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Autore: Queen of Superficial    20/05/2015    4 recensioni
“Immagino fosse la conseguenza naturale delle suore francesi e del corso di danza classica e buone maniere. I miei sono gente all'antica.”
Brian sbuffa sarcastico, essendo lui un fervente attivista contro le suore francesi, la danza classica e le buone maniere.
“E ve la fanno un po' di educazione sessuale, in collegio?”
“Siamo un collegio femminile.”, risponde la bionda quasi in tono di scusa, dopo un attimo di tentennamento.
Lui ride, offensivo. “Quindi non sapete proprio nulla della cosa più divertente del mondo?”
Matt armeggia con la pulsantiera, infastidito.
“Brian, ti sembra il momento di tenere un comizio sulle api e i fiori? Nel caso non te ne fossi accorto, siamo bloccati in un ascensore.”
Genere: Avventura, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Johnny Christ, Nuovo personaggio, Synyster Gates, The Rev, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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the little girl
just could not sleep
because her thoughts
were way too deep
her mind had gone
out for a stroll
and fallen down
the rabbit hole

 

 

Gin si rigira nel letto senza trovare una posizione che le renda possibile addormentarsi. Un’inquietudine strana, senza nome, le si annida nel petto. I pensieri sono così tanti che rischiano di farle esplodere la testa. Negli ultimi anni della sua vita, le esperienze che ha avuto - l’università, gli amici, le persone care che ha imparato a conoscere con gli occhi di un adulto - le hanno instillato dentro una specie di foschia che le rende poco chiare le idee. Non sa più esprimersi come vorrebbe. Era facile, prima, dare un nome alle cose; facile dar loro un ruolo. Ora tutta questa vita semplice, questo universo ordinato anche se imprevedibile e ogni tanto doloroso, si è trasformato in un cuscino puntaspilli in cui lei cerca di infilare una parola, una frase, una spiegazione, e quella salta via come se non avesse appiglio a cui incollarsi e le rimbalza in faccia. Gin è confusa, ma non è la confusione bianca che conosceva fino a qualche anno fa; somiglia più alla nebbia, avvolge e divora, toglie il respiro e cancella i contorni alle cose.
Rick è ancora a San Francisco - ha già scritto due libri, lui, e lo chiamano tutti per intervenire e per collaborare. Lo ha conosciuto perché era l’assistente del suo professore di Psicologica Clinica. Gin si alza e scende le scale sbattendo sui muri. Sono passati tre giorni da quando ha baciato Jimmy. La sera del loro primo appuntamento Rick le ha aperto la portiera della macchina e le ha detto: “Vieni, bambina, ti porto a vedere le cose del mondo.” Le cose del mondo. Quali cose? Due giorni fa Gin ha aperto la mail e ha mandato a Jimmy la sua ricerca sulla Santa Muerte. La sera le è arrivata una risposta: reading, fairy. Ma che ore sono? Le 4:10. Perfetto. Gin crolla a sedere sul divano, in mezzo a libri che non ha mai finito di leggere. Tutto la annoia, perfino l’amore. L’amore... che insensato viavai di tachicardia e silenzio che è stato l’amore, per lei, nella vita. Non ha mai detto di Jimmy a Delia. Non le ha mai detto quanto la irretisse il modo in cui lei le raccontava di lui, quanto incredibile trovasse il suo cervello, quanto le erano care quelle polaroid che sua sorella scattava quando lui era assorto a fare qualcos’altro. Razionalmente - e Gin si era formata come razionalista, ci credeva nella potenza dell’intelletto, lei. Forse. - non ci si può innamorare di una foto. Ma alcune volte le foto hanno odore, colore e ti si muovono in testa. Gin apre il suo vecchio diario a una pagina a caso. “Sono stato vecchio ad Alamo, bambino a Maratona; ogni idea, l’ultima, era buona.”, c’è scritto sul foglio bianco. Lei era stata davvero così: aveva vissuto il mondo attraverso le pagine dei libri, lo aveva imparato, era cresciuta fianco a fianco con persone che non aveva mai visto e neanche esistevano nella realtà. Non le era parso poi così strano, dopo, innamorarsi di una fotografia. Tutte queste cose che sta pensando, proprio tutte, vorrebbe dirle a lui. Alzare il telefono e chiamare Jimmy, per dirgli ogni cosa, in barba alle convinzioni, alle convenzioni, al dare tempo, al far accadere le cose con ordine, al pensare alle conseguenze. Vorrebbe fare una cosa folle. La fa.
Il telefono squilla tre volte prima che una voce assonnata risponda.
“Chi è?”
“Sono Gin.”
“Gin... che ore sono?”
“Zacky, volevo dirti una cosa.”
Zacky si volta verso la sveglia sul comodino.
“Alle quattro del mattino?”
“Scusa se ti ho svegliato, non sapevo chi chiamare. Non ho amici, qui, e non ho ancora confidenza con nessuna delle ragazze. Non abbastanza da chiamarle alle quattro del mattino, almeno. ”
Fa un secondo di pausa. Qualcosa di folle. Bisogna fare cose folli, abbattere le barriere, dire esattamente quello che si pensa e provare a vedere che succede. “E poi, sinceramente, avevo bisogno proprio di te. Non c’è nessun altro a cui avrei voluto dire quello che sto per dire.”
“Aspetta un secondo.”
Zacky si tira a sedere ed esce, nel buio, dalla stanza da letto; Gena manco se ne accorge, a stento cambia posizione. Accende una luce in corridoio e lo percorre fino alla finestra, oltre la quale una luna gigante si sta mangiando Huntington Beach. Mentre si accende una sigaretta, non riesce a fare a meno di sentirsi felice per quel che Gin gli ha detto. Fiero? Boh. Qual è la parola adatta? Chissà se c’è, una parola per descrivere la sensazione che si prova quando si è contenti che qualcuno abbia deciso di fidarsi proprio di te.
“Ti ricordi che quando eravamo bambini ci eravamo promessi che saremmo stati amici per sempre?”, dice la voce di Gin.
Zacky ride, mentre sbuffa fumo, “Sì. Poi mi hai picchiato. Forte. E ti sei tolta i vestiti per buttarti in piscina.”
“Non ci credo, te lo ricordi ancora.”, lo prende in giro lei, ridendo.
“Certo che me lo ricordo.”
Gin non lo sa, ma Zacky conserva quei ricordi - tutti, non solo quelli di lei - di quand’era bambino come un tesoro a cui nessuno può accedere. C’era una vita, prima dei Sevenfold, ed era una vita di tramonti dorati e nessun pensiero. I suoi amici - la sua anima, il suo cuore -, erano venuti dopo, in quel punto in cui l’esistenza inizia ad assumere colori strani e devi imparare a fare i conti con le cose, soprattutto con quelle che ti fanno paura.
“Sai cosa mi dicesti, Gin? Mi dicesti: Zacky, sei la mia persona preferita al mondo.”
“Sono innamorata di Jimmy. Lo sono da sempre.”, soffia fuori Gin, con una mano davanti al viso anche se non c’è nessuno a vederla. Quello che sente poi le smonta le certezze.
“Lo so. O, almeno, lo sospettavo.”
“E come?”, dice lei. Ha gli occhi spalancati nella penombra.
“Non so se questo lo dicono i tuoi libri di psicologia, ma io credo che ci siano cose che restano sempre le stesse, nelle persone. Espressioni spontanee che avevi da bambino e che poi non cambiano mai. Forse è stato più facile per me perché ti ho vista bambina e poi donna, senza niente di mezzo, e quindi il ricordo che avevo di te ha fatto presto a trovare le somiglianze con la persona che mi sono trovato davanti già adulta. È stato il modo in cui l’hai guardato appena l’hai visto.”
Gin sorride.
“Come l’ho guardato?”
“Come guardavi me, quando giocavamo in giardino.”
Il sorriso sul viso di Gin si allarga e le fa eco quello di Zacky, che sta alla finestra con lo sguardo perso in un punto dell’orizzonte che si fonde con il tempo passato.
“Sono stato il tuo primo amore, mi sa.”, le dice.
“Sì, lo sei stato.”
“E tu sei stata il mio.”
“Quattro anni di differenza erano un abisso, all’epoca.”
“Eravamo veramente due ribelli.”
Gin scoppia a ridere.
“Non mi chiedi come mi sono innamorata di Jimmy?”
“È importante?”
“Non lo so. Lo è per me.”
“Se lo è per te allora dimmelo.”
“Il modo in cui mia sorella me lo raccontava, anche e soprattutto quando la faceva arrabbiare. Si incazzava così tanto, Zacky! Lei voleva litigate chilometriche e struggenti e lui invece la zittiva con una frase. E poi tutte quelle foto che lei mi mandava, e le cassette con i video...”
“Ah, ecco perché girava quei video. Un paio di volte si è presentata anche a noi con quella telecamera, ma per lo più li girava quando era sola con Jimmy.”
“Sì. Diceva che voleva mostrarmi la vita.”
“Eri in collegio, mica in isolamento. Ma io poi non so esattamente com’è un collegio.”
“Ho baciato Jimmy, al barbecue.”
“Oh, Cristo onnipotente... E Dick?”
Gin sorride. “Rick.”
“E Rick?”
“E Rick nulla. Non lo so. Non l’ho mai amato davvero, credo. Sarebbe bello che i cuori si sfilassero come si sfilano i vestiti, ma non è così. Sono tornata ad Huntington Beach perché speravo di incrociare Jimmy, e allo stesso tempo ne avevo il terrore. Ovviamente, è successo.”
“Ovviamente.”
Sospirarono insieme.
“Brian sarebbe stata una scelta migliore, comunque. Almeno lui fa parte di una categoria di stronzi che puoi prendere in qualche modo. Jimmy non è così, lo sai? È imprevedibile.”
“Lo so.”
“E ti piace per questo? Perché è una sfida psicologica?”
“Non mi piace, Zack. Non penso mi sia mai piaciuto. L’ho amato e basta, credo.”
“Ottima e terribile risposta, piccola. A lui l’hai detto?”
“Non ancora. Pensi che dovrei?”
“Secondo me gli viene un colpo. Non gli sei indifferente, sai. Dopo il ristorante, quando quella Lilian gli ha mollato le sue mutandine, se ne stava seduto su un muretto a riflettere nel vuoto. Ho creduto pensasse a tua sorella, ma poi riflettendoci credo che stesse pensando a te.”
“Lilian? Lilian Cartwright? L’educanda del collegio?”
Merda, pensa Zacky. Si dà pure uno schiaffo. Gin sente, ma non commenta. Guarda l’orologio: le cinque meno un quarto del mattino.
“Gin, ascolta, io non...”
“Zacky.”
“Senti, domani mattina non credo che trovi sveglio nessuno perché io e te siamo al telefono a quest’ora e gli altri sono andati a una festa al Johnny’s Saloon che probabilmente finirà alle sette, come al solito, quindi se vuoi parlarne da vicino, anche con lui, possiamo fare nel pomeriggio prima delle prove...”, tenta di rimediare lui, imprecando in silenzio.
Gin tace per un momento.
“Al Johnny’s?”
Zacky sbianca, valuta la possibilità di farsi asportare le corde vocali.
“No, Gin, non...”
Troppo tardi.

 

 

Johnny.

 

Le feste al Johnny’s vanno sempre avanti ben oltre la soglia di sopportazione del nostro Johnny, che se ne sta abbandonato in un divanetto in giardino con la birra nella mano destra, inerte, quasi completamente ubriaco. Ridursi come le pezze è una delle cose che gli riesce meglio. Matt ride con alcuni dei roadies, a voce altissima, tonante. Jimmy sta parlando con un tizio, che, da lì, non si vede bene chi sia. Chi se ne frega. Quanto manca all’alba? Ha fatto bene Zacky ad andarsene a casa a dormire insieme alla signora. Lacey domani mattina ha da fare all’università, quindi non si è proprio presentata. Brian, Michelle e Valary... dove sono Brian, Michelle e Valary? Boh. Chi se ne frega. Sempre la solita gente. Le solite facce. Le solite birre. I soliti ubriachi. Le solite urla. Le solite figlie di papà che attraversano il giardino impettite con il vestitino sotto al ginocchio, il golfino, le ballerine e i capelli belli in ordine nonostante siano le cinque del mattino.
...
No, aspetta.
Johnny si tira a sedere giusto in tempo per vedere Ginevra che falcia il prato a passo sostenuto. Jimmy si volta a guardarla giusto un secondo prima di ricevere uno spintone che, se fosse stato sobrio, non l’avrebbe smosso di un millimetro. Ma sobrio non è. Jason - ah, ecco con chi parlava - gli impedisce di sbilanciarsi, con il risultato che il batterista fa appena un passo indietro prima di ritrovarsi Ginevra Kringe a mezzo centimetro dalla faccia.
“È una ragazzina, per Dio!”
Sente Brian bestemmiare tra i denti, indeciso se intervenire o meno: è in piedi dietro di lui, si rende conto Johnny voltandosi, e accanto c’è Zacky. Da dove diavolo è uscito, Zacky? Spuntano come i funghi.
Jimmy sostiene lo sguardo di Gin.
“Forse non la conosci come la conosco io.”
“La conosco benissimo. È una troia, ma resta il fatto che è una ragazzina!”
Tutti ci guardiamo un po‘ inebetiti: ha veramente detto troia?
“Dorothy, guarda che il Kansas è dall’altra parte.”, le dice Jason, intromettendosi.
“Mi rendo conto di aver sbagliato film. Devo essere capitata sul set di Biancaneve. Tu quale dei sette nani sei?”
A Johnny e Zacky viene da ridere, ma si trattengono per rispetto.
Jimmy molla il drink in mano a Jason, che fissa ancora inebetito Ginevra.
“Sei gelosa, fatina?”
Gin lo spintona di nuovo, e questa volta lui le ferma le mani sul suo petto, impedendole di divincolarsi.
“Non puoi pensare di fare tutto quello che ti pare nella vita, James Sullivan, non è così che funziona.”
“Non mi hai risposto.”, le fa notare lui. Sfoggia di nuovo quel sorriso da coccodrillo. Per un momento, Johnny teme il peggio.
“Perché mi hai baciato, allora?”, gli soffia lei.
“Tu mi hai baciato!”
“Irrilevante! Non sembrava che ti dispiacesse!”
“Non mi dispiaceva, infatti.”
Ginevra si gira sconvolta, a bocca semi-aperta, proprio verso il punto in cui c’è Johnny, cercando sostegno. Johnny alza le spalle e apre le mani. Gli altri lo fissano con aria di rimprovero. Johnny abbassa le mani di corsa.
Gin si volta di nuovo a guardare Jimmy, che la fissa in silenzio.
Per dire la verità, è piombato un silenzio generale, etilico.
“Ma che diavolo ci faccio qui.”, dice lei tra sé, all’improvviso. La sua espressione cambia, diventa un velo di confusione e... qualcos’altro. Ma cosa?
“Io ho cercato di fermarti.”, le fa Zacky, facendo un passo avanti. Lei si volta a guardarlo come se lo vedesse per la prima volta.
Dolore, forse.
“No, cosa ci faccio qui ad Huntington Beach. La vita sarebbe stata molto più semplice, a Dusseldorf.”
“Mi dispiace informarti di questa cosa, ma la vita è complicata ad Huntington Beach, a Dusseldorf e da qualunque altra parte, piccola.”
Gin si volta di nuovo verso Jimmy, che ha appena finito di pronunciare quella frase. Johnny si alza, vorrebbe avvicinarsi ma non sa se è il caso. Si stupisce che Brian non sia ancora partito all’attacco per smorzare i toni tra lei e Jimmy; non sa cosa gli ha detto Zacky, prima di entrare.
“Hai ragione.”, dice all’improvviso Gin, e il silenzio si intensifica colorandosi dei toni dello stupore, “Sono stata proprio una stupida. Tu non mi devi nulla. La mia è stata una reazione d’istinto. Ero a telefono con Zacky e appena mi ha detto di Lilian sono partita come una molla. Mi dispiace, davvero. È stato spropositato da parte mia, ma devi scusarmi. Scusate tutti. Sono un po‘ a digiuno di vita, non so comportarmi. A quanto pare ci sbagliavamo”, fa a Jimmy, un po’ ferita, “dieci anni di carcere di massima sicurezza hanno dato i loro frutti.”
Fa un passo indietro, e Johnny si avvicina, fregandosene di tutto il resto. Lei si muove spaesata, non sa cosa fare. Continua a indietreggiare e alla fine gli sbatte addosso. Non Zacky, non Jimmy, ma lui, Johnny, la volta verso di sé e le legge tutta la confusione e il dolore del mondo negli occhi, quindi la abbraccia. Lei piega la testa per appoggiargliela sulla spalla, è scossa e trema un po’. “Non è successo niente, piccola.”, le dice, accarezzandole i capelli. Gli altri si sbloccano, tutti insieme. Valary si avvicina e le poggia una mano tra le spalle, e Gin si irrigidisce. Sta pensando a quanto è cretina, e a che figura di merda ha fatto.
Johnny vorrebbe che ci fosse Lacey: lei saprebbe cosa dirle. La schiena di Gin diventa una tavola di marmo e lei tira su il viso e si volta verso Jimmy, fronteggiandolo a quattro metri di distanza. La delusione ferita che lei ha negli occhi è una vista insopportabile, almeno per Johnny.
“Mi dispiace. Di tutto quel che ho detto prima, ma anche di molto altro. Mi dispiace che tu non sia in grado di stabilire il tuo valore e che per questo la tua vita sentimentale sia uno sfacelo. Mi dispiace che tu abbia pensato di doverti giustificare, con Delia o chiunque altro, per le cose che pensi e per il modo in cui sei, e mi dispiace che lei non sia stata adatta a capire cosa aveva tra le mani. Mi dispiace che tu ti senta responsabile per lei, perché credimi, tutto il male che si è fatta se lo è fatta da sola. Mi dispiace aver creduto così tanto in te da non aver avuto più spazio per credere in nient’altro, a un certo punto della mia vita. E mi dispiace, moltissimo, sono davvero desolata, per me stessa. Per la fine che ho volontariamente scelto di fare, e per aver corso il rischio di tornare qui sapendo che ti avrei rivisto e che sarebbe stata una tragedia.”
In sottofondo, dalle casse, c’è Nothing compares to you di Sinead O’Connor. Una canzone che non c’entra nulla con le altre della playlist. Chissà che diavolo ci fa lì.
“Mi dispiace per i tuoi incubi, che sono così simili ai miei. Mi dispiace che tu creda di essere prigioniero di te stesso. Mi dispiace anche che tu abbia avuto bisogno di una Lilian; di quelle ce ne sono in giro quante ne vuoi, ma, che io sappia, non hanno mai risolto alcun problema. Semmai ne hanno creati. Ma non sono affari miei. Scusate l’intrusione, me ne torno a casa.”
Jimmy non ha detto una parola. La guarda e basta, la ascolta. Lei si volta per andarsene.
Johnny si fa di lato per lasciarla passare, ma qualcun altro le sbarra il passo. Brian.
“Vuoi qualcosa da bere?”, le chiede. 
Gin sorride.
“Non mi sembra il caso, Brian, ma grazie.”
“Resta.”
Gin si volta a guardarlo, non gli dice nulla.
“Resta.”, ripete Jimmy.
Tutti si voltano verso Gin, in attesa.
“Va bene, resto.”, risponde lei, senza un’ombra di rancore.

 

 

Alba.


Jimmy e Gin sono seduti su un dondolo, nel giardino del Johnny’s. Il resto della truppa, incluso Zacky che alla fine si è trovato lì e ci è rimasto, è riverso sui tavoli e sui divanetti interni. Fa un po‘ freddo, e Gin si stringe le braccia intorno al corpo. Jimmy la guarda di sottecchi, si sfila la felpa e gliela porge.
“Grazie.”
Poi le passa un braccio intorno alle spalle e se la tira accanto: “Forse è arrivato il momento di parlare.”, le dice. Finora hanno, più che altro, bevuto.
Gin si passa le mani sul viso. “Io devo chiamare il Collegio per avvertirli che stamattina dormo.”
Jimmy ride. “Sì.”
Lei lo guarda tra le dita dischiuse, le abbassa, si sporge, lo bacia. Un bacio così intenso, carico di significati.
“Bisognerà dire qualcosa a Rick, prima o poi.”, osserva Jimmy.
“Dick.”, lo corregge lei, automaticamente, “Ah, no. L’avevi detto giusto.”
Si guardano e scoppiano a ridere.
“Siamo ubriachi.”, dice lei.
“Tu più di me. Sei arrivata vergine, dall’Europa.”
Gin annuisce, ironica. “Non sai quanto hai ragione.”
Jimmy le getta uno sguardo allusivo, e lei annuisce di nuovo, con aria saggia. Lui ha la delicatezza di non prodursi in espressioni sorprese.
“E Dick?”, le chiede, neutro.
“E Dick dice che le mie paranoie devono essere smontate un po‘ alla volta, e che aspetta che io sia pronta e che il lavoro di sblocco che sta facendo su di me dia i suoi frutti.”
“È un lavoro di sblocco che non prevede le mani, mi pare di capire.”
Gin scuote la testa, e lo guarda. “Sei geloso?”
“E tu, fatina?”
“Perché mi chiami fatina?”
“Perché è quel che sei. Niente con quel vestito era mai entrato al Johnny’s. Niente che non fosse una spogliarellista in costume da educanda.”
Gin scoppia a ridere.
“Domani è Natale.”, osserva, pensierosa.
“Non cambiare argomento, mi stavi raccontando di Dick.”
“Già, dove eravamo rimasti?”
“Mi dicevi che Dick è gay.”
Gin scoppia a ridere di nuovo. “Non ho mica detto questo! Ho detto che aspetta, con pazienza, che io sia pronta per il sesso.”
“E dorme affianco a te tutte le sere. È gay.”
“D’accordo, allora, ricapitolando, sono una sognante, disorganizzata ex educanda di collegio che non sa comportarsi, si veste come una bambola di porcellana e ha un fidanzato gay.”
“Non è più il tuo fidanzato.”
“Ma lui ancora non lo sa.”
“Lo sappiamo io e te.”
Gin sorride all’erba.
“Con te lo farei anche stasera. Anche in questo istante.”, dice, e avvampa.
Jimmy si volta a guardarla, sorride anche lui.
“Sono andato a prendere Lilian, la sera prima del barbecue, con l’intenzione di scoparmela. Poi non è successo. Non mi andava.”
Gin lo guarda sorpresa. Lei non sa dissimulare.
“Quell’espressione stupita dal fatto che io non abbia fatto sesso con una pur avendone l’occasione devo prenderla per l’opinione che hai di me, fatina?”
“Certo che devi.”, risponde lei, convinta.
“Potresti dirmi qualcosa di carino, una volta, tanto per cambiare. Finora hai fatto l’elenco delle mie mancanze e hai pungolato senza sosta la mia virilità. Sono un po‘ offeso.”
Gin gli sorride, dolcissima. “Ti ho sempre amato, Almost easy.”
Lui la guarda senza parlare. Sono dieci secondi, ma sembrano dieci anni. “Non hai mezze misure, eh?”
Gin si stringe nelle spalle, per nulla turbata. “No, e oltretutto non reggo l’alcol.” Si alza in piedi: “Penso che andrò a casa a dormire.”
“Vieni a casa con me.”
Lei lo guarda sorpresa, abbassando lo sguardo sul dondolo su cui lui è ancora seduto, tranquillo come se non fosse successo niente.
“Dormiamo e basta.”, dice, alzando le mani, lui, per rassicurarla.
“Qualcuno mi ha detto che pianificare sempre tutto non fa bene. Andiamo a casa e vediamo che succede.”
Jimmy scoppia a ridere, si alza per seguirla; quando la raggiunge, le mette un braccio intorno alle spalle.
“Puoi ripeterlo ancora una volta?”, le fa, mentre attraversano un Johnny’s Saloon che sembra la fine di una partita di Call of Duty, con tutti riversi cadavere sui tavoli e i divani. Con la sola differenza che questi russano. Forte.
“Cosa?”
“Quello che hai detto prima.”
“Che pianificare non fa bene?”
Gin in realtà ha capito. Gli afferra la mano che è sulla sua spalla, stringendosi a lui.
“No, prima ancora.”
Allora, alza gli occhi per guardarlo.
“Te lo ripeto a casa, se per te è lo stesso.”
“Se me lo ripeti a casa potrei non rispondere di me.”
Gin si stringe nelle spalle. “Pazienza.”, dice, mentre escono alla luce del sole di Huntington Beach.

 

 

To stay the hero,
sometimes you have to prove
you can turn into the villain.

 

 

Ginevra si muove sicura nella geometria sconosciuta che è casa di Jimmy per lei. Guarda i soprammobili, il colore delle mura, la disposizione degli oggetti; è tutto lontano, come dentro una nebbia leggera.
“Non so bene come comportarmi.”, dice lei, appoggiando il golfino sulla spalliera di una sedia dandogli il sentore di un gesto che le vede fare da sempre, anche se non è mai stata lì. Jimmy è rimasto sulla porta con le chiavi in mano e le mani in tasca, appoggiato allo stipite, a guardarla. Sta pensando che lei si incastra perfettamente con quel posto, per un’arcana, inspiegabile magia sulla quale non ha voglia di indagare oltre.
“Intendi che non sai bene come comportarti qui ed ora, oppure in generale nella vita?”
Gin ride, e nel farlo getta un po’ la testa all’indietro; non lo guarda, e lui sa perché. Non è molto più grande di lei, ma è più esperto, più sveglio e più navigato di lei: riconosce il momento in cui a una donna viene meno la spavalderia che ha usato in un territorio più neutro e innocuo di una casa, e improvvisamente si accorge di avere davanti una bambina. Quanto mondo non conosce, Gin, e quello che conosce lo ha sempre e soltanto filtrato attraverso i propri occhi, e forse i suoi; persone così non hanno vita facile anche quando sono libere di muoversi senza l’oppressione delle quattro mura di un collegio a pesargli addosso come una sentenza, figurarsi poi se all’ombra di quelle mura ci hanno vissuto tutta una vita. Una vita soltanto immaginata, come la sua.
“Vuoi del latte?”, le chiede, senza sapere perché. Lei si guarda intorno, ma non le interessa l’arredamento; Jimmy sa che i suoi occhi stanno facendo un giro inutile perché non trovano il coraggio di posarsi su di lui, eppure lo desiderano ardentemente. Così appoggia le chiavi sul mobile dell’ingresso, e quel lieve tintinnio fa sobbalzare Gin come il rumore di uno sparo. Le va vicino, dietro le spalle. Così vicino che Gin riesce quasi a sentire il suo respiro fondersi con il proprio. Lui è tranquillo, lei non lo è, il sole filtra arancione dalle tende dischiuse e una lieve brezza muove l’aria intorno a loro. Si appoggia all’indietro addosso a lui, perché nessuno le ha insegnato che non si fa, oppure, più probabilmente, le hanno spiegato soltanto la teoria, e quella da sola non basta mai. Il tempo si incastra tra le corde di un violino.
“Era la mia testa, non Delia. La mia testa li ha convinti a mandarmi in collegio.”
Jimmy è saldo, tridimensionale dietro di lei; ha abbassato appena la testa, per farle sentire che risponde al suo contatto, ma non ha mosso le mani. Sarebbe troppo. Lei non lo sa, forse, ma lui di certo sì.
“Li ho sempre spaventati così tanto. Parlavo con l’aria, da bambina, ma io vedevo e sentivo cose che per loro erano oscure e imprendibili. Io pensavo ad un ritmo che non gli sarebbe mai stato familiare o comprensibile, perché non avevano mai visto né sperimentato nulla del genere. A molti non capita, a noi è capitato.”
Jimmy respira tranquillo, muovendo appena il collo. La mano di Gin si spinge all’indietro, trova la sua nella tasca e si circonda la vita con il braccio; soltanto allora lui muove l’altra, di sua spontanea volontà, per chiuderla dentro un abbraccio che, per lei, durerà per sempre.
“Tutto quel che vedevo, lo scrivevo. Sapevo che era soltanto nella mia testa. Ma era vero. Volevo che loro capissero, volevo condividere se non altro la ragione dei miei lunghi silenzi. Di quelle cose che mi facevano restare, la notte, ad occhi spalancati nel buio, a sobbalzare per gli spifferi e a vedere animarsi le ombre sul muro. Quando si sono accorti che non erano paure infantili, ma il mio mondo personale, e che probabilmente lo sarebbe sempre stato, mi chiusero in collegio. Soprattutto da quando Delia aveva iniziato a frequentare cattive compagnie, cioè voi. Ma io ero la compagnia peggiore. Hanno sempre pensato che sia stata io, e quel che le raccontavo, a spingerla verso la strada che poi se l’è ingoiata viva. In realtà lei ce l’aveva con me, ma era un’invidia bianca, senza tracce di cattiveria. Avrebbe voluto la mia testa, così ha pensato di infilarsi dentro la tua. Avrebbe voluto vedere le cose che vedevo io, così ha iniziato con la droga. Ma le mie sono sempre state immagini che nessun allucinogeno poteva evocare.”
Si divincola dall’abbraccio con dolcezza. Jimmy non è troppo sorpreso di vederla accendersi una sigaretta, ma poi lei siede sul tavolo, tira su le gambe, crolla la testa e lo guarda di sottecchi, con un mezzo sorriso negli occhi; allora, sì, è sorpreso, perché si rende conto che la sta vedendo per la prima vera volta. Lo guarda, lei, con la testa di galassie, sussurri e ombre che gli ha appena descritto. Ora sa perché sta con Dick, sa anche perché non è arrabbiato con lui per Delia, sa perché non è scappata via una volta e per tutte da qualunque collegio e sa anche com’è sopravvissuta tutti quegli anni: Ginevra Kringe è una donna che sa come stanno le cose. Il pensiero, per un attimo, lo spaventa. C’era una volta Ginevra Kringe e a quanto pare c’è ancora, anche se qualcuno ha fatto di tutto per rubarle la vita, per trasformarla in altro da se stessa, per mettere un freno a quella testa impossibile.
“Li spaventavo, Jimmy. Sbiancavo fissando un punto nell’aria, piangevo per giorni senza motivo, sapevo cosa stessero pensando non perché gli leggevo nel pensiero, ma perché sono sempre stata brava con le persone. Le persone, quello che creano, quello che credono, quello che temono e quello che sentono erano e sono il mio campo. Ho un intuito incredibile, come se avessi le antenne, per tutto quello che sta nelle crepe tra la realtà dei fatti in cui la gente vive e lo spazio immenso in cui la gente pensa. Non credo di essere in grado di spiegarlo a te né ad alcun altro, e vorrei che tu non provassi a capire. Però è così. Io sono questa. Lo sono da sempre, lo sarò per sempre, e sono stanca di pagare per quello che sono.”
Jimmy si volta e va al frigo, a prendere in mano il cartone del latte per stringere le dita attorno a qualcosa di solido che non sia il collo di Delia Kringe. Delia, i suoi capelli neri sparsi sulla coperta che si portavano sulla spiaggia quando passavano la notte strafatti a raccontarsi gli incubi contando le stelle. Delia, le sue mani esperte, le unghie con lo smalto sbeccato che gli si conficcavano nelle gambe. Improvvisamente, sente un liquido fresco colargli giù per il braccio e si volta, stordito, verso Gin; a stento si è accorto di aver stretto così tanto il cartone del latte da farlo esplodere, ma lei non sembra impressionata. Fuma piano e lo osserva, con un ginocchio al petto e una gamba pendula oltre il bordo del tavolo. Tranquilla, silenziosa come un incubo ipnotico. Ora capisce, Jimmy, che lui e Brian si sbagliavano, al barbecue di casa Haner: lei non è affatto fuori posto, lì. Anzi, ha avuto la lungimiranza di tornare nell’unico posto in cui potesse veramente dirsi a casa. In mezzo a loro, e con lui.
“Ti capisco bene, invece.”, le dice all’improvviso, e lei scende dal tavolo e gli va vicino facendo frusciare il vestito intorno alle gambe. Trova uno straccio sul mobile della cucina che nessuno ha messo lì e asciuga dolcemente il latte sul suo braccio.
“Delia non ha cercato di uccidersi per te, ma perché voleva disperatamente vivere in un incubo. Tu lei sei servito da scusa. Mi ha sempre invidiata, perché a me veniva naturale, la tenebra. Ma nessuno, Jimmy, nessuno ha il diritto di desiderare i drammi degli altri.”
“Avresti voluto essere normale?”
Gin sorride, concentrata sul bianco che ancora macchia i tatuaggi. “Lo sono.”, gli risponde, “Non ho mai conosciuto qualcosa meglio di quanto conosco me stessa, ed è chiaro che, per me, io sono normale e gli altri sono strani.”
“E non ti pesa?”
“Certo che mi pesa. Ma è casa mia. Il buio è casa mia, l’invisibile è casa mia, Edmund Burke e le fantasie distorte sono casa mia, e non si può fare a meno di voler bene alla propria casa. Anche quando è oscura e imprevedibile.”
Appoggia lo straccio e alza gli occhi per guardarlo. “Ormai è da quand’ero poco più di una bambina che non vedo più le cose. Però continuo a sentirle. Sono parte di me.”
“Di quali cose parli?”
“Paure. Fisiche, tridimensionali. Finali alternativi a cose che vanno, in realtà, in un altro modo. Soltanto idee, che per me sono reali. Non so se le invento oppure le sento, ma dopo un po’ non fa più differenza.”
Si ferma un pensiero sopra le loro teste. Gin si guarda intorno, chissà cosa vede, cosa sente.
“È vero che quando guardi nell’abisso l’abisso guarda dentro di te, ma a tutto si fa l’abitudine, quando si impara il proprio spazio nel mondo. Diventa quasi facile.”
Jimmy sorride. “Almost easy.”, dice.



 

Johnny’s Saloon, ore 8:25


Una figura avvolta in un lungo soprabito appare in controluce sulla porta principale del bar.
Johnny, semisveglio e misteriosamente in piedi al centro di quella scena da guerra del Vietnam che è diventato l’interno del Saloon dopo la più grande festa etilica degli ultimi vent’anni, alza una mano per mettere a fuoco. Senza successo. Ma tanto non capisce niente. Non sa come mai si trovi lì. La stanza gli gira intorno o forse sta girando lui, e in ogni caso tutto è sfocato e senza contorni. Si accorge a malapena di essere vicino alla porta sul retro.
“Devo parlare urgentemente con Zachary Baker.”, dice la figura, una voce di donna, forse. Zacky, riverso su una panca dietro un tavolo che lo nasconde alla vista, apre un occhio. Shadows, disteso sul bancone, alza lievemente il collo, e con lui Jason Barry, che è rimasto miracolosamente in equilibrio seduto su uno sgabello e fino a quel momento stava profondamente dormendo su una coscia del cantante.
“Devo parlare urgentemente con Zachary Baker.”, ripete la donna-forse.
Johnny non lo ricorderà, e non ricorderà neanche cosa sta per rispondere; invece lo ricorderanno, sconvolti, Zacky, Matt, Jason e la figura, in maniera così nitida che lo racconteranno a chiunque vorrà ascoltare per molto tempo dopo quella mattina.
“Zachary Baker è morto.”, risponde Johnny, solenne. Poi impartisce una benedizione episcopale, inciampa sullo scalino della porta sul retro e si dirige barcollando in cortile, verso i dondoli.

 

“The world breaks everyone
and, afterwards,
many are strong at the broken places.”
- Ernest Hemingway





 

   
 
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