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Autore: SinisterKid    26/04/2015    0 recensioni
- Steve? - chiamò Peggy, la voce incrinata. - Steve! Steve!
Nessuna risposta.
La ragazza si prese il viso tra le mani e iniziò a piangere. Di lui non le restava altro che la promessa di un appuntamento al quale non si sarebbe mai presentato.
(Scritta a quattro mani con PieraPi)
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Peggy Carter, Steve Rogers
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II

Mi pettino i capelli lentamente, così pian piano da non percepire neanche il movimento debole e forzato che la mia mano compie. Evito il mio riflesso alla specchiera perché ho paura di ciò che potrebbe rivelarmi, della persona che potrebbe mostrarmi se gliene concedessi l’occasione: è da giorni e giorni e giorni che mi riconosco a malapena e non riesco ancora a raccogliere i pezzi di me stessa che sono andati in frantumi quel giorno. Darei quel poco che mi resta pur di strapparmi il cuore dal petto, calpestarlo e gettarlo via lontano, piuttosto che sopportare questo dolore, questa perdita, e farci i conti ogni singolo giorno della mia esistenza, piuttosto che intaccare e avvelenare i ricordi, le emozioni, i sentimenti, che conservo gelosamente nell’angolo più remoto della mia mente. Ma per quanto mi impegni, per quanto dannatamente mi impegni, sono annegata in una sofferenza muta, spietata, dalla quale non sono in grado di risalire. Ai soldati sta la sopportazione, ai civili spetta il lutto più buio e profondo e per quanto mi impegni, per quanto dannatamente mi impegni ad agire nel modo in cui agirebbe l’agente Carter, non potrò mai essere capace di reggere tutto ciò come fosse la ferita di un proiettile e ritornare immediatamente in piedi, pronta all’attacco.
Questa guerra non è destinata ad essere vinta da me.
Metto il rossetto concentrandomi solo sull’immagine delle mie labbra e mi trascino fuori casa, verso l’unico posto dove ho il dovere di andare, verso l’unico posto dove la futile, inconsistente, necessaria, speranza spinge il mio corpo stanco a dirigersi, nell’unico posto in cui è convinta lui potrebbe tornare.
Allo Stork Club, come ogni sabato.
Il mio tragitto è una faticosa e ansiosa passeggiata in cui immagino e immagino momenti che non accadranno mai, parole che non verranno mai pronunciate e gioie e aspettative mai realizzate. Si sente nell’aria, quasi la si tocca, questa delusione, questa tristezza che appesantisce il respiro e l’anima; tutti e nessuno sono soli in questa grande tragedia: la guerra è stata vinta, sì, ma qual è il prezzo da pagare? Dando un’occhiata intorno mi accorgo che di signorine dagli occhi tristi come me ce ne sono a decine e decine a New York, più di quante se ne possano contare in venti mani. Promesse spose, giovani madri e fidanzatine appena adolescenti che non riescono a capacitarsi dell’enorme perdita subita e che si lasciano andare ad uno sconforto che le segnerà per sempre. Si riconoscono subito dagli occhi bassi e iniettati di sangue, il pallore e la magrezza cadaverica di chi non mangia da giorni e il cuore sfregiato da invisibile e insanabili cicatrici. Loro al proprio amato non hanno potuto dire addio, tantomeno seguirlo e assisterlo durante la battaglia: non riesco a smettere di pensare a cosa avrebbero dato pur di essere al mio posto e poter parlare un’ultima volta; scommetto che mi considererebbero addirittura fortunata, davvero fortunata per aver amato un grande uomo, l’eroe della nazione, l’unico e solo Capitan America.
Ma loro non sanno che io non ho mai amato l’icona nazionale, il simbolo che egli era per la popolazione: io ho amato il piccolo uomo, colui che mi avrebbe pestato i piedi ad un appuntamento. Io ho amato Steve, ho detto addio a Steve, il mio cuore si è frantumato per lui. La mia più grande fortuna è stata lui e sapere che l’amore che non potremo avere verrà vissuto da altre migliaia di persone è pur sempre una consolazione. È quello che avrebbe voluto Steve ed è quello che ho il dovere di preservare da nuove guerre per rispettare il suo sacrificio e la sua eredità.
Vorrebbe certamente anche che vivessi e proseguissi con la mia vita, ma l’agente Carter non può occuparsi di questioni private.
L’armoniosa e adorabile melodia dell’orchestra dello Stork Club mi accoglie come un amichevole abbraccio. Suonano un brano di Ella Fitzgerald e i clienti sembrano godere di tale musica e, chi può, di una piacevole compagnia. I più esuberanti trascinano i più timidi a ballare, mentre il resto non esita a brindare alla propria salute ogni volta che il cameriere versa altra birra. Alcuni malconci, alcuni invalidi e mutilati, eppure tutti felici di essere tornati a casa. Mi scappa un sorriso ammirando e invidiando il loro stato d’animo perché so quanto Steve avrebbe amato sentire le loro risate e vedere i loro cari felici di riaverli al proprio fianco. E avrebbe amato soprattutto i dilettanti ballerini che si cimentano maldestramente nei romanticissimi lenti offerti dall’orchestra. Una coppia, in particolare, rapisce la mia attenzione. Ballano quasi ai margini della pista, come se vogliano celarsi agli occhi del mondo e perdersi in un universo tutto loro. Lei, non più di diciotto anni, è uno scricciolo dai capelli neri che si muove appena in un vestito rosa a pois bianchi: giovane, ma non così ingenua e vivace. Pare averne vissute parecchie e scommetto che il giovanotto a cui è avvinghiata è la causa della sua espressione segnata. Lui so per certo da dove è arrivato: ha una benda sull’occhio sinistro e alcune falangi mancanti in entrambe le mani. Ha i capelli rossicci e delle lentiggini che gli addolciscono un volto usurpato dalle barbarie della guerra; tiene stretta la sua ragazza come se potesse scivolargli dalle poche dita che gli sono rimaste e non esita a farla ridere di tanto in tanto.
“Un giorno io e Tom balleremo in uno di quei club newyorkesi, vero Peg? In uno di quelli dove suonano il jazz e le cantanti sono belle da mozzare il fiato … vero, sorellona?”
Tutto mi è così familiare, così incredibilmente insopportabile. Anche Thomas amava far ridere la sua – la nostra – piccola Bianca. Ricordo ancora i giorni in cui la mia sorellina toccava il cielo con un dito e non perdeva occasione di canticchiare in casa i pezzi che aveva ballato la sera prima con lui. Volteggiava per i corridoio fischiettando mentre io mi preparavo al severo arruolamento che mi aspettava. Ricordo il tenero modo in cui mi guardava e i grandi sogni che mi raccontava riguardo alla Grande Mela e quello che avrebbe fatto una volta arrivata lì. Voleva recitare e rendere me e Tom orgogliosi: non faceva altro che ripeterlo, come se noi due fossimo più importanti perfino di se stessa.
“Arruolarti sarà solo il primo passo, me lo sento. Eccome se me lo sento! Tu sei destinata a molto più di questo, Peg. Sì, lo sei”.
Aveva un grande cuore, Bianca, e anche lei era destinata a molto più di quello che aveva a Londra. Era destinata, prima di tutto, a vivere.
“L’abbiamo trovata distesa su un bambino: pensiamo lo stesse proteggendo, pensiamo che sia morta per salvarlo. Sua sorella è un eroe”.
“Noi degli eroi non ce ne facciamo niente!”, aveva gridato Tom sconvolto. “Noi dovevamo sposarci, sposarci!”
Sento le lacrime pungermi gli occhi e decido di sedermi sullo sgabello davanti al bancone. Mi reggo in piedi a malapena e appoggio entrambi i gomiti sulla liscia superficie che mi sta di fronte.
- Buonasera, miss Carter - esulta il barista. - Il solito?
Annuisco appena e mi sforzo di guardarlo in faccia, detesto dar a vedere la mia sofferenza.
- Le ho già detto che adoro il suo accento, miss Carter? - finge di chiedermi per tirarmi su di morale.
Infinite volte ha dichiarato la sua simpatia per il mio accento e infinite volte gli ho sorriso per poi dargli le spalle rivolgendo lo sguardo ad un ingresso da cui non sarebbe mai entrato chi aspettavo con grande ardore. Ma stasera sono troppo esausta e lascio che la frustrazione abbia la meglio. Non mi volto e sorseggio quello che mi viene offerto dalla casa, mentre la banda suona la canzone del momento, “Till The End of Time”, e scioglie il cuore di chi ha promesso di amarsi fino alla fine.
- Un altro - chiedo gentilmente al barista.
Mai come stasera mi è chiaro come si sia sentito Steve quando tentava di annegare il dolore immenso per la morte di Bucky bevendo. Mai come stasera vorrei stringerlo a me.
Mi volto, solo una volta, una sola.
Niente, cosa credevo di trovare?





Note: Bianca Carter è un personaggio inventato da me e PieraPi semplicemente per aumentare il carico di dolore per Peggy. Lo so, siamo sadiche.
   
 
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