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Autore: TheNewFrontiersman    28/04/2015    1 recensioni
Una ragazza come tutte le altre, persa nella Grande Mela. Una ragazza pervasa da una curiosità illimitata e un essere misterioso. Entrambi non possono sopportare la propria immagine riflessa nello specchio. Due vite monocromatiche. Ma c'è chi vede grigio e chi vede bianco e nero...
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Rorschach/Walter Kovacs
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Mi stavo decisamente annoiando. Camminai per un po' senza sapere nemmeno dove mi trovavo. Guardai l’ora, erano le 17.30. 

 

Ricordo che di solito, a quell’ora, andavo con Louise in un bar molto carino della mia città natale che si chiamava…no, non ne rammento decisamente il nome…eppure al suo interno si respirava una bella atmosfera. Ci trovavamo bene, io e Louise. Louise era la mia migliore amica, come una sorella, per me. Sono cresciuta con la sua famiglia. Sorrisi in un attimo di nostalgia: nelle mie narici, il ricordo di un odore familiare; odore di casa. Non lo sentivo da troppo tempo, mi mancava la mia adolescenza passata in un paesino senza pretese, che era tutto il contrario rispetto all'immensa metropoli in cui mi trovavo. Nella bocca, invece, un gusto familiare tornava a solleticare le mie papille gustative. Ginger Ale, il nostro cocktail preferito. Di solito stavamo in quel bar per ore, a chiacchierare di gente che nemmeno conoscevamo e bevevamo Ginger Ale. Eravamo le uniche alle quali piacesse quella strana bevanda, troppo dolce per i palati degli altri. Assaporavo la tenera malinconia che si avvinghiava tenace ai miei ricordi mentre con la mente tornavo a quei momenti ormai lontani.

 

Senza accorgermene, avevo arrestato il mio incedere a casaccio per le vie della Grande Mela, e adesso la mia testa era leggermente voltata verso un piccolo bar, che guarda caso somigliava in modo incredibile al locale in cui io e Louise usavamo darci appuntamento. Distrattamente, l'occhio mi scivolò sui tavolini che s'intravedevano attraverso la grande vetrata che fiancheggiava l'ingresso. Fu allora che la vidi: non potevo crederci, ma proprio seduta ad uno di quei tavoli c'era la mia cara amica d'infanzia. Cosa ci faceva a New York?

 

Entrai nel bar senza nemmeno pensare, Louise mi mancava terribilmente…non la vedevo ormai da 5 anni, dalla mia prima volta in prigione. Non era mai venuta a trovarmi, me ne accorgevo solo adesso; 

 

Oh beh, avrà avuto altro da fare.

 

La vidi alzarsi dal tavolino e notai solo allora che indossava un grembiule. Lavorava là e forse il posto era anche suo, visto che si poteva permettere di sedersi un poco a chiacchierare con quelli che sembravano clienti abituali. Cercai di attirare la sua attenzione, ma era alquanto indaffarata, perciò aspettai che avesse meno gente attorno. La guardavo servire ai tavoli e sorridere ai clienti: pareva avvolta da un'aura lucente. Era un po' come nei film, quando ci sono le scene col rallenty, quelle lentissime dove un sorriso viene talmente prolungato da farti vomitare miele. Una cosa idilliaca, insomma, che contribuiva ad accrescere la mia nostalgia del passato. Ebbi modo, in quella frazione di tempo dilatato, di notare il piccolo cerchio dorato che cingeva il dito della mia vecchia amica…immaginavo che prima o poi si sarebbe sposata con Gregory, un energumeno con cui conviveva da quando aveva solo diciotto anni…non capirò mai cosa ci trovasse, in quel tipo; allora come anche adesso, dopotutto. Sì, perché qualcosa mi diceva che all'interno di quella fede c'era proprio il suo nome. Era un po' invecchiata, la mia cara amica d'infanzia, forse proprio a causa della vicinanza di quel tipo che, se non si fosse capito, mi stava decisamente sulle scatole. Ora Louise dimostrava almeno dieci anni più di me, nonostante fossimo coetanee. I capelli inanellati, un tempo di un bel biondo chiaro e lunghissimi, erano ora imprigionati in un severo chignon, e parevano essersi smunti a furia di costringerli in quella rigida posizione circolare. I pochi ricci che adesso spuntavano qua e là dalla pettinatura erano per metà candidi, molto lontani nell'aspetto da quelli che restavano impressi nei miei ricordi adolescenziali: dorati e selvaggi, liberi di volteggiare nell'aria di quel posto sperduto in mezzo al Texas. Avevo sempre invidiato la bella chioma voluminosa di Louise, ma ora mi pareva triste e priva di attrattiva. Le sue espressioni però erano sempre quelle, e di certo non aveva perso il suo smalto; l'attitudine a socializzare che da sempre le apparteneva la rendeva brillante e le permetteva di ingraziarsi la clientela. Mi chiesi quando l'avrebbero lasciata respirare.

 

E finalmente eccola lì, davanti a me. Lo sguardo basso  sul taccuino delle ordinazioni, già pronta a scrivere mentre mi domandava cosa volessi da bere. Doveva aver avuto una giornata pesante, per non riuscire a sollevare la testa e guardare in faccia l'ennesimo cliente. Dapprima me ne dispiacqui, ma poi iniziai a pregustare il suo sguardo sorpreso: non appena avrebbe alzato la testa, i suoi grandi occhi nocciola si sarebbero spalancati, e avrei avuto modo di ammirare un gigantesco sorriso dipingersi su suo volto, entusiasta nel rivedermi spuntare dal nulla dopo secoli.

 

E avevo ragione, almeno in parte. Appena mi vide, gli occhi li spalancò davvero. Mancava solo un piccolo dettaglio: il sorriso. Aveva senza ombra di dubbio uno sguardo sorpreso, ma non mi sembrava affatto fosse sorpreso in senso positivo. Gli angoli della bocca si abbassarono velocemente e potei notare tutta la luce che emanava fino a poco prima spegnersi di colpo. Quando aprì bocca, dopo qualche secondo di assoluto silenzio, la sua voce mi travolse come un tornado, esplodendomi in faccia con una violenza che non mi sarei mai aspettata. Louise stava gridando come gridava la mamma quando scorgeva un ratto aggirarsi per casa, allarmando chiunque si trovasse nei paraggi.

 

“Fuori dal mio locale! Vattene da qui! I galeotti non sono ben accetti in questo posto! FUORI! Gregory, mandala via! ” stava proprio dando di matto.

Ero allibita. Alla sorpresa si unì l'imbarazzo, e all'imbarazzo si congiunse la vergogna. La delusione aleggiava su tutte le mie sensazioni come un oscuro presagio di morte, aggiungendo al già terribile cocktail emotivo un'angoscia insopportabile. 

Tutto il locale si era girato verso di me. Avevo di nuovo tutti gli occhi puntati addosso, proprio come allora, non sapevo cosa pensare o fare. Quegli sguardi…era come se mi braccassero. 

L'unica cosa che desideravo era scomparire dalla faccia della Terra. Avevo incassato il colpo, eppure ancora non ne ero del tutto cosciente: era arrivato troppo all'improvviso perché potessi accorgermene. Mi sentivo intontita peggio di una bestia a cui viene fritto il cervello prima che venga sgozzata. Peggio delle ragazze in discoteca, drogate prima di uno stupro.

Di fianco a me era comparso Gregory, con la sua solita stazza da giocatore di football e la stessa faccia da idiota, quella di cinque anni fa, eccetto per il fatto che adesso era stempiatissimo e il suo stomaco gonfio accertava la fama di bevitore incallito che già aveva iniziato a costruirsi quando ci frequentavamo. Se proprio devo dirlo, mi faceva abbastanza schifo, ora più che mai.

Scimmione senza cervello.

 

Mentre lo insultavo mentalmente, sentii una fitta tremenda al braccio destro, subito prima di accorgermi che la sua mano da gorilla me lo stava stritolando. Senza dire una parola, mi tirò con forza e cercò di trascinarmi fino all'uscita del locale. Quando tentai di ribellarmi, la presa si fece più salda: faceva un male cane, posso giurarlo. D'altronde, per lui non era certo difficile tenermi a bada; nonostante non esercitasse molta pressione sul mio arto, potevo sentire gli scricchiolii delle articolazioni. Se avesse usato tutta la sua forza avrebbe potuto spezzarmi le ossa senza alcuno sforzo, perché ero di costituzione fin troppo esile. Per questo le prendevo sempre da quella famosa Beth del quinto anno. Dovetti seguirlo, il dolore era troppo forte per permettermi di reagire.


Non avevo nemmeno la forza di parlare, mentre attraversavo il corridoio fino alla porta. Sempre quei dannati occhi puntati addosso a me.

Venni scagliata fuori dalla porta come un sacco d'immondizia. Perfino adesso non saprei descrivere appieno come mi sentivo in quel momento. Si era messo a piovere fuori, e forse anche dentro di me. Caddi sull'asfalto bagnato inzuppandomi i vestiti e facendomi pure abbastanza male, la leggendaria delicatezza di quell'armadio di Gregory, a quanto pareva, era rimasta immutata nel tempo. La pioggia mi sferzava violenta il viso e tremavo per il freddo.

 

“Gregory…perché…perché mi fate questo? Io…sono vostra amica! Volevo solo salutarvi, dopo tutto questo tempo io…” sentivo le lacrime pronte a sgorgare dai miei occhi come cascate, ma cercai di resistere.
“Peccato che tu stia facendo un grosso errore, zuccherino”. L'omone sfoggiava un disgustoso sorriso da Neanderthal.

Il mio viso rifletteva le mille domande che mi vorticavano nella testa.

“Non ci arrivi? Non fare la finta tonta. Eri, mia cara…ERI nostra amica. Sai come si è sentita Louise dopo il tuo arresto? Te l'aveva detto di stare attenta! L’hai delusa! E due mesi dopo essere uscita ti sei fatta arrestare di nuovo. Sei solo una delinquente! Hai rovinato la reputazione di Louise, che era tua amica! Non hai pensato al bene delle persone che ti hanno accolto? Non vogliamo più avere niente a che fare con te, è abbastanza chiaro ora?!” 

Mi voltò le spalle bofonchiando un finissimo "stronzetta".

 

Vergogna. Ecco cosa stavo provando.


Mi rialzai senza aprir bocca. Con gli occhi fissi sulle gocce di pioggia che s'infrangevano come bombe sul marciapiede, sentii la porta del locale richiudersi con violenza, ma non riuscii ad alzare lo sguardo. Alcuni passanti mi guardavano senza capire cosa stesse succedendo e anch'io a dir la verità non stavo capendo molto. Non avrei mai immaginato di aver creato problemi a Louise e alla sua famiglia. Mi sentivo un'egoista, ma non sapevo quanto fosse giusto ciò che pensavo, era tutto troppo improvviso, tutto troppo sfocato per riuscire a vederci chiaro. Letteralmente. Le mie guance erano fradice, e non solo a causa della pioggia. La pelle del mio viso era ora attraversata da due piccoli rigagnoli salati, che non ne volevano sapere di esaurirsi. Forse, in fondo, Gregory non aveva tutti i torti.

Mi accorsi che una bambina mi stava indicando.

 

“Mamma, mamma! Perché l’hanno fatta cadere per terra?”

 

Aveva tutta l’aria di essere l'unica figlia di una di quelle famiglie esageratamente ricche, che sicuramente la viziava, dato che era vestita di tutto punto, come se fosse appena uscita da una casa delle bambole. 

 

La madre, si vedeva lontano un miglio, aveva la faccia della classica donna che si fa mantenere dal marito, non certo di una che si sporca le mani lavorando. Capelli ossigenati e cotonati, orrendi occhiali da sole leopardati e pelliccia, il tutto decorato con vari gingilli scintillanti di pessimo gusto, di quelle cose che più sono trash e più costano. E si sa, i ricchi abboccano sempre quando si tratta di sperperare denaro in sciocchezze orripilanti. 

La signora zittì la figlia: “Insomma Jane, la gente cattiva come lei non va nemmeno guardata! Non tutti sono brave persone come noi” e se ne andarono. Ammetto che passai un minuto buono ad insultarle mentalmente.

 

...Pregiudizi del cazzo.

 

Guardai dall’altra parte del vetro, per l’ultima volta. 

Louise discuteva con il suo amato scimmione e probabilmente parlavano di me. 

Quella che fino a pochi minuti fa consideravo la mia unica e vera amica, ora mi sembrava la più distante delle estranee.

D'un tratto i nostri sguardi s'incrociarono di nuovo, per l'ultima volta, e sono certa che in quel momento la mia espressione fosse la stessa di quei cuccioli di cane indesiderati, abbandonati in una scatola di cartone. Senza dir nulla si avvicinò alla vetrina e guardandomi in cagnesco tirò la cordicella che pendeva dalla cornice, srotolando con violenza la tenda, per non vedermi più. Doveva proprio odiarmi. 

Era ovvio che mi avrebbe dato fastidio uno sguardo che lasciasse trasparire la pena che avrebbe potuto provare nei miei confronti, ma sarebbe stato comunque meglio di quello sguardo gelido che mi trapassava l'animo da parte a parte come una freccia di ghiaccio nel torace.

Rassegnata, girai i tacchi e m'incamminai verso una meta ignota, di nuovo.

 

Non ricordo nemmeno per quanto camminai. Le mie gambe si muovevano da sole e tutto il mio corpo le seguiva come se appartenesse a un automa, più che a un essere umano dotato di coscienza. I miei occhi dovevano sembrare vitrei e privi di vita, mentre fissavano scorrere l'asfalto sotto i miei piedi. Ma io guardavo oltre: ciò che osservavo non era il marciapiede, bensì le immagini di Louise che mi scorrevano nella testa come un film. Sono sicura che nel mio sguardo si potesse chiaramente scorgere, se solo si fosse prestata la dovuta attenzione, pezzi di pellicola ritraenti la mia vita. Rullini chilometrici che scorrevano tanto veloce da essere normalmente invisibili alla vista degli altri. Ma non alla mia, non al mio cuore. Quando anche l'ultimo fotogramma mi passò davanti, quando la tenda della vetrina fu tirata per l'ennesima volta, nascondendo l'espressione disgustata della donna che un tempo avevo chiamato sorella…tornai alla realtà.

Era buio e com'era ovvio non ero più nella via di prima; non ero nemmeno ero vicina alla caffetteria…ero…dove cavolo ero? 

 

Fantastico, mi sono persa, ci mancava solo questa! E’ buio, fa freddo…che giornata di merda.

   
 
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