così felice quando sta per tornare a casa. Siete davvero una famiglia stupenda”. “Ma non è adorabile?” sentì provenire dall’altra parte della stanza; Ellen stava facendo avanti e indietro per apparecchiare in sala da pranzo – la sala da pranzo, nemmeno fosse Natale. Sam fece per alzarsi per dare una mano, ma il maggiore fu più lesto: per una volta poteva anche sacrificarsi e dare una mano con la cena: almeno avrebbe evitato l’ennesimo sbattere di ciglia.
“Sai che continuare a guardarlo non lo ridurrà in cenere, vero?” Ellen gli rivolse un sorriso furbo mentre ripiegava religiosamente i tovaglioli e Dean quasi non si strozzò con la sua stessa bile. “Addirittura l’argenteria?! Non vi date tanto da fare quando sono io a portare una ragazza a casa!”
“Intendi praticamente tutte le settimane?”
Il biondo aprì la bocca per contestare, ma optò per la resa. “E’ colpa mia se tutte le ragazze mi cadono ai piedi?” “E’ colpa tua se non riesci a tenertene stretta nemmeno una” e gli piazzò un vassoio tra le mani, gettando un’occhiata oltre la sua spalla. “Porta questo in cucina, da bravo. Da’ un’occhiata all’arrosto. E non fare casini”, lo ammonì infine, il sorrisetto ancora dipinto sulle labbra – Dean ne capì il motivo soltanto quando si ritrovò di fronte lo sguardo indagatore del suo migliore amico, poggiato al lavello della cucina con le braccia conserte. “Allora?” chiese quello, in evidente trepidazione. L’altro mantenne una stoica aria indifferente e si dedicò al suo compito. “Allora cosa?”
“Ti piace?”
“Chi?”
“Come “chi”, Dean? Alfie! Mi hai intasato il cellulare di messaggi negli ultimi mesi per sapere vita, morte e miracoli del mio ragazzo e adesso che finalmente lo incontri di persona non mi dici niente?”
“E’ carino”, fu l’unica cosa che riuscì a dire mentre controllava la temperatura del forno. Cas lasciò penzolare le braccia lungo i fianchi come se gli fossero appena cadute. “Tutto qui?”
“Che vuoi che ti dica, Cas? Deve piacere a te, non a me”.
“Quindi non ti piace?”
“Le carote non mi piacciono, amico. E i piselli (in nessun senso). Quel tipo lì mi fa letteralmente attorcigliare le budella! È tutto “grazie” e “per favore”” e non poté non fagli il verso “e occhioni dolci e-”
“Quindi è troppo educato?” domandò pazientemente, seppur con aria scettica. Dean sospirò sonoramente. “E’ stomachevolmente educato. E poi deve esserci qualcosa di terribilmente sbagliato se piace persino a Bobby”. “Oh. È questo il problema? Sei geloso?” il biondo forzò una risata: “e di chi? Di Bobby? Andiamo, Cas, non dire stronzate! Ascolta, io non ho niente contro di lui, davvero, è solo che, non lo so, non mi sembra adatto a te, ecco. Non è – come dire? – alla tua altezza”.
“Davvero, Dean? La stessa frase usi per mollare la ragazza di turno?”
“Embè? Dovresti essere contento, almeno non la sto usando per mollarti”, ammiccò aprendo il frigorifero. Castiel scosse la testa per nascondere il leggero rossore che si era diffuso sul suo viso e si lavò le mani, intenzionato a dare una mano con il resto della cena; il biondo gli passò dei pomodori e delle carote,  gesticolando con la mano e borbottando: “tua madre ha parlato di una creme-qualcosa-bouillon che non lo so…”
“Lo so. Alfie è vegetariano”. “Lascia perdere la buona educazione, questo va decisamente in cima alla mia lista”. Cas rise, cominciando lavare le verdure. “Hai una lista?” “No, ma potrei sempre farne una. Appena scoprirò cos’altro nasconde dietro quel faccino angelico”, concluse lapidario. “Ti piacerà, vedrai, devi solo dargli una possibilità. Metti a bollire dell’acqua”. “Mi piacerà quando leverà le tende. Quanta?”
“E se le cose andassero bene tra di noi? Se ci sposassimo? Quanto basta”. Dean, già confuso dagli ordini assurdi dell’altro (quanto basta per cosa, santo cielo?), fece del suo meglio per non strozzarsi, ma il sangue gli si gelò nelle vene ugualmente. “Nah, non accadrà mai. Cas, parla chiaro: quanta acqua ci vuoi? Devo riempirlo a metà?”
“E che ne sai? Mi dispiacerebbe se due delle persone che più amo al mondo non andassero d’accordo. Gesù, Dean, devo cuocerci delle verdure- si, a metà va bene”.
“Cas, mi conosci, sai che ti impedirei di farlo- o, comunque, mi chiederesti di farti da testimone e finirei col rovinarti la festa. E poi nemmeno io e Gabe andiamo d’accordo”.
“Beh, mi hai appena spiattellato il tuo diabolico piano”.
“Questo non mi impedirà di metterlo in atto”.
“Ma impedirà a me di darti retta”.
“Vedremo!”
“Mi stai minacciando con una carota”, gli fece notare mentre a sua volta armeggiava con i pomodori, tagliandoli a fette.
“Io non la prenderei così bene, se mi minacciassero con delle carote”, si difese l’altro mettendo giù l’arma appuntita. “Questo perché tu sei un idiota”.
“Però ti sono mancato”.
“Si”, rispose lentamente, “non ne hai nemmeno idea”.
 
*****
 
 
Per certi versi, non necessariamente i migliori, Meg somigliava incredibilmente a Dean: stessi atteggiamenti da prima donna, intermittenti deliri di onnipotenza, una vita sessuale opinabile (ma anche no, a seconda dell’umore dei suddetti, i quali, magari, trovandosi appunto nel loro momento di io-non-ho-bisogno-di-essere-giudicato, avrebbero potuto dire cose poco carine circa le opinioni altrui), e l’incapacità cronica di cucinare – o di essere d’aiuto nel mentre.
“Pseudoefedrina”.
“Ah-ha”.
“Acido iodridico”.
“Certo”.
“È una reazione di ossidoriduzione: per ridurre lo iodio ad Hl ci serve il fosforo rosso, che estraiamo dai fiammiferi col disinfettante. È molto semplice”.
Preso com’era dal suo impiego, Castiel non poté vedere l’occhiata alla “tu sei completamente matto” che Meg gli rivolse, ma il solo immaginarlo lo fece sogghignare non poco: era bravo in quello, poteva farlo, poteva vantarsi di saperlo fare. Per la prima volta era lui a risolvere le cose, a salvare la situazione e non era necessario fare a pugni con nessuno; per tutta la vita aveva evitato le risse e si era sentito debole, passando i pomeriggi in laboratorio o chino sui libri, ed ora finalmente ne vedeva i risultati, poteva essere d’aiuto – non agli scopi che si era prefissato, ma comunque d’aiuto. “Saresti un insegnante di chimica perfetto”.
“Davvero?”
“Beh, non si capisce un cazzo quando parli, pensi che sia tutto banale, scleri se dico beuta al posto di bun… ben…”
“Becher. E non sono la stessa cosa, altrimenti non li avrebbero chiamati con nomi diversi. La beuta è indispensabile per il vapore…” Meg gesticolò con la mano per zittirlo e borbottò un “si, quella roba lì”, per poi chinarsi sulla sua spalla e sbirciare il suo operato. “Mi sarebbe piaciuto fare chimica, ma alla fine ho scelto medicina perché volevo aiutare le persone. Non volevo entrare nell’industria farmaceutica – girano troppi soldi, troppa corruzione. Ero un idealista. Passami l’alcol, per favore, sulla mensola in alto”, chiese posizionando il filtro per caffè nell’imbuto, le pasticche per il raffreddore già pronte sul tavolo; Meg fece un semi giro su se stessa e si voltò. “Io volevo fare l’infermiera. Si, lo so che è assurdo, piantala di sorridere come un idiota! Volevo lavorare in uno di quei manicomi inquietanti: mi sono sempre piaciuti gli squilibrati. Ecco”.
“E perché hai mollato? Era il tuo sogno, tu non sei una che molla. Grazie”, versò il composto nel filtro e tentò di concentrarsi sulle quantità, benché fosse molto più interessato alla faccenda dell’amica, la quale fece spallucce ed andò a sedersi sulla sedia girevole. “Non faceva per me, mi sentivo costantemente, sai, fuori posto. In trappola. Preferisco vivere il presente”. “Io riuscivo a tollerarlo soltanto guardando al futuro”, sorrise amaramente. “Ci serve l’alambicco- quella specie di pentola a pressione col tubicino. L’ho poggiata da qualche parte, qui non c’era spazio”.
“Gli opposti si attraggono”, ammiccò lei, il ricordo di Dean gli fece male. “Se non fosse per questi pentoloni ingombranti, potrebbe anche piacermi l’idea di cucinare in camera mia. Almeno avrei la felicità a portata di mano”. “Questa è la prima e ultima volta in generale, Meg. Non farti venire strane idee”, la rimproverò lui. La ragazza alzò le mani in segno di resa. “Non mi permetterei mai, prof!”
“Levati quel ghigno stronzo dalla faccia, non promette nulla di buono. Non costringermi a bocciarti di nuovo- ti farò ripetere l’anno all’infinito”.
“Basta che ci muoviamo, questo casino comincia a darmi sui nervi. Giuro che darò tutto in beneficenza e non ne parleremo più”.
“Bene. Abbiamo quasi finito, ci serve soltanto dell’acqua bollente per l’alambicco”.
“Quanta?”


#Angolo della disperazione

E CE L'HO FATTA ANCHE QUESTA VOLTA.
Con un mese di ritardo, ma eccolo qui bitches! Il sesto capitolo! E lo so, la storia ancora procede a rilento, ma non durerà ancora molto. Presto avremo una svolta e i misteri saranno svelati! Vorrei aggiungere altro, ma il mio pc ancora fa i capricci quindi mi limito a ringraziare le brave donne che hanno seguito questa storia fin qui e non l'hanno ancora abbandonata (vi amo come sempre <3). Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e mi auguro di ritrovarvi al prossimo!
*sparge biscotti (e sale)*
AlfiaH <3
 
  
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