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Autore: SinisterKid    26/04/2015    0 recensioni
- Steve? - chiamò Peggy, la voce incrinata. - Steve! Steve!
Nessuna risposta.
La ragazza si prese il viso tra le mani e iniziò a piangere. Di lui non le restava altro che la promessa di un appuntamento al quale non si sarebbe mai presentato.
(Scritta a quattro mani con PieraPi)
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Peggy Carter, Steve Rogers
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo III

In queste settimane avevo diretto così tante volte lo sguardo verso l'ingresso del locale, che ormai continuavo a farlo per inerzia. Iniziavo a rendermi conto che non era più la speranza a farmi alzare gli occhi, ma la forza dell'abitudine. E ogni volta che il barista mi chiede "il solito?", penso sempre che non si riferisca solo al liquore, ma anche a questa routine. Sabato dopo sabato, a guardare una porta dalla quale Steve non sarebbe mai entrato. Sabato dopo sabato, a continuare a voltarmi in quella direzione, aspettando di scorgerlo sulla soglia da un momento all'altro.
E quando vedo la maniglia ruotare, mi accorgo di stare trattenendo il respiro. Chi entra, però, è la persona sbagliata. È sempre la persona sbagliata. Come potrebbe essere altrimenti? Quella giusta è morta da sei settimane, e io devo iniziare a farmene una ragione.
In realtà, farsene una ragione è impossibile. Il dolore prima o poi si affievolirà, come è successo con quello per Bianca, ma passerò il resto della mia vita a domandarmi "perché proprio lui?". Esattamente come faccio con Bianca.
Erano anni che non riflettevo sulla mia sorellina in questo modo. Con molta difficoltà avevo imparato a pensare a lei soltanto in termini di quello che avevo avuto, i bei momenti trascorsi insieme, e non di quello di cui ero stata privata, ma la morte di Steve sembra aver annullato tutti i miei progressi. La guerra mi ha portato via le due persone più care che avevo, e pare che si diverta a torturarmi anche ora che finalmente sta volgendo al termine, facendo riemergere una sofferenza antica, mentre cerco di fare i conti con una nuova.
Con ironico tempismo, l'orchestra attacca un pezzo blues di Walter Davis, "What's the use of worrying?". Lo riconosco subito perché Bianca amava intonarlo quando era soprappensiero. In effetti, so esattamente cosa direbbe Bianca vedendomi in questa situazione. Direbbe "Guardati, così impegnata a preoccuparti di cose che non puoi cambiare. Trascorrerai tutta la tua vita a cantare il blues, se continui a pensarla in questo modo".
Di nuovo, mi dico che devo iniziare a farmene una ragione. Un primo passo potrebbe essere pagare e andarmene a casa, ma non trovo la forza di alzarmi. Tornare a casa, infatti, è la parte più difficile da affrontare, di questi sabati tutti uguali. Perché quando esco per venire qui, la speranza che ho di incontrarlo diventa fiducia. Sarà pure ingenua, irrazionale e cieca, ma è pur sempre fiducia. E tornare a casa, invece, significa che quella speranza altro non era che un miraggio, una fantasticheria, un'illusione.
E non ho certo così tanta fretta di immergermi nel silenzio del mio appartamento, un silenzio che non fa altro che amplificare quei pensieri con cui mi tormento da quando ho sentito la sua voce per l'ultima volta, fino a renderli fisicamente dolorosi. È vero, con quei pensieri mi tormento sempre, anche qui, anche ora, ma almeno la confusione del locale riesce a distrarmi un po'. Il vociare delle persone si trasforma in un rumore di fondo che mi riempie la testa, e per qualche ora il dolore diventa sfocato, evanescente, lontano.
Rigiro per un po' il bicchiere tra le mani, e poi butto giù tutto d'un fiato il suo contenuto.
Ed è allora che accade. Ad entrare da quella porta è finalmente la persona giusta.
Steve.
Avevo immaginato, aspettato, bramato questo momento decine e decine di volte. Pensavo che se mai fosse accaduto sarei stata pronta, e invece dissimulare lo shock è impossibile. La sensazione è quella di essere completamente sopraffatta, travolta da così tante emozioni improvvise, da non saperle nemmeno distinguere.
- Miss Carter, si sente bene? Sembra che abbia visto un fantasma.
Quante volte mi sono sentita crollare il mondo addosso? Tante. Troppe. Dopo un po' ci fai l'abitudine, e ti dici, ogni volta che succede, che quando capiterà di nuovo non ti farai trovare impreparata, che vedrai l'impatto prima che questo ti colpisca, che avrai il tempo di metterti in salvo. Non è vero niente. Quando il barista pronuncia la parola "fantasma" il mondo mi crolla addosso per l'ennesima volta. Perché è ovvio che si tratta di questo, di un fantasma. Come potrebbe essere altrimenti?
I ricordi tornano agli orrori del fronte. Ho visto tantissimi soldati che, dopo l'amputazione, avevano spesso la sensazione della presenza dell'arto amputato. Come se fosse ancora lì. Si chiama sindrome dell'arto fantasma. È come se il corpo non potesse accettare il terribile trauma subìto. La mente cerca di avere di nuovo il corpo tutto intero. Mi rendo conto che il mio cuore, ora, sta facendo lo stesso. Vuole tornare ad essere tutto intero, e inizia ad immaginare di riavere quel pezzo che gli hanno strappato via. Quel pezzo è Steve.
Steve, che ho appena visto entrare da quella porta, contro ogni logica. Contro ogni ragionevolezza.
Sorrido amaramente. Le allucinazioni non fanno bella figura sul tuo stato di servizio, agente Carter.
Però... non sembra un'allucinazione. Sembra così reale, così vero, così… Steve. Non è… possibile. Non…
No, certo che no. Steve è morto, ricordo a me stessa, nel tentativo di stroncare sul nascere quella follia che si sta prepotentemente e irrazionalmente facendosi strada nella mia mente. Quella follia che vuole che lui sia ancora vivo, e che sia tornato da me.
Una follia, nient'altro. Eppure…
Cerco di fare appello al mio lato razionale. O, almeno, a quello pragmatico: non ho mai avuto un corpo su cui piangere, perché non lo hanno mai trovato. È davvero così assurdo, allora, pensare che possa essersi salvato? No, non lo è. E allora, forse è davvero possibile che si sia salvato.
Possibile, sì. Ma probabile… quanto?
Come posso sperare di farmi una ragione della sua morte, se inizio a pensare ai "se" e ai "ma"? Così, prima di permettere all'entusiasmo di trasformarsi nell'ennesima delusione, mi convinco di essermi semplicemente lasciata suggestionare. E allora, perché non ho il coraggio di distogliere lo sguardo? Sono davvero convinta che sia proprio Steve, in carne ed ossa? Andiamo, agente Carter, ragiona.
Il suo sguardo vaga impaziente per il locale, e poi finalmente mi vede. Ed è nel momento in cui i suoi occhi incontrano i miei, che capisco che non si tratta di uno scherzo della mia immaginazione.
Mi alzo così di scatto che tutto intorno a me si fa nero, e ho il terrore che appena tornerò a vedere, lui sarà scomparso.
Non scompare. E inizia a farsi strada verso di me.
Il locale è rumoroso come sempre, ma i suoni mi giungono ovattati. L'unica cosa che riesco a sentire chiaramente è il cuore che mi rimbalza nel petto, così veloce che sembra quasi che abbia imparato a battere per la prima volta.
Dieci metri.
Cinque.
Due.
Uno.
Ora a separarci non c'è più niente, tranne la parte razionale di me che cerca di convincermi che niente di quello che sto vedendo è vero, che mi sto immaginando tutto. Un ultimo, estremo, disperato tentativo di proteggermi dal dolore.
- Ciao - dice semplicemente, rivolgendomi un sorriso impacciato.
Non rispondo. Ho così tante cose da dirgli, che non so nemmeno da che parte iniziare. Almeno rispondi al saluto, sorellona, dove hai lasciato le buone maniere? mi prenderebbe in giro Bianca. Ma la verità è che non posso dirgli "ciao" e poi rischiare un altro "addio". Non prima di essermi accertata che tutto questo sia reale.
- Sei - inizio, ma non mi lascia finire la frase.
- In ritardo.
Eccome se lo sei, vorrei ribattere, anche solo per allentare la tensione che ho dentro, ma dalla mia bocca esce qualcos'altro.
- Vivo.
- Oh. Già. Anche quello.
Vivo. Steve è indiscutibilmente, inequivocabilmente, miracolosamente... vivo.
In un attimo, i colori si fanno più brillanti, i profumi più dolci, i suoni meno stridenti. Mi sembra quasi di essere tornata a vivere una vita a cui mi ero rassegnata a fare da spettatrice.
Ok, Peggy, per quanto ancora vuoi far finta che tutto questo sia un'illusione? Hai già perso fin troppo tempo.
Gli getto le braccia al collo con uno slancio e un vigore che credevo di aver perduto per sempre, dopo aver passato giorni e giorni a trascinarmi nell'apatia. Lo stringo forte a me, terrorizzata all'idea che potesse scivolarmi via come acqua tra le dita. E dal modo in cui Steve mi stringe a sua volta, credo che la paura per lui sia la stessa.
Restiamo abbracciati per un tempo lunghissimo, completamente dimentichi del mondo intorno a noi. È Steve a sciogliersi per primo dalla stretta, ma solo per potermi prendere la mano e accompagnarmi sulla pista dove decine di coppie volteggiavano spensierate al ritmo della musica.
- Ti devo ancora un ballo - mi sussurra all'orecchio.





   
 
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