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Autore: Eibhlin Rei    26/04/2015    1 recensioni
La C.A.T.T.I.V.O. non si è limitata a seguire gli esprimenti dei gruppi A e B, ma ne ha anche condotto un altro, parallelo ai primi due. Stavolta però, le Variabili sono diverse e si tratta di un unico soggetto.
Lei deve solo osservare...
"Nonostante la sua giovane età credeva di aver smesso di avere paura, ma in quel momento la barriera che si era costruita intorno si incrinò e la realtà le arrivò addosso come una valanga: non provò più solo dolore per tutto ciò che stava abbandonando, ma anche un terrore cieco. Le avevano soltanto detto che avrebbe avuto un ruolo chiave nella cura dell’Eruzione e che avrebbe salvato la razza umana. Ma a quale prezzo? Cosa sarebbe successo a lei?"
Spoiler fino a "La rivelazione" e riferimenti a "La Mutazione".
Genere: Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Minho, Newt, Nuovo personaggio, Teresa, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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15.
 
All’inizio aveva pensato di non andare e di rimanere a letto, non era esattamente dell’umore giusto per passeggiare per la sede e durante il giorno quella strana sensazione si era fatta sempre più forte: le girava ancora la testa e tutto pareva comprimersi su di lei fino a non volerle lasciare più respiro. Ma quel “Credo di aver capito cos’hai” continuava a ronzarle nelle orecchie, risvegliando in lei un’enorme curiosità. Newt sapeva davvero che cosa le stava accadendo? E se sì, come faceva a saperlo lui invece che lei?
Così si era ritrovata ad uscire di soppiatto dalla sua camera, con la divisa indossata sopra al pigiama e con il pesante cappotto nero – l’unica cosa non bianca del suo vestiario – sottobraccio, come si era raccomandato Newt. Aveva provato a chiedergli dove avesse intenzione di andare, ma lui non aveva voluto dirle nulla, limitandosi ad un “Vestiti pesante e fidati di me”.
E lei aveva deciso di fidarsi.
Quando arrivò davanti alla porta della mensa – Dio, perché quei maledetti corridoi sembravano sempre più bassi e stretti? –, Newt era già lì che la aspettava. Dalla maglia della sua divisa sbucava, un po’ spiegazzato, il colletto del pigiama e anche lui aveva con sé il cappotto nero. Le si avvicinò, guardandola con un’aria preoccupata. «Come stai?»
Come se stessi per impazzire. «Diciamo che sono stata meglio», gli rispose, lasciandosi sfuggire un sospiro. «Allora, dove andiamo?»
Lui le rivolse uno sguardo incoraggiante e le prese la mano. Quel semplice gesto scatenò in lei un vero e proprio putiferio. Come se tutto quello che aveva non fosse stato abbastanza, il suo stomaco sembrò aver deciso che era da troppo tempo che non faceva giravolte e capriole e che adesso doveva recuperare. Anche il sangue doveva aver avuto nostalgia del suo viso perché corse tutto insieme ad assalirle le guance.
«In caso ti mancasse l’equilibrio», spiegò lui, in risposta alla sua occhiata stranita. «Ti gira la testa, vero?»
Da morire. «Un po’…»
Newt annuì. «Vieni», disse soltanto, incamminandosi.
Si lasciò guidare, quasi senza far caso al tragitto che stavano percorrendo. I suoi occhi erano fissi sulla sua mano stretta in quella di Newt. Da una parte poteva essere un bene, dato che non saettavano più da una parete all’altra vedendole sempre più vicine. Ma dall’altra quella semplice immagine le riempiva la testa, che ora girava come una trottola.
Ti ha solo presa per mano. Ti ha solo presa per mano. Non c’è nulla di strano, ti hanno già presa per mano, è normale, si ripeté, cercando di calmarsi, ma non servì a nulla. Una miriade di pensieri confusi continuava ad abbattersi contro le sue tempie, che le martellavano così tanto da farle male, la testa le girava come impazzita, il viso non smetteva di andarle a fuoco, il petto era ancora oppresso da quel nodo che le rendeva difficile respirare e le sue gambe minacciavano di cedere da un momento all’altro. Che cos’aveva?
Per favore, implorò, anche se non sapeva esattamente a chi o a cosa si stesse rivolgendo. Non… non voglio impazzire anch’io…
«Han? Ci siamo.» Newt le aveva lasciato la mano – quando era successo? – ed era di fronte a lei.
Si trovavano davanti ad una porta, su cui non era affissa alcuna targhetta, ma la confusione nella sua testa era tale che non ricordava né in quanto tempo né come fossero arrivati li. Avevano salito delle scale? Che percorso avevano fatto?
«Han», la chiamò di nuovo Newt.
«Mi… la testa», balbettò con un filo di voce. «Newt, scusami, ma devo tornare in stanza… mi devo riposare, non mi sento bene…»
Lui non le lasciò fare neanche un passo, parandosi di fronte a lei e sbarrandole la strada. «Fidati, per favore», disse, guardandola dritta negli occhi.
Sostenne per un po’ il suo sguardo incredibilmente serio, ma poi finì per cedere. «Va bene», acconsentì con un sospiro. Ancora una volta, aveva deciso di fidarsi di lui.
Si misero i pesanti cappotti neri e, giusto un secondo prima di aprire la porta, Newt le prese di nuovo la mano. Ma lei riuscì a malapena a farvi caso, visto che la sua attenzione era totalmente presa da qualcosa che aveva appena sferzato il suo viso.
Aria. Un soffio d’aria gelida.
Sgranò gli occhi, senza smettere di fissare la porta che si stava aprendo, rivelando un largo spiazzo grigiastro, che alla luce del sole doveva essere bianco. Ma non fu quella la cosa che la colpì di più.
Fu il cielo. Da quanto tempo non lo guardava? Da quanto tempo non usciva all’aperto?
Sentì Newt tirarla leggermente e lo seguì fuori senza fare una piega, accorgendosi che ad ogni suo passo le tempie le martellavano sempre di meno, la testa smetteva di girarle, il mondo non sembrava più volerla schiacciare e che quel peso dentro al petto si stava piano piano alleggerendo, lasciandola finalmente libera di respirare normalmente.
Si fermò, prese un’enorme boccata d’aria – le sembrava che avesse un profumo meraviglioso – e fu come se quel semplice gesto l’avesse rimessa al mondo, facendo sparire del tutto ciò che la tormentava. All’improvviso, stava bene. Assurdamente bene.
«Va meglio, vero?», le chiese Newt, che ancora la teneva per mano. Ma adesso quel particolare non la imbarazzava più né la metteva in difficoltà. Le sue dita erano piacevolmente calde contro il freddo della notte e la sua presa, delicata ma salda, le trasmetteva un senso di sicurezza.
Si voltò a guardarlo stupita. «Come…?»
«Anche io ho avuto lo stesso problema quando sono arrivato qui: non ne potevo più di stare al chiuso, avevo bisogno di prendere aria», fece lui con un’alzata di spalle, come non se stesse parlando di qualcosa che l’aveva fatto soffrire. «Siamo sul tetto dell’edificio. L’ho scoperto per puro caso, “spiando” come fai tu…», si interruppe un attimo per fingere di guardarla male
Gli fece la linguaccia. «E rimproveravi me?!»
Per tutta risposta, Newt sollevò un sopracciglio e sfoderò un sorrisetto compiaciuto. «Beh, tu non lo sapevi», disse con una certa soddisfazione.
«Inglesino bugiardo», borbottò lei, facendo la finta indignata.
«Furbo, prego», fece il ragazzino, fissandola con i suoi vispi occhi da volpe. «Comunque, qui ci vengo almeno una volta alla settimana per respirare un po’», riprese e il suo viso si fece di nuovo serio. «Stamattina mi è bastato guardarti per capire cos’avevi e ho pensato di portarti quassù.»
Gli sorrise, guardandolo con un’immensa gratitudine. I suoi disturbi derivavano da una cosa scioccamente semplice, ma lei non ci aveva pensato. Lei, che aveva speso gran parte della sua vita a correre e giocare all’aperto, non si era resa conto che era proprio l’esterno ciò di cui aveva bisogno.
Newt invece la conosceva da pochissimi giorni, eppure era riuscito a capire l’origine del suo male ed era stato incredibilmente gentile con lei quando avrebbe potuto far finta di non aver notato niente e lasciarla ai suoi problemi.
«Grazie, Newt», mormorò, dando una leggera stretta alla sua mano. «Grazie davvero.»
«Di nulla», le rispose lui, sorridendole di rimando. «Vuoi ancora tornare indietro?»
«Scherzi? Fosse per me, non mi muoverei da qui!», ribatté, guardandosi attorno affascinata. Era un terrazzo, nulla di particolare in realtà, eppure ai suoi occhi appariva come l’ottava meraviglia del mondo. Il cielo terso, illuminato da una perfetta luna piena e punteggiato da una miriade di stelle, era di un blu profondo, quasi nero, in netto contrasto con il bianco assoluto della C.A.T.T.I.V.O. Non poté fare a meno di trovare un’immensa bellezza in quella differenza.
Chissà se… «Quanto siamo in alto?», domandò, avvicinandosi con cautela al bordo. Continuò a tenere la mano a Newt, che la seguì e aspettò che guardasse con i suoi occhi per darle una risposta.
«Troppo per calarci giù…»
Aveva ragione: quello su cui si trovavano doveva essere il tetto del blocco centrale – quello più imponente – di tutto l’edificio. Se anche fossero riusciti in qualche modo a calarsi giù, sarebbero stati ancora ben lontani dalla libertà. Vide che nessuno degli altri blocchi aveva una porta che sbucasse sul tetto, quindi tentare l’operazione da uno di quelli era praticamente possibile.
E poi cosa avrebbero usato? Sarebbero servite parecchie lenzuola, ma anche se le avessero trovate non c’era nulla a cui assicurarle: quella sorta di terrazzo non aveva nemmeno una ringhiera.
Sospirò, vedendo quella speranza spegnersi ancor prima di prendere vita. Avrebbe dovuto cercare un altro modo.
«Certo che prendere un po’ d’aria ti ha fatto davvero bene», osservò Newt, distogliendola da quei pensieri. Sembrava guardarla con un’espressione a metà tra l’ammirato e il sollevato. «Mi sembri molto concentrata… ti ci è voluto pochissimo per tornare lucida.»
«È tutto merito suo, dottor Newt. È davvero bravo… per essere un inglese», scherzò lei, dandogli una leggera gomitata.
Lui le lasciò la mano per punzecchiarle un po’ il fianco. «Ti va di sederci?», le chiese poi.
«Sul bordo, dici?»
«Sì. Non avrai paura di cadere giù?»
Sollevò fieramente il mento. «Sono irlandese, Newt: se io ho paura tu ne hai il doppio di me.»
Newt schioccò la lingua, fissandola in silenzio per qualche secondo, poi si sedette. «Una devo riconoscertela, irlandese… riusciresti a zittire persino Minho.»
«Lo prendo come un complimento», disse, mettendosi accanto a lui.
«Lo è.»
Per un po’ non si dissero altro, fissando l’immensa pineta – anche se al buio appariva più come una macchia scura – che si estendeva a perdita d’occhio.
«Newt…», mormorò lei di punto in bianco, senza distogliere lo sguardo dal punto in cui le sembrava che finissero gli alberi e iniziasse il cielo. «Posso farti una domanda?»
«Dimmi.»
«Quando finirà tutto… tu e Lizzie avete dove tornare?»
Newt emise un lungo sospiro. «Se devo dirti la verità, non ne ho idea… anche se credo che io e Lizzie ci troveremo a dover ripartire da zero.»
Non le aveva detto molto, eppure aveva capito esattamente ciò di cui stava parlando. Sentì il cuore stringersi in una morsa dolorosa. «Non avete nessuno che vi aspetti?»
«Non credo che per quando saremo fuori ci saranno ancora…»
Stupida, stupida, stupida! Proprio di questo dovevi decidere di parlare?!
Strinse i pugni, mentre un groppo le si formava in gola. In quel momento, la loro situazione le sembrava più orribile che mai. Andarsene via dalla propria vita, abbandonare tutto e tutti senza la certezza di poter tornare. E sapere che, se anche ci fosse stato un ritorno, nulla sarebbe stato più come prima. Era come un incubo. Peggio di un incubo.
«Mi dispiace», riuscì soltanto a dire. Le si appannò la vista e si accorse che gli occhi le si stavano riempiendo di lacrime. Le ricacciò a fatica in gola, cercando di non farsi vedere.
Lui invece pareva rassegnato, quasi la cosa non lo toccasse. E notarlo le fece un male incredibile.
«Tu invece hai qualcuno?»
«Mia zia, credo…», rispose, tentando di apparire il più calma possibile. Ma dentro si sentiva in colpa ad affermare che, in confronto a lui e a Lizzie, poteva avere un briciolo di speranza in più.
«Era infetta?»
«No… non quando sono andata via, almeno.»
«E… i tuoi genitori?»
Quella parola fu come una stilettata. «Non ce li ho più.»
Se qualcuno anche solo poche ore prima le avesse detto che si sarebbe ritrovata a parlare del suo passato con qualcuno conosciuto da appena tre giorni non ci avrebbe mai creduto. Eppure adesso ne stava parlando con Newt, di cui sapeva poco o niente.
Quest’ultimo si distese sulla schiena, le braccia dietro la testa e le gambe lasciate a dondolare nel vuoto. «Cosa facevi quando eri in Irlanda?»
«Esploravo… andavo in giro per i boschi a cercare le fate, i folletti e gli elfi… tu, invece?»
«Giocavo con Lizzie, alla fine non facevo nulla di particolare. Tornavamo a casa sempre sporchi dalla testa ai piedi. E spesso papà ci portava al mare. Mi ha insegnato a nuotare e voleva insegnare pure a mia sorella.» Se poco prima le era apparso apatico e rassegnato, ora parlava con un tono carico di nostalgia e sembrava perso nei suoi pensieri. «La mamma si arrampicava benissimo e voleva che imparassi anch’io, anche se non ero bravo come lei… e faceva sempre la crostata ai mirtilli. Non hai idea di quanto fosse buona. Anche le sue mani profumavano di mirtilli… poi papà è impazzito ed è finito tutto…»
Si voltò a guardarlo e le bastò lanciare un’occhiata al suo viso per capire che si era disteso per evitare di versare le lacrime che gli riempivano gli occhi. Si morse un labbro per non mettersi a piangere anche lei e gli prese di nuovo la mano.
Newt sembrò riscuotersi dal suo flusso di pensieri e la fissò spaestato. «Oddio… scusa, Han», farfugliò mortificato, tirandosi su di scatto e strizzando gli occhi per non farli lacrimare. «Scusami.»
Lei scosse la testa. «No, scusami tu, il discorso l’ho iniziato io.»
Rimasero a fissarsi per qualche istante, quasi a volersi tranquillizzare a vicenda tramite gli sguardi. Infine, Newt fece un debole sorriso e lei non riuscì a trattenersi dall’abbracciarlo, al diavolo l’apparire debole e sentimentale. Ne aveva bisogno. Ne avevano bisogno entrambi.
«Mi dispiace, Newt», sussurrò. «Mi dispiace per te e per Lizzie.»
«Liam», disse lui dopo alcuni attimi. «Mi chiamo Liam. E mia sorella si chiama Alice.»
Quella rivelazione le strappò un piccolo sorriso. «Liam… ti si addice.»
E lei? Doveva dirglielo? Poteva fidarsi?
Quel ragazzino aveva oltrepassato il muro che la proteggeva in un brevissimo lasso di tempo, eppure non riusciva a vedere la cosa in maniera negativa. Non era un attacco, non era un’invasione. Era un sostegno, una presenza che poteva essere amica, qualcuno da appoggiare e a cui appoggiarsi per non impazzire e rimanere sola.
In quell’abbraccio, per la terza volta, decise che sì, poteva fidarsi. E stavolta definitivamente.
«Io sono Erin.»
 
*prende un grosso respiro*
Ohssignur, questo capitolo era UNA VITA che volevo scriverlo e finalmente ci sono arrivata e ce l’ho fatta! Oh mio Dio, non ci si crede!
Eee insooommaaa (ok, scusatemi, la smetto di allungare le vocali), i nostri due marmocchi hanno un nome e finalmente potrò riferirmi alla protagonista senza dover più usare solo “lei” (yuppiii!!! Sì, visto che sono di fuori mi ero autoimposta di non chiamarla per nome finché non si fosse scoperto quello vero xD).
Beh, che altro posso dirvi… -1 alla seconda parte della storia! Speriamo bene.
Non ero mai riuscita ad arrivare a questo punto in una storia ed è tutto merito di voi che seguite/recensite/avete messo tra le preferite/ leggete questa ff.
Graziegraziegraziegrazie (si ripete all’inifinito), vi voglio un mare di bene. <3
 
p.s. Se vi dicessi il “lacchezzo” che c’è stato dietro alla scelta del nome “Liam” vi fareste delle grasse risate per i miei (molto più che) assurdi trip mentali xD
 
 
 
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