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Autore: Calliope49    23/05/2015    3 recensioni
*COMPLETA*
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Treville vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».

Una calma insolita è piovuta su Parigi, ma la situazione non è destinata a durare. Strani incidenti, un omicidio e la comparsa di un misterioso bandito daranno filo da torcere agli uomini del re. Nel mezzo, una ragazza e troppe cose che non sono quello che sembrano…
[AthosXNuovoPersonaggio; Accenni Constagnan e Annamis]
[N.B. La storia non tiene conto degli sviluppi della seconda stagione perché è stata ideata prima che ne cominciassero gli episodi]
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Captain Treville, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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XV
Tempesta - parte prima
 
 
L’aria sembrava essersi mitigata, il vento che faceva danzare le fiamme nei bracieri era meno freddo, meno graffiante ma spingeva nuvole da lontano, banchi di nubi gonfie di pioggia.
Dalla mensa arrivavano gli schiamazzi degli ultimi uomini che si erano attardati per la cena.
Aramis stava pulendo la propria pistola, in silenzio. D’Artagnan sbriciolò quel che restava di una fetta di pane per due piccioni che passeggiavano intirizziti nel cortile.
Appoggiato con un fianco al bordo del tavolo, Athos cercava di mettere ordine tra i propri pensieri. Erano sempre pensieri molesti quelli che si annidavano nei suoi silenzi, immagini vivide e perfette di ricordi insistenti, da lavare via con il vino più tardi. Quella sera però c’era qualcosa di diverso, il passato spariva in dissolvenza in mezzo ai chiaroscuri di un presente che ancora non era riuscito a mettere a fuoco, o che semplicemente non aveva il coraggio di guardare in faccia.
Il rumore di passi pesanti e respiro affannato spezzò quel momento di calma.
Non si erano chiesti dove fosse sparito Porthos, che mancava da tutto il pomeriggio ormai. Adesso eccolo lì, che attraversava il portone con qualcosa di grosso e ingombrante in spalla.
Quando entrò nella macchia di luce proiettata dal fuoco, si accorsero che non era qualcosa. Era qualcuno.
«Non voglio saperlo. Vi giuro che non voglio saperlo» mormorò Aramis.
Porthos proseguì fino al centro del cortile. Il corpo che aveva in spalla oscillò nella sua presa.
«Non disturbatevi a darmi una mano, eh» borbottò il moschettiere, con uno sbuffo, le labbra tese per lo sforzo.
Lasciò cadere malamente il corpo su una sedia vicino a uno dei pali di legno dietro al tavolo. Si tolse il cappello e si fece aria. Sotto il tessuto scuro della bandana, la fronte era imperlata di sudore.
«È vivo?» chiese d’Artagnan, indicando con lo sguardo l’inusuale bottino che Porthos si era trascinato dietro.
«Certo, per chi mi hai preso?»
«E chi o che cos’è, oltre a essere vivo?» chiese Aramis.
A occhio e croce, sembrava un mendicante raccolto dalla scalinata di Notre Dame, o qualcosa di simile: vestiti cenciosi, colorito vagamente itterico, capelli unticci tagliati storti. C’erano buone probabilità che Porthos volesse adottarlo.
«Vi ricordate l’altro giorno a casa del conte, quando ho visto alla finestra qualcuno che pensavo di conoscere?». Porthos allungò un’occhiata sul tavolo per cercare qualche bicchiere ancora pieno. Non ne trovò. «Be’, alla fine non mi ero sbagliato. Lo conoscevo da… sapete, la Corte dei Miracoli. Non è il soggetto più raccomandabile del quartiere».
Gli altri annuirono, evitando di far notare che i soggetti raccomandabili in quel posto dovevano essere una minoranza, per non dire un miraggio.
«Si chiama Vrel. Mi sono chiesto cosa ci facesse un tipo del genere a casa del conte e ho pensato che fosse una buona idea chiederglielo»
«E te lo ha detto?» domandò Athos.
Porthos scrollò le spalle massicce. «No, non ancora».
«Vediamo di scoprirlo, allora». Aramis si alzò e versò sul volto di Vrel una mezza caraffa d’acqua. 
Lui aprì gli occhi di colpo, rabbrividendo e cacciando un rantolo simile al verso di un piccione in agonia.
«Cos- aaah!». Si spinse con le spalle magre contro lo schienale della sedia, poi scattò per rimettersi in piedi. D’Artagnan lo spinse giù con un’occhiata severa.
Porthos sorrise, sardonico. «Ciao, Vrel, ah ci siamo già salutati» disse. «Loro sono i miei amici. Dobbiamo farti qualche domanda, se ci piaceranno le risposte, ti faranno andare via sulle tue gambe, o su una di esse, almeno».
Vrel spostò lo sguardo sulle facce dei moschettieri con l’aria da topo in trappola.
«Io non ho fatto niente… non potete tenermi qui. Lasciatemi andare!» replicò.
«Amico, credi davvero che a un moschettiere serva una scusa per far impiccare uno come te?» intervenne Aramis, mellifluo.
L’espressione di Vrel si fece meno ostile. Strinse le labbra con aria di resa, poi sputò in terra saliva mista a muco e si asciugò la bocca con la manica lercia.
«Cominciamo con le domande. Se fai il bravo, ti rimediamo anche un pasto caldo e un bicchiere di vino».
«Uno solo?» fece Vrel, aggiudicandosi un quartetto di occhiatacce. Alla fine sospirò. «Pensate che uno come me ne sappia tanto? Che volete?»
«Sapere cosa ci facevi a casa del conte Legrand»
«Prima il vino».
Ragionevole, dopotutto.
D’Artagnan scosse la testa, sparì per qualche minuto in direzione della mensa e ne tornò con una bottiglia e un bicchiere.
Vrel ingollò lunghe sorsate, fece schioccare le labbra e sorrise soddisfatto.
«Mi dovevo vedere con un uomo, il tirapiedi del conte, mi hanno rimediato un lavoretto, a me e ad altri, cosa c’è di male in questo?» disse.
«Be’, dipende dal tipo di lavoretto» osservò Porthos.
«Aspetta, aspetta. Il tirapiedi del conte, hai detto?» esclamò d’Artagnan. «Jean-Pierre?»
«Sì, mi sembra che si chiami così… che razza di nome!».
I moschettieri si scambiarono un’occhiata. I loro pensieri stavano andando nella stessa direzione.
Dunque Jean-Pierre non aveva lasciato Parigi.
Dunque il conte lo stava nascondendo.
Dunque c’erano buone probabilità che fosse davvero lui l’assassino di Luc Morice. E che la povera Marie fosse morta per una vendetta.
Ma ancora, non c’era nessuna prova.
«Va bene. Che tipo di lavoretto ti ha offerto Jean-Pierre?» continuò Aramis.
«Lo stesso dell’altra volta»
«Potresti essere un po’ più chiaro?»
«Scaricare merce da una nave che sarebbe attraccata nel porto di Parigi».
Vrel sembrò sorpreso dal silenzio dei moschettieri.
«Sulla Senna» borbottò, allungando la mano che reggeva il bicchiere vuoto. «A Parigi non c’è il mare, sapete».
«Grazie dell’informazione, pensavo che quello che si vede dalla mia finestra fosse lo stretto della Manica, invece forse è una fontana» sbottò Aramis, versando altro vino al loro ospite.
«Hai detto che hai già fatto questo lavoro un’altra volta» interloquì Athos. «Quando?».
Vrel contò sulla punta delle dita. «Un mese fa»
«Sempre per conto dell’uomo di Legrand?»
«Sì».
D’Artagnan si passò una mano tra i capelli e si voltò, dando le spalle all’uomo. Gli altri lo imitarono e si strinsero a crocchio, in testa e sulle labbra le stesse parole.
«Un mese fa. L’incendio in Rue Saint-Lazare» mormorò il guascone.
«Le pistole nascoste» continuò Porthos.
Già…
Si voltarono di nuovo verso Vrel, in contemporanea. Lui stava bevendo altro vino direttamente dalla bottiglia e ora il suo colorito sembrava giallo più intenso, come una pergamena bruciata.
«Che cosa avete scaricato dalla nave, lo sai?» domandò ancora Porthos.
«Ovvio che no. Ci hanno detto che ci avrebbero ammazzati se avessimo visto dentro le casse, ma era roba pesante»
«E dopo che ne è stato delle casse?» incalzò Athos.
Vrel scrollò le spalle. «Le abbiamo messe su dei carri. I carri sono partiti in direzioni diverse… poi non lo so».
Fecero all’uomo cenno di aspettare,  si voltarono e si allontanarono di qualche passo.
Il disegno che avevano tentato di decifrare in quei giorni appariva via via meno sfocato.
«D’accordo, qual è la teoria? Legrand contrabbanda armi?» domandò d’Artagnan.  
«Legrand contrabbanda armi. Luc Morice gli prestava le case vuote che aveva sparse per Parigi perché le usasse come deposito. L’incendio in Rue Saint-Lazare ha attirato l’attenzione su Morice, il conte lo ha fatto uccidere perché sapeva troppo e non era più utile» riassunse Aramis.
Porthos tese in avanti le mani, come a chiedere di rallentare il corso di quei pensieri e di quelle supposizioni - ormai molto più che supposizioni - che stavano cominciando a diventare ingombranti e troppo veloci, come una valanga sul fianco di una montagna.
«Sì, va bene, ma perché?» disse. «Perché un conte ricco e influente, con la fama del buon samaritano per giunta, si dovrebbe immischiare in cose del genere?»
«Con le opere di bene si è comprato il rispetto della nobiltà e del re» spiegò Athos. «Le armi gli servono per comprarsi qualche altra cosa, da qualcun altro».
«Quando siamo stati a casa sua, tutte quelle carrozze, tutta quella gente importante» disse d’Artagnan. «Il commercio di armi è tenuto sotto controllo, se qualche riccone cominciasse ad ammassare fucili per il proprio esercito personale, darebbe nell’occhio, invece se le armi sono di contrabbando…»
«Inoltre, tutti i permessi e gli aiuti che occorrono al conte per costruire i suoi ospedali e i suoi orfanotrofi e i sanatori…»
«E le armi non servono solo ai nobili e ai ricchi, ma anche ai criminali, a gente come lo stesso Morice».
«Dannazione!». Aramis si portò il pugno alla fronte, quasi divertito dalla complessità della faccenda che ora appariva più chiara sotto ai loro occhi. «Se ci abbiamo visto giusto, il conte deve aver messo in piedi una bella rete da ragno in tutti questi anni».
Sì, era tutto molto divertente, ed era quasi un sollievo essere riusciti a trovare il bandolo della matassa. Ma restava il fatto che non avevano prove per accusare un uomo tanto potente.
«Ci servono quelle armi e quelli che le trasportano» disse Athos, puntando l’indice.
«E Jean-Pierre» aggiunse d’Artagnan con una scintilla nello sguardo.
Da qualche parte in lontananza brillò il bagliore di un lampo a squarciare il cielo scuro della sera.
«Dov’è il mio pasto caldo?» brontolò Vrel.
«Dicci un’ultima cosa e lo avrai: quando dovrebbe attraccare la nave che devi scaricare?»
«Domani sera».
Bene.
«Porthos, accompagna il tuo amico in mensa» disse Athos, poi guardò gli altri due. «Dobbiamo parlare con Treville, dobbiamo trovare quella nave e quelle armi».
Ora sapevano da dove cominciare.
 
***
 
Diane alzò lo sguardo verso l’alto.
Non c’era una sola stella a brillare in cielo, la luna era una macchia di luce biancastra dietro un velo di nuvole, ma le strade di Parigi erano ancora ben illuminate a quell’ora.
La grossa cesta le pesava tra le braccia. Aveva pensato che riportare alla guarnigione la roba che aveva rammendato fosse una buona scusa per sgusciare via da casa Bonacieux: ora che il marito di Constance era tornato, l’aria si era fatta un po’ opprimente.
Attraversò il cortile della caserma, come sempre, illuminato e rumoroso, con moschettieri che andavano e venivano. Quelli in procinto di partire per la ronda notturna stavano sellando i cavalli, quelli di ritorno dalle proprie mansioni portavano avanti e indietro bottiglie di vino recuperate nell’osteria più vicina.
Un paio di loro si toccarono la falda del cappello quando incrociarono la nipote del capitano.
Aramis e d’Artagnan erano attorno al tavolo ingombro di bicchieri sporchi e resti della cena, di Porthos e Athos non c’era traccia.
D’Artagnan le andò in contro quando la vide arrivare e le tolse da mano la grossa cesta che appoggiò sulla panca.
«Sembra che si stia preparando una tempesta con i fiocchi» disse la ragazza annusando l’aria che aveva già il sentore ferruginoso della pioggia. «Per fortuna che vi ho riportato queste». Indicò la grande cesta dalla quale spuntavano i lembi delle mantelle nere dei moschettieri.
«Non c’era nessuna fretta. Un po’ di pioggia non ha mai fatto male a nessuno» replicò Aramis.
«Be’, mi preme mantenere in salute il reggimento di mio zio»
«Come stai, Diane? Sembri provata»
«Mio zio ha deciso che è ora che io impari ad andare a cavallo. Mi dà lezioni, quando ha tempo».
Aramis e d’Artagnan ridacchiarono.
«C’è da avere paura di quello che potresti combinare, andando a cavallo»
«Ah, grazie della fiducia». La ragazza fece una smorfia e tirò fuori le mantelle dalla cesta. «Cosa ci fate voi moschettieri con i bottoni? Li usate quando siete a corto di proiettili?» sbuffò.
«Mi hai dato una bella idea». Aramis ammiccò.
«Per fortuna che a casa Bonacieux i bottoni non mancano. Sono riuscita a sistemarle tutte».
Diane porse a d’Artagnan una mantella accuratamente ripiegata che profumava di bucato pulito.
«C’è qualche novità?» domandò poi, tentando di dissimulare il proprio interesse rovistando nella cesta.
«Stiamo ancora cercando informazioni sull’omicidio di Marie» si affrettò a dire d’Artagnan. «Ma intanto abbiamo scoperto cose interessanti che…»
«Che dobbiamo verificare» lo interruppe Aramis. «Forse tra qualche giorno ne sapremo di più».
La ragazza spostò lo sguardo tra i visi dei due moschettieri. Da quando erano diventati così avari di informazioni? Forse da quando la giovane con cui abitava era stata trovata morta e loro avevano cominciato a pensare che il gioco si era fatto davvero troppo pericoloso per lei.
«Cos’è che non mi state dicendo?» chiese, piccata.
«Credo sia meglio non parlarne adesso, prima di avere in mano qualcosa di certo» rispose Aramis. «Chiamala scaramanzia».
Diane incrociò le braccia sul petto e sospirò. Sapeva quando era il momento di non insistere, anche se avrebbe avuto molte domande da fare. Si arrese e tirò fuori un’altra mantella, anche quella piegata, sistemata e profumata.
«Dov’è Athos?» chiese. «Devo dargli questa» 
«A casa»
«Che è un modo come un altro per dire che è da qualche parte a scolarsi mezza osteria?»
«No» esclamò subito Aramis. «In genere quando va a scolarsi mezza osteria dice che va a scolarsi mezza osteria e aggiunge anche qualche frase affettuosa tipo: non statemi tra i piedi. Quando dice che va a casa, va a casa»
«Cielo! Mi state dicendo che Athos dorme, come tutte le persone normali?»
«Ogni tanto».
D’Artagnan tossicchiò leggermente. «Domani abbiamo delle cose importanti da fare» spiegò, vago. «Però potresti, uhm, andare a portargli questa, se è urgente. No?».
Il guascone si voltò a cercare l’approvazione di Aramis che sollevò le sopracciglia e scosse appena il capo. «No. Cioè sì».
Diane guardò entrambi con aria interrogativa. «Athos ha l’aria di uno che ti spara se gli bussi alla porta»
«No. A meno che tu non debba consegnargli una lettera. Odia la posta, vai a capire il perché».
Perché è un dannato orso che non vede più in là del suo naso, ecco perché.
«La mantella potrebbe servirgli» insistette d’Artagnan. Aramis distolse lo sguardo e si pizzicò i baffi.
La ragazza scrollò le spalle. «Posso lasciarla qui, la prenderà domani».
Il guascone fece un gesto vago con la mano. «Se domattina piovesse…»
«… ma magari non piove» lo rimbeccò il compagno.
«Va bene, smettetela, ci vado. Posso sempre lanciargliela su per la finestra» sbottò Diane, raccogliendo la mantella. Pensò che se avesse trovato Athos di buon umore - per quanto uno come lui potesse esserlo - sarebbe riuscita a farsi raccontare quello che quei due le avevano taciuto. Pensò anche che era una pessima idea, per molte ragioni, ma “pessima idea” era da tempo diventato un titolo adatto per una sua eventuale biografia. 
La ragazza si fece spiegare dai due moschettieri come raggiungere la casa di Athos, li salutò e si incamminò con la mantella piegata tra le braccia.
Non poté vedere la scena di Aramis che tirava un buffo sulla spalla di d’Artagnan e mormorava: «Ci ucciderà, lo sai questo, vero?».
E non poté udire d’Artagnan rispondere sardonico: «O magari no».
 
***
 
Prima brutta notizia della serata: non c’era vino. Pensava che ne fosse rimasto dall’ultima volta e invece si sbagliava. Non che avesse intenzione di farsi una bevuta delle sue, ma un bicchiere lo avrebbe aiutato a prendere sonno.
Seconda brutta notizia della serata: stavano bussando alla porta. Non era abituato ad avere ospiti; a pensarci, ad eccezione dei suoi amici mandati da Treville a controllare che fosse ancora vivo dopo una nottata particolarmente impegnativa in qualche locanda, non veniva mai nessuno a bussare da lui.
Athos fece un rapido inventario di se stesso. Non era del tutto presentabile, scarmigliato e con la camicia mezza fuori dai calzoni, ma lo era abbastanza per mandare via qualche seccatore - con buona probabilità, qualche ubriaco che aveva bussato alla porta sbagliata.
Andò ad aprire, spalancando il battente con aria poco ospitale.
«Oooh, non spararmi, ero venuta a portarti questa».
Diane alzò una mano. Probabilmente avrebbe alzato anche l’altra, se non fosse stata occupata a reggere un fagotto di stoffa scura.
Athos la guardò, sorpreso, senza dire niente. Un attimo dopo, il rombo di un tuono scosse l’aria, e una pioggia fitta e sottile cominciò a cadere tutto d’un colpo, come se qualcuno dall’alto avesse aperto una gigantesca fontana.
La ragazza balzò in avanti, presa alla sprovvista dallo scroscio d’acqua che si era riversato dal tetto.
Con un piede dentro e l’altro fuori, Diane restò a guardare il padrone di casa. Odorava, come sempre, di sapone e di buono, lo stesso odore che Athos aveva sentito in camera sua, l’ultima volta che gli era capitato di restare da solo con lei.
«Entra» le disse, «prima che qui si allaghi». 
Richiuse la porta alle loro spalle. Oltre la piccola anticamera dell’ingresso c’era l’unica stanza di cui era composta la casa: Athos pensò che era anche meno presentabile di quanto lo fosse lui. Calciò sotto al letto una bottiglia vuota rimasta sul pavimento e nello stesso tempo si sistemò la camicia.
«Che ci fai qui?». No, non era quello il modo giusto di dirlo.
«Ero venuta a portarti questa» ripeté Diane. Gli gettò tra le mani la mantella con un’espressione che sembrava dire: “impiccatici”.
«Non c’era bisogno di venire fin qui». No, anche questa suonava male. «Cioè, grazie».
«Non c’è di che».
La ragazza si voltò verso la porta e fece per andarsene.
«Dove vai?»
«Torno a casa. Ti lascio… a fare qualsiasi cosa tu stessi facendo»
«Piove»
«Lo vedo»
«Diane». Santi numi.
La ragazza si calò il cappuccio sulla testa. Athos si sporse in avanti e l’afferrò per un braccio. «Scusa» borbottò. «Non sono abituato ad avere ospiti. Non uscire con questo tempo».
Lei sospirò. «Credo che andrà avanti ancora per un po’»
«Dovrei avere un mazzo di carte da qualche parte».
Diane scosse il capo, ma ridacchiò sommessamente e quando tornò a guardare in viso il moschettiere, la sua espressione si era placata. Attraversò la stanza e si sedette sull’unico sgabello vicino al tavolo.
«Giacché siamo qui» disse la ragazza dopo qualche istante, «perché non mi racconti cosa state combinando tu e i tuoi amici. Alla guarnigione, Aramis e d’Artagnan non hanno voluto dirmi niente»
«E ti aspetti che lo faccia io?»
«A meno che non salti fuori quel mazzo di carte».
Athos strinse le labbra. Pensò che doveva fare qualcosa di ospitale, ma non c’era niente che parlasse di ospitalità in quella casa minuscola. Se avesse avuto del vino, almeno avrebbe potuto offrirle un bicchiere e evitare di parlare e di chiedersi perché l’arrivo della ragazza lo avesse messo in agitazione.
Non aveva mai davvero pensato a lei. Non c’era bisogno di pensare a Diane, era costantemente tra i piedi e la sua presenza non lasciava tempo ai pensieri. E ora era lì, in un silenzio imbarazzato che si faceva fatica ad attribuirle, e Athos non riusciva a rimpiangere quella pioggia.
Era lì, un passo fuori dal gorgo di ombre e fantasmi che l’uomo si portava dentro, a una distanza sorprendentemente breve ma che lui non riusciva ad attraversare.
Avrebbe dovuto capirlo, prima, dai tanti piccoli segnali che la sua mente gli aveva lanciato e che lui aveva preferito ignorare semplicemente perché no, perché era certo che non gli fosse rimasto abbastanza cuore per una cosa come quella, per una persona come quella.
«Athos?».
Il moschettiere si riscosse. Da quanto tempo era lì muto e immusonito? D’accordo, immusonito lo era sempre.
«Sì?»
«Riformulo: c’è qualche novità di cui vorresti parlarmi?»
«Niente che tu abbia bisogno di sentire»
«Oh, insomma, manco per qualche giorno e diventate tutti muti come pesci»
«Non si tratta di questo» rispose lui, facendo appello a tutta la sua pazienza. «Quello che abbiamo scoperto - che pensiamo di aver scoperto - è pericoloso. È bene che tu ne rimanga fuori»
«Tutto è pericoloso. Potrei camminare per strada e potrebbe finirmi una tegola in testa»
«E si romperebbe, la tegola, e tu ne usciresti illesa».
Diane agitò la mano a mezz’aria. «Lascia perdere il sarcasmo, ti viene male»
«Cerco il mazzo di carte». Era davvero convinto di averne uno, da qualche parte. Aprì la cassapanca vicino all’entrata e ne perlustrò il contenuto.
«Athos?»
«Cosa?»
«Se è pericoloso… devo preoccuparmi per voi?».
Il moschettiere tirò su la testa e si voltò verso la ragazza. Aveva il viso cupo, gli occhi lucidi di pianto trattenuto. Quand’era successo che era diventata così pessimista? Era per la sua amica morta? Era un genuino momento di emotività femminile?
«Siamo moschettieri» le rispose. «I moschettieri non muoiono facilmente».
Diane si alzò, mosse qualche passo nervoso tra le pareti anguste della stanza. Fuori la pioggia infuriava, fortissima, smossa dal vento che la gettava contro le finestre facendo tremare i vetri.
Athos le si avvicinò. «Se tutto va come credo, tra un paio di giorni avremo delle risposte» la rassicurò.
Non sembrava rassicurata, ad ogni modo.   
Gli spifferi che entravano dalle imposte facevano tremolare le fiamme delle poche candele accese nella stanza.
Diane chinò il capo, strinse i pugni come se stesse provando a trattenere qualcosa. Athos cercava parole da dirle, rovistando a fatica nella sua testa dove ora regnava una confusione peggiore di quella che regnava nella piccola casa.
La ragazza alzò la testa con uno scatto.
Un lampo brillò accecante per un rapidissimo istante, dissolvendo tutte le ombre nella stanza. Athos lo sentì quasi bruciare l’aria.
Buio. Luce. Le labbra di Diane sulle sue, all’improvviso.
Ad occhi spalancati vide il mondo perdere di consistenza. Sentì le braccia della ragazza allacciate attorno al suo collo. Un secondo inafferrabile, lo stesso di quel lampo.
Diane si staccò da lui un attimo dopo come se si fosse scottata.
Sembrava imbarazzata. Schiuse la bocca alla ricerca di parole che davvero non erano necessarie.
«Almeno adesso siamo pari» farfugliò.
«Sì. Immagino di sì».
Al diavolo.
Le circondò la vita con le braccia e l’attirò a sé.
Buio. Luce. Che fossero i lampi o solo la sua mente che giocava brutti scherzi non aveva più importanza. Baciarla gli sembrò l’unica cosa che avesse senso.
Buio. Luce. Buio. Buio dietro le sue palpebre chiuse, movimenti confusionari, alla cieca, mani che stringevano i capelli, che tiravano la stoffa dei vestiti.
Spinse Diane contro il tavolo, brusco. Sentì il rumore di qualcosa che cadeva e si rompeva con il fragore del vetro spezzato, ma era come lontanissimo da lì, a mescolarsi con il ruggito della tempesta e il fischio feroce del vento.
Fuori da quella casa Parigi tremava e annegava. Tutt’attorno c’era il buio.
Buio. Luce. Luce, ora che Athos si costringeva ad aprire gli occhi e a ritornare rapidamente alla realtà, riprendendo il controllo del respiro sulla bocca della ragazza.
Non doveva essere così, furioso e cieco. Non doveva essere tempesta.
Si staccò appena da Diane, lei lo guardò confusa. Non c’erano parole per dirle che da lei e da quella notte avrebbe voluto tutta la tenerezza che gli era mancata.
La baciò di nuovo, con più calma, sentendo il calore che saliva piano come quando si passa dall’ombra al sole in un giorno d’estate.
I pensieri sparivano, allontanandosi come passanti frettolosi. Uno degli ultimi barlumi di raziocinio scintillò d’improvviso e Athos si bloccò.
Non aveva il diritto di non essere assennato. Lei era solo una ragazza ed era la nipote di Treville. 
«Prima che sia troppo tardi…» tentò di dire.
Lo sguardo lucido e un po’ arrossato di Diane gli fece mancare la terra sotto i piedi e non seppe come continuare la frase.
«Va bene così» gli rispose la giovane, appoggiandogli le mani sul petto. 
«Diane…»
«Va bene così» ripeté lei. Era una donna, aveva deciso per entrambi. «Non voglio nient’altro…».
Il vestito di Diane scivolò sul pavimento. Athos scostò con la punta delle dita la stoffa della sottoveste, conquistando pochi centimetri di pelle alla volta. Si fermò un istante per vederla sorridere, per sentire le carezze sul viso e tra i capelli, approfittando dell’ultimo scampolo di autocontrollo.
La sollevò tra le braccia e la posò sul letto - maledettamente perfettamente stretto.
L’ultima candela si consumò e si spense mente Athos si liberava dei vestiti.  Avvertì lo sguardo di Diane su di sé, poteva sentirlo pungere come la pioggia là fuori, era uno sguardo di innocenza senza esitazione.
Quando si stese sopra di lei, la ragazza gli accarezzò la schiena con la punta delle dita, facendolo rabbrividire.
Insinuò le mani oltre l’orlo della sottoveste e Diane non chiuse gli occhi nemmeno per un istante, nemmeno quando la prima carezza dell’uomo tra le sue gambe la fece sussultare e gemere. Athos ricambiò il suo sguardo lucido mentre si spingeva piano dentro di lei.
Dietro i vetri la tempesta mordeva e abbaiava.
 
 

 
_______
 

Questo capitolo è la prova che sono stupida. Per svariate ragioni ma soprattutto perché mi sono resa conto, mesi dopo averlo scritto, che nella serie i moschettieri non hanno una casa ma vivono alla guarnigione (nella puntata in cui Athos viene rapito e gli altri e Treville vanno da lui a cercare indizi sulla scomparsa si vede che lo stanzino-casa-sgabuzzinopolveroso-postobrutto affaccia sul cortile della guarnigione). Credo che la convinzione che abbiano un posto loro mi sia rimasta in testa dal romanzo e mi sia sfuggito il particolare del telefilm.
Facciamo che è una licenza poetica? 

C. 

 
  
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