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Autore: Billie Edith Sebster    13/05/2015    3 recensioni
[Seconda Guerra Mondiale / Olocausto AU! OOC! DESTIEL]
In un mondo dove vecchie tensioni si rinnovano con inaudita violenza, ferite non ancora rimarginate si riaprono ed il buio e la morte marciano sostenute in schiere compatte, c'è ancora spazio per qualcosa che non ha l'amaro sapore dell'odio. E' il 1938 anche per una cittadina fuori dal tempo come Colonia, e l'incontro di Dean e Castiel è pura coincidenza: è un amore prorompente che li porterà a trovare un espediente per cui combattere nel dolore e nel sangue ogni battaglia si presenterà loro davanti. Ma non sempre i nemici ci affrontano di petto, altri preferiscono strisciare da dietro e soffocarti lentamente nel tuo stesso passato...
Genere: Angst, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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Prima che cominciate a leggere, una premessina ina ina ina... non ho idea di dove tutto questo andrà a finire, quindi non abbiate grandi aspettative. L'ambientazione si sta rivelando molto difficile da descrivere, è un lavoro estremamente minuzioso e pieno di piccolezze importanti... quindi i tempi di pubblicazione saranno abbastanza lenti, spero non vi dispiaccia.

Ultima cosa poi vi lascio andare avanti: non sforzatevi di andare in fondo. È pesante anche per me a tratti. Volevo solo scrivere qualcosa, questo ne è uscito.

Bacioni, ci vediamo giù :)

 

-Se questo è un angelo

 

1938 – Köln

 

– Ehi, Winchester, passami un'altra pinta. – ordinò l'uomo con i baffi scompostamente seduto al bancone del pub, dando una lieve spintarella al bicchiere vuoto davanti a sé. Questo slittò sul legno con un suono cristallino scivolando a pochi centimetri dalla mano di Dean, che lo prese e lo porse a Benny.

Si voltò roteando gli occhi, facendo il verso di Herr Meier che pronunciava in modo scorretto il suo cognome, trasformando la W in una spaventosa V e lasciando la R chissà dove, suscitando la risata dell'amico ancora intento a servire il cliente.

– C'è poco da ridere, detesto il loro accento. Sembra che si esprimano a latrati. – replicò Dean sottovoce, facendo un breve cenno a tutte le persone presenti nel locale.

– Perchè, hai sentito la loro iot* tedesca in “Benjamin”? La differenza è che io non ci troppo caso, sono buffi. – replicò il ragazzo, riprendendo a pulire le tazzine da caffè accatastate nel lavandino.

– Sì, certo, quanto possono essere buffi dei putti che tracannano birra dalla mattina alla sera alternandola solo ai sigari. Odio questo posto. – borbottò in risposta, passando lo straccio umido sul bancone per scostare le briciole. Sentì Benny ridere e si concesse un sorrisetto sghembo, voltando leggermente la testa nella sua direzione per sghignazzare senza farsi vedere da Herr Meier.

– A che ora stacchi? – chiese il biondo, dirigendosi verso i tavoli per pulirne un paio che si erano liberati.

– Alle tre, perché? –

– Intendi dire che tra mezz'ora vai via e mi lasci qui da solo? Con questi matti? Fratello, è un colpo basso. – brontolò, imbronciato.

– Andiamo, mica è così male. Te lo dice uno che se ne intende, il fascino germanico è inquietante solo all'inizio. Datti tempo, Vinchesteh, nel giro di un altro anno smetterai di lamentarti. –

– Sono qui da sette anni, di tempo me ne sono dato a sufficienza. – Benny scoppiò in una risata e lo trascinò per un gomito davanti alla montagna spaventosa di bicchieri e tazze da lavare che si era installata nel lavandino, e che lui aveva già iniziato a smontare con poca convinzione. Dean lo seguì roteando platealmente gli occhi, lasciandosi condurre alla sua occupazione per le successive due ore.

– E questo che significa, scusa? Eravamo d'accordo che li lavavi tu! – protestò, lanciandogli in faccia il canovaccio umido.

– Nossignore, il fascino dello straniero già ce l'hai, ma da queste parti le donne vogliono un tipo che sappia sopportare il dolore fisico e psicologico, e visto che la metti tanto sul personale puoi iniziare l'addestramento qui: al lavabo. – un paio di sonore pacche sulla spalla lo fecero sobbalzare, ma ciò non gli impedì di lanciare un'occhiataccia all'amico, che si stava già dileguando verso il retro.

– Figlio di puttana.

– Ti ho sentito!

Rise di nuovo, cacciando le mani sotto al getto d'acqua aspettando che si scaldasse, poi iniziò la sua faticosa scalata sezionando le stoviglie e lavandole pazientemente fra un'imprecazione e l'altra, contento che pochi tedeschi potessero comprendere sia l'inglese, sia la sua creatività.

Quando Benny andò via, ne approfittò per smollare quell'ingrato compito ad una frustratissima Jo, la quale non fece altro che fulminarlo velenosa, e passò fra i tavoli a ritirare le ordinazioni e a rassettare dove i clienti lasciavano libero. Era sicuramente meglio che starsene dietro al bancone in balia dei bicchieri da birra, con i quali era in pessimi rapporti lavorativi da quando si era incastrato la mano in uno di essi e Charlie l'aveva fotografato, e inoltre andare in giro per il locale gli consentiva di afferrare stralci di conversazione ed interagire con le persone, sperando di acquistare più familiarità con il tedesco. In un qualche modo, funzionava.

– Sei stato lasciato a te stesso? – chiese la ragazza con i capelli rossi, quando gli furono regalati dieci minuti di pausa e potè fermarsi a chiacchierare.

– Per favore. – esordì Dean melodrammatico, lasciandosi cadere su una sedia. – Sono disposto a prendere il traghetto* senza alcuna lamentela se ce ne torniamo a Lawrence. –

Charlie staccò gli occhi dall'interno del bicchiere del frullato (ma sul serio, quale tonto in un bar tedesco va ad ordinare un frullato?! In autunno, per giunta.) al quale aveva rivolto discreta attenzione fino a quel momento, e li alzò al cielo.

– Nah, tu ami questo posto, non raccontare balle, Winchester. La verità è che come tutti gli altri uomini del mondo, non sopporti lavorare. – disse la ragazza, portando le labbra al bordo del bicchiere e prendendone un sorso in tutta tranquillità. Dean la fissò indignato.

– Charlie, vai a farti misurare la vista, vuoi? Non è che io lo odio, vedi, io detesto questo lavoro. Davvero, che ci guadagno? Solo, non me la sento di dirlo ad Hellen.

– Che razza di uomo sei, scusa? – lo schernì la rossa, abbandonandosi contro lo schienale della sedia.

– Con lei c'è poco da scherzare, sarebbe capace di cambiarmi la desinenza, se la prendessi in un brutto momento. Il problema è che con i tempi che corrono la paga non è così buona, finché ho questo lavoro mi conviene tenermelo stretto.

Charlie annuì apprensiva, con sguardo un po' assente. – Mh.

– E vai a capirlo come funzionano i marchi e i pfennig...

Charlie alzò le mani in segno di resa. – Su questo non posso biasimarti, da quando ho viaggiato negli Stati Uniti non riesco più a riabituarmi. – ammise, con sguardo sognante e nostalgico. – Insomma, che intendi fare? Vuoi lagnarti su quanto lavorare in un pub sia odioso o cercarti un altro lavoro? – chiese, dando un colpetto al gomito dell'amico. Questo sorrise sornione, alzando un sopracciglio e sporgendosi sul tavolo, assicurandosi che Jo non fosse nei paraggi.

– Pensi sul serio che io sia così privo di risorse? – Charlie spostò lo sguardo, sbuffando leggermente.

– Posso essere diretta, o devo fare le gentile?

– Nah, sii crudele.

– Se non fosse stato per me saresti tornato indietro a nuoto, Dean. Altro che cercarti un lavoro!– Scoppiarono entrambi a ridere, mentre il ragazzo tentava di mantenere un cipiglio serio e quantomeno offeso con scarsi risultati.

– Dovrai ricrederti, mia cara. – Si alzò, facendo roteare lo straccio in una mano e circumnavigando il tavolo. – Forse ho già trovato qualcosa che potrebbe rendere la mia permanenza qui migliore di quanto non sia. – buttò lì con una punta di sarcasmo nella voce, e le sferrò una frustata al braccio facendola saltare sulla sedia con un gridolino di sorpresa e dolore. – Arschloch*! – si lamentò, massaggiandosi la pelle bianca, senza smettere di ridere. – Sono colpita, non l'avrei mai detto. E sentiamo, quale azienda di pompe funebri vorrebbe renderti parte degli affari di famiglia? – chiese, sequestrandogli lo straccio con lo sguardo di rimprovero che Dean era abituato a vedere sul viso di sua madre ogni volta che da bambino combinava un guaio.

– Spiritosa. E ridammi quell'affare, mi serve più tardi. In ogni caso, c'è un'officina appena fuori Colonia che posso raggiungere a piedi nel giro di mezz'ora. Se faccio una buona impressione potrebbero prendermi. – spiegò, con una punta d'orgoglio nella voce.

Charlie batté le mani entusiasta, tornando al suo frullato e sorseggiandone un altro po'.

Dean le fregò il bicchiere e ne prese un sorso a sua volta, le sue papille gustative abituate al sapore forte della birra sussultarono venendo inondate dalla sostanza vischiosa ed eccessivamente dolce. – Come fai a bere... – si bloccò.

Charlie non stava più ridendo. I suoi occhioni solitamente animati da un cipiglio birichino erano come incastrati in una specie di trance, appuntati su qualcosa alle spalle di Dean. Il ragazzo si voltò, e per poco non gli venne un colpo: la porta si stava chiudendo in quel momento con il solito trillo acuto della campanella, mentre due uomini alti e dal portamento impassibile facevano il loro ingresso squadrando sospettosi l'ambiente circostante. Contro il verde scuro della divisa era in bella vista una spilla dorata, rappresentante un'aquila dalle ali spiegate e la testa voltata di lato.

La milizia.

– Cristo, giuro che li butto fuori a pedate. – asserì Dean, spingendo indietro la sedia per poter passare, la fermezza del suo sguardo che non prometteva nulla di buono. Charlie si sporse di lato e lo afferrò per un gomito. Smilza e mingherlina com'era, non la si sarebbe detta una persona forzuta, ma il biondo si ritrovò fermo nella morsa della sua mano prima che potesse ribellarsi. – Dean, lascia perdere, per piacere. – lo pregò, sperando di non aver attirato la loro attenzione. – Finiresti nei guai anche tu, siediti. Se non facciamo scemenze non mi noteranno.–

Dean fece passare lo sguardo da lei ai due agenti, indeciso se darle ascolto o scatenare il finimondo, ma col senno di poi decise che era meglio non fare niente e soprattutto, fare finta di niente. Charlie tolse il cappotto dallo schienale e lo rivoltò come un calzino, nascondendo la stella gialla ricucita sulla spalla sinistra, poi abbassò lo sguardo sperando di non essere stata vista.

I due erano al bancone, chiacchieravano smodatamente lanciando brevi occhiatine e cenni lascivi a Jo che risvegliarono di nuovo l'indomabile istinto fraterno di Dean. Dovette ricorrere a un notevole sforzo per non alzarsi e sfasciargli un tavolo sulla testa. La stessa bionda gli fece cenno di rimanere al suo posto.

Decise di ignorare la situazione ed attese dieci minuti che i due agenti uscissero, poi riprese la conversazione con Charlie: la ragazza sembrava aver improvvisamente ripreso a respirare, come se nell'ultimo quarto d'ora si fosse mantenuta in una specie di apnea.

– Hai sentito? – chiese lei, a bassissima voce. – La Cecoslovacchia ha dovuto passare a Hitler una sua parte. C'è stato questo trattato... Di Monaco mi pare, un mesetto fa, ma hanno reso ufficiale la cosa da poco. – ora stava veramente mormorando piano, sembrava preoccupata come Dean poche volte l'aveva vista. I suoi occhi vagavano persi lungo la superficie liscia del tavolo. – Le nostre libertà si limitano ogni giorno di più... Probabilmente da domani non potrò più venire qui. – disse piano. Dean la fissò intensamente, indeciso se essere triste o arrabbiato, o incazzato come una iena.

Capí cosa tormentasse la ragazza senza nemmeno pensarci troppo: Charlie era ebrea. La leggi razziali emanate dal Führer dovevano essere estremamente pesanti da sopportare, in una situazione simile lo stesso Dean non sarebbe riuscito a resistere a lungo. La sua amica non poteva prendere i mezzi pubblici, non poteva frequentare che negozi esclusivamente riservati agli ebrei, non poteva entrare in molti locali. Hellen, la proprietaria del "Paradies - Roadhouse", non era per nulla a favore di tali leggi, e sempre contenta di avere Charlie intorno, aveva un atteggiamento tollerante e materno. Purtroppo, sebbene nemmeno Hitler si sarebbe mai sognato di contrariare una forza della natura come quella donna, le cose non dipendevano da lei: era una delle persone più forti che conoscessero, e non solo era comunque impotente, ma stavano già cominciando a farle imporre le limitazioni richieste dalle leggi.

Tra i Winchester e la famiglia di Hellen, gli Harvelle, c'era grande affinità perchè erano tutti originari del Kansas: la provenienza in comune li aveva avvicinati nonostante fossero entrati in Germania con alcuni anni di distanza, e si erano ritrovati immediatamente. Charlie invece era tedesca di nascita, ma conosceva Dean perchè si erano incontrati negli US e avevano deciso di seguirla nella sua rimpatriata per stare con i genitori. Non senza parecchie difficoltà, aveva insegnato a lui e a suo fratello Sam il tedesco, e se c'era una cosa di cui Dean gli era grato era il fatto che parlasse un inglese perfetto, con tanto di pronuncia impeccabile. Quella ragazza era una creatura più unica che rara, e la considerava una sorella.

Per questo il sentirla così abbattuta tutt'a un tratto lo disturbava. Non era giusto.

-Quel führer è un figlio di puttana.- dichiarò, senza alzare troppo la voce: non era il caso di farsi impallinare come un tacchino sul posto di lavoro.

Charlie abbozzò un sorriso amaro. -Ciò non gli toglie il diritto di fare quello che vuole.- disse, amareggiata. A Dean fece male vedere quella ragazza costantemente spumeggiante e solare, così sconsolata.

-Ehi, Rossa...- mormorò, stringendole un polso. -Vedrai che andrà tutto bene. Nessuno ti farà del male, non finchè sarò in vita.- Charlie sorrise di più.

-Pensi che non sappia cavarmela? Grazie.-

-Ma figur...

-Winchester!- Jo lo chiamò da dietro il bancone, con le mani puntate sui fianchi ed un sopracciglio alzato.

-Se hai finito di cincischiare, ti conviene tornare qui!- esclamò, fissando Charlie con cipiglio irritato. Lei agitò la mano nella sua direzione, con un sorriso ingenuo stampato in faccia che suscitò nella bionda nient'altro che l'ennesima occhiataccia di stizza.

Dean le fece un cenno con la testa e si alzò, salutando l'amica con un buffetto sulla guancia. -Sai, sarebbe il caso di dirglielo che non stiamo insieme... - mormorò, prendendo il bicchiere vuoto e passando lo straccio sul tavolo.

-E rovinarci tutto il divertimento? Finchè sono qui vorrei spassarmela, grazie!- replicò Charlie, alzandosi ed infilandosi la giacca, lasciandola rivoltata. Dean si era improvvisamente bloccato, e la fissava interrogativo e confuso. -Intendi dire che vai da qualche parte?- chiese, corrugando la fronte.

Charlie si stava avvolgendo la sciarpa attorno al collo, ma alla domanda non si fermò.

-Senti,- disse, lasciandogli la mancia,- le cose potrebbero farsi pericolose, per me. Non dico che parto domani, ma devo prendere in considerazione l'idea di dovermi allontanare se... Beh...- i suoi movimenti rallentarono, il suo sguardo scivolò in basso. – Mi sono fatta fare un documento falso. È costato una fortuna ma perlomeno ho la minuscola garanzia di poterlo fare davvero.

Dean era basito, ma tentò ugualmente di mantenere l'autocontrollo. -Hai ragione, sarebbe la soluzione più sicura.- concordò, a malincuore. Charlie sorrise comprensiva e gli strinse una spalla. -ci vediamo domani, okay?-

Il ragazzo trovò estremamente faticoso annuire. D'un tratto il pensiero che l'amica potesse andarsene lasciandolo da solo in quella gabbia di matti, a scappare per potersi salvare la vita con la guerra dietro l'angolo sul punto di scoppiare lo terrorizzò.

Osservò con il cuore in gola i punti dove era stata cucita la stella di Davide, di un giallo brillante visibile a chilometri che sembrava gridare "Ehi, sono ebrea! Arrestatemi!".

Se guardava fuori dalla finestra, gli era possibile vedere altri agenti che pattugliavano le vie e fermavano i passanti per controllare le carte d'identità. Il pensiero gli annodò le viscere.

-Charlie, il mio turno finisce tra un po'. Vai nel retrobottega, leggi qualcosa, ma non uscire.- disse risoluto, guidandola dietro al bancone sotto lo sguardo severo e sospettoso di Jo.

- Cosa... Ehi, aspetta! Ma che fai?- protestò la ragazza, cercando inutilmente di opporre resistenza. La sospinse dolcemente fino all'anticamera dell'uscita posteriore, una stanza attaccata al locale caldaia dove c'erano un paio di panche per i soprabiti e gli oggetti del personale, le vecchie edizioni del quotidiano e qualche rivista. Sul tavolo nell'angolo, la radio era accesa, ma il volume completamente azzerato. Non faceva freddo, ed era anche abbastanza grande, Charlie avrebbe evitato lamentele.

-Non capisco...

-Non mi fido a lasciarti andare a casa da sola. È quasi buio, e...- sentì la voce morirgli in gola. Ingoiò quel blocco fastidioso e cercò le parole giuste per continuare, ma la ragazza lo fece per lui: -...E sono ebrea? - alzò un sopracciglio.

Dean socchiuse la porta dietro di sè, passandosi una mano sul viso. -Si, lo sei, e il sottoscritto è preoccupato. Ho sentito girare delle cose poco belle, quindi ti accompagnerò io a casa, ma non posso lasciare il turno. Aspetta che finisca, okay? Non ci vorrà molto.

-Scusa, ma non posso restare di la?- chiese Charlie, speranzosa.

-No, spiacente, già Hellen non fa restare troppo tempo gli stessi clienti perchè il sabato si affolla un sacco, in più stanno cominciando a farle pressioni. Avevi ragione.- gettò un'occhiata dallo spiraglio della porta, tanto per non dover guardare la sua amica in faccia.

-A che proposito?

Merda... Dean non voleva affrontare quella conversazione, ma era scontato che sarebbe accaduto, no?

-È già un po' che si fanno vedere in giro, l'SS intendo, ma dalla settimana prossima se ti vedono qui verrai arrestata. Hellen ha retto finchè poteva.- attese la sua reazione, ma Charlie non disse nulla, non subito. L'espressione sul viso pallido era indecifrabile, non sembrava affatto stupita, e nemmeno arrabbiata.

Era rassegnata, forse.

-D'accordo, ti aspetterò qui. Farò la brava. - mormorò, con uno sbuffo scocciato.

 

 

-Era ora! Sei in ritardo, Dean.- lo rimproverò Jo, trascinandolo in cucina per un gomito.

-E tu sei insopportabile, tanto per cambiare.- borbottò in risposta, lasciandosi caricare le braccia di vassoi con le pietanze ordinate.

-Dove l'hai portata?- mormorò lei, seguendolo fuori e passando la roba ad uno svogliatissimo Ash, che da un paio d'ore si malediceva senza alcun ritegno per essersi presentato al lavoro.

-Nell'anticamera. Le ho detto di aspettarmi lì, così la porto a casa. Non mi fido per nulla a lasciarla girare da sola. Adesso che hanno messo a tacere tua mamma, nemmeno questo è più un posto sicuro.- Jo sembrava preoccupata. Sistemò sul ripiano gli ultimi bicchieri che poco prima Dean le aveva affidato e che lei aveva ripulito in un quarto del tempo che lui avrebbe sprecato a lagnarsi, poi gettò un'occhiata verso la porta scura. – Vado a tenerle compagnia, mentre tu ti occupi anche del mio turno. – disse, senza dargli il tempo di controbattere.

– Te lo dirà anche lei, che non stiamo insieme! – le urlò dietro, facendola ridere mentre se la filava senza troppe cerimonie nel retrobottega.

– Ragazzi, qui dentro siete tutti uguali. – borbottò fra sé e sé, servendo una cliente che fissava di sbieco il suo parlottare concitato e sprezzante. – Lasciate tutto il lavoro a Dean, lui è un uomo giovane, forte e disponibile. Com'è che non sono ancora sposato?

Cacciò una pinta in mano alla signora che ringraziò con un danke inquieto e se la svignò lontano dal bancone, mentre Hellen faceva la sua comparsa dalla cucina.

– Non sei ancora sposato perché sei troppo piccolo, Dean. E hai troppo da lavorare, quindi muovi le chiappe! – lo rimbrottò, spedendolo di nuovo fra i tavoli con due vassoi stracarichi.

Muoversi in quel locale era come essere la palla bianca di un biliardo, costantemente spedito da una parte, per poi essere immediatamente trascinato dall'altra senza alcun ritegno.

La precedente domanda fu riformulata nella testa di Dean in uno scocciato “com'è che non sono ancora morto?”

Passò velocemente gli ordini ai rispettivi tavoli senza sprecare un secondo, sorridendo cordiale e rispondendo con il solito “Bitte schön” di protocollo sotto lo sguardo critico di Hellen.

– Ti stai sveltendo, ragazzo. Stare qui ti fa bene! – osservò, una volta che si era rifugiato dietro al bancone per l'ennesima volta nella serata.

– Mh, sento l'eco di un aumento. – suggerì, speranzoso, afferrando la seconda batteria di piatti e pietanze e sistemandoli lungo le braccia pregando la sua buona stella che non cadessero.

– Non ci sperare. – fu la risposta, e lo sospinse di nuovo fra sedie e tavoli, persone schiamazzanti e ragazzini che scorrazzavano minacciando di fargli rovinare sul pavimento tutta la roba che stava portando. Dovette ricorrere a molta della sua buona volontà per far suonare il rimprovero che lanciò loro nient'altro che un semplice ed amichevole ammonimento, ma si ripromise di essere più duro se gli fossero passato a meno di due metri di distanza. Raccolse anche gli ordini, li consegnò in cucina e combatté la tentazione di origliare le conversazioni fra Jo e Charlie, ma non gli parve molto cortese, specialmente tutt'ora che era ancora nel mirino di Hellen, quindi si limitò a servire da bere.

 

 

Dean poté dirsi tranquillo solo una volta che Charlie lo ebbe salutato e fu entrata chiudendo a doppia mandata la porta d'ingresso. Quando ciò accadde rimase impalato davanti alla veranda di casa sua, un piccolo villino nella campagna che costeggiava Colonia, con la sensazione di avere il sospiro di sollievo che avrebbe dovuto emettere fastidiosamente incastrato in gola, a cavallo dell'esofago e della trachea. Non riusciva né a deglutire, né a respirare. Attese che le luci del pian terreno si spegnessero e che l'unica finestra illuminata fosse quella della camera da letto di Charlie, che sarebbe probabilmente rimasta alzata a leggere tutta la notte, poi fece dietro front e se ne andò.

La ghiaia della strada male asfaltata produceva un debole scricchiolio sotto le scarpe, e l'unico suono che lo accompagnava oltre a quello dei suoi passi e al rombare sordo del sangue nelle orecchie, era il respiro del vento fra le spighe di grano alla sua destra.

Non riusciva a trattenersi dal girare la testa ogni dieci metri, per controllare che tutto fosse in ordine, silenzioso e tranquillo; se fosse accaduto qualcosa a Charlie, così come a Jo, non se lo sarebbe mai perdonato. Aveva una sorta di dovere fraterno nei loro confronti, quasi alla pari di quello che aveva con Sammy: erano tutti membri di una famiglia allargata, erano un branco unito e forte nonostante le incomprensioni e le ricorrenti litigate.

Lasciò vagare lo sguardo lungo il profilo ondulato del frumento che sibilava piegato sotto l'intemperanza dell'aria di ottobre, poi su fino al cielo che imbruniva dal quale occhieggiavano pallide le prime stelle. In un qualche modo, quel panorama gli trasmise tranquillità. A dividere le due parti di quella che avrebbe voluto restasse ferma nella sua mente come una fotografia, c'era una fila di case che sorgevano qua e la fra un appezzamento di terra e l'altro, le luci gialle delle finestre lo seguivano come gli occhi di animali notturni che si nascondevano timidi fra gli steli ondeggianti.

Nel suo divagare di pensieri (i quali comprendevano argomenti cupi come la guerra, o il fatto che il loro piano di stabilirsi in Germania per una vita migliore fosse andato a puttane), scorse la sagoma di una persona. Era immobile nel bel mezzo del campo, le spighe di grano le arrivavano ai gomiti e ne accarezzavano le maniche nel loro oscillare marino che la facevano sembrare ferma in mezzo ad un oceano il quale profumava di autunno e non di sale.

Dean si fermò per osservare meglio. Aguzzando la vista, riuscì a catalogare la corporatura come quella di un uomo, di altezza media e con le spalle larghe. Scavalcò il fosso e si avvicinò, sotto l'ordine di una zona remota del suo cervello che fino a quel momento non aveva quasi mai assecondato, e distinguendo ad ogni passo un dettaglio in più della figura misteriosa.

Avanzò piano, senza nessuna fretta, scostando con le mani fasci di spighe accarezzandone i grappoli di semi attaccati alla sommità, la vegetazione più fitta in basso che minacciava di farlo inciampare se non sollevava bene i piedi e quella in alto che strusciava con un sibilo sottile contro la pelle della giacca.

La prima cosa che pensò del tizio fu Diavolo, amico, non hai freddo?

La luce morente che sfumava da ovest faceva spiccare il ciano di una camicia immacolata e perfettamente stirata, tesa contro il corpo esile e slanciato; l'unica nota stonata del suo abbigliamento (o perlomeno di quello che il grano lasciava intravedere) erano le maniche arrotolate alla bell'e meglio sopra al gomito ed il colletto stropicciato.

La sua contemplazione proseguì verso l'alto, scivolando lungo l'angolatura pronunciata della mascella e del mento, delle labbra carnose forse un po' pallide e screpolate, del naso, la fronte leggermente corrugata, gli occhi assenti, i capelli neri più scompigliati che avesse mai visto mossi dal vento. Doveva avere ventitré o ventiquattro anni, qualche mese in più di lui in ogni caso. Le mani che poco prima erano abbandonate lungo i fianchi ed immerse nel frumento che li circondava si spostarono fino alle tasche e qui sparirono. Se si era accorto di lui, era bravo nel non darlo a vedere, perché la sua figura rilassata, eccetto quel breve movimento, non si era spostata di un centimetro.

Dean continuava a fissarlo.

È bello. realizzò fra sé e sé, con disarmante lucidità. Lasciò passare alcuni secondi, aspettandosi che il tizio dicesse qualcosa o che mostrasse segni di presenza mentale oltre che fisica, ma non successe niente.

Ma che vado a pensare. Si disse Dean, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso. È stupendo.

Ora che era lì, avrebbe almeno potuto dire qualcosa, ma non aveva molti argomenti con cui fare conversazione, specie perché aveva ciecamente ubbidito a quello che non era un pensiero compiuto degno del termine per arrivare fin da lui, quindi non aveva predisposto assolutamente nulla.

Non sono l'unico che si rilassa stando qui, vero*? – disse, in tedesco. Dean trasalì, colto alla sprovvista da quell'improvvisa domanda rivolta a lui.

Dovette avviare più volte la registrazione mentale che si era fatto della sua voce per realizzare

a. quanto la sua voce fosse effettivamente bella (tono basso, un po' roca), e

b. che nonostante la sintassi impeccabile, nel suo tedesco vibrava il tipico accento americano che aveva imparato a distinguere tra i membri del suo branco.

– Temo di no. – rispose Dean, in inglese, con un sorriso sornione ad increspargli le labbra mentre quello si voltava a fissarlo per la prima volta da quando era stato raggiunto. Nel suo sguardo lesse con una punta di divertimento lo sconcerto di essere stato preso in contropiede, ma subito dopo dovette concentrarsi su qualcos'altro per non rischiare di essere travolto dal mare di burrascose onde azzurre che aveva negli occhi.

Un azzurro così non può esistere in natura, andiamo. Avrebbe voluto dirgli. La nota sarcastica del suo stesso pensiero lo fece sogghignare brevemente.

– Beccato. – disse lo sconosciuto, con aria colpevole. – Pensavo di venire soltanto io qui. – mormorò, spostando il peso del corpo da un piede all'altro, cercando di scorgere le proprie scarpe in quella foresta che gli si avviluppava serpentina attorno alle gambe.

Dean continuava a guardarlo, rapito. Quel ragazzo nella sua mente era nient'altro che un viso, un corpo, un suono ed una voce in un insieme non identificato e privo di un nome, costituito solo da ciò che vedeva e dalle poche parole che gli aveva rivolto... allora perché si sentiva così ammaliato?

– Effettivamente non sono mai stato qui, ma ti dovrai ricredere. Qui nel senso del bel mezzo del campo. – disse, senza aspettarsi una reazione precisa, mentre la sua mente era troppo annebbiata per poter impedire alla sua bocca di sparare emerite cazzate come quella.

Si ritrovò a pensare che niente di tutto ciò aveva senso. Non sapeva dire cosa fosse successo, sia a livello di chimica che a livello di indisposizione cerebrale, sapeva solo che quel tizio era veramente molto bello, aveva una bella voce, e quell'alone di mistero che lo circondava come un'aura aveva su di lui un po' l'effetto che la luce ha sulle falene.

Era una sensazione tutta nuova, ma non lo spaventava per niente: se prima si sarebbe messo a sbavare senza troppe cerimonie dietro ad un bel culo o ad una quinta di reggiseno, lui gli aveva letteralmente prosciugato la bocca, spegnendo le percezioni del mondo che lo circondava. L'unica cosa che lo preoccupava era la velocità con cui tutto ciò stava succedendo: assolutamente illegittima, disumana.

Wie heißt du?* – si ritrovò a chiedere, la sua testa che si rifiutava di sopportare ancora quella voragine nel bel mezzo del particolareggiato schema mentale che si era fatto del ragazzo dalla vita in su.

Questi prese tempo, giocherellando distrattamente con una manciata di chicchi acerbi ancora verdi. – Castiel. Parla in inglese, se non ti dispiace, mi manca qualcuno con cui farlo.

– Dunque, Castiel, hai l'aria di stare gelando. Intendi stare qui finché non morirai assiderato o torni indietro? – domandò di getto, con tutte le cellule del suo corpo che trattenevano un ostinato con me che cercava di accodarsi alla frase.

Lui dovette rendersi conto in quel momento di non avere un abbigliamento consono ad una serata di ottobre, ed i suoi muscoli si irrigidirono sotto alle zanne del freddo. Si sfregò le mani sulle braccia, calando le maniche ancora arrotolate.

– Era già da questo pomeriggio che stavo fuori... non mi è venuto in mente che avrei potuto anche prendermi una giacca. – bofonchiò, sperando di non suonare come un povero sprovveduto. – In ogni caso, accetto il tuo invito. – dichiarò poi, voltandosi e cominciando a camminare agilmente contro la corrente del mare di grano, stringendosi nelle spalle.

– Hei, aspettami! – gli corse dietro Dean, rischiando di inciampare lungo disteso un passo sì e l'altro pure. Lo raggiunse non senza qualche difficoltà, affiancandosi alla sua sinistra.

Notò immediatamente come sembrava essersi improvvisamente conto di gelare, quindi continuando ad assecondare la zona del suo non-cervello di poco prima si tolse il giubbotto di pelle e glie lo gettò con noncuranza sulle spalle, restando a sua volta in maniche di camicia. Castiel sobbalzò della sorpresa, che a giudicare dalla sua espressione non doveva essere considerata “brutta”. Fece per borbottare qualcosa ma la voce non sembrava avere nessuna protesta troppo plausibile da usare contro lo sconosciuto, quindi si limitò ad indossarla meglio infilando le braccia nelle maniche e sorrise debolmente. – Grazie.

Dean scrollò le spalle. – Ma figurati. La prossima volta ricordati di prenderne una, comincia a fare freddo di sera. – disse, detestando il modo in cui l'apprensione nella sua voce somigliasse a quella di sua madre. Lo squadrò per vedere come un suo indumento si adattasse bene al corpo di Castiel. Sorrise.

– Cosa? – fece questi, notando la sua espressione a metà fra il sereno ed il divertito.

– Niente, è solo che la pelle ti sta niente male a... – oh, per l'amor del cielo, per quale ragione stava piegando la testa di lato in quel modo, spalancando gli occhi confuso come un cucciolo smarrito? Dean avrebbe voluto dirgli di smetterla, ma era giusto considerare un crimine privarsi di tale visione? – … anche se le maniche ti stanno un po' lunghe. A dire il vero sono lunghe anche a me. – sorrise di nuovo.

Castiel si squadrò dubbioso, con un sopracciglio alzato. – Tu dici?

Il biondo annuì con convinzione, riportando parte della concentrazione sul dove mettere i piedi per poter scavalcare il fosso senza rompersi una gamba.

– Da che parte devi andare? – chiese, gettando l'ennesima occhiata in direzione della casa di Charlie, che era rimasta tale e quale a poco prima.

Castiel guardò da una parte e dall'altra, seguendo con gli occhi il percorso che si estendeva ai suoi fianchi. – Di là, – disse – a metà strada tra il centro e dove siamo noi ora.– precisò, lasciando correre lo sguardo fino in fondo.

Dean esultò nella sua mente, e nemmeno era certo di saperne il perché. – Allora ti accompagno per un tratto di strada. Io abito nella casa bianca in fondo, accanto al Reno. Appena fuori Colonia.

Così si avviarono, in un silenzio rilassato come entrambi ne avevano avuti pochi nella loro vita, camminando spalla contro spalla in una muta e sconosciuta complicità.

– Tanto per sapere, che cosa ci facevi là in mezzo, a quest'ora, senza giacca e solo soletto? – La capacità di Dean di rincoglionirsi in determinate circostanze era veramente spiazzante, alle volte. Stavolta era chiaro che ogni tattica di abbordaggio imparata in ventidue anni di esistenza erano letteralmente sbriciolate ed inutilizzabili. Che poi, non doveva abbordare proprio nessuno, no? Insomma, voleva fare solo conversazione (con probabilmente l'unico essere umano di sesso maschile che ti abbia mai fatto sentire una stupida ragazzina – ehi! Con calma, è troppo presto per dirlo) cercando di ignorare i suoi conflitti interiori.

Castiel scrollò le spalle. – Pensavo, a dire il vero.

– Lo fai spesso?

– A volte penso troppo, sì. Pensavo, secondo te dove saremo di qui a quattro anni? È un importante quesito che la gente si pone spesso, no?

Dean rise sommessamente. Quanto era strano quel tizio? Abbastanza da fargli girare la testa senza che gli dispiacesse ammetterlo. – Personalmente cerco di evitarmi questa domanda. Non mi piace farmi troppe illusioni. – Stavolta fu il moro a sorridere, anche se sul suo viso aleggiava un'espressione vagamente confusa.

– Perlomeno, di essere ancora vivi. – osservò, fissando l'asfalto. – Per quanto può sembrare pessimistico, è una cosa che ci si chiede.

– Quindi pensi anche tu che ci sarà una guerra? – Dean sperò di ottenere una risposta diversa da quella che si aspettava, ma da che mondo è mondo non gliene andava dritta una da quel punto di vista.

– Spero nel contrario. Ma come hai detto tu, è meglio non illudersi.

 

Rimasero in silenzio con quel grave argomento che ronzava nell'aria, le considerazioni più critiche fatte meticolosamente tacere.

Dean si guardò una manciata di secondi attorno. Ormai era calato un buio nero che invischiava le cose troppo lontane perché potessero essere visibili a tale distanza. La luna illuminava la strada, loro due, qualche casa e poco altro.

– Da quanto tempo vivi qui? – chiese ad un certo punto Castiel, la nota di curiosità che colorava la sua voce.

Il biondo rifletté. – Sette anni, io e la mia famiglia veniamo da Lawrence, nel Kansas. E tu?

– Io sono nato a Pontiac, Illinois, ma i miei genitori sono di queste parti, quindi ci siamo sempre un po' mossi. All'inizio venivamo qui solo in vacanza, ma da una quindicina d'anni ci siamo stabiliti definitivamente. Sono stati loro ad andarsene per primi, in extremis. – rispose, come se fosse una cosa banale e indegna di nota. Dean avrebbe voluto sapere ogni cosa,ogni dettaglio su quel ragazzo, quindi anche il fatto che fosse nato in una cittadina che non conosceva era frutto di interesse.

– Pontiac, eh? Non ci sono mai stato. – rifletté, corrugando la fronte. Avrebbe voluto chiedere sui genitori, ma sarebbe sembrato invasivo. – Me la farai vedere, un giorno? – domandò, sorridendo ingenuamente.

Castiel lo osservò con attenzione, le domande che si davano battaglia nella sua testa, cercando rifugio negli occhi verdi di quel ragazzo capitato lì per caso, del quale stava indossando la giacca e respirando il suo odore rimasto impregnato nella pelle. Inspirò profondamente ma senza emettere alcun suono, inebriandosi in quella fragranza così nuova e piacevole che gli annebbiava il cervello.

– Non è nulla di speciale. Ma se ti fa piacere, allora sì. – rispose sereno, studiando il sorriso dell'altro con vivo interesse.

– Nemmeno Lawrence è nulla di troppo eclatante, ma è tranquilla. Si sta bene, lì. – fece una breve pausa, soppesando le parole. – Cavolo, vedrai che ti piacerà. – okay, questo non era esattamente soppesare le parole, quella frase aveva preso vita nella sua testa e se n'era uscita allegramente dalle sue labbra senza permesso, e ora voleva seppellirsi dall'imbarazzo.

Dio, lui era un ragazzo, anzi, praticamente un uomo, e stava facendo progetti di vita con un altro uomo, che per giunta a malapena conosceva. E il bello era che non gli suonava nemmeno strano. Si sentiva a suo agio, sarebbe stato un peccato interrompere quella chiacchierata così, perché il parere comune lo giudicava sbagliato. A lui non sembrava minimamente sbagliato, nemmeno il fatto che quel Castiel avesse un effetto così catastrofico sul suo cervello, distruggendo quelle poche certezze che aveva avuto fino a quel momento.

Chi se ne frega. Pensò prontamente.

– Ne sono convinto. – replicò Castiel con entusiasta partecipazione. – Se sei qui da sette anni, devo dedurre che abbiano già iniziato a soprannominarti Amerikaner, vero? – ridacchiò, fissando distrattamente l'asfalto scorrere sotto di lui.

Dean scoppiò a ridere. – Ci puoi giurare! Al bar dove lavoro mi urlano dietro o così, o storpiando tremendamente il mio cognome. Mi vengono i brividi. – confermò, con il sorriso che ancora gli deformava il volto.

Inaspettatamente, Castiel si levò la sua giacca con un movimento rapido delle spalle e glie la porse, fissandolo con i suoi occhioni da cucciolo smarrito.

– Puoi tenerla, non ho freddo. – si schernì il biondo, respingendo l'offerta, restando ancora più interdetto nel vederlo bloccarsi sul posto.

– Hai detto di avere i brividi, se vuoi te la restituisco. – spiegò cautamente. – Non ho più così freddo. – Dean, poco più avanti, cercò di comprendere il senso della frase, riavvolgendo il nastro della conversazione (rigorosamente incisa nella sua memoria) fino a quando aveva pronunciato quelle testuali parole. Quando afferrò, si concesse una breve risata, un'alzata di occhi al cielo, un respiro addolcito. Gli prese la giacca dalla mano.

– Era una battuta. Il sentire la gente del posto storpiare il mio nome, quello mi fa venire i brividi. – e standogli davanti, così vicino che poteva sentirlo respirare piano come se avesse paura di sprecare aria, gli gettò di nuovo la giacca di pelle sulle spalle, facendogli infilare agilmente le braccia nelle maniche e tirando su la lampo. Una pacca sul gomito, e ripresero a camminare, nuovamente in silenzio.

Impiegarono un altro quarto d'ora per arrivare a quella che era una bella casa, non troppo diversa da quella di Charlie e delle altre del circondario, ma con i muri di mattoni rossi e qualche albero in più nel giardino. Durante quel lasso di tempo Dean ebbe modo di arricchire il suo schema mentale con qualche altra informazione, come il fatto che Castiel aveva due fratelli, Gabriel e Michael, un fratellastro di nome Balthazar, arruolato nell'esercito britannico, ed una cugina tedesca dalla parte della madre, Anna. Gli spiegò che i suoi genitori ed il suo patrigno erano iscritti al partito nazista, e che desideravano ardentemente la sua partecipazione in tale contesto, disdegnando la tenacia nel rifiutarsi ostentata dal figlio. Dean capì immediatamente che quel ragazzo aveva ideali molto chiari: ciò che stava succedendo nella loro realtà era un autentico casino, tutto sarebbe sfociato in una guerra e che non vedeva il motivo di imporre regole così rigide, pensieri così penalizzanti nei confronti di persone innocenti che avevano scelto di credere in qualcosa. Gli aveva detto che se la sua famiglia avesse continuato a pressarlo, se ne sarebbe andato, probabilmente in Svizzera, o in Inghilterra insieme al suo fratellastro col nome strano, forse sarebbe entrato nell'esercito, o avrebbe provato a studiare a Oxford. C'erano cose di cui era incondizionatamente certo, come la teoria di Einstein secondo cui l'umanità fosse decisamente troppo stupida, l'esistenza di Dio nonostante negli ultimi tempi non si stesse scomodando più di tanto a salvare quei poveri bastardi che sulla terra erano a tanto così dall'ammazzarsi a vicenda. Era certo del suo desiderio di andarsene. Arrivato a quel punto, Dean lo aveva fissato corrugando la fronte a chiedere una spiegazione, e Castiel aveva sorriso mestamente alzando le spalle come se anche quella non fosse una cosa importante.

– Chi ha idee diverse dagli altri non fa mai una bella fine. – aveva detto, frugandosi in tasca ed estraendo un pacchetto di sigarette ed un accendino. Aveva lasciato la fiamma danzare davanti all'estremità per qualche secondo, proteggendola con una mano dall'aria fredda, finché la carta non si era arrossata sgretolandosi in briciole nere sull'asfalto. Poi era rimasto zitto, e Dean gli aveva raccontato di suo fratello Sam, di quanto quel ragazzino fosse insopportabile e saccente, ma di quanto gli volesse bene, dei suoi genitori che non erano iscritti al partito, ma mantenevano un profilo basso per non cacciarsi nei guai, di Jo, di Hellen e di Charlie, di quanto Lawrence gli mancasse. Era strano come confidarsi con lui gli riuscisse facile, ma non ne era nemmeno dispiaciuto.

– Io lavoro al Paradies Roadhouse, in GoethenStrasse. Se ti va di parlare, passa a fare un saluto. – Borbottò timidamente, sperando che il buio nascondesse le gote arrossate.

Castiel meditò in silenzio, considerando attentamente la proposta ricevuta. – Non ci sono mai stato. Se la mia compagnia ti ha fatto piacere, cercherò di farmi vivo. – disse, con un sorriso sghembo che gli sollevava solo l'angolo destro della bocca. Il cuore di Dean ebbe un inaspettato balzo contro le costole.

– Allora ci vediamo, – disse il moro una volta che fu sulla soglia di casa sua. – ragazzo di cui non so nemmeno il nome. – sorrise divertito, gustando quell'espressione imbarazzata sul viso dell'interlocutore.

– Sono Dean Winchester.

Rimase impassibile, come se nella sua mente stesse associando il nome al viso del ragazzo, ai suoi occhi verdi, ai capelli biondo scuro, alle lentiggini sul naso.

– Lieto di averti conosciuto, Dean Winchester. – si congedò, sparendo dietro alla porta d'ingresso.

Dean osservò impietrito ogni suo movimento, incapace di decifrare il sorriso un po' strafottente che gli era spuntato sulle labbra.

Maledizione, articolò a fatica nella mente, proseguendo lemme lemme per la sua strada, se perdessi la testa per un ragazzo, sarei nei guai. Dovette fermarsi di colpo a piedi pari, la schiena improvvisamente rigida, le orecchie che gli fischiavano per il battito del suo cuore che tuonava come un tamburo. Il peggio era che aveva assistito alla sua rovina senza avere il coraggio di fare niente, era stato tutto talmente veloce e imprevedibile che non aveva nemmeno preso in considerazione l'idea di contrastarla. Non era neppure sicuro di poter dare un nome a quell'accozzaglia indistinta di sensazioni che aveva provato nell'ultima mezz'ora, ma forse sotto sotto sapeva benissimo cos'era ed ammetterlo era solo più doloroso che rinnegarlo.

Si voltò verso la casa di Castiel, probabilmente intravide la sua figura da lontano affacciata ad una finestra, come se lo stesse seguendo con lo sguardo. Alzò un braccio e lo agitò in quella direzione, ricevendo una risposta immediata che gli scaldò subito il cuore.

Oh, bene, sono fottuto sul serio. Ma se era veramente fottuto, allora perché si sentiva così... felice?

 

 

 

 

NOTA D'AUTRICE

 

Come si dice in queste circostanze?

Buonsalvino (?) a tutti! Nuovo account EFP, nuova long, nuova possibilità che uno dei miei scritti resti incompiuto, spero sarete pazienti. Sono un tipo incoerente.

Parliamo un po' della storia, visto che non mi ritrovo nulla di meglio da fare (cara, forse dovresti... non so, studiare francese? Latino? Naaah) … mi sono messa avanti di un paio di capitoli, ma non aspettatevi che aggiorni fra 'na settimana perché preferisco scriverne almeno un altro, altrimenti rimarrò indietro (di nuovo) e beh, no grazie.

Personalmente sono abbastanza soddisfatta dell'inizio, mi scuso per l'OOC, ma quando questi due decidono di uscire un po' dagli schemi, chi sono io per rimetterli in riga? Chuck? No, nemmeno lui c'è propriamente riuscito...

l'idea che Dean potesse avere il classico colpo di fulmine è una cosa che mi ha sempre allettata, e mi sembrava giusto l'occasione per dargli un po' da arrovellarsi, perché dai, sarai un Winchester ma Castiel è Castiel, non c'è lagna che tenga, mio caro.

Forse non sono del tutto sicura di come sia esteso il capitolo, non vorrei aver affrettato troppo le cose...

ehm, veniamo alle note:

* iot: la J tedesca, visto che i nostri deutschen Freunde amano complicare sempre le cose, ecco che partono di buon grado dall'alfabeto.

** il traghetto: visto che in questo contesto storico gli aerei avevano solo scopo militare e non per viaggi transatlantici, ho dovuto modificare la fobia di Dean, diciamo che ho fatto una sorta molto vaga di parallelismo(?)

***Arschloch: questa non la sapevo nemmeno io, ho dovuto invocare il traduttore perché sono una persona pigra e non avevo voglia di prendere il dizionario (scusatemi, topolini miei). Concisamente, vuol dire stronzo (sperando che almeno sulle parolacce googletrad. Sia attendibile)

****Le mie conoscenze linguistiche non si estendono fin qui, ancora chiedo scusa.

***** un innocente “come ti chiami”, volevo che Dean tentasse di fare bella figura. Poor guy.

 

Se ho scordato qualcosa, ditemelo :3

io direi di avervi rotto le scatole a sufficenza, se siete arrivati in fondo già meritate un premio.

Mi piacerebbe sapere che ne pensate, visto che il periodo storico in cui l'ho ambientata è sia delicato, sia difficile da descrivere, perlomeno da sapere se ho scritto delle emerite idiozie oppure (no)...

recensite, recensite!

Ciao ciao, Lovely Idjits!!

 

   
 
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