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Autore: Bellamy    14/05/2015    1 recensioni
La battaglia tra i Cullen e i Volturi termina in maniera inaspettata: i Cullen perdono, Edward e Bella si uniscono alla Guardia di Aro e Renesmee perde la memoria. I pochi mesi di vita vissuta da Nessie vengono spazzati via.
Dopo quasi un secolo, Aro invita Renesmee a Volterra.
Genere: Malinconico, Suspence, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Nuovo personaggio, Renesmee Cullen, Volturi | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Breaking Dawn
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Capitolo 3. 
 
 
 
Affondai i miei canini nel collo del cervo immobilizzato dalle mie braccia mentre le mie gambe serravano le zampe, vietandogli di poter divincolarsi.  
Ruppi la vena più grossa e il sangue caldo scese velocemente nella mia gola arsa e secca. Il resto del branco scappò alla mia vista spaventati ma la fine fu uguale al loro compagno. 
Dopo scuola pregai la mia famiglia di andare a caccia, ne avevo bisogno. Sentivo ancora l’odore squisito di Nina tra le mie narici e questo non andava bene.
Ne feci fuori otto più un orso che mi lasciò Emmett dopo averci giocato un po’ -sotto lo sguardo spaventato di Rosalie-, fu il mio primo orso quello. 
Mi sentivo ogni volta in colpa quando cacciavo ma la parte vampira di me, quella che predominava sulla parte umana, era sempre smaniosa di sangue, era il suo pensiero fisso e il sangue d'animale non gli bastava. Sangue umano solamente nelle emergenze, purtroppo, ma potevo resistere.   
Non mi nutrivo di sangue da quattro giorni, solo cibo umano per mia sfortuna ma potevo sopravvivere solo anche di quello, potevo sopravvivere di cibo umano per tutta la mia esistenza. Ma la gola bruciava, come se avessi ventiquattro ore su ventiquattro un ferro rovente che ardeva nella gola. Era doloroso.  
A volte mi chiedevo cosa spingesse la mia famiglia a solo cibarsi di sangue animale invece di quello umano. Ero più naturale per loro. Per me potevo sorvolare la situazione, ero per metà umana. Un po' di rispetto a quella parte di mondo a cui appartenevo. 
Poi arrivavo sempre all'unica conclusione che ci accomunava: il rispetto. 
Lasciai cadere la carcassa del cervo tra la terra bagnata del bosco, la mia maglietta era tutta sporca di sangue e avevo i capelli arruffati e pieni di nodi. Zia Alice mi avrebbe fatto dormire fuori casa quella notte. 
Mi guardai intorno, circondata dagli alti abeti, ero sola, si sentiva il frastagliare delle foglie causato dal vento.
Mi misi a correre a cercare il resto del gruppo. 
Saltai da un tronco d'albero all'altro con il vento che soffiava e accarezzava i miei capelli lunghi lasciati liberi, senza costrizioni. 
Era bello correre: mi sentivo libera, libera da tutto. Il mio cervello vagava, tra i suoi pensieri, incurante di dove stessi andando. A quello ci pensavano le mie gambe. 
Seguivo il sole in procinto di tramontare e nascondersi nelle acque fredde dell'oceano Pacifico, che illuminava la strada con la sua luce piena di sfumature rosse e arancioni rendendo così il castano ramato dei miei capelli una fiaccola ambulante.  
Vidi Rosalie correre diretta verso casa, dall'altra parte del bosco, a molti metri di distanza da me. 
Sotto ai miei piedi sentivo dei ringhi feroci e dei passi pesanti che solcavano il terreno.  
Oh no, i lupi.   
Capii il perché: mi stavo avvicinando al loro territorio. Stavo facendo il giro largo per tornare a casa: mi ero fermata a cacciare troppo lontana dal solito perimetro. I licantropi mi avranno sentita. 
Arrivai al precipizio, la fine della selva, dove solo l'oceano limitava la parte di bosco da quella dei Quileute.  
Saltai sapendo che era vietato per me. Dovevo. 
Toccai piede in terra proibita e sentii subito i primi ululati. Avevo il cuore a mille, mi rialzai dalla mia posizione accovacciata ed iniziai a correre, usando tutta l'energia che avevo appena assunto.  
I Quileute erano la tribù indiana della riserva di La Push e avevano un segreto: alcuni di loro erano dei licantropi.  
Quando spuntavano i vampiri, spuntavano pure loro. Carlisle mi raccontò che tanto tempo fa, lui e il capo del branco stipularono un accordo: non avvicinarsi nella loro terra e divieto assoluto di cibarsi di umani o farli diventare vampiri. 
Questo patto fu sempre solido e sempre rispettato, da decenni. 
Erano dietro di me, in dieci, e mi seguivano. Sentivo l'aria spostata dalle loro zampe che cercavano di acchiapparmi.  
Saltai, il mare sotto di me. Arrivai in uno spiazzo pieno di rocce dove la mia famiglia mi stava aspettando, preoccupati.  
"Scusatemi." dissi con il fiatone, i polmoni mi bruciavano e vedevo tutto vorticare intorno a me.  
Rosalie si avvicinò e mi strinse forte a sé "Nessie, mi hai fatta preoccupare. Potevano farti del male, devi stare più attenta la prossima volta." 
 “Colpa mia.” Sussurrai, guardai Carlisle che guardava oltre la mia spalla.  
"Non credo avessero intenzione di farle del male." disse calmo, "Penso ci vogliano comunicare qualcosa."  
Mi voltai, un lupo color nero come il petrolio era fermo sulla scogliera, dietro di lui c'erano i lupi che lo avevano seguito prima e che mi avevano inseguito precedentemente. Ulularono, i musi all'insù, verso il cielo grigio e nuvoloso. Il vento aveva iniziato a tirare forte. 
Cosa volevano? Un avvertimento? 
"Andiamo." disse alla fine Carlisle.
 
 
Ci fermammo in una radura dove l'erba era alta e i fiori appassiti e trovammo lì i Quileute, in forma umana, ad aspettarci. Erano in quattro: capelli scuri, pelle scura ma non troppo, olivastra, alti e muscolosi ma non quanto Emmett. Mi chiesi se almeno uno di loro aveva provato a darmi la caccia prima. 
Rimasi accanto a Rosalie che si avvicinò di più ad Esme e Alice. 
Emmett e Jasper affiancarono Carlisle. Sperai non fosse un rimprovero per me per quello che ci stavano per comunicare. Arrossii sotto gli occhi dei giovani Quileute.
"Salve." salutò gli ospiti. 
Il ragazzo al centro, il capo branco, era Julian. Zio Jasper mi disse che fu eletto capo branco e non diventandovi per via di ereditarietà. Mi raccontò che l'ultimo capo branco, diretto discendente dell'ultimo capo branco -colui che stipulò con la mia famiglia l'accordo- morì molto tempo fa in una battaglia contro dei vampiri. Ma che loro in quella guerra non furono coinvolti, arrivarono dopo.
Mi disse che si chiamava Jacob Black e che era una presenza fissa a casa nostra, questo mi suonò molto fuori luogo.
Li guardai ad uno ad uno. Come era vivere dentro un corpo di un lupo? 
Julian si avvicinò a Carlisle. Non aveva un'aria minacciosa ma molto seria e attenta. "Da un paio di giorni stiamo controllando tutto il perimetro, anche il vostro. Ci sono dei vampiri in zona. Sentiamo la loro puzza, fanno delle brevi apparizioni e non siamo ancora riusciti a raggiungerli. Hanno usato pure dei trucchi accecandoci e rendendoci sordi."
Mi guardai attorno, che fossero i neonati di cui tutti i clan parlavano?
“Sapreste descriverli?” domandò Carlisle.
 
Jasper si avvicinò a Carlisle e gli disse qualcosa all’orecchio. Lui annuì e si voltò verso di me, aveva un’espressione neutra.
“Renesmee, perché non vai a casa? Si sta facendo buio, noi arriveremo subito.”
Lo guardai ma non gli risposi, la testa era vuota ma piena di domande allo stesso tempo. Perché? Cosa era successo che non potevo sapere? I licantropi perché non avevano ucciso direttamente i vampiri neonati, come la loro natura pretendeva, e basta? Perché informarci?
“Carlisle!” chiamò Rosalie, aveva i pugni chiusi, gli occhi di fuoco puntati su di lui.
Guardai Carlisle e poi tutta la mia famiglia. Ricambiarono il mio sguardo ma non dissero nulla. Alice aveva l’espressione sofferente. Il sole ormai era quasi sparito dietro le montagne alte.
Un impeto di rabbia mi colpì come un treno. Ero stufa di tutta quella protezione e di quei segreti, stufa che ancora mi trattavano come se fossi una bambina di cinque anni.
Ecco l’altra faccia della medaglia: il silenzio.
Il silenzio che seguivano le mie domande: perché non ricordavo nulla, cosa mi era successo, perché ero una mezza vampira…
Chi erano i miei genitori.
Queste erano une delle poche domande che mi torturavano , che mi rendevano incompleta, che rendevano le mie notti insonni. Le odiavo, mi odiavo. Perché ero io la causa di quelle domande.
Perché se non fosse successo quello che era accaduto – chissà che cosa -, io avrei avuto ancora la memoria integra. Nessun scoccio della mia vita passata, neanche un volto, una frase, un evento. Non ricordavo nulla. Il vuoto.
Se non mi rispondevano, cambiavano argomento. Se io cercavo di riportare l’attenzione alle mie domande, loro mi dicevano di non pensarci.
Ma io ci pensavo, ogni notte. Era impossibile non pensarci o chiedersi il  perché.
M’immaginavo il come, il quando e il perché. Chi erano i miei genitori/creatori, se sapevano a cosa stavano andando incontro, se già conoscevano i Cullen. Cosa li aveva spinti ad andare via.
Perché mi avevano abbandonata.
Se erano morti oppure no. Dove si trovavano in quel momento. Che aspetto avevano.
Perché avevo perso la memoria e come.
Mi ricordavo solo di essermi svegliata in un grande letto, con i volti della mia famiglia attorno. Non ricordavo neanche chi fossero. Non ricordavo neanche il mio nome. Ero totalmente fuori dal mondo.
Ero sempre grata ai Cullen. Sin da subito mi avevano fatta sentire parte integrante della famiglia. Ed io mi sentivo una Cullen, ne ero orgogliosa. Mi avevano aiutato a completare il puzzle che ero diventata. Quasi del tutto, almeno.
Il mio passato era un taboo. Mai chiedere, mai sapere. Sapevo solo che mi ero svegliata dopo tanto tempo da un lungo sonno, simile al coma per gli umani. Cosa era successo prima?
L’unico elemento che poteva aiutarmi a capire qualcosa era il mio medaglione, forse. Da quando mi ero svegliata l’avevo sempre con me. Ma anche una semplice collana m’impediva di sapere.
“L’accompagneranno i miei fratelli.” Offrì Julian indicando i due ragazzoni dietro di lui.
Lo guardai, lui ricambiava il mio sguardo. La sua espressione era strana. Come se mi conoscesse da sempre.
Non dissi nulla, con addosso le occhiate di tutti, seguii i due ragazzi che iniziarono a fare strada nel bosco.
“Ci vediamo dopo.” Sussurrai, la voce carica di rabbia.
Mi voltai di spalle mentre camminavo, Rosalie mi osservava come se si volesse accertare che io stessi seguendo i due Quileute. Aveva la fronte aggrottata, sembrava affranta.
Gli altri le voltavano le spalle, concentrati com’erano nella conversazione segreta con Julian. Ma ero troppo lontana per sentire cosa si stessero dicendo.
Mi voltai e guardai i due giovani davanti a me: guardavano dritto davanti al bosco, diretti verso casa mia.
Chissà se sapevano qualcosa loro, se sapevano il segreto che i Cullen non volevano che io sapessi. Ovvio che sapevano, erano un gruppo unito loro. E si leggevano nella mente.
Oltre a questo, mi vennero tante domande relative alla loro natura. Li guardavo, erano dei ragazzi normali. Forse andavano ancora al liceo.
Ragazzi normali capaci di trasformarsi in lupi grandi più di un cavallo.
 Mi affascinavano: c’era qualcosa di magico in loro. Non erano solo una leggenda. Tutto era vero.
Mentre camminavamo attraversando le piccole rocce dei sottili torrenti, presi un respiro profondo, mi schiarii la voce e domandai.
“Voi sapete che è successo?”
Loro si fermarono davanti a me ed io mi arrestai, mi guardarono, interrogativi.
Il ragazzo alla mia destra, quello con una lunga cicatrice che partiva dall’angolo della bocca e finiva fino al suo stomaco, scosse la testa. “Dei puzzolenti succhiasangue ci stanno solo rompendo le scatole. Tutto qui.”
Dalla sua voce trasparivano disgusto e indignazione, lo stesso dai suoi occhi neri.
Detto questo iniziarono di nuovo a camminare. Questo lo avevo capito, io volevo sapere altro.
“Sono i vampiri neonati? Da dove vengono? Sapete chi li ha creati? Quanti sono?”
Mi rispose sempre il ragazzo con la cicatrice continuando a camminare “No, ci interessa solo che se ne vadano.”
Continuammo a camminare, non feci più domande. Avevo capito ormai che da loro non potevo cavare nessuna informazione, forse davvero non sapevano quali vampiri fossero. E poi non volevo mettere a dura prova la loro pazienza.
Non so quanto ci stavamo mettendo: stavamo camminando a piedi, a passo umano, e non credevo potessero gradire vedere me correre per raggiungere casa facilmente.
Mentre stavamo prendendo una stradina per raggirare il fiume e andare dall’altra parte del bosco, i miei occhi vagavano annoiati osservando la natura che mi circondava.
Ormai era calato il buio e la luna illuminava la nostra strada. Io a poco non vedevo nulla ma non dissi niente, non sentii nessuna lamentela da parte dei licantropi.
Mi fermai un attimo, incuriosita da una strana forma nascosta dagli alberi e dai cespugli, i raggi della luna lo illuminavano a poco. Sembrava una casa.
Mi fermai e mi avvicinai scostando i rami che mi vietavano di guardare con chiarezza. Era una casetta abbandonata. Un cottage.
“Che stai facendo lì?” mi sentii urlare.
Tornai di nuovo indietro, i due ragazzi scuri fecero dei passi in avanti verso di me, sospettosi.
Non potevo vederlo ma sapevo che stavo arrossendo. “Potete andare, grazie mille per avermi accompagnata.”
Il secondo, quello che ancora non aveva parlato, scosse la testa in segno di diniego “Abbiamo promesso che ti avremmo accompagnata fino a casa tua. Il tuo clan ti starà aspettando.”
Sinceramente, non m’interessava se  i Cullen erano preoccupati della mia assenza, se erano già a casa. Forse stavano confabulando su i loro fatti segreti. Che continuassero tranquilli. Tanto non potevo sapere.
Ero ancora arrabbiata con loro, e un bel spavento poteva andare meglio.
“E l’avete fatto. Davvero, potete andare. E ringraziate il vostro capo da parte mia.” Dissi loro torturandomi le mani e pregandoli di andarsene.
Si guardarono negli occhi, come per valutare la situazione. Poi fecero spallucce. “Fatti tuoi.” Disse uno dei due e si misero a correre per il bosco. Sentii poi dei ruggiti, segno che si erano trasformati.
Appena fui certa di essere completamente sola, ritornai tra il fogliame che circondava il cottage.
Era piccolino e molto antico, delle piante verdi rampicanti circondavano tutte le mura di pietra esterna fino ad arrivare al tetto. L’odore era forte.
Sembrava una di quelle casette che si vedevano nei racconti illustrati per bambini.
Non c’era nessun segno di infrazione o di danneggio. Era intatta.
Le finestre erano chiuse, i vetri impolverati, le tendine erano serrate. Le rose che si trovavano nelle mensole esterne erano secche, nere ed appassite.
Era disabitata da anni.
Mi avvicinai alla porta di legno, appoggiai la mano alla maniglia impolverata e feci forza per aprire: era chiusa a chiave.
Feci il giro della casa da fuori e arrivai nel dietro dell’abitazione. Si trovava ancora un laghetto limpido circondato dall’erba alta.
Nel dietro della casa si apriva un piccolo recinto che dava accesso ad un laghetto e a tutto il bosco, si poteva vedere l’intero fiume.
Mi avvicinai, una porta finestra era aperta. C’era un silenzio desolante all’interno. Fui titubante per un attimo chiedendomi se entrare o meno ma la curiosità ebbe la meglio.
Scostai le tende lunghe, setose e bianche e mi ritrovai in una camera da letto.
Le pareti erano color azzurro cielo con sfumature di bianco in alto, il parquet era color della sabbia.
Al centro c’era un grande letto a baldacchino, le lenzuola bianche disfatte. Alcuni cuscini ai piedi del letto. Era circondato da un arredamento ottocentesco quasi, i mobili bianchi con decorazioni di fiori abbellivano senza troppo sfarzo la stanza.
Mi aggirai per la stanza, in sovrappensiero, incantata, sfiorando gentilmente le lenzuola, la spazzola per i capelli appoggiata su un mobile di fronte al letto. Sopra padroneggiava un enorme specchio ornato d’oro.
Le poltrone che circondavano il letto erano ricoperti di vestiti: femminili e maschili. Capii che i proprietari non erano molto ordinati. Li capivo.
Uscii da lì ed entrai in una cabina armadio due volte più grande della stanza da letto. Ovviamente era piena di vestiti, soprattutto femminili. C’era poca traccia di vestiti maschili.
Non sapevo perché ma guardavo tutto con una divorante curiosità e attenzione. Era la prima volta che vedevo quella piccola casetta abbandonata. Non sapevo della sua esistenza prima d’ora, era ben nascosta dagli alberi, invisibile. Ed io il bosco di Forks lo conoscevo bene.
Dedussi che i proprietari fossero una coppia, credevo. Chissà se la mia famiglia li conosceva. Forse quando ci trasferimmo qui, la coppia era già andata. La mia mente ritornò a loro, chissà se si erano accorti della mia assenza da casa. Zia Alice non poteva vedere il mio futuro, non sapevano dove potessi essere. Se i lupi avevano fatto la spia…
Uscii dalla cabina armadio e seguii per il corridoio che terminava con un salottino molto accogliente che si apriva ad una stanza da pranzo, il camino spento e polveroso di fronte al divano rosso. Dei libri messi alla rinfusa nel piccolo tavolino basso che divideva il camino e il divano. C’erano tante candele e dipinti di paesaggi. Una scrivania teneva una macchina da scrivere di circa cento anni fa. I fiori nel vaso al centro del tavolo erano appassiti.
Le tende ormai giallastre erano serrate. All’interno della stanza c’era un forte odore di chiuso, quasi nauseante.
Ritornai indietro, la cucina era rustica e molto piccola. Il bagno tutt’altro.
Arrivai all’ultima camera. Era più piccola rispetto alla camera da letto patronale. I muri erano color panna così come le tendine, i mobili, una culla in ferro battuto accanto alla finestra ed un letto che prendeva quasi tutta la stanza. Le lenzuola disfatte, i cuscini nel letto.
Era la stanza di una bambina. Nei muri erano appesi dei disegni, ma erano troppo complicati per una bambina che poteva avere al massimo cinque anni, vedendo dalla stanza. I disegni raffiguravano delle persone, dei paesaggi, dei lupi? Erano ben disegnati e colorati, con una seria attenzione nei dettagli.
A vedere i lupi, trasalii.
C’era pure un computer portatile e tanti libri, di poesia soprattutto, ma anche dei gialli. Non solo in Inglese, ma anche in altre diverse lingue.
Nel comodino c’era un bracciale ornato da perline tutte colorate con motivi triangolari. Accanto c’era un MP3, non se ne vedevano più al giorno d’oggi.
Sospirai. Tutto qui. Mi sentii triste per quella casa e un po’ inquieta. Triste perché era un peccato abbandonare una dimora come quella, inquieta perché ero a casa di estranei e mi sentivo gli occhi addosso. Mi sentivo colpevole. Il silenzio della sera, della casa e del bosco non aiutavano di certo.
Guardai l’orologio nel mio polso. Erano le undici di sera e avevo già sonno.
Uscii dal retro, prendendo dalla camera da letto. La temperatura era scesa ancora, mi coprii la testa con il cappuccio della mia felpa e mi strinsi forte con le braccia.
Calcolai la rotta più breve per tornare a casa da dove mi trovavo, almeno il fiume l’avevo saltato. Era buio e faceva freddo, meditai sulla possibilità di dormire lì, nella casa della famiglia sconosciuta. Con quel gesto potevo spaventare veramente la mia famiglia, beccandomi direttamente il rimprovero di nonno Carlisle. Cioè di tutti poi.
Ritornai indietro, nella camera della bambina. Mi tolsi le scarpe e mi misi sotto le coperte. Fui percorsa da dei brividi per via delle lenzuola fredde. Mandai un messaggio ad Esme:

Sono sana e salva. Sono nel bosco. Tutta colpa mia. Ci vediamo domani.
Vi prego non arrabbiatevi.
Nessie : )

Misi il cellulare nel comodino accanto a me e spensi la luce dell’abat-jour. Mi coprii bene con le coperte fredde portandomele fino alla testa coprendomi tutta.
Mi addormentai subito. Ma fu un altro sonno turbolento. 
  
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