Anime & Manga > Digimon > Digimon Adventure
Segui la storia  |       
Autore: Padme Undomiel    26/04/2015    2 recensioni
Strinse più forte al petto il fagotto immobile, coperto perché non dovesse essere scoperto. Pregava con tutta se stessa che le sue aspettative riuscissero ad essere appagate: almeno lui doveva sorridere.
Anche senza di lei. Probabilmente per sempre.
Perché il suo cuore era ancora intatto, mentre si aspettava che scoppiasse da un momento all’altro?
Sempre più vicina, sempre più vicina.
Non riusciva a fermarsi. La sua parte razionale stava vincendo su quella dei sentimenti. Non riusciva a smettere di correre a perdifiato, con il respiro corto, l’ansia visibile in ogni tratto del suo viso bianco come un cadavere, il dolore straziante nei suoi occhi scuri.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hikari Yagami/Kari Kamiya, Ken Ichijoji, Miyako Inoue/Yolei, Takeru Takaishi/TK
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Purity 26


26.




Attori e Spettatori







Il giovane cameriere non vedeva l’ora che quella ragazza se ne andasse.

Sospirò nervosamente, stringendo tra le mani il conto e dirigendosi con passo quanto più sicuro possibile verso il tavolino accanto alla finestra. Gli avevano detto di non mettersi a giudicare la gente che veniva a mangiare in quel caffè, che il suo compito era servire i clienti in modo efficiente e farli sentire a loro agio. Gli avevano detto che non aveva importanza che fossero alti, bassi, belli, brutti, arcigni, felici, cordiali, riservati: il suo atteggiamento verso i clienti doveva essere sempre uguale, che li trovasse gradevoli o meno.
Beh … chiaramente non avevano presente lei, quando lo avevano addestrato in quel modo.
Da quando era entrata non aveva fatto altro che osservare fuori dalla finestra, e tamburellare le dita sul tavolo in un gesto meccanico. Era rimasta per una ventina di minuti perfettamente immobile, finché lui non si era avvicinato per chiederle se aveva intenzione di ordinare. E allora lei, voltandosi tutta sorpresa –come se fosse una domanda strana, poi: erano in un caffè!-, aveva risposto: Scegli tu. Scegli un tramezzino qualsiasi, quello che ordineresti tu se avessi fame e poco tempo per mangiare.
E poi si era rimessa a guardare fuori dalla finestra, e aveva ripreso a tamburellare le dita sul tavolo. Non si era mai slacciata il cappotto bianco, nonostante il clima tiepido della mattinata. Non si era mai tolta il cappellino blu col fiore ornamentale sulla falda, che le nascondeva i capelli, probabilmente raccolti in qualche modo.
A tramezzino arrivato lo aveva appena mordicchiato, per poi usarlo come antistress, probabilmente, visto che aveva preso a sbriciolare la mollica senza un perché –onestamente, perché fargli spendere tutto quel tempo per decidere al suo posto, se quello era stato il risultato?-. Di acqua, invece, ne beveva tantissima, come se fosse reduce da una camminata nel deserto.
Forse era un po’ matta, tutto qui. Sperava vivamente non avesse cattive intenzioni piuttosto, che non nascondesse una pistola in qualche tasca interna del cappotto. In fin dei conti, quello che voleva sul serio era evitare problemi. E il conto che teneva tra le mani poteva essere la soluzione alla sua inquietudine non indifferente.
Perciò, stringendo i denti, si impose di resistere ancora un pochino. Solo il tempo necessario per mandarla via con garbo. Magari ottenendo anche una mancia significativa.
 “Prego”, le fece, porgendole il foglietto ripiegato.
La ragazza col cappello blu si voltò. I suoi occhi castano chiaro sorrisero prima delle sue labbra, come se lui rappresentasse all’improvviso la persona che più si vorrebbe incontrare in tutto il mondo.
“Grazie mille! E’ già passato tutto questo tempo, eh? Non me ne sono accorta”, gli disse leggera, osservando distrattamente l’orologio al polso.
Per la verità era stato il cameriere a voler essere più rapido e solerte del solito. Ma ci teneva a non perdere quel lavoro, per cui tacque, sorridendo cordialmente e facendo per allontanarsi rispettosamente.
Non gli fu permesso.
“Sarebbe bello restare qui ancora un po’ ”, commentò ancora la sua cliente, il sorriso che si faceva un po’ amaro, mentre posava nuovamente le mani sul tavolo. Se non altro aveva smesso di fare disastri con la mollica del pane. “Le pause nei caffè sono rassicuranti, non credi? E’ un po’ come smettere i panni dell’attore, e guardare un film senza prendervi parte. Sai, per vedere come sta procedendo. Come procederebbe se tu non avessi alcun ruolo da giocare.”
Poi lo fissò insistentemente. “Ti capita mai di volerti chiamare fuori dal tuo film?”
E ora perché mettersi a parlare con lui? Sembrava volesse conversare con qualcuno, chiunque, con tutta se stessa.
Il cameriere deglutì, senza sapere cosa dire. “Qualche volta, può darsi …” tergiversò.
“A me non capita spesso. Solo quando ho paura di interpretare il ruolo principale dopo aver fatto la comparsa ogni tanto.” Continuò la ragazza a bassa voce, come se niente fosse.
Ne fu sicuro: quella lì aveva qualcosa di losco in mente. Il cameriere iniziò a guardarsi nervosamente attorno, senza farsi notare, alla ricerca di man forte. Ma i suoi colleghi sembravano tutti impegnati …
“Ma non ci si può far niente, non è così? In fondo potevo sempre rifiutare la parte. E invece ho accettato. Perciò è colpa mia se ora sono agitata.” La ragazza dal cappellino blu rise, tirando fuori le banconote e ponendole sul tavolo accanto al conto. Poi si alzò in piedi, un sorriso largo sulle labbra, e afferrò la sacca che aveva posato sulla sedia di fronte alla sua. “Bene, arrivederci, e grazie della chiacchierata!”
Chiacchierata? Chi mai aveva parlato, a parte lei?
La guardò voltarsi, la guardò avviarsi verso la porta, e questo significava solo che lui avrebbe potuto smettere di essere sull’attenti, finalmente; che avrebbe potuto occuparsi di clienti più trasparenti, o perlomeno che si facevano i fatti loro se volevano essere strani. Tanto non l’avrebbe rivista mai più …
“Non si è neanche tolta il cappellino.”
E invece parlò, senza volerlo, senza neanche essere discreto abbastanza da dirlo a bassa voce. Difatti la ragazza lo sentì, e si voltò, sorpresa.
Il cameriere arrossì furiosamente, e desiderò essersi morso la lingua. Se ne stava andando! Perché non l’ho lasciata andare?
La ragazza rise, incerta. “Già. Non l’ho fatto.” Disse. Nei suoi occhi passò un lampo di paura, gli parve all’improvviso: ma non poteva essere così, che motivo aveva per avere paura?
La vide tirare un sospiro, sorridere, portarsi le mani alla falda del cappello. Con un movimento deciso, tirò verso l’alto.
Aveva i capelli lunghi, dopotutto, ed erano davvero tenuti fermi da un fermaglio: lei armeggiò un po’ per toglierlo, ma non le ci vollero che pochi istanti. I capelli, liberi, le ricaddero sulle spalle, e furono una cascata di lisci capelli viola.
La ragazza se li riassettò, le mani un po’ tremanti, e fece spallucce. “Così direi che va meglio. No?”
Non attese risposta. Stringendo le mani a pugno, si voltò di nuovo e uscì. Il vento le schiaffeggiò il viso non appena mise piede fuori dal caffè, e i capelli le volarono dappertutto, scomposti. Non si guardò indietro nel richiudere la porta.
Il cameriere rimase immobile al centro della sala, come istupidito.
Ne era sicuro. Si era perso qualche passaggio, durante quella conversazione.
Quella ragazza l’aveva guardato come se rivelargli i suoi capelli fosse stato un gesto di chissà quale importanza. Come se le fosse costato fatica.
E lui aveva la spiacevole sensazione di dover ricordare qualcosa, qualcosa che avrebbe dovuto sapere molto bene magari, senza riuscire a farlo, nonostante ci si stesse impegnando con tutte le sue forze. Ed era qualcosa che c’entrava sicuramente con la figura quasi evanescente della ragazza dal cappellino blu …
Ma era poi importante? Il cameriere scosse il capo, dandosi dello stupido e chinandosi a raccogliere il conto.
Alla fine ebbe a rallegrarsi della sua strana presenza: se non altro gli aveva lasciato una lauta mancia.

***

“Pragmaticamente parlando è un po’ assurdo definire tutto questo come il miracolo che stavamo aspettando, credo tu lo sappia.”
Se ne stavano seduti sul gradino di fronte alla porta d’entrata della villa, osservando distrattamente Hikari e Takeru, in piedi di fronte ad un gran numero di bambini a bocca aperta, mentre spiegavano al loro pubblico quello che avrebbero dovuto fare.
“Vedete questa cassetta di legno? Serve a raccogliere le vostre idee sulla manifestazione di beneficienza”, stava dicendo Hikari allegramente. “Prendete un foglio di carta e scrivete quello che vorreste fare. Qualsiasi cosa. Teatrini, giochi, disegni, canzoni, bancarelle … poi noi leggeremo i vostri bigliettini e vedremo di accontentarvi tutti!”
“Oh, solo un secondo. Quanti di voi sanno scrivere?” Intervenne Takeru colto da un’illuminazione. Alla vista di diverse mani rimaste abbassate, si mise una mano dietro il collo, pensieroso. “Bene, allora abbiamo fatto bene a parlarne … Facciamo così. Chiunque non sappia scrivere, si faccia aiutare da chi sa farlo. Anche da noi, se vi va!”
“Mmm, pare che il numero di bambini con età adatta per leggere e scrivere stia crescendo. Dovremmo aggiungerne un altro po’ alle nostre sessioni di studio”, commentò Taichi, cominciando a fare mentalmente il calcolo per il numero esatto da considerare in quel gruppetto.
Koushiro, seduto alla sua sinistra, si voltò a guardarlo, sorpreso di essere stato interrotto con un discorso totalmente diverso da quello che aveva iniziato. “Lascia stare l’istruzione, per il momento”, esclamò. “Abbiamo cose più urgenti a cui pensare.”
“Ma sì, ma sì.” Taichi sorrise. “Lo so benissimo che non sei tanto d’accordo con l’idea di Takeru.”
“Non è più idea solo di Takaishi-kun ormai, dal momento che l’abbiamo accettata tutti”, intervenne Sora, seduta alla sua destra. Lo guardò appena, con un mezzo sorriso sulle labbra. “Tu, poi, soprattutto.”
“Che volete farci? Penso sia buona.” Taichi si strinse nelle spalle. “Sicuramente innovativa.”
“Naturalmente, ma considerando accuratamente la situazione non è tutto rose e fiori.” Koushiro sospirò, serio. “Dall’ultima riunione che abbiamo avuto in merito abbiamo sicuramente aumentato gli introiti, e su questo non c’è dubbio. I nostri lavoretti part-time stanno fruttando qualcosa, sebbene ci costringano a ritmi nettamente più serrati. Ma penso sarete entrambi d’accordo sul fatto che non ci rendono certo ricchi. Riceviamo donazioni, naturalmente, ma come saprete non fanno la differenza come vorremmo. Già così, rischiamo di chiudere in ogni momento. Consideriamo adesso i costi aggiuntivi della manifestazione di beneficenza.” Li contò con la mano, sollevandola per bene perché sia Taichi che Sora potessero vederla. “Numero uno: la pubblicità. Avremo bisogno di una qualche sorta di volantinaggio, perché altrimenti alla manifestazione non verrà proprio nessuno. Numero due: l’allestimento in sé. Anche se sarà quanto più possibile semplice, dobbiamo garantire un bell’evento, e questo richiede strutture funzionanti, cibo e bevande, e quanto occorrerà per gli intrattenimenti che decideremo di metter su. Numero tre, il più importante: se non verrà nessuno, o quasi, perderemo tutto senza neanche guadagnarci …”
“Pensavo avresti tirato fuori anche la storia dello sfruttamento di minori”, ghignò Taichi dandogli una piccola spintarella bonaria.
Koushiro sorrise, imbarazzato. “Ammetterai che il modo in cui Takaishi-kun aveva posto la questione lasciasse adito a molti dubbi”, si giustificò. “E comunque no, su questo sono tranquillo. Altrimenti avrei bocciato il progetto su due piedi.”
“Però non capisco. Se non sei d’accordo perché hai accettato, Koushiro-kun?” Gli chiese Sora, osservandolo curiosa. “Ti sei sempre espresso liberamente, non vedo perché stavolta non avremmo dovuto ascoltarti.”
Koushiro rimase silenzioso per qualche momento, riflettendo tra sé.
“Io non sono contrario”, sentenziò alla fine. “E’ solo che penso che i nostri vantaggi siano limitati anche così. Forse qualcosa si potrà ottenere, ma quanto davvero ci guadagnerà l’orfanotrofio da quest’impresa?” Poi guardò Taichi, le sopracciglia aggrottate. “In realtà vorrei conoscere il tuo parere, Taichi-san, visto che sei stato tu, a parte Hikari-san e naturalmente Takaishi-kun, ad appoggiare la cosa con più entusiasmo di tutti.”
Lo fissava attentamente, ed era di nuovo quell’espressione, quella che tendevano a fare un po’ tutti quando si trattava di prendere una decisione. Taichi si fece improvvisamente serio.
Non aveva mai capito per quale motivo, ma sembrava che la sua opinione avesse un potere decisivo nel chiudere le discussioni. Sembravano dargli tutti retta, decisamente troppo per quello che valeva.
Taichi se n’era sentito imbarazzato, le prime volte. “Ma sono uno squinternato! Come fate a fidarvi delle decisioni di uno squinternato?”
“E’ che lo squinternato finisce per risolvere i problemi, che tutti ci crediamo o no”, era stata la risposta sorridente di qualcuno. Poteva essere stata Sora.
Sora lo guardava anche ora, a dirla tutta, seria e pensierosa, il mento poggiato sulle ginocchia ripiegate. Taichi incrociò il suo sguardo, e seppe che anche lei aspettava una risposta.
Si era ormai abituato alla fiducia che i ragazzi riponevano in lui, anzi: aveva finito per sentirsene orgoglioso. Così era solo naturale fare il possibile perché quella fiducia non crollasse mai.
Tornò ad osservare i bambini discutere concitatamente nel prato, mentre Hikari e Takeru un po’ in disparte si scambiavano un sorriso complice.
“Ebbene, il sistema è difettoso e da qualche parte bisognerà pure intervenire”, disse infine. “Altri volontari al momento non ne abbiamo, guadagni neanche a parlarne. L’unica che ci resta è la pubblicità. Se interveniamo su quella, magari volontari e guadagni seguiranno con facilità. Senza contare che ho ancora un padre che ci aiuta come può: del volantinaggio si è offerto di occuparsene lui.”
“Gentile da parte sua”, rispose Koushiro sorpreso, e sollevato.
Taichi gli sorrise ancora. “I tuoi ingranaggi hanno smesso di lavorare senza posa adesso, Koushiro?”
“No.” Rispose sereno l’altro, mettendosi in piedi e battendogli una mano sulla spalla a mo’ di saluto. “Però ognuno di loro spera con tutto il cuore che tu abbia ragione.”
Si allontanò, avvicinandosi invece a Hikari e Takeru e discutendo con loro di chissà cosa.
Rimase solo Sora con lui, ed entrambi stettero in silenzio per qualche secondo, godendosi la brezza primaverile che delicatamente accarezzava il loro viso.
“E il tuo parere, Sora?” Esordì infine Taichi. “Credi che stiamo facendo una sciocchezza? Non ti sei espressa chiaramente da quando abbiamo avviato il progetto.”
“Perché non so neanche io cosa pensare con esattezza.” Rispose Sora, lo sguardo ancora fisso sui ragazzi più giovani. Era difficile decifrare le emozioni sul suo viso. “Ci avete colti alla sprovvista, ieri. Un attimo prima Hikari-chan ci comunica che Takaishi-kun si unirà a noi nella gestione dell’orfanotrofio, un attimo dopo uscite fuori dallo studio dichiarando che, cito testualmente,: Abbiamo trovato un’idea per salvare questo posto! Hai quasi fatto uscire Mimi-chan dai gangheri, dice che siete troppo teatrali per i suoi gusti.”
Taichi scoppiò a ridere. “Lei dà a noi dei teatrali?!”
“Beh, lo sai che non le piace quando viene estromessa dalle decisioni importanti.” Sora ridacchiò a sua volta, ma la risata fu breve. “Però non posso dire di non capirla. In fondo siamo rimasti tutti un po’ spiazzati.”
L’improvvisa serietà di Sora lo allarmò. “Ehi … ti sei offesa? Mi dispiace”, si affrettò a dire, lanciandole un’occhiata preoccupata. “Non era nostra intenzione farvi sentire esclusi. E’ solo che l’idea ci è venuta sul momento, e c’eravamo solo noi in studio.”
Sora si voltò, sorpresa. “Non sono arrabbiata”, gli rispose. Poi sorrise. “Ormai sono abituata alla tua mancanza di preavviso. Se dovessi arrabbiarmi tutte le volte, non la finiremmo mai di discutere.”
“Le volte in cui ti arrabbi sono perfettamente sufficienti, grazie per il tuo autocontrollo”, scherzò il ragazzo.
Sora alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo, ma sembrava divertita.
“E poi guarda com’è felice Hikari-chan. Lei non aspettava altro che Takaishi-kun le desse prova di quanto valesse”, continuò poi, indicandogliela con un cenno del capo. “Figurarsi ora che sa che si prenderà cura dei bambini anche lui.”
Lo sguardo di Taichi volò al viso illuminato della sorella, un sorriso dolce mentre parlava sottovoce a Takeru, rivelandogli chissà quale segreto. Sembravano affiatati. Anche troppo affiatati, in effetti.
Fece un gran sospiro, un po’ insofferente. “Tu dici che a mia sorella piace Takeru? Dico, in quel senso?”
Sora sollevò entrambe le sopracciglia in un'espressione eloquente. “Dico che non hai bisogno che io ti risponda nulla.”
Per l’appunto. Non che ci volesse chissà quale osservatore per rendersene conto. Taichi si ricordava bene l’espressione di Hikari quando Takeru era partito per andare a incontrare suo fratello a Osaka, i suoi silenzi assorti e le sue lacrime improvvise. Ricordava quanto gli era parsa fragile, quando aveva pensato che lui sarebbe andato via da lei. E ora solo uno sciocco poteva ignorare l’espressione che gli lanciava ogni volta che lui non la guardava: era come se lui fosse diventato il suo centro gravitazionale.
Per non parlare delle espressioni che le lanciava Takeru, e della mano che tanto spesso stringeva quella di lei, e di quei sorrisi rapiti …
“Taichi. Non fare quella faccia.”
“Quale faccia?” Rispose Taichi troppo in fretta, continuando ad osservare i ragazzi.
“La faccia da fratellone geloso.” Lo prese in giro Sora. “Guarda che Hikari-chan è grande abbastanza per pensare a queste cose. Anzi, a dirla tutta ha aspettato anche troppo.”
Ed ecco la voce della verità. Peccato che, in fondo in fondo, lui non riuscisse ancora a digerirla come voleva. Fece un altro sospirone, scompigliandosi i capelli già sufficientemente arruffati.
“E’ più forte di me! Continuo a vedere Hikari come la mia sorellina piccola, ed è difficilissimo non continuare a proteggerla anche in campo sentimentale”, si lamentò sincero. “Non gli lascerei campo libero, comunque, se non mi ispirasse simpatia. Mi sembra un bravo ragazzo. Spero solo non faccia nulla per dimostrarmi il contrario.”
“Ora sei passato alle minacce?” Sora ridacchiò. “Stai tranquillo, lo sai che tua sorella è una tipa con la testa a posto. E’ più matura di tutti noi messi insieme, probabilmente.”
Taichi osservò Hikari ridere di cuore, il viso arrossato e una mano sulla bocca, e sorrise. “Su questo non ho mai avuto dubbi.”
Era tanto tempo che non la vedeva ridere così, ora che ci pensava. Da prima ancora che Takeru partisse per Osaka. Da prima ancora che lei lo conoscesse.
Erano mesi, ormai, che non rideva più.
“L’ho fatto anche per lei, sai”, confessò all’improvviso, quasi senza volerlo. Sora si voltò a guardarlo. “Ma non solo per lei, in effetti. Per tutti noi. Mi ci ha fatto pensare guardare l’espressione di Keiji ieri, quando ha capito che questo posto rischia di chiudere: aveva voglia di piangere, ma non ha pianto. Invece voleva battersi per fare la differenza, per cambiare le cose. Ha detto Non m’importa niente, ma non voglio andarmene. Ecco … ho solo pensato che, questa frase, ci siamo un po’ disabituati a dirla, non credi?”
Taichi percorse con lo sguardo il pallore stanco di Sora, le sue mani piene di calli da lavoro, la sua sempre più accentuata magrezza, e le sorrise. “Abbiamo solo bisogno di scommetterci un po’ di più. Di crederci, un po’ di più. Dovremmo fare come ha fatto Keiji ieri, come hanno fatto gli altri bambini ieri. Ce la possiamo fare, Sora. Forse quest’iniziativa, anche se non porterà a nessun miracolo, ci renderà più uniti, più fiduciosi e più battaglieri. E questo potrebbe fare la differenza, no?”
E in fondo si implicava anche lui in quel discorso, e non era solo Sora che cercava di convincere. Perché aveva aperto gli occhi all’improvviso, e si era reso conto che si stavano trasformando in tanti automi. Tutti loro.
Lavoravano costantemente, senza concedersi tregua, e tanto spesso Taichi stesso crollava addormentato sulla sedia senza avere neanche la forza di cambiarsi per la notte: ogni giorno le fratture nel sistema si facevano più profonde, più accentuate, più angoscianti. E qualche volta Taichi dubitava, lontano dagli sguardi dei ragazzi e dei bambini che non voleva deludere, e si chiedeva quanto ancora avrebbero retto, quanto ancora avrebbero tenuto a bada il pensiero scomodo della fine imminente di quell’orfanotrofio. Qualche volta Taichi si recava di nascosto al cimitero, a chiedere scusa a sua madre perché non stavano facendo abbastanza. Qualche volta Taichi, che era il primo a rasserenare gli animi quando si accorgeva di un sospiro di troppo, avrebbe dato chissà cosa perché qualcuno rassicurasse lui, anche se non se lo sarebbe mai perdonato.
Prima che potesse rendersene conto, il loro era diventato nient’altro che un compulsivo affannarsi per non restare con le mani in mano.
Avevano smesso di credere nel sogno di Yagami Yuuko, in fin dei conti. Proprio quello che avevano giurato non sarebbe mai successo, qualunque cosa fosse accaduta.
Se Takaishi Takeru era riuscito a interrompere quel loop infinito destinato al disastro, a che pro non approfittarne per rimediare, ora, quando erano ancora in tempo? Forse c’era  bisogno proprio di un occhio esterno per far capire loro quanto avevano rischiato, quanto stavano rischiando ancora adesso.
Yagami Taichi aveva deciso di combattere, come prima, più forte di prima. E di smettere di abituarsi alla visione dei suoi amici, di sua sorella, distrutti dalle fatiche e dalla disperazione: era sicuro che non avrebbe retto quell’immagine un secondo di più.
Tutte queste riflessioni, comunque, persero d’importanza in un attimo, perché Sora gli diede un bacio su una guancia.
Taichi sussultò, colto alla sprovvista, e si voltò di colpo.
Sora aveva il viso rosso, gli occhi bassi, ma sorrideva tanto –troppo-, in un modo che non ricordava le avesse mai visto fare in tutti quegli anni di amicizia. “E’ bello che tu sia ancora qui a ricordarcelo.” Disse soltanto.
Taichi si rese conto all’improvviso che erano stati soli tutto quel tempo, che avevano avuto una conversazione normale, che Sora non sembrava arrabbiata –Sora non aveva cercato di fuggire, in effetti: era rimasta accanto a lui ... molto vicina a lui.
Questi pensieri si mescolarono confusamente al ricordo del sorriso di Sora, e Taichi fu sommerso da un’ondata di imbarazzo che non seppe spiegarsi, ma che gli azzerò la capacità di parlare.
Nel mentre, del tutto ignara, Sora si stava mettendo in piedi, togliendosi la polvere dai pantaloni e stiracchiandosi un po’. “Sarà meglio che vada, Jyou ha bisogno di una mano a raccogliere i giocattoli rotti. Se ci sono novità sul progetto-manifestazione di beneficienza, fammi sapere quanto prima. Passi una volta, ma non voglio altre sorprese, intesi?”
Taichi tentò invano di dire qualcosa, aprendo e chiudendo la bocca come un pesce rosso. Sora gli lanciò un’occhiata, perplessa, ma poi sembrò accontentarsi della certezza che lui avesse colto il messaggio. Lo salutò con la mano e si voltò per andarsene.
Ma perché non ci aveva pensato prima?, si chiedeva Taichi freneticamente, osservandola allontanarsi. Avrebbe potuto parlarle, come gli aveva consigliato Hikari! Avrebbe potuto chiederle se ce l’aveva con lui per qualche motivo … Non poteva aver sprecato così quell’occasione, vero?
Non poteva recuperare ora?
Prese coraggio, un gran respiro, e chiuse gli occhi. “Sora!” La richiamò a voce alta.
Lei si voltò. “Che c’è?”
Si sentiva determinato, poco prima che lei si girasse. Si sentiva pronto a mettere le cose in chiaro, di qualunque cosa si trattasse, poi. Non aveva messo in conto che tutta la sua sicurezza sarebbe svanita in un attimo, soltanto incontrando gli occhi perplessi di Sora.
“Ecco …” Terribilmente impacciato, probabilmente anche rosso in viso, Taichi si risolse a dire la prima cosa che gli passò per la testa. “Quindi oggi non puzzo?”
Sora batté le palpebre.
Taichi passò cinque secondi a pensare al metodo più efficace per far finta di non aver parlato.
Finché Sora non scoppiò a ridere, una strana espressione di imbarazzo e tenerezza che le addolcì il viso. “Scemo”, fu tutto quello che disse. E si allontanò.
Rimasto solo, Taichi non poté che concordare con quell’appellativo.
Era proprio scemo, decise.

***

“E’ un posto bizzarro dove incontrarsi.”

“Ehi, preferivi forse casa tua? Non ti ricordavo così ingrato.”
“Non è questo. E’ che non ti ricordavo in possesso di un garage.”
Si guardava intorno, le braccia rigide lungo i fianchi, vagamente a disagio nel notare il disordine sul pavimento, negli scaffali, dietro la moto lì parcheggiata. Sicuramente casa sua continuava ad essere pulita e ordinata come lui la ricordava da sempre, ma anche in mezzo a quel caos infinito non fece commenti, non si lamentò di nulla.
Non era cambiato affatto.
Motomiya Daisuke aveva trascorso tutta la mattinata pensando di essere preparato per quell’incontro, se n’era sentito impaziente persino. Solo ora si rendeva conto che non era preparato, neanche un po’.
Rivedere Hida Iori dopo tutti quegli anni lo turbava più di quanto volesse ammettere. Gli ricordava troppe cose – e lui non voleva ricordare.
“Il garage non è mio”, gli spiegò. “Un mio amico me l’ha messo a disposizione, dice che possiamo farci quello che vogliamo a patto che glielo lasciamo esattamente come lo abbiamo trovato …”
“Ti puoi fidare di questo amico?” Iori gli lanciò un’occhiata penetrante, improvvisamente guardingo, e Daisuke si irrigidì.
Anche il suo sguardo era rimasto lo stesso: era ancora capace di farlo sentire il più stupido essere al mondo.
Sbuffò, contrariato, appoggiandosi contro il muro con le braccia conserte. “Ci mancherebbe altro. Con chi credi di stare a parlare, Iori?” Gli disse, sfidandolo. “Non sa nulla dei nostri contatti, dubito che sappia persino del mio coinvolgimento nella storia di Miyako. Siamo a prova di spia, sei contento?”
“… Non volevo offenderti, ti chiedo scusa. Temo di essere troppo in allerta, da qualche anno a questa parte.”
Daisuke si zittì, colto di sorpresa. Si era così abituato all’idea di un Iori iperserio e giudicante che il vederlo ora così mortificato, sentirlo chiedere scusa –a lui!-, aveva un che di paradossale.
Forse, dopotutto, un po’ era cambiato. Come era cambiato anche Daisuke. Otto anni avevano lasciato il loro segno, visibile o no che fosse a occhio esterno.
Tirò un gran sospiro, costringendosi a calmarsi. “Non dirlo a me … sono nervoso anche io.” Si scusò anche lui indirettamente, studiandolo di sottecchi. “Diciamo che le circostanze sono sempre più incasinate, come se non bastasse il fatto che non ci vediamo da un sacco di tempo.”
“Non hai tutti i torti.” Iori gli sorrise, pacato. “Come stai, Daisuke-san?”
Erano due giorni che riguardava quella stupida cartolina, due giorni che aveva una voglia incredibile di prendere a pugni qualcuno –chiunque. Due giorni che non faceva che ripensare al passato, a lei, a tutto quello che era andato storto, alla sua vita disastrata da quel momento in poi. Due giorni che fumava una sigaretta dopo l’altra, che beveva come se non ci fosse un domani, che si risvegliava coi postumi, per poi riprendere quella cartolina e ricominciare tutto daccapo.
La risposta giusta alla domanda di Iori era: Uno schifo. Era uno schifo già soltanto se si parlava degli ultimi due giorni, figurarsi degli ultimi otto anni.
Ma Daisuke non voleva lamentarsi. Voleva risposte.
Così preferì soprassedere, frugandosi invece nelle tasche per tirare fuori quell’oggetto incriminato che lo stava tormentando da giorni. Lo porse al ragazzo più giovane.
“Come qualcuno che non ci capisce niente. Ecco la mia cartolina. Viene da Vienna.”
Il sorriso dalle labbra di Iori sparì nel momento in cui posò lo sguardo sulla cartolina. Terribilmente serio, tese una mano e la prese, abbassando in fretta gli occhi per scoprirne il suo contenuto.
Daisuke lo fissò per tutto il tempo che ci volle perché le parole scritte con quella grafia, quella che non avrebbe mai confuso con nessun’altra, fossero recepite dal suo silenzioso interlocutore. Stava cercando una traccia, una qualsiasi, di sconcerto o turbamento, che potesse essere simile alla sua reazione quando l’aveva ricevuta –simile al tumulto confuso nel riconoscere la voce adolescenziale della sua amica in quelle parole, simile alla rabbia intensa che lo aveva quasi indotto a strappare la cartolina in mille pezzi, e in mille pezzi ancora i mille pezzi rimasti, simile al cupo senso di impotenza che lo aveva gettato nuovamente nello sconforto. Ma non lesse nulla di tutto questo nel viso immobile di Iori.
Cercò di dire a se stesso che, d’altra parte, non c’era da stupirsene: Iori era sempre stato così trattenuto, così controllato, così … padrone di sé al punto da essere stranamente rigido persino da ragazzo. Era una di quelle cose che Daisuke gli aveva sempre rimproverato, sempre. Era uno di quei motivi per cui loro due non si erano mai capiti del tutto …
Ma poi Iori annuì tra sé, incupendosi, come se possedesse la chiave di tutto quel mistero. E Daisuke ebbe l’improvvisa certezza che i suoi sospetti erano sempre stati fondati, fin dall’inizio.
Il sangue gli andò alla testa. “Così tu sai tutto, vero?” Scattò. “Come fai a saperlo? Miyako ti ha contattato? Da quanto vi parlate? Perché io non so niente?”
“Daisuke-san, abbassa la voce, e calmati.” Fu tutto ciò che Iori ebbe il coraggio di rispondere, guardandosi intorno allarmato.
“No che non mi calmo!” La voce di Daisuke crebbe di intensità, incontrollata. Fece un passo avanti senza volerlo. “Sono arcistufo di questi complotti! Ma cosa significa? Solo perché l’hai conosciuta prima di me sei più degno di sapere che combina, cosa vuole? Se sta bene? Non avrò anche io il diritto di essere messo al corrente, dal momento che in qualche modo sono comunque messo in mezzo?”
“Daisuke-san …”
“Che poi, perché Vienna? Che ci fa Miyako a Vienna? E perché scrivermi cose che non sembrano nemmeno indirizzate a me? Sembra un passo del suo stupido diario segreto! E io che me ne faccio? Vuole forse accertarsi di essere ancora sulla bocca di tutti? Vuole … vuole torturarci ancora per molto?”
“Vuoi starmi a sentire oppure no?” Esplose Iori alla fine, perdendo le staffe.
Daisuke, il fiato corto per lo sfogo di poco prima e l’animo di nuovo in subbuglio per colpa di quella maledetta egoista, si interruppe. Fissò Iori, lo sguardo torvo, mentre l’altro si ricomponeva tirando un gran sospiro.
“Non ti è venuto in mente che a scrivere potesse non essere Miyako-san?” Gli disse infine.
Daisuke rimase di sasso. “Che vuoi dire?”
“Guarda. Credo che tu non abbia fatto caso alla data di produzione di questa cartolina. Recita 1988.” Gliela mostrò, fissandolo eloquente, finché Daisuke, il cuore martellante in petto, non si avvicinò per dare un’occhiata. “Miyako-san non ha mai collezionato cartoline d’epoca, tanto meno le verrebbe in mente di diffondere il suo diario segreto in giro per tutti i suoi vecchi contatti.”
Daisuke si sentiva la lingua incollata al palato. “Ma la grafia … Questa è la sua grafia …”
“Miyako-san non vuole farsi trovare. Tu questo certamente lo immagini.”
Si sentì stupido, tanto, troppo. Non tanto per il non essersi accorto della data di produzione –quella solo un tipo pignolo come Iori poteva notarla, andiamo- , e nemmeno per aver tratto conclusioni affrettate prima di averci riflettuto su un attimo.
Si sentì stupido perché, malgrado la rabbia e l’impotenza, aveva sperato con tutto il cuore che Miyako stesse cercando di mettersi in contatto con loro –lui.
Il sapore della delusione superò persino lo schifo degli ultimi due giorni.
“Ora ti spiego quello che so”, continuò Iori a bassa voce, incurante del suo umore. “Io e Satsu-san almeno, oltre a te, abbiamo ricevuto una cartolina simile. Quella di Satsu-san veniva da Praga, ed era datata 1951. La mia veniva da Bruxelles, datata 1966. Non so chi altro l’abbia ricevuta, io e Satsu-san stiamo cercando il modo di indagare e scoprirlo. E forse ne abbiamo ideato uno.”
Perciò lui e Satsu erano ancora in contatto. Visto quanto Iori le moriva dietro anni prima, probabilmente erano anche finiti a convivere. La cosa non l’avrebbe sorpreso più di tanto.
“Sia la mia che la sua riportavano, come la tua, una parte di diario personale. E, esattamente come la tua, nessuna delle nostre cartoline parlava del destinatario. Eccole qui, puoi confrontarle se vuoi.”
Daisuke non se lo fece ripetere due volte. Afferrò le cartoline che Iori gli porgeva, stavolta ben deciso a non farsi sfuggire nulla, a non farsi considerare uno sprovveduto per nulla al mondo.
Erano scritte con la stessa grafia, la stessa maledetta grafia che non poteva non essere di Miyako … eppure pareva non fosse lei. E toccava fidarsi di Iori.
Quella di Praga recitava così:

Iori-kun non approverà mai il fatto che io abbia deciso di scappare, lo so. Ma che posso farci? Devo andar via comunque, non c’è scelta. A costo di mettermi contro il mio migliore amico. Spero solo che non cerchi di fermarmi, perché io non posso farlo. Forse perderò la sua stima … forse non mi perdonerà mai.

Quella di Bruxelles invece riportava le seguenti parole:

Satsu-chan qualche volta mi fa ridere. Confidarmi con lei è facilissimo nonostante ci conosciamo da poco, però mi ripete spesso che corro troppo. Che dovrei avere più i “piedi per terra”. Ma parla proprio lei che non chiede di meglio che vivere una storia da romanzo? Sono sicura che mi capirebbe, se fosse innamorata quanto me.

Non erano poi così diverse dalla sua di Vienna, effettivamente. Daisuke conosceva quelle parole a memoria, ormai, ma non poté impedirsi di tornare ad osservarle.

Non riesco a far capire a Naganori-kun che lui è cambiato, che non gli farebbe più del male. Mi guarda come se lo avessi tradito all’improvviso. Non mi piace questa situazione, così ogni giorno cerco di farli interagire, di farli andare d’accordo. Però se Naganori-kun non riesce a rendersi conto di che bella persona sia il mio amore, non è l’amico intelligente che credevo fosse.

“Le mie sono solo supposizioni”, riprese Iori. “Non ho la certezza assoluta di chi sia il mittente, ma credo di sapere di chi si tratti. Chi può essere in possesso del diario di Miyako-san?”
Le tempie di Daisuke pulsavano dolorosamente.
“Non … lui di nuovo, vero?” Ringhiò a bassa voce.
Guardò in viso Iori, e per una volta le sue emozioni rispecchiavano quelle del ragazzo più giovane. Vide nei lineamenti contratti, nell’espressione accigliata, negli occhi socchiusi la stessa rabbia che Daisuke a stento controllava. E quella visione lo confortò in qualche modo.
“Per quanto ne so, avrebbe ogni mezzo per permettersi una collezione ampia di cartoline d’epoca”. La sua voce tranquilla contrastava col lampo d’odio nei suoi occhi verdi. “E, credo, potrebbe permettersi un falsificatore di grafie molto facilmente. Mi viene da pensare che il mittente sia lo stesso anche per un altro motivo: la scelta accurata del materiale da inviare ad ognuno di noi. Sembra che stia cercando di creare confusione, di indurre l’uno ad incolpare l’altro della sparizione di Miyako-san. Riporta solo momenti in cui noi eravamo in disaccordo con lei …”
“Vigliacco.” Daisuke tremava. “Ma che vuole? Perché farsi sentire solo adesso?”
“Questa è un’ottima domanda.”
Si fissarono, in silenzio, ugualmente frustrati.
Infine Iori sospirò, di nuovo. “Qualunque sia il motivo, io non ho intenzione di darmi per vinto. Verrò a capo di questa storia, prima che quella persona ci metta tutti nei guai senza che ce lo meritiamo. E’ imperdonabile permettergli di giocare così con le nostre vite.” Poi gli sorrise. “Non devi preoccuparti, se succederà qualcos'altro ci metteremo d’accordo come ora e ne discuteremo insieme-”
“Iori, voglio la verità. Tu sai dov’è Miyako.”
Il sussurro lasciò le sue labbra prima ancora che potesse decidere di dirgli una cosa del genere. Ma Daisuke non riuscì a pentirsi che lo avesse fatto: doveva sapere.
Iori, zittitosi, si irrigidì, fissandolo perfettamente immobile.
“Lo so che lo sai”, continuò lui. “Non ho mai creduto il contrario, in tutti questi anni. Non credi che dovresti almeno dirmi se è così o no?”
“Non è così.” Disse Iori secco.
Daisuke rise, senza gioia. “Da quand’è che dici bugie? Credevo fosse contro la tua etica.”
“Non è così.” Ripeté l’altro, meccanico.
Sapeva che mentiva, se lo sentiva. Non poteva farci nulla nemmeno volendo essere credibile con tutte le sue forze: i suoi pugni stretti lungo i fianchi parlavano per lui. Iori aveva sempre detestato mentire, diceva sempre che suo nonno gli aveva insegnato che si dovesse dire solo la verità, sempre. Se ora mentiva, era solo per Miyako. Perché il loro rapporto era sempre stato speciale.
Eppure … non era giusto. Iori non era il solo a tenerci a lei. Non poteva tollerarlo.
Si passò una mano sulla fronte. “Dannazione, Iori! Non hai forse subìto quanto me la sua pazzia di scappare con quell’individuo inquietante? Non hai forse provato anche tu cosa significhi, non essere stato considerato abbastanza meritevole di sapere cosa stesse succedendo nella testa di Miyako? Non hai forse sentito la sua mancanza, malgrado tutto, ogni maledetto giorno in cui è stata assente? Non lo sai come mi sento adesso?”
Vide lo sguardo di Iori farsi dolente, ma ancora taceva.
Daisuke non ci credeva, di stargli rivelando tutto questo. Non lo diceva neanche a Naganori. Non lo confessava neanche a Takeru. Ma non riusciva a fermarsi.
“Io detesto l’idea di non poter fare nulla. Di dover solo stare a guardare mentre gli altri agiscono.” Fece, e distolse lo sguardo. “Permettimi di fare qualcosa. Dimmi dov’è. Dimmi almeno se sta bene.”
Tacque, imbarazzato, disperato, e l’aria attorno a loro si fece pesante. Non osava sollevare il capo.
E poi Iori parlò.
“Sì, lo so come ti senti adesso.”
Gli mise una mano sulla spalla, la strinse confortante. Daisuke, esitando, incontrò il suo sguardo.
Ricordò tutte le volte che lo aveva preso in giro, chiamandolo frigido. Ricordò tutte le volte che lo aveva considerato un robot, ritenendolo incapace di avere debolezze, come qualunque essere umano.
Sembrava assurdo rendersi conto, ora, che non c’era nessuno come Iori che potesse capirlo.
“Cercala, Daisuke-san. Se vuoi fare qualcosa per lei, cercala.” Sussurrò.
Daisuke sgranò gli occhi.
Cercarla?” Ripeté, incredulo.
“E’ il solo modo per poter fare qualcosa per lei. Ma io non so dove sia, Daisuke-san.” Scandì Iori, significativo, guardandosi intorno ancora una volta. Guardingo fino all’ultimo, anche quando nessuno poteva sentirli. Anche quando Daisuke voleva quell’informazione con tutte le sue forze. Tentò di protestare, ma Iori scosse deciso la testa. “Non metterci nei guai, e non mettere nei guai neanche Miyako-san. Se non sei sicuro di poter essere discreto, lascia perdere e fidati di me. Ma se sei stufo di essere un passivo spettatore … ecco qui. Sai cosa fare.”
La faceva facile, lui: Daisuke non sapeva nemmeno da dove iniziare la ricerca, né come fare ad essere discreto.
Non sapeva nemmeno se Miyako sarebbe stata poi felice di rivederlo.
Non sapeva nemmeno se lo sarebbe stato lui. Dopo tutti quegli anni, tutto quel dolore …
Lo avrebbe detto, a Iori. Avrebbe detto tutto, preteso maggiori dettagli, assicurazioni … ma Iori si congedò con un inchino educato, e gli voltò le spalle, e, sordo a qualsiasi ulteriore richiamo, uscì dal garage, allontanandosi di nuovo dalla sua vita.
A Daisuke non rimase che una cartolina tra le mani.
E un cuore in subbuglio.














Voi non ci crederete, ma è passato solo un mese e torno con l'aggiornamento. Che devo dirvi, qualche volta l'impossibile accade!
Benvenuti ufficialmente nella seconda metà di questa long. Molte cose cambieranno da adesso in poi, prima fra tutte l'aggiunta di nuovi punti di vista (Taichi ne è stato il primo esempio) e l'incremento di qualche altro che nella prima metà non ha avuto troppo spazio. Gli attori di questa vicenda aumentano...
Un pensierino per TheCorpseBride che oggi compie gli anni: la dedica di questo capitolo è per te! E' poca cosa, ma spero ti piaccia ^^
E con questa vi saluto! A presto, spero!

Padme Undomiel


   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Digimon > Digimon Adventure / Vai alla pagina dell'autore: Padme Undomiel