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Autore: WolfEyes    30/04/2015    0 recensioni
Questa Fan Fiction ha partecipato al contest indetto da ellacowgirl in Madame_Butterfly sul forum di EFP, "Le Dodici Stanze-Chi la dura la vince" (breve descrizione del contest all'interno del primo capitolo)
La raccolta si basa su una serie di One-Shot che vedranno Naruto alle prese con situazioni e personaggi sempre diversi, ma ciò non dipenderà solo dalla mia fantasia! Leggete numerosi e fatemi sapere cosa ne pensate!;)
Capitolo 1- "« Non so se l’hai notato, ma siamo su una dannata isola deserta, sotto il sole cocente per dieci ore al giorno… Che altro dovrei bere? »"
Capitolo 2- "Forse Sasuke ci avrebbe messo ancora un po’ ad abituarsi a non avere paura dei temporali, ma certo era che quel giorno non sarebbe piovuto."
Capitolo 3- "« Sto cercando di slacciare il reggiseno »"
Capitolo 4- "La prossima volta che Rock Lee propone film come Knowing e Il quarto tipo mi devo ricordare di mandarlo a quel paese, pensai."
Capitolo 5- "« Mai lasciare un compagno in difficoltà, me l’hai insegnato tu, Naruto »"
Capitolo 6- "Ognuno di noi si chiedeva se non fosse giunto alle porte dell'Inferno"
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Naruto Uzumaki
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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Team Estate

Contest _ Turno 5

Team Estate

Autrice: Wolf’sEyes

Stanza: Impero Romano

Personaggio base: Naruto

Personaggio aggiuntivo: Sai

Prompt: Paura

Luogo: Arena

 

Fan Fiction

Genere:Drammatico

Raiting: Arancione

Avvertimenti:Alternative Universe, POV Naruto, (OOC)

 

Naruto Sfida le Dodici Stanze:

Vivere o morire

 

Ognuno di noi, una volta giunto lì, si chiedeva se non fosse giunto alle porte dell’Inferno. E mentre questo quesito sarebbe rimasto senza risposta, noi eravamo consapevoli che nessuno di noi sarebbe uscito vivo dal Colosseo. Qui, tutti, avremo trovato la nostra fine.

Eravamo prigionieri di guerra, poveri che non avevano pagato le tasse, nullatenenti. Persone abbastanza forti da non essere vendute come schiavi o uccise sul momento ma condannate ad una sorte ben peggiore: combattere nell’arena del Colosseo.

Si trattava di puro e semplice “vivere o morire”. Equipaggiati con armi ed armature, o almeno così accadeva ai più fortunati, o meritevoli ad avviso delle guardie, avremo dovuto lottare fino a che non avessimo avuto fiato in corpo. Uno contro l’altro, all’ultimo sangue, all’ultimo respiro, finché non avessimo prosciugato l’ultima briciola di forza, mossi da coraggio o follia.

Ogni mezzo era lecito, non c’erano né regole né limitazioni per uccidere. Era solo la legge del più forte a dettare regole naturali che avremmo, tutti, inconsciamente seguito, senza che ne fossimo a conoscenza.

Il pubblico godeva nel vederci mentre lottavamo ammazzandoci nei modi più crudi ed atroci possibili, mentre l’istinto di sopravvivenza prendeva il pieno controllo di noi, offuscando la nostra ragione ed annullandone tutti gli impulsi razionali. Non c’era più alcuna dignità per lo sconfitto, nessun onore per il vincitore. Non eravamo uomini, eravamo bestie, belve che una volta giunte in arena si sarebbero azzannate e sbranate, senza esclusione di colpi, fino alla morte. Tutto per vivere di quell’orrenda vita.

Al buio, in quella grande prigione sotterranea, tra noi detenuti albergava la morte. Silenziosa e sorridente di un ghigno malefico, si sarebbe alzata in piedi e ci avrebbe scelto. Ad uno ad uno, prima o poi, saremo risaliti dalle tenebre, in arena, e vi saremo ricaduti, una volta sola, restandovi per sempre.

Insieme alla morte viveva nei nostri cuori la disperata paura di dover combattere, di essere scelti. Un terrore palpabile, che sentivi scorrere nelle vene e invadere tutto il tuo corpo, come fosse un veleno mortale, più mortale del combattimento stesso, perché logorava la mente.

Quel giorno la paura dentro di me era più forte. Seduto con la schiena appoggiata alla parete fredda ed umida, mi sentii tremare. Chi sopravviveva tornava quaggiù e raccontava, raccontava che quando stanno per chiamarti senti la paura dentro crescere a dismisura, che quando ti trovi lassù ti convinci a lasciarti morire per l’insostenibilità di questa vita e che poi, nonostante questi buoni propositi, finisci per uccidere. Da vittima della paura diventi carnefice per mano dell’istinto di sopravvivenza. Così dicevano, finendo per odiarsi per ciò che avevano fatto e facendo del non guardare negli occhi l’avversario morente una regola di vita.

Ripensando a quelle parole, mi resi conto che sentivo dentro di me che mi avrebbero chiamato, e fu ciò che accadde. Avevo una paura terribile di morire. Benché la mia vita prima di finire lì dentro fosse quella misera di uno schiavo fatto poi prigioniero, avrei voluto continuare ugualmente a vivere.

Salii una rampa di scalini di pietra ripidi e non appena abbandonai del tutto le tenebre una luce troppo forte per i miei occhi, che non ne erano più avvezzi, mi costrinse a chiuderli e a ripararli con un braccio. Sbirciai e notai che le tribune erano gremite di persone che applaudivano e chiamavano i combattenti, che volevano la prossima battaglia, il prossimo spettacolo. Eravamo un intrattenimento, ecco cosa significavamo per loro.

Mi avevano infilato una leggera armatura sopra gli stracci che indossavo e mi avevano fornito una spada dalla lama segnata e rovinata. Solo i veri gladiatori combattevano con vere armi ed armature, noi eravamo l’antipasto del pubblico prima del vero spettacolo. L’armatura era lacera e macchiata di sangue vecchio ed incrostato, sarebbe servita solo ad impedirmi di morire ai primi colpi subiti. Guardai la spada che reggevo senza quasi rendermene conto, talmente ero inebetito da ciò che stavo per fare, chiedendomi quante persone avesse mai trafitto.

Il mio avversario, al mio fianco, era equipaggiato come me.

Lo riconoscevo. Era arrivato da poco qui e probabilmente avevano voluto metterlo subito alla prova. Da dove venisse non avrei saputo dirlo, ma mi impressionò la sua pallida carnagione quando lo vidi per la prima volta, in netto contrasto con i capelli scurissimi e lo sguardo vuoto e cupo. Sembrava morto ancor prima di combattere, impassibile, mentre io tremavo di brividi che a stento mi lasciavano respirare. Mi si formò un groppo in gola al ricordo della nostra prima ed unica conversazione, quella mattina.

« Ehi tu, biondino. Come mai tremi tanto? Sei malato, forse? »

« Io? », domandai titubante, non sicuro del fatto che si fosse rivolto a me. « No, non sono malato. Ho paura. Come tutti, qui dentro », ammisi.

« Paura per cosa? », mi domandò, quasi con naturalezza.

Mi chiesi se sapesse in quale luogo fosse finito. « Per cosa, mi chiedi? Ho paura di morire, ho paura di andare a combattere! », mi alterai, rispondendo.

Lui non mi rispose, non disse nulla, semplicemente abbassò lo sguardo. Lo osservai e mi domandai se avesse compreso le mie parole. Il suo sguardo era inespressivo, lontano, come se gli avessi detto che ci avrebbero dato zuppa e non un pezzo di pane, per pranzo. Più parlavo con lui più mi stupivo e non mi capacitavo del fatto che esistesse una persona simile. Mi dava i nervi.

« E tu non hai nessuna paura? Qui devi ammazzare la gente se non vuoi morire! », dissi.

« No, non ho paura. Non so che cosa sia. L’ho mai provata? Chissà? », disse, apatico.

« Se non hai paura né di morire né di uccidere, allora non hai idea di che cosa voglia dire vivere! », esclamai, prima di allontanarmi da lui.

 

Mi riscossi da quei pensieri quando il boato delle grida del pubblico si fece più forte, ricordandomi di trovarmi in un’arena arida ed enorme, e sentii una mano premere al centro della schiena e spingermi a fare passi in avanti che non avrei mai fatto di mia volontà. Una voce ci disse di combattere e ci incitò a aggiungere il centro dell’arena, mentre il pubblico, nel vederci finalmente comparire alla luce, ci accolse con altri applausi e grida che mi facevano rivoltare lo stomaco. Stavamo per morire e loro gioivano.

Ciò che stavo per fare andava contro ogni mia etica morale. Mi recai al centro dell’arena insieme a quel ragazzo apatico che, sì, odiavo, ma che mai avrei ammazzato. I piedi sembravano pesare come macigni e, quando mi voltai verso il mio avversario, mi parve di vedere un’emozione riflettersi nel suo sguardo apatico. Che fosse la paura che ora aveva totalmente invaso me? Forse era stata solo una mia impressione…

Ci fermammo l’uno di fronte all’altro, fissandoci. Sentii una voce omaggiare un imperatore del quale non mi sarebbe mai importato nulla e dare il via al nostro combattimento. Sarei rimasto ancora immobile ed inebetito a fissare i segni delle precedenti a numerose battaglie in quell’arena se non avessi visto il mio avversario caricare contro di me brandendo la spada. Di istinto mi difesi, parando il colpo. Allora era vero. L’istinto di sopravvivenza aveva mosso il mio braccio per proteggermi. Io da solo, sconvolto com’ero, non ci sarei mai riuscito.

Combattemmo a lungo, ferendoci a vicenda. Eravamo agguerriti, o meglio, lui era agguerrito, io mi difendevo. Avrei giurato di vedere una sempre crescente emozione nei suoi occhi. Forse ora anche lui stava provando la paura di morire, facendola trasparire solo nello sguardo e non nelle azioni. Non cedevo e questo lo spiazzava, facendo vacillare le sue sicurezze.

Fu quando riuscì a ferirmi ad una gamba, atterrandomi, che una paura ancora più forte mi colpì in pieno petto come un pugno. Una paura terribile, devastante, che mi toglieva il respiro e bloccava ogni pensiero della mia mente, lasciando che su soltanto uno potessi focalizzare la mia attenzione. La consapevolezza che mi avrebbe ucciso, che sarei sprofondato nelle tenebre eterne e che non avrei potuto più fare niente per salvarmi.

Ma qualcosa scattò in me, come se non fossi stato io a decidere di muovermi ma fosse stato il mio corpo a farlo autonomamente. Schivai il suo colpo mortale, alzandomi in piedi con una forza che credevo di non avere più, e per un attimo incrociai il suo sguardo. Non era più apatico. Aveva paura. E la consapevolezza di essere senza speranza che un istante prima lui aveva fatto mia, io l’avevo appena fatta sua.

Afferrai saldamente la spada e la brandii con una forza che non mi riconoscevo, sentendo la lama incontrare un ostacolo e trapassarlo.

Il cuore mi batteva a mille, sentii i rumori della folla allontanarsi e diventare confusi. Sentivo solo il martellare continuo nel mio petto, un martellare che non avrei dovuto sentire più.

Lasciai la presa sulla spada e chiusi gli occhi. Sapevo cos’avevo appena fatto. Cosa il mio inutile istinto mi aveva portato a fare. Restai immobile ed attesi per secondi che sembravano eterni.

Poi lo sentii. Il tonfo sordo di un corpo esanime, il rumore metallico di una spada che cadeva.

Mi lasciai cadere in ginocchio, prendendomi la testa tra le mani e ricominciando a sentire le voci della folla, mentre il sangue pulsava nelle vene e una sensazione di disgusto mi salì allo stomaco.

Ora, la mia paura non era più quella di morire, ma quella di dover continuare a vivere con dentro il peso dell’assassinio di un innocente.

 

 

 

Angolo dell’autrice

Va bene, va bene, ero certa di aver finito, invece no >_>

Ad ogni modo, dato che mi dimentico sempre di cercare questo benedetto schema di valutazione, ho deciso di pubblicare ugualmente, dando finalmente un termine a questa “cosa”, quando lo ritroverò provvederò ad inserirlo. Tanto ricordo di essere stata penosa, quindi il mio punteggio ha poca rilevanza… (il pacchetto mi aveva messo non poco in difficoltà)

Beh, che altro dire… Un grazie a tutti coloro che hanno letto questa raccolta e che (?) la leggeranno in futuro. Un ringraziamento speciale ad ellacowgirl per il bel contest a cui ho avuto l’onore di partecipare e, non meno importanti, a tutte le persone che hanno partecipato insieme a me.

Singolarmente, mi classificai terza, mentre insieme al mio Team Estate (comprendente chi aveva scelto come personaggi Kankuro e Hidan) salii sul podio.

Se qualcuno che ha partecipato al contest si imbatte in questa cosa, oltre a synoa, non esitate a comunicarmelo: inserirò i vostri nomi nei ringraziamenti!

Grazie di cuore a tutti!

WolfEyes

  
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