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Autore: Kim WinterNight    29/04/2015    3 recensioni
«Ciao, cari lettori.
Mi presento: mi chiamo Albertina, per gli amici Berty. Ho quindici anni e vivo in Italia, precisamente in un paese fittizio che chiamerò… mmh… Bettola town.
Okay, lo so, il nome può sembrare buffo e non attinente al nostro caro Stato Italiano (Repubblica fondata sul Lavoro e bla bla bla), ma sfido chiunque a trovare un nome migliore di questo!»
Spero che la storia vi piaccia.
Non sono solita scrivere comici, però per queste vicende sono davvero ispirata e ho preso spunto da un sogno che ho fatto recentemente.
NOTE: tutti i personaggi sono di mia modesta invenzione e qualsiasi riferimenti a luoghi o persone è puramente casuale.
Genere: Demenziale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Checco?!










Non è che il compleanno di Mauro abbia migliorato le cose, anzi.

Certo, per Tita e Gabri è tutto una favola, ma si sa, loro sono rammolliti innamorati, cosa ci si poteva aspettare?

Be', anche se sono cinica, voglio che tra loro due duri, anche se non posso perdonare Gabriel per avermi baciato. Che schifo, ho i brividi al solo pensiero.

Cosa possono trovare, comunque, di attraente in me? Niente, certo.

Mi vesto e mi comporto come un appartenente al genere maschile, non so come potrei suscitare pensieri scabrosi e seghe di fronte ad una mia foto...

Queste porcherie mi fanno sentire sporca, anche se non c'entro niente con certe frivolezze.

Quando rientro a scuola, lunedì, so già che mi romperanno le palle.

«Albertina, stai bene?»

«Ehi, Berty! Avevi bevuto troppo alla festa?»

«Mauro è una schiappa a letto, eh?»

«Non capisco come tu possa aver vomitato... chinque pagherebbe per guadagnare le avances di un ragazzo come lui!»

«Non sei gelosa di Giuditta e Gabriel?»

Alt! Quest'ultima frase la pronuncia una delle galline della mia classe, che osserva con sguardo malizioso le dita intrecciate dei miei amici. Questo è veramente troppo.

«No, tesoro» ribatto, sfoderando un dolce sorriso innocente, «sono gelosa di te.»

Lei mi guarda stranita e se ne torna al suo posto, scuotendo il capo.

È talmente stupida che non perdo neanche tempo a spiegarle il concetto.

«State tranquilli» dico a Tita e Gabri, che si scambiano occhiate preoccupate. Sorrido e aggiungo: «Non sono gelosa».

Poi esco dall'aula.

La ricreazione è cominciata da poco e incontro mia madre di fronte ai distributori automatici.

«Non vorrai prenderti un caffè, Albertina» mi rimprovera, pigiando convulsamente sul tastierino numerico.

«Mi perseguiti?»

«Certo che no! Penso solo al tuo bene» ribatte, voltandosi a guardarmi. Con quel completo austero e serioso, sembra quasi credibile come severa e rispettabile professoressa di matematica.

Sto per dire qualcosa, quando accade un fatto inspiegabilmente meraviglioso.

«Scusi, prof, si sposta? Devo prendermi un caffè. E comunque lasci in pace gli studenti, ha sempre da ridire su tutto, insomma!»

Un ragazzo dall'aria simpatica e i capelli arruffati si palesa accanto a mia madre. Sembra essere dell'ultimo anno, ma non mi sembra di averlo mai visto in giro.

L'espressione della mia genitrice, mentre lo fissa, muta rapidamente. Se prima era sorpresa, ora ho l'impressione che sia felice... felice?

Un momento, il mondo ha cambiato direzione?

Se qualcuno si rivolge a lei in quel modo, di solito sclera come pochi esseri umani sono capaci di fare e comincia a sbavare come un cane rabbioso, con tanti di occhi iniettati di sangue. Okay, ammetto che quest'immagine è un po' stomachevole, ma non trovo altro modo per descrivere i deliri di mia madre in preda all'ira.

In questo caso, invece, sembra un cagnolino bastonato e devoto al padrone. Sono allibita.

«Checco? Ah!!!!!» strilla, rischiando di rovesciare il decaffeinato che ha appena estratto dalla macchinetta. Afferro giusto in tempo il suo bicchiere, poi osservo inorridita la scena di lei che si getta come uno squalo al collo di quel giovane e aitante Checco.

Checco?!

Lo stomaco mi si contorce e sarei tentata di buttar giù quella brodaglia sine caffeina con bicchiere a corredo.

«Ti sei ricordato di noi, giovanotto? Ah, che bello vederti!» continua a squittire Maria Vittoria, stritolando il malcapitato.

Qualcuno mi prenda a schiaffi, ne ho bisogno.

«Prof, non le sembra un po' eccessivo? Potrebbe perdere la sua reputazione per colpa mia, non sia mai» commenta lui, con tono altamente sarcastico. Non ho mai visto nessuno trattare così mia madre, eppure lei sembra non farci caso.

«Chi se ne fotte della reputazione?» risponde, allegramente.

Io, rendendomi conto che sono lì come un palo nel deserto, mi schiarisco rumorosamente la voce.

«Mamma?»

il tizio – tale Checco – mi rivolge un'occhiata strana, come se stesse guardando un alieno appena sbarcato da Marte. Ottimo.

«Lei è sua figlia?» domanda, rivolgendosi a mia madre, mentre lei si degna di lasciarlo andare e mi strappa il bicchiere rovente dalle mani. Per lo shock che provo, sono diventata insensibile al dolore della plastica che si stava squagliando sulle mie dita.

Sentendomi improvvisamente più sicura e tirata in causa, sollevo il mento e lo squadro con il mio solito disinteresse, poi intervengo: «No, Frankestein, sono una senzatetto che cerca di farsi adottare da una professoressa squilibrata».

Checco spalanca i suoi piccoli occhi azzurri e scoppia a ridere. A ridere di gusto, come un idiota e come...

Come, probabilmente, riderei io ad una battuta del genere.

Mi sento improvvisamente allarmata, come se qualcosa non andasse. Non credo che nel mondo possa esistere qualcuno capace di ridere ad una delle mie battute infelici, quelle fatte apposta per ferire gli altri. In quel momento stavo cercando di ferire mia madre, che mi stava deliberatamente ignorando e mi aveva – per giunta – usato come porta bicchieri personalizzato. Poi, volevo anche umiliare quel troglodita con le sopracciglia che sembravano spazzolini da denti e l'espressione rapace, mentre se la spassava alle mie spalle con Maria Vittoria alias mia madre.

Okay, forse sto esagerando, però io sono fatta così, non posso cambiare per nessuna ragione al mondo, specialmente quando voglio che qualcuno mi stia alla larga. Portare fuori il peggio di se stessi è un'arte che bisogna imparare e non metterla mai da parte, se capite cosa intendo.

Insomma, Checco Spazzolino sta ancora ridendo, quando io scrollo le spalle e mi volto verso la macchinetta, irritata. Ovviamente non lo do a vedere, figuriamoci. Mai dare soddisfazioni a tali esemplari, specialmente se se l'intendono con la propria genitrice fuori di testa.

«Sveglia sua figlia, prof. Quanti anni ha? Le assomiglia.»

Questo è il colmo.

Io assomiglio a lei? Sono sempre più convinta di essere stata adottata/trovata sotto un cavolo/portata dalla cicogna/abbandonata dentro un cassonetto, ma evito di fare commenti. Oggi mi sto controllando bene, sono abbastanza fiera di me.

«Sai, Albertina» strilla mia madre, appropriandosi con un gesto rapido delle monete che sto per introdurre nel distributore (gazza ladra senza scrupoli!), «Checco è stato uno dei miei studenti migliori.»

«Peggiori, prof, vorrà dire!»

Qualcosa non quadra.

«È stato?» chiedo, stranita, poi sbuffo e incenerisco Maria Vittoria con lo sguardo. Ha deciso che non devo bere il caffè e non demorde neanche di fronte a quell'estraneo. Devo inventarmi qualcosa e subito.

«Oh sì, ormai si è diplomato. L'anno scorso.»

«Ma pensa» borbotto.

«Su, un po' di entusiasmo, signorina!» mi schernisce quel Checco, passandosi una mano tra i capelli un po' ricci e scuri che gli arrivano quasi alle spalle.

«Vorresti che mi mettessi a saltellarti intorno, facendo le feste? Mi chiamo Albertina, non Maria Vittoria.»

«Prof, sua figlia è proprio forte! Cavoli! Bene, io adesso me ne vado, eh? Ci si vede, mi stia bene!» afferma lui, sorridendo come un ebete di fronte a mia madre.

«Anche io devo scappare» dice lei, mostrandomi discretamente le monete che mi ha rubato. Mi viene voglia di strapparle la mano a morsi. «Ciao, caro, passa presto a trovarmi» aggiunge, per poi baciarlo su entrambe le guance e volare via, leggiadra come una falena. Mi immagino di schiacciarla con il pollice e un sorriso soddisfatto si dipinge sul mio viso, mentre estraggo altri cinquanta centesimi dalla tasca dei jeans. Gazza ladra 0 – Albertina 1.

Checco, intanto, è ancora lì imbambolato e mi fissa con un'espressione che trasuda ammirazione.

Ammirazione?

«Che guardi? Su di me il tuo fascino non attacca. Maria Vittoria sembra soggiogata da te, invece. Pensa che onore.»

«Il tuo sarcasmo verrà domato, ragazzina» dice di punto in bianco, fissandomi negli occhi.

Senza battere ciglio, ritiro trionfante il mio caffè, pensando soltanto alla soddisfazione di aver messo al tappeto il presunto potere sconfinato della prof Bartolini (non chiedetemi perché mia madre utilizzi da sempre il cognome di mio padre, non ne ho idea e preferisco non pensare a chissà quale promessa d'amore si sono fatti o al significato scabroso di questo dettaglio).

«Ma non te ne stavi andando?» gli chiedo con noncuranza, sorseggiando la mia bevanda. Sussulto quando mi scotto la lingua e trattengo a stento un'esclamazione infelice.

Lui mi guarda e sorride. È un osso duro, non sembra affatto impressionato dal mio modo di fare.

La cosa, lo ammetto, un po' mi spiazza, eppure non glielo do a vedere neanche se mi paga tre milioni di euro in contanti.

«Faccio il tecnico del suono, sai.»

«Interessante.»

«Vero? Be', non si sa mai che ti serva per qualche festa... in ogni caso, sì, me ne stavo andando.»

Quel suo tono impertinente mi fa innervosire, ma rimango comunque impassibile e finisco in fretta di bere il caffè.

Checco mi sorride ancora, strizzandomi l'occhio, poi conclude: «Temo che ci vedremo spesso, prossimamente. Collaboro con la scuola per l'assemblea musicale».

E se ne va, lasciandomi lì.

Come una deficiente.

Sì, mi sento proprio così in questo momento.

Fortunatamente, non sono una che si lascia influenzare da certe cazzate, così getto con calma il bicchiere vuoto e, dopo essermi leccata le labbra, me ne torno in classe.

Ma poi... Checco... come cazzo si chiama davvero?!

  
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