- Lost in a dream. -
Cinque settimane dopo
Che sogno strano era quello? Voleva svegliarsi da quell’incubo, ma non ci riusciva.
Per un attimo, pensò di aver sentito la voce di Ed, ma non lo vedeva. Quel posto assurdo in cui stava camminando era deserto. Cosa significava?
Provò a parlare, ma non le uscì la voce. Si sentiva pesante e intorpidita. Quel sogno era davvero realistico. Non riusciva a ricordare cosa fosse accaduto o quando fosse andata a dormire. Continuò a camminare in quel sogno, senza meta.
Sembrava che il tempo non scorresse, come se fosse intrappolata in una stanza buia.
Percepiva delle strane sensazioni, delle strane voci, ma non riusciva a capire cosa dicessero. Poi, sentì sua madre piangere. Le si gelò il sangue, mentre la chiamava invano. Lei non poteva sentirla e capì presto perché: era in coma.
L’aveva sentita dire chiaramente quella parola. Doveva essere così, altrimenti non si spiegava.
Per ore, non sentì più nulla, soltanto il costante bip di qualche macchinario.
Era spaventata, l’idea di non potersi muovere, non poter parlare la straziava. Avrebbe voluto dire di essere cosciente, ma il suo corpo non riceveva i suoi segnali. Era imprigionata in se stessa.
Non poteva scandire il tempo, non distingueva il sonno dalla coscienza, riusciva soltanto a distinguere qualche parola, ogni tanto. Suo padre doveva essere lì, riconosceva il suo respiro, mentre dormiva.
Cosa era successo? Non riusciva a ricordare. Non sapeva nemmeno se tutto ciò che riusciva a ricordare fosse accaduto realmente o era solo la sua immaginazione, ma poi, come se l’avesse chiamato, sentì la voce di Ed.
Le chiedeva come stava, oggi, se si sentiva meglio. Avrebbe voluto urlare.
- Il livido sta sparendo, sai? Non si vede quasi più. Oggi sono andato alla radio ed ho cantato qualcosa per te. Vuoi sentire?
Si chiese se lui da fuori potesse vedere le lacrime che sentiva scorrere dentro. Si sforzò con tutta se stessa di fare qualcosa. Muoviti, corpo, ti prego. Ma niente, continuava a restare rinchiusa lì.
Troppo presto la canzone finì e il silenzio coprì qualsiasi cosa. Si chiese se Ed le stesse tenendo la mano.
Non sapeva quanto tempo era passato, ma aveva capito di aver dormito. Non sentiva nulla intorno a sé, soltanto il bip. Chi sa se i dottori avevano scoperto qualcosa, se avevano capito che fosse cosciente. Probabilmente no. Non sapeva neanche se fosse reale.
Spesso sentiva dei passi e qualcuno sedersi accanto a lei, ma non udì mai una parola. Questa persona rimase per molto tempo, lo sapeva perché ne sentiva il respiro e i movimenti. Non riusciva a immaginare chi fosse. Magari qualche sua amica, ma chi lo avrebbe mai saputo. Tuttavia, quella presenza la consolava. Ogni tanto sentiva sua madre canticchiare la ninna nanna che le cantava da bambina. Era così dolce riascoltarla.
Raramente, le tornava in mente qualcosa, come una melodia, un’immagine, delle parole, ma poi svanivano di colpo. In quei momenti si stancava così tanto che si riaddormentava.
Riconobbe il profumo di caffè.
Doveva esserci qualcuno. Avrebbe voluto chiedere un sorso, l’orario, il giorno, ma ancora il suo corpo era immobile.
Non sentiva più la voce di Ed da un tempo che le sembrò eterno, ma per quanto ne sapeva potevano essere passati 5 minuti, un giorno, delle settimane.
Qualche volta le capitava di sentirsi meglio, forse per via di qualche medicinale, ma – ancora – non lo sapeva.
Si sentiva terribilmente frustrata nel sentire le voci e non poter rispondere che lei era sveglia, ascoltava. Il bip del macchinario cominciava a darle sui nervi, ma era l’unico indizio che le permetteva di capire se era sveglia.
Riuscì a sentire le voci dei medici, ma non distinse una parola, il suo cervello non era in grado di tradurre.
Quando in un determinato momento si svegliò, la prima cosa di cui fu consapevole fu che Ed era lì e stava suonando. La sua voce le riempì la testa, mentre cantava qualcosa che non aveva mai ascoltato. Una canzone nuova?
Lo sentì avvicinarsi trascinando la sedia verso di lei e cominciò a parlare.
- Senti: Give me love like her, cause lately I’ve been waking up alone. The pain splatter tear drops on my shirt. I told you I’d let them go and that I find my corner and that tonight I’ll call you after my blood turns into alcohol. No, I just want to hold you.
Sì, gli rispose, ma senza un filo di voce.
- Vorrei che tu potessi sentirla.
La cosa che più la turbava, era il fatto di non sentire il suo corpo. Non aveva percezione di nulla, come se esistesse solo la sua mente.
Cercò di ricordare una qualsiasi sensazione: l’acqua sui piedi, la carezza di Martina, l’abbraccio di sua madre. Ci fu una cosa che l’aiutò a sentire un pizzicore: il ricordo di lei e suo fratello da bambini che si facevano il solletico. Le venne da ridere, sentendo i muscoli dell’addome.
Allora il suo corpo era ancora lì, esisteva.
Tutte le volte che era sveglia, cercava di concentrarsi su un ricordo, sperando di sentirsi viva. Non sempre funzionava, troppo distratta dalle voci e dai sussurri o troppo ansiosa di risentire la voce di Ed, che ogni tanto arrivava e la riprendeva dal fondo del baratro.
Le mancava così tanto.
- Sai, mamma ha detto che sei tanto carina. Vuole vedere i tuoi occhi, perché le ho detto che sono belli, quindi sbrigati. Se ti sveglierai, non andrò in tour. Non ti lascerò sola, ma ti prego…torna. Torna da me. Ti porterò a Central Park e a prendere il caffè al caramello. Se vuoi, andiamo al luna park. Dove vuoi, ma resta.
Stava per impazzire. Voleva piangere, urlare, prendere a calci qualcosa.
Il pizzicore non le bastava più, rivoleva la sua vita indietro.
Il ricordo di certi baci e certe carezze la facevano disperare. Ed tornava da lei sempre più spesso o forse era sempre lì e lei non lo ricordava o dormiva.
Stava per arrendersi, ma un giorno sentì chiaramente il calore di qualcuno.
- Ciao. Oggi sono venuto prima.
- Sara? Oh, Cristo. Sara?
- Sara, mi senti?
- SARA! Dottore, mi ha stretto la mano!
- Non lasciarla, ragazzo. Sara, se senti qualcosa, stringi ancora. Provaci.
- Sì! Sì! La stringe!
- È un ottimo segno! Bene, facciamo subito un controllo.
- Allora mi senti! – erano rimasti soli. – Metticela tutta. Io sono sempre qui, tutti i giorni. Mi senti? Io sono sempre qui.
Ogni giorno, la voce di qualcuno dei suoi cari le raccontava qualcosa, tenendole stretta la mano e una volta sentì la voce di suo fratello. Le portava dei biglietti da parte dei suoi amici. Glieli lesse tutti, dal primo all’ultimo.
Un giorno, quando si svegliò, sentì che respirava diversamente. Un lieve dolore le dava fastidio alla gola. Forse le avevano tolto qualche orrendo tubo.
- Ormai vivo per sentirti stringermi la mano.
- Il dottore ha detto che stai riprendendo lentamente tutte le funzioni. Presto potresti svegliarti. Spero di essere qui quando accadrà.
- Ti ho portato dei fiori. – era la voce di sua madre. – Senti il profumo? Vorrei che stringessi la mano anche a me.
- Max, Sara ci sente! Il dottore ha ragione, è cosciente. Ti amiamo, tesoro. Ti aspettiamo.
Doveva aver dormito parecchio quella volta, perché si sentiva particolarmente confusa.
- …così ho detto a J che ci avrei pensato la settimana prossima.
- Ieri è uscito il secondo singolo. Quella canzone che ti ho fatto ascoltare.
Non si accorse di cosa stesse facendo: d’un tratto la luce le ferì gli occhi.
Aveva visto! Aveva aperto gli occhi!
Il bip accelerava insieme al suo cuore.
- Sara!
- Dottore! Infermiera!
- La ragazza è sveglia! Chiamate i genitori!
- Sara, mi vedi? Sono io! Oh mio Dio.
- Oh mio Dio, vedo i tuoi occhi. Resta sveglia, resta sveglia! Guardami, sono qui.
Si era riaddormentata, ma si era anche svegliata altrettante volte, trovandolo sempre lì, insieme a sua madre e a suo padre. Suo fratello era tornato in Italia.
Non riusciva a distinguere i numeri dell’orologio attaccato alla parete, ogni cosa che guardava le sembrava distorta, ma i medici l’avevano avvertita che sarebbe stato così.
Dopo qualche giorno cominciò a muovere il collo e ad essere più cosciente del fatto che era uscita da un coma di un mese e mezzo. L’aria che le entrava nei polmoni era un dono del cielo.
Quasi sempre, quando riapriva gli occhi, vedeva Ed accoccolato vicino a lei che le stringeva la mano, carezzandola col pollice. Un paio di volte era riuscita a ricambiare e anche a sorridere, ma non riusciva ancora a parlare. Voleva fare mille domande.
Ogni tanto emetteva qualche gemito, per chiedere dell’acqua e sua madre subito scattava per servirla. Non era mai stata così premurosa.
Un pomeriggio, le disse che presto sarebbe dovuta andare via, perché il visto scadeva a breve. Il governo americano non le permetteva di restare. Suo padre non si mosse dai piedi del suo letto per i giorni che rimasero.
La mattina della loro partenza, vide J. Era davanti a lei che sorrideva e ricambiò quella sua premura nell’accompagnare i suoi genitori all’aeroporto con il miglior sorriso che riuscisse a fare.
- Ciao tesoro. Mi dispiace lasciarti da sola.
- Ho promesso a tua madre che mi sarei preso cura di te. Prima che ti riaddormenti, vorrei farti conoscere qualcuno.
- Lei è mia madre.
- Ciao, dolcezza. Ben svegliata.
- C…Ciao.
- Non ti sforzare. Ed aveva ragione, i tuoi occhi sono splendidi.
- Gli hai proprio fatto perdere la testa, sai? Lo hai fatto così spaventare che ha perso 5 chili! – la donna rise, prendendo in giro il suo ragazzo.
- Mamma! – e lui era così buffo, quando si imbarazzava.
- Ma è vero! – e gli pizzicò la guancia. – Trattamelo bene, eh!
A due mesi e mezzo dall’incidente
Aveva cominciato la riabilitazione e aveva ripreso a mangiare. Le sue giornate le sembravano ancora faticose, ma ne era felice. Sua madre chiamava ogni giorno da quando aveva ripreso a dire qualche parola e Ed era così premuroso da darle fastidio certe volte.
I medici e le infermiere la incoraggiavano a fare del suo meglio dicendole che più si impegnava, prima sarebbe uscita. Ovviamente lei seguiva quel consiglio.
Da quando aveva ripreso a fare tutte quelle cose, Ed era sempre lì, in ogni momento: a pranzo, a cena, per la riabilitazione, nell’orario delle visite. Poter vedere il suo viso era la sua medicina giornaliera, la distraeva dalle mille domande alle quali non sapeva dare una risposta. Quella fasciatura che aveva alla testa doveva essere la ferita che le aveva provocato il coma. Più ci pensava, più non riusciva a darsi una spiegazione.
Tempo al tempo – continuavano a dirle.
Mary, la dolce madre di Ed, le teneva compagnia quasi per tutto il giorno, ma ben presto andò via anche lei, a causa della scadenza del visto. Tuttavia, non soffrì la solitudine.
Spesso, approfittava delle ore buca per riposare. Non vedeva l’ora di riacquistare le forse per andare a prendere quel caffè al caramello di cui Ed diceva che avesse bisogno. In effetti, non aveva mangiato per praticamente due mesi e il suo peso era sceso drasticamente. Non era mai stata così magra in vita sua e non desiderava davvero esserlo. Il suo seno era sparito, le gambe avevano perso le curve. Infatti, quasi ogni giorno Ed le portava dei cioccolatini, avendo avuto il permesso dal medico.
Guardò l’orologio, riuscendo a distinguere la posizione delle lancette. Sapeva che Ed doveva essere in radio e che tra poco avrebbe cantato. Gliel’aveva già programmata, così dovette soltanto stendere una mano e l’aggeggio si accese.
Qualcuno parlava troppo velocemente e lei capiva ben poco.
- Hi! I’m Ed Sheeran and this is my new song “Give me love”. Enjoy!
Tra le domande che si poneva, c’era anche: cos’erano loro due, ora?
Amici? No, no di certo. Lo sapevano entrambi.
Amanti? Ma il loro non era un rapporto di solo sesso.
Fidanzati? E chi lo sapeva.
Capiva soltanto che quella canzone aveva un significato che la riguardava da vicino.
“All I want is the taste that your lips allow. My, my, my, my. Give me love.”
Arrivò il giorno del suo compleanno. Non avrebbe mai immaginato di trascorrerlo in ospedale, in America. I suoi l’avevano già chiamata e le avevano passato anche la nonna, suo fratello le aveva mandato un sms a mezzanotte.
Alle 10:00, puntuale come sempre, Ed entrò dalla porta, cantandole Happy Birthday con un sorriso stampato in faccia. Rise, quando dietro di lui spuntarono decine di palloncini e un mazzo di fiori, era davvero eccessivo, come sempre. Si sedette sul materasso accanto a lei e la baciò sulla guancia. Niente baci, non deve stressarsi – aveva detto il dottore. Peccato che più non lo baciava, più le veniva il nervoso. Doveva suggerire un cambio di terapia.
Lo guardò in viso e vide che era davvero stanco. Il viso scavato e le occhiaie le fecero venir voglia di alzarsi e cedergli il letto. Si vedeva lontano un miglio che era sfinito, ma non lo avrebbe mai ammesso.
- Buon compleanno! – le disse, porgendole un pacco.
- Ed! Lo sai che non ce n’è bisogno. – ma intanto sorrideva come una bambina.
- Un gatto!
- Sì, un gatto!
- Oh mio Dio, è…è…
- Così, quando tornerai a casa, non sarai sola.
- Grazie. – riuscì a dire.
- Grazie a te. Per essere tornata.
Ed si voltò più volte verso la porta, per controllare che non arrivasse nessuno e le si avvicinò.
Poggiò la fronte sulla sua, permettendole di sentire il suo respiro e con il fiato sospeso, la baciò. La sensazione di quel contatto fu come una scossa elettrica, un fulmine. Lo aveva desiderato anche più di quando erano in Italia: una volta assaggiato il miele, non puoi più smettere di mangiarlo. Fortunatamente non controllavano più il suo battito cardiaco, altrimenti quella macchinetta sarebbe scoppiata. Era una sensazione impagabile. Il regalo più grande.
Ben presto dovettero separarsi, ma le guance di entrambi parlavano chiaro.
La accarezzò ancora, con quella luce negli occhi e poi andò via, per tornare soltanto quella sera.
- Ed. Ti va di dirmi cosa è successo?
- Sei sicura che tu te la senta?
- Prima o poi dovrai dirmelo.
- Già. Beh…eravamo alla conferenza stampa, ricordi? – lei annuì – Quando siamo scesi dalla pedana, una ragazza ci è corsa incontro e ti ha colpito con una mazza da baseball. Ho provato a fermarla, ma non ho fatto in tempo. Sei svenuta e hai cominciato a perdere sangue e sono venuto con te in ambulanza. – era quasi troppo distratta dalle ombre che aleggiavano nei suoi occhi e dalla luce bianca del neon che si rifletteva sul suo viso stanco e sui suoi capelli scompigliati.
- Ti hanno portato in sala operatoria. Non so quante ore ho aspettato, prima che il medico uscisse, forse 4 o 5. Mi ha detto che forse eri in coma e infatti…
- E tu, ti sei fatto male?
- Mi sono rotto un dito, ma è già passato. Ad ogni modo, ho dovuto chiamare i tuoi e li ho fatti venire qui.
- Mia madre ti ha trattato male, vero?
- Sì, ma…tuo padre, è stato lui ad ascoltarmi. In un certo senso, ci siamo capiti. Temevano tutti per la tua vita. Ma tu – e strinse gli occhi - ricordi quando hai ripreso coscienza?
- Sì…era come se fossi in un incubo. C’è voluto un po’ per capire cosa mi fosse successo. Ti sentivo, sai? Già prima di riuscire a stringerti la mano.
- Davvero? – quasi sorrideva all’idea che lei lo avesse ascoltato.
Vederlo appoggiato al materasso, accanto a lei, con quello sguardo, bastava ad ignorare tutto il suo passato.
Angolo autrice:
Salve dolcezze!
A questo punto della storia, lascio tutto nelle vostre mani. L'ho letta e riletta e non riesco a immaginarla diversamente, quindi spero vi piaccia e non sia troppo piatta rispetto ai primi capitoli. :(
D'altronde, si tratta di ancora pochi capitoli.
Intanto, fatemi sapere cosa ne pensate e grazie mille ai lettori silenziosi, siete tantissimi!
Vi lascio il link della cover di "Stay with me", cantata da Ed: https://www.youtube.com/watch?v=48qwvBkpw1g
Buon ascolto e alla prossima!
Bye. :)