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Autore: TheEldestCosmonaut    25/05/2015    1 recensioni
Una rielaborazione del mondo fantastico ideato da Leandro Consumi e Gianfranco Enrietto, e sviluppato da Giochi Preziosi ©.
In una un tempo sperduta e sconosciuta isola del Grande Golfo, situata alle porte dell’inesplorato Mare dei Serpenti, un anziano maestro nato e cresciuto qui, dal passato oscuro e dall’identità misteriosa, noto a tutti, fuorché la moglie, come semplicemente il Cronista, riunisce ogni mattina i giovani del suo Popolo di appartenenza, il Popolo della Foresta. Il Cronista insegna ai cuccioli della sua etnia la storia lunga della razza che domina l’Isola di Gorm: in particolare, è arrivato il momento per il Cronista di narrare le vicende degli ultimi cinquant’anni circa dei gormiti, i più intensi e sanguinari, quelli che maggiormente hanno sconvolto le usanze, la filosofia, la scienza, e in generale la realtà intera dell’isola, e che hanno aperto i suoi abitanti alle altre razze del Grande Golfo.
Mappe:
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Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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<< Il bianco uomo camminava avanti e indietro per la piccola aula, dietro al palco. Ancora pochi minuti e sarebbe dovuto entrare in scena e parlare. Parlare non certo di sciocchezzuole, ma di qualcosa di ben più importante e grande di lui, qualcosa che non riguardava solo la sua persona ma tutti, e se avesse detto qualcosa di sbagliato o di poco chiaro avrebbe avuto l’intero pubblico cittadino a ribattere contro di lui e a correggerlo, provocandogli una certa vergogna e causando derisione da parte di quelli che provenivano da fuori.
Forse stava esagerando: anche lui, nonostante tutto, poteva sbagliare.
Non era un divinità: era solo un grande stregone, amato e rispettato dal popolo, per giunta!
Si convinse che la città gli avrebbe perdonato un piccolo errore, dopotutto.
E dopotutto si era, giustamente e inevitabilmente, costruito e redatto il suo discorso, rivisitato e corretto numerose volte non solo da lui ma anche da altre figure più abili in quell’ambito.
Era vero che non era solo uno stregone ma anche esperto in molte discipline come pochi altri, ma ciò non toglie che la sua disciplina per eccellenza fosse la magia e che per le altre ricorreva più spesso ad aiuti, anche se tali aiuti generalmente gli dicevano che non c’era motivo di scomodarli, che lui aveva fatto giusto e che non c’era nulla di sbagliato, nonostante non sempre fosse vero.
Estrasse la sua pila di fogli da sotto la tunica bianco panna, riconoscendo di aver fatto un errore nel ripetere il discorso e scegliendo di andare a leggere che cosa avesse sbagliato di preciso.
“Ma tu guarda! Che razza di errori vado a fare!” esclamò, battendosi la mano sulla fronte.
Riprese a ripetere tutto sottovoce, daccapo.
V’è da aggiungere che l’uomo non necessitava di impararsi il discorso a memoria: poteva, come molti altri, sistemare il suo foglio di discorsi ben nascosto sul leggio e cercare di parlare rivolgendo gli occhi più al pubblico che alla carta. Ma aveva scelto di memorizzarsi il discorso per dimostrare che non aveva bisogno di tali sotterfugi – anche se sotterfugi veri e propri non lo fossero: tutti facevano così, chi più chi meno - per parlare della sua città a un pubblico, vasto o ristretto che fosse.
Ma presto si accorse che non era così facile ricordare un discorso così lungo. Le uniche cose che era in grado di memorizzare più che bene, eccelsamente, erano le brevi e concise formule e le ricette degli incantesimi, e sebbene a scuola fosse stato uno dei migliori studenti in tutte le materie – era addirittura entrato all’università diversi anni prima dell’età regolare - era sempre stato sintetico nelle interrogazioni e nei compiti. E oggi non poteva permettersi di sintetizzare il discorso: doveva presentare la sua città, premiata come Città dell’Anno, a un vasto pubblico non solo elfo, e non poteva trascurare nessun particolare, doveva descrivere bene e accuratamente ogni elemento d’interesse culturale e artistico e quant’altro, in modo che la gente fosse andata a visitare tali elementi e la città ne guadagnasse denaro oltre che prestigio e merito per il premio ricevuto.
Dall’altra parte della piccola aula si sentivano gli applausi e le domande del pubblico rivolte al sindaco che era il primo a discorrere con la gente. Dalle parole confuse e attutite che percepiva, lo stregone sentiva che il momento di entrare in scena stava arrivando.
“State bene, maestro?” domandò all’improvviso un uomo entrato dalla piccola porta dell’auletta. Era mediamente alto e vestito allora di blu scuro. La pelle era abbronzata e i lineamenti del viso sodi e compatti. Riccioli neri rilucenti di bruno ricadevano lunghi fino alle spalle. Occhi bruno - grigi luccicavano opachi nel viso giovane.
Scure e bluastre erano le braghe di jeans, legate a vita bassa da una nera cintura dalle fibbie dorate. Di pece erano i bassi stivali dalla punta rivolta in alto. Una camicia a righe blu e grigia, ampiamente sbottonata da mostrare parte del tonico petto, ricopriva il torso insieme a un gilet nero slacciato e legato da una catenella dorata. In mano reggeva il suo bastone da mago, il suo bordone: costoso e raffinato, era una lunga asta di legno rivestita di un sottilissimo velo metallico dipinto di nero e decorato a tratti di onde platinate; all'estremità si trovava un rubino perfettamente sferico attorniato da quattro lame argentate.
“Ah! Magor!” esclamò lo stregone vestito di bianco, non prevedendo l’arrivo dell’apprendista. Mise nella tasca interna della tunica i suoi fogli, deciso a iniziare una bella conversazione rilassante, prima di entrare e parlare. Lo scrutò curioso, poi rise.
“Magor! Che bei vestiti! Non te li avevo mai visti addosso” disse, poggiandogli una mano sulla spalla. Erano effettivamente degli abiti inusuali per Magor, che amava vestirsi poco e con indumenti leggeri della cui eleganza non importava. La camicia sbottonata era un chiaro segno, per chi lo conoscesse, di questa sua abitudine vestiaria.
“Non me lo ricordate. - sbuffò Magor, bofonchiando - E’ stato il sindaco a costringermi a mettere, per una volta, ha detto, dei vestiti così. Ma mi chiedo cosa c’entri io: siete voi a dover parlare.”
“Be’, tu sei il mio apprendista - spiegò lo stregone - Sei famoso più o meno quanto me, specie tra i vici. E per te non è una gran cosa essere così noto per i vici: alcuni ti osannano, altri ti odiano.”
“Lo so benissimo, maestro - lo interruppe con un gesto delle mani - E sapete che non voglio ritornare su quell’argomento. Quello che ho fatto è stato fatto, e non ho rimpianti.”
“Sì, va bene. - acconsentì lo stregone - Ma piuttosto, perché sei venuto qui? Non assisterai alla mia vergognosa parlata di là?”
“Non siate così pessimista. - replicò Magor - Comunque assisterò certamente: ho pagato per il mio posto, e non me lo prenderanno. Volevo vedere come ve la stavate cavando.”
“Come puoi vedere sto bene - rispose, allargando le braccia - Solo un po’ timoroso. Non mi è mai piaciuto parlare a un pubblico così vasto. Ma grazie a te mi sono un po’ rilassato. E tra poco dovrò andare, e dovrai andare anche tu se mi vorrai vedere.”
“Sì, maestro. Una cosa: per quel…”
“Sì, Magor! Stai calmo, non mi assillare - lo interruppe bruscamente - Ti prometto che dopo il discorso, prima di partire domani, vedrò i tuoi progressi, come ti ho già promesso più volte. E spero che tu ci sia riuscito, perché poi per un po’ non ci sarò ad aiutarti.”
Ora dall’altra parte dell’aula, sul palco, provenivano quasi magicamente forti e nitide le parole del sindaco che lo stregone bianco tanto aspettava e temeva.
“E adesso, miei cari ospiti, lasciamo entrare colui che vi parlerà esaustivamente della mia città, colui che più di me rappresenta questa città e, lasciatemelo dire, l’intera popolazione elfa. Ecco, sta per entrare il più grande stregone elfo e non solo dei nostri tempi: Razael Akkars!”
Razael mise via i fogli tempestivamente, diretto verso la porticina coperta dal velo del palco.
“Maestro, maestro! - sussurrò Magor - Il vostro bordone!” e glielo porse. Un bastone meno raffinato di quello di Razael, marrone chiaro, poco liscio e con le venature legnose ben visibili. All’estremità superiore si ingrossava parecchio, e qui vi era incastonato uno smeraldo dalle numerose sfaccettature.
“Grazie!” mormorò Razael, prendendolo, mentre Magor spariva, utilizzando l’incantesimo del trasporto rapido.
Razael comparve infine dall’apertura del telone, salutando tutto il pubblico con il braccio destro con cui reggeva il bordone.
“Un applauso, prego!” il sindaco incitò il pubblico, che già aveva cominciato a farlo.
Razael era un alto e magro uomo pelato sulla quarantina. La pelata era lucida e levigata: nessun’imperfezione, non un neo, un brufolo, cicatrice o qualche selvaggio capello. Le rughe della fronte erano appena visibili. Indossava dei sandali senza calzini, dei lunghi e spessi pantaloni in tessuto di jeans bianco, rigati, tenuti al bacino con una cintura argentata.
Sul petto portava una modesta camicetta bianca di lino a cerniera; il tutto ricoperto da una lunga tunica bianca con cappuccio, che ricadeva fino alle caviglie.
Razael salì infine sul leggio, sopraelevato su una serie di gradini, si schiarì un poco la voce e parlò, ma non prima di dare una rapida occhiata al suo pubblico.
C’erano davvero tutti: elfi di altre città, i bassi felini vici nei posti più vicini, gli alti e grossi zoari nelle sedie più lontane e persino qualche paio di quei misteriosi esseri, gialli pelosi con le ali da insetto e quelli blu cornuti con le ali da pipistrello, che si vedevano girovagare ogni tanto per le zone di quella terra, anche se nessuno sapeva chi fossero veramente e da dove provenissero.
Magor era seduto sul suo posto, in seconda fila, in mezzo a dei vici. Più lontano c’era la sorella di Razael e suo marito, che lo guardavano sorridenti. Razael infine parlò.
“Buon pomeriggio a tutti, elfi, vici, e zoari. E’ per me un grande piacere vedere che in così tanti sono interessati alla mia città natale. Ed è per me un grande onore rappresentarla e parlarvi di essa, io invece che tanti altri con più competenza di me. Ma sono cosciente della mia fama presso di voi, e non ho potuto rifiutare la richiesta del mio sindaco, il caro vecchio Asdurges. Lacedimora. Questo è il nome della mia città, un nome che ha radici lontane, quando la Zoah, l’Impero dei Giganti, era ancora forte e temibile, quando Inverrith, il Regno dei Ghiacci di Klaus, era ancora disabitato e sconosciuto. Questa oggi fiorente città è stata fondata 238 anni or sono dal mago guerriero Lacen, nei tempi in cui la comunità elfa aveva da poco allargato i suoi orizzonti e si era spostata a nord e a est. Sin da allora, come le altre città elfe, Lacedimora era stata un grande centro di persone esperte in magia e in medicina e in alchimia.”
“Ma ciò che la rese diversa anni fa dalle altre città fu un importante evento durante la Grande Estate, che portò le acque del mare molto più vicine alla città e allargò i laghi e fece straripare i fiumi. La gente di Lacedimora non fu sopraffatta da questo cambiamento, ma vi si adattò con eccelsa bravura. Da quest’acqua i lacedimoranti impararono l’arte della navigazione, della pesca, del nuoto, della costruzione di navi ed è oggi grazie a queste navi che molte altre città elfe, vicie e zoare hanno allargato ulteriormente i propri orizzonti, solcando i mari verso nord, est e sud.
Oggi Lacedimora è una città prevalentemente marittima e mercantile: i negozi pullulano sin dal porto mai privo di navi esploratrici, pescherecci e trafficanti di merci di vario genere, provenienti dai traffici marittimi con Inverrith e la Setturnia dei vici. Ciò non toglie che Lacedimora non abbia coltivato l’abilità elfa dell’alchimia e della medicina, e che non disponga di campi fruttuosi e di ricchi allevamenti.”
“Lacedimora è sempre stata scarsa di catastrofi naturali serie, e ciò ha favorito la crescita di imponenti edificazioni durature e intaccate da ogni intemperie se non quelle del tempo, incontrollabile ma siamo sempre stati in grado di riparare ai danni del tempo e di restaurare gli edifici non più stabili come un tempo. I nostri edifici, e sono sincero, sono tutti ben decorati e ornati, nessuno è semplicemente un parallelepipedo di pietra.”
“Scuole aperte a tutti coloro che volevano apprendere più del necessario, biblioteche, musei di storia e di arte, edifici pubblici semplici e umili come osterie, ristoranti, addirittura banche, farmacie e altro ancora, tutti questi edifici sono realizzati con maestria e raffinatezza. Ma nessuna di queste tipologie di edifici può essere grandiosa come il Municipio del Governo, altissimo, realizzato con l’aiuto degli abili architetti zoari e decorato e dipinto da elfi e vici. Anche quest'ultimo, tuttavia, nulla può contro il gigantesco Istituto di Magia, forse la meta più ambita da ogni turista nel Venturgio. Il primo della storia, dove si incontrano maghi di ogni provenienza e razza, impareggiabile.”
Bisogna sapere che sin da giovani, qualsiasi sia la famiglia di appartenenza, il ceto o quant'altro, tutti venivano insegnati a un uso elementare della magia, uso che si poteva approfondire opzionalmente, nel corso del tempo, per diventare maghi e stregoni.
“Come spero sappiate, l’Istituto è diretto da una consulta a cui tutti i maghi considerati ‘grandi stregoni’ oltre i 45 anni è concesso farne parte e insegnare insieme agli altri stregoni, predicare, diffondere e difendere l’arte della magia in ogni dove e proteggere e limitare il suo uso.
Purtroppo io non ne faccio ancora parte, ma mi mancano pochi anni e poi mi vedrete ancora più spesso in giro. Ma non sono qui per parlare di me! Qui ho finito il mio discorso, temo. Siate liberi di farmi qualche domanda, se l’avete. Se non l’avete, lascerò il posto al mio caro sindaco che poi vi dirà cosa potrete fare in città.”
Uno zoaro alzò la sua mano a tre dita. “Parlate pure.” disse Razael, annuendo
“Chi ha costruito l’Istituto di Magia? Elfi, o zoari, o altri?” chiese, con la voce roca tipica della specie.
“Non ve lo so dire con certezza. Capisco dove vogliate arrivare, ma i dirigenti ve lo sapranno dire, se andrete a visitarlo.”
Una donna elfa alzò la sua mano, a cui Razael diede la parola: “Come vi sentite con la vostra città ad aver ricevuto l’ambito premio Città dell’Anno, e come vi sentite a rappresentarla? E come nell’essere ritenuto il più potente stregone di questa era?”
Razael rise. “Piano, piano. Una domanda per volta. Come dire, credo che Lacedimora se lo sia meritato. E’ grazie alle navi della città che molti isolotti a nord, a sud e ad est sono stati scoperti e abitati. Come ho già detto, è un grandissimo onore per me essere stato scelto, e, modestamente, non biasimo il sindaco per aver scelto me. Per quanto riguarda l’ultima domanda, preferisco non rispondere qui, se non rispondere affatto. Non siamo qui a parlare di me, ripeto.”
Ancora un elfo, questa volta un vecchio uomo, chiese di poter parlare.
“Cosa n’è stato dell’Antro del Tempo, a cui voi avete partecipato? E’ accessibile, si può visitare?”
“Ancora vedo che il vostro interesse si riversa su di me - rise lo stregone - Be’, quell’esperimento è stato un esperimento. Anche se funziona non è accessibile al pubblico, non lo è mai stato. Oltretutto non si trova in territorio lacedimorese.”
Infine fu un vicio a porre il suo quesito, con un tono abbastanza nervoso e da vittima: “Che cosa avete da dire riguardo al suo apprendista Magor e al suo coinvolgimento con la fondazione della Repubblica Indipendente? E la città non ha alcun dissidio con gli zoari che anni fa la attaccarono e che voi respingeste tutto da solo?”
Questa domanda era davvero impertinente. Razael aggrottò la fronte ed esitò a rispondere.
La questione lo stava innervosendo: loro erano qui per la città o per immischiarsi nei suoi affari?
Magor, tirato in ballo dal vicio che era presumibilmente uno di quelli che lo odiava, era ugualmente nervoso. Sebbene fosse orgoglioso di essere l’unico apprendista del più grande mago, non gli piaceva che la gente lo mettesse sempre insieme al maestro Razael, come se fossero inseparabili, e che si soffermassero sempre su quell’evento di qualche anno fa.
Si alzò di scatto, a capo chino, e uscì a passo svelto dalla stanza, tenendo stretto il bordone con entrambe le mani.
Fortunatamente si intromise il sindaco Asdurges: “Per favore, miei ospiti. Non siamo qui per parlare di politica o di antiche dispute. E non voglio che discorsi di questo genere vengano posti ancora. Signor vicio, se insiste con certe domande sarò costretto a invitarla ad uscire.”
Il vicio in questione ringhiò felinamente, e poi si mise a sedere al suo posto.
Razael seguì presto l’esempio dell’apprendista: scese dal leggio sopraelevato, ancora aggrottato.
“Signor sindaco, posso andare?” domandò piano, con la schiena rivolta al pubblico.
“Va bene, signor Akkars - mormorò in risposta - Ma vi prego di porre un ultimo saluto.”


Razael abitava in un imponente grattacielo – grande palazzo che si sviluppa in verticale, dove lavorano e abitano centinaia di persone - vicino all’Istituto di Magia, ed era lì che si stava dirigendo, subito dopo essere uscito dal teatro in cui aveva dato il suo discorso. Non aveva nemmeno aspettato di tenere l’intervista con la donna che gli aveva chiesto del fatto di essere il mago più potente.
Né aveva aspettato sua sorella e il marito o Magor. Voleva solo tornare a casa sua.
Per fortuna domani lui sarebbe partito. Per molto tempo aveva progettato di partire per un lungo viaggio, nelle terre ignote del mare sud - occidentale. E infine vi era riuscito: con un suo amico, capitano di una nave, si era accordato per un viaggio alla scoperta di nuove terre.
Avrebbe lasciato molte cose indietro: sua sorella Nadia, Magor e il suo insegnamento, il suo lavoro, diversi suoi esperimenti. Tutto questo per la fame di conoscenza, per la brama di avere nozione di nuove civiltà, nuove isole, nuovi ambienti. Era sempre stato affamato di sapere, e sempre era interessato ai viaggi, perché non si può conoscere un posto semplicemente studiandolo su un libro e osservandone immagini. Visitando un posto si entra a contatto con l’essenza vera e propria di quel luogo, e quel luogo trattiene con sé una parte dell’individuo che vi è soggiornato.
A questo pensava mentre saliva le scale, diretto alle sue stanze al quarto piano. Il suo lavoro di stregone era abbastanza remunerativo da permettergli l’affitto di quelle camere solitamente adibite al solo scopo lavorativo. Infatti non possedeva soltanto la camera da letto, il soggiorno, il bagno e la cucina, ma un’intera altra stanza di fianco dove era solito compiere i suoi esperimenti magici, alchimistici e tecnologici. Ma i suoi possedimenti non finivano certo qui, e quella stanza degli esperimenti era minuscola in confronto a quella larga fetta di terra di cui si era appropriato a sud del Venturgio, dove effettuava esperimenti su larga scala, spesso non da solo.
Estrasse la chiave dalla tasca dei pantaloni e aprì la porta della sua camera. Con un sospiro appese la tunica bianca all’attaccapanni di fianco alla porta, lasciò il bordone in un angolo e poi si abbandonò, sprofondando nella poltrona bruna.
Miao!
Il simpatico Edvinx, il suo gatto, gli saltò tutto fusa sulla gambe e cominciò a impastare contento sulla sua pancia. Era un bel gatto soriano, dal pelo grigio, bianco sulla pancia, e dalle macchie nere sulla fronte, sulla schiena e sui fianchi. La punta della coda, ritta, era bianca. Razael sussultò non appena gli si pose sul ventre, ma poi, vedendo che si comportava normalmente, lo accarezzò dolcemente, al che le sue fusa aumentarono.
“Ciao, Edvinx. Stai bene, oggi?” gli parlò, sorridente.
Diede in seguito un’occhiata al suo orologio: era ora di pranzo inoltrata, e si accorse di non aver toccato cibo da quella mattina. Anche Edvinx doveva esser rimasto senza mangiare, dal momento che sia lui che Magor, gli unici che si curavano di lui, erano stati entrambi fuori casa.
Si alzò scostando Edvinx e andando in cucina: effettivamente la ciotola del gatto era vuota, e solo quella dell’acqua conteneva ancora qualcosa.
Tirò fuori dalla mensola il cibo riservato al suo micio, versandone una generosa quantità nel piattino. Edvinx mangiò beatamente il pasto. Ora Razael doveva pensare al suo, di pasto.
In quel momento suonò l’eco di pugni alla porta. Razael si demoralizzò: sentiva sempre più la fame e proprio ora c’era qualcuno che lo cercava. Chi poteva essere?
Arrancò verso la porta, pronto a mandare a casa se chiunque fosse dall’altra parte gli avesse procurato noia.
“Avanti.” bofonchiò.
La figura alta e scura di Magor comparve. Accennò un sorriso e l’apprendista lo salutò “Ciao, maestro.”
Non teneva gli stessi vestiti di quando aveva preso parte al discorso di Razael. Non aveva più la camicia e i suoi stivali non erano più quelli eleganti dalla punta rivolta in alto, ma dei comuni anfibi scuri. Portava solo una canottiera nera e sopra un corto mantellino grigio.
“Oh, Magor! - lo salutò Razael, battendosi la fronte per essersi dimenticato - Diamine, me l’ero scordato!”
“Non fa nulla, ora sono qui e ve l’ho ricordato, no? - rise Magor – Piuttosto, - disse, diventando serio - Quel vicio alla riunione ha fatto un bel casino. Scommetto che - ”
“Non parliamone, su!” lo zittì amichevolmente Razael mettendogli una mano sulla bocca.
“Non so tu, ma io non tocco cibo da stamattina - disse poi - Prima di cominciare vorrei pranzare, ti va bene?”
“Mi va benissimo - acconsentì Magor - Se posso favorire…anch’io non mangio da un po’. ”

Il cristallo cadde a terra, frantumandosi in miriadi di pezzi. Tali pezzi sembravano poi divenire di una sostanza sempre meno densa e più liquida, da cui si sprigionò uno strano fumo. Alla fine sul pavimento non c’era altro che una polvere nera: polvere di carbone purissimo.
“No, no, Magor! - il maestro scosse la testa, deluso - Magor, Non ci siamo.” ripeté, innervosito.
“Te lo ripeto ancora: il diamante si crea con molta energia, facendola fluire lentamente, non il contrario!” lo rimproverò, a braccia conserte sulla sedia.
Magor sospirò, scostando deluso il carbone del diamante col suo bordone. Strinse i pugni e guardò rabbioso il suo maestro.
“Non hai bisogno di chiedere: provaci ancora.”
Magor puntò la punta del suo bordone verso la polvere nera e recitò a mente la formula adeguata. Mentre il carbone si alzava e rimaneva sospeso in aria, l’apprendista cominciò a muovere sia il bordone che la mano libera, per manipolare la polvere e l’energia necessaria alla trasformazione.
La polvere prese una vaga forma quadrangolare e, con un sottofondo quasi di fuoco, il carbonio sembrò schiarirsi e compattarsi, assumere trasparenza e durezza.
Ora di fronte a Magor e a Razael c’era un cristallo purissimo: doveva essere diamante. Magor sorrise entusiasta, certo di esserci finalmente riuscito. Ma il cristallo sospeso vacillò, sembrò liquefarsi e poi cadde a terra infrangendosi, ripetendo ciò che era successo più volte poco prima.
Magor ringhiò come una bestia, si alzò e diede un calcio alla sedia su cui stava lavorando, mandandola contro la porta e facendo scappare indemoniato Edvinx.
“Magor, calmati, per l’amor del cielo - lo ammonì Razael, turbato da quella reazione ma mantenente una voce pacata e un’aria tranquilla - La sedia non ti aiuterà in alcun modo.”
Razael stesso infine si alzò, sospirando e mettendo le braccia dietro la schiena.
“Magor, Magor…sei sempre stato così frettoloso…” mormorò, guardando fuori dalla finestra del soggiorno, ma vedendo ben poco in quanto era ormai sera.
“Una volta facevi bene ad aver fretta - continuò, chiudendo gli occhi e facendo riaffiorare i ricordi - Non ti era stato insegnato nulla della magia, avevi imparato da solo, ma ti mancava molto. E anche se di fretta, imparavi ugualmente bene, meglio di molti altri. E’ per questo che ho scelto te come apprendista, il mio unico apprendista. Ma la tua fretta ti ha aiutato sempre meno: col tempo sono giunto a insegnarti tecniche e magie che la fretta aiuta solo a sbagliare. Devi cambiare atteggiamento, Magor.” disse infine, voltandosi verso l’apprendista.
Magor ignorò il suo discorso, ancora voltato verso la porta. Poi parlò, ma non era inerente a ciò che aveva finora detto il maestro: “Ditemi ancora perché devo imparare a creare il diamante.”
“Che domanda sciocca! - esclamò Razael - Creando il diamante…tu…tu ti sostituisci alla natura, ai suoi meccanismi e crei da questo materiale così…inutile e debole, il minerale più resistente che esista, in tempi brevissimi rispetto alla natura! Puoi creare la cosa più dura di questo mondo! E’ una cosa molto importante, Magor. E’ l’unica cosa che ancora separa me da te. Impara a creare il diamante, e sarai pari a me. Salvo qualche altra piccola tecnica.”
“Non credo proprio - obiettò Magor - Io non ho ancora manipolato il tempo né resistito e sconfitto decine di zoari da solo e solo con la magia. La tua…vostra energia magica è superiore, e la mia inferiore.”
“Hai solo 26 anni, Magor - puntualizzò Razael - Hai fatto progressi impareggiabili: avrai tutto il tempo per fare cose ben più grandi di quelle che ho fatto io.”
“Spero sia così - Magor sospirò: andò a raccattare la sedia e la rimise al suo posto nel tavolo.
“Mi dispiace, Magor - Razael si avvicinò a lui, e gli tese una mano sulla spalla - ma ora non c’è più tempo: domani devo partire, e non mi sono ancora preparato. Il mio insegnamento si interrompe qui, ma non finisce. Esercitati quando sarò via.”
“Sì, maestro, lo farò.” acconsentì Magor, sollevando il carbonio per terra e infilandolo nella sua ampolla, che poi consegnò in mano a Razael.
“Prima che tu vada, però, Magor…” parlò il mago insegnante. Seguì un silenzio in cui Razael rimuginò, come dubbioso, al che Magor non potè non parlare: “Sì, che c'è, Razael?” chiese, interessato.
“Vieni con me.” gli ordinò infine Razael, muovendo il dito e indicandogli di seguirlo e uscire dalla sua stanza, diretti nel suo laboratorio a fianco. Raramente qualcuno che non fosse il proprietario entrava in quella stanza adiacente, lo stesso Magor entrava pochissime volte, ed ogni volta rimaneva colpito da ciò che trovava all’interno e da ciò che succedeva. Oggi non sarebbe stato diverso.
Il laboratorio era una stanza complicata. La luce all’interno era blu, proveniente da strane pietre e da una vernice fosforescenti poste qua e là e pennellata sulla parete.
La stanza, sebbene grande quanto le camere private del maestro, era molto più stretta: lo spazio era occupata da una varietà di strani alambicchi, bizzarri e complessi apparecchi metallici, elettronici, magici. Numerosissimi scaffali, su cui vi erano numerosi libri e anche teche e barattoli di cristallo, in cui erano posti liquidi misteriosi, pietre senza apparente utilità, fogli e foglie e radici. In alcuni c’erano addirittura piccoli animali imbalsamati.
Razael indicò una scatola di pietra aperta, sul tavolo centrale, con dentro curiosi ma per niente anomali granelli neri.
Magor ne prese un pizzico tra le dita e lo analizzò vagamente.
“Altro carbone?” chiese, dubbioso
“Affatto. Ti ricordi quella strana polvere nera che è stata trovata sulla riva della sesta spiaggia?” chiese all'allievo.
“Certo che lo ricordo. Vi ho avvisato io di quella strana…cosa. Non pensavo fosse qualcosa di interessante.” rispose Magor, guardandolo di sottecchi, rilevando un segreto scottante.
“Ebbene, li ho analizzati come potevo, e non corrispondono a niente che esiste sulle sponde orientali. Anche se uno di quei tizi gialli sembrava riconoscerlo, quando lo ha visto, ma non mi ha saputo dare un nome o una definizione. Che il cielo mi cada sulla testa, ho osato farne mangiare un po’ a Edvinx.” ammise, vergognandosi di se stesso e notando che Magor non era affatto contento. Magor amava i gatti e Edvinx era teoricamente suo.
“E, come dire, è diventato estremamente forte e selvatico. Gli ho mostrato un topo finto e ci si avventato contro. Lo ha disintegrato. Mi sono avvicinato e... - si avvicinò a Magor, indicando una cicatrice sulla narice, di una ferita recente e curata magicamente per non influire sul suo aspetto estetico - a momenti mi tranciava il naso”.
“Quindi qualsiasi cosa sia è pericoloso, deduco.” riflettè Magor.
“Forse ho preso una quantità non adatta, forse le sue qualità si sono alterate, forse ancora questa polvere non è adatta ai gatti.”
Stettero li a rimuginare per un po’, poi Razael ruppe il silenzio.
“Ma ora basta, Magor. Io devo prepararmi, e tu devi esercitarti.”
“Sì, avete ragione.” concordò il giovane mago.
Uscirono dal laboratorio, che poi chiuse a chiave con tre scatti. Magor rientrò un attimo in casa del maestro per recuperare il bordone, poi si posizionò alla soglia della porta.
“Allora, maestro, ci vediamo domani, alla vostra partenza.” disse infine.
“Sì… - aggiunse il maestro - Domattina potremo salutarci meglio. Ora scusami ma nemmeno io sono immune alla fretta.”
 
L'alba di un nuovo giorno illuminava la città di Lacedimora. Da oltre le montagne ad est la luce si propagava verso i campi della periferia, sul lago, infine sul centro e sul porto e le acque del mare.
L’alba illuminò della fioca prima luce tutta la cittadina. I raggi di luce entrarono nelle finestre dell’appartamento di Razael.
Questi, percependo la nascita del nuovo giorno, aprì gli occhi, si svegliò. Si mise seduto nel suo letto, del tutto riposato e per niente assonnato. Edvinx ronfava comodamente acciambellato su un lato del letto.
Razael scese dal letto cercando di fare il minor rumore possibile e di non disturbare il gatto, cosa in cui non vi riuscì. Edvinx aprì gli occhi e stiracchiò le zampe sulle lenzuola. Balzò poi giù dal letto, strusciandosi sulle gambe del padrone che zoppicava nel tentativo di andare in bagno senza pestarlo. Qui si lavò viso e corpo, e gli schizzi d’acqua fecero rinunciare a Edvinx di stare attaccato al padrone.
Ancora vestito da notte, si diresse in cucina per una rapida ma sostanziosa colazione. Sarebbe stata l’ultima colazione di quel genere che avrebbe avuto: i pasti sulla nave sarebbero stati tutti molto diversi e avrebbe dovuto abituarsi, ma sapeva bene i rischi – per così dire - che correva.
Ritenendo fosse ancora presto per mettersi in cammino verso il porto, decise di sciacquare i piatti usati nella colazione al modo classico, per poi dirigersi nuovamente in bagno per pulirsi i denti e rinfrescare l’alito. Questa volta il gatto non lo seguì, impegnato a ingurgitare il suo pasto.
Dopodiché Razael tornò in camera sua, tolse la veste da notte e si mise gli abiti che aveva scelto ieri per partire: jeans azzurri, camicia grigia e una delle tante tuniche bianche omologate che possedeva nel suo inventario.
Avendo già posto nelle valigie un’altra veste da notte, ripiegò quella tolta poc’anzi e la mise sotto i cuscini, poi rifece il letto.
Era ufficialmente pronto per lasciare Lacedimora, pronto ad attuare il viaggio che aveva aspettato tanto per compiere. Ovviamente aveva ancora dei compiti da sbrigare, quali salutare Magor e la sorella, e naturalmente raggiungere l’amico ammiraglio che con i suoi marinai si era sicuramente svegliato prima di lui e stava ultimando i preparativi della nave. Si chiese di che fattura fosse la nave: l’avrebbe scoperto presto.
Caricato in spalla uno zaino, borsone in una mano, bordone nell’altra, chiavi e documenti nelle tasche, era ormai alla soglia del suo appartamento. Voltandosi, notò Edvinx, acciambellato su un bracciolo della poltrona ma sveglio, che lo guardava. Non era uno sguardo indifferente, sembrava supplichevole, e supplichevole fu il fioco miagolio che uscì dalla sua bocca.
“Ci vediamo, Edvinx - sospirò Razael - Magor si prenderà cura di te.” e detto ciò, aprì la porta, uscì e la richiuse dietro di sé.
Scese rapido – per quanto rapido il peso che aveva addosso gli permettesse - le scale del grattacielo.
Molto tempo sarebbe passato prima che avesse visto nuovamente le mura grigio azzurre del palazzo e salito i larghi gradini. Quanto tempo non lo sapeva di preciso, ma poco importava: per anni aveva bramato di uscire da Lacedimora, uscire dai mondi conosciuti e aprirsi verso il mare ignoto dell’occidente, e non avrebbe certo avuto ripensamenti proprio quel giorno in cui finalmente partiva.
Uscì definitivamente dal territorio del grattacielo, salutando il portinaio che si era da poco svegliato e aveva da poco aperto l’entrata.
Già a pochi passi, il peso dello zaino e della borsa cominciarono ad essergli scomodi. Si fece forza, pensando al soggiorno sulla nave, morbidamente cullato dalle onde. Era stato in barca poche volte, e quelle poche volte lo avevano profondamente segnato: vivere in mare lo ricordava come una sensazione inappagabile.
La strada, di mattina, era libera e silenziosa, disturbata solo da una fresca brezza marina. Ma già vari personaggi mattinieri erano fuori dalle loro case, per avviarsi a lavoro o per allestire tende e bancarelle da mercato.
C’era chi, tra quelle persone, si volse e riconobbe Razael, salutandolo. Tanta era la sua fama nella città - e oltre - che era impossibile non riconoscerlo, e molti lo salutavano tanto per rispetto o per piacere che per vera e propria amicizia o conoscenza con lui.
Certo, c'erano persone troppo indaffarate nei loro compiti per permettersi di distrarsi a salutare uno stregone, anche se quello stregone era Razael; questi, però, non pretendeva di essere al centro dell'attenzione: era un uomo umile, lui. E dopotutto, se tutti l’avessero salutato e, perché no, interrotto e cominciato a parlare, avrebbe di certo ritardato il suo arrivo al porto, gravato il peso delle valigie, e, non lo nascondeva, avrebbe persino potuto provocargli ripensamenti.
E lui non voleva nessuna di queste cose.
Tra quei mattinieri, comunque, c’erano anche persone che lo riconobbero, ma che non lo degnarono di uno sguardo, di un sorriso o di un saluto. Sebbene nessuno odiasse la sua persona, molti dei suoi colleghi stregoni erano gelosi e invidiosi delle sue capacità, e di conseguenza si comportavano in modo antipatico.
Ecco infine sopraggiungere, correndo, una figura familiare a Razael. Familiare in tutti i sensi.
Era una giovane attraente donna dal fisico prestante. Indossava un particolare abito, tipico delle donne elfe del posto. Una sorta di tunica aderente, viola e ornata d’oro, stretta intorno al busto e al bacino da dei bottoni. Essa si rigonfiava attorno al bacino, creando una sorta di minigonna. Ai lati delle gambe e dietro la minigonna si prolungava in un’effettiva gonna che teneva scoperte le gambe, cinte da stivali da donna neri e pantaloni blu notte.
I suoi capelli erano rossicci e lisci e, in sintonia con la tradizione, lunghi. Una frangia copriva diagonalmente la fronte. Dei vistosi orecchini, piccole sfere violetto pendenti da delle catene dorate, le decoravano il viso.
Dietro di lei, meno frettoloso, c’era un uomo dalla folta e densa capigliatura bruna.
“Razael! Razael!” lo salutò, incrociando lo sguardo del fratello che si era fermato e aveva posato il suo bagaglio.
“Nadia, sorella mia.” la accolse, non appena arrivò, strofinando entrambe le guance sulle sue, come era costume elfo del luogo.
Il marito Rober sopraggiunse, e Razael salutò anch’egli, strofinando però solo una guancia.
“Ebbene, oggi finalmente parti - disse Nadia, entusiasta per il fratello - Sono felice che tu ci sia infine riuscito.”
“Non puoi immaginare quanto lo sia io - replicò - Finalmente lascio questa città per un lungo viaggio in mare.”
Ella strinse la mano libera di Razael con entrambe le sue mani, una delle quali portava a un dito l’anello d’argento del matrimonio.
“Promettimi che tornerai. E che tornerai presto - lo supplicò - Sappi che qui c’è qualcuno che ti aspetta, e voglio che tu sia qui quando arriverà.”
Razael era confuso. “Quando…quando arriverà? Non capisco…”
“Razael, io aspetto un bambino” rispose, sorridendo, Nadia.
Razael fu colto da stupore, meraviglia e gioia. “Un bambino!” esclamò, tastando il ventre della sorella.
“Quanto è che…?”
“Appena due mesi” rispose Nadia, cogliendo ciò che voleva chiedere Razael.
“Questa si che è una bella notizia! - si voltò verso Rober - Che dire, caro: ottimo lavoro!”
“Questo me lo dirai quando nascerà - replicò, avvicinandosi e abbracciando Nadia - Sarà un bambino bellissimo…”
“Senza dubbio, con dei genitori così.” commentò Razael.
“Razael, promettimi che tu ci sarai quando nascerà.” lo supplicò, ma sembrava più un ordine dal tono con cui lo diceva, Nadia.
“Farò del mio meglio. Il mondo è grande, ma cercherò di esserci comunque.”
“Ecco, prendi questo.” disse poi Nadia, estraendo un foglio arrotolato dalla tasca della veste.
“E’ una fotografia della mia collezione. Siamo noi due e i nostri genitori…ho pensato ti avrebbe fatto piacere, ma immagino tu abbia già delle fotografie.”
Razael non srotolò la fotografia, ma la strinse in mano. Di rado parlava dei suoi genitori, morti quel fatidico giorno in cui Razael si dimostrò un abilissimo stregone. Non erano morti in modo brutale o troppo prematuramente, d’altronde avevano avuto i due figli ad un’età abbastanza inoltrata e avevano vissuta una vita piuttosto lunga. Razael e Nadia seppero superare la loro mancanza con facilità, tuttavia veder morire i propri genitori, anche se felicemente e senza rimpianti da parte loro non è una bella cosa.
“Grazie, Nadia. La custodirò con cura.” disse infine.
Si accomiatò dalla sorella e dal cognato con i migliori auguri e solenni promesse, per continuare il suo tragitto verso il porto.
Ecco che, con la spiaggia ormai a contatto visivo, si fece vedere Magor, che Razael temeva di non riuscire a contattare. Non poteva cercarlo con metodi convenzionali, dato che l’apprendista non aveva una dimora fissa ma abitava in una caravan che non era mai allo stesso posto in città, un rimasuglio del suo passato da artista circense.
Magor era vestito ugualmente al giorno prima, e si dirigeva a passi larghi verso il maestro, sebbene fosse inutile, visto che Razael si dirigeva nel luogo da cui Magor proveniva.
“Magor, mio apprendista.” Razael fu il primo a parlare, nonostante Magor fosse quello con più fretta
“Oggi ci salutiamo per bene, caro mio.”
“Sembra proprio di sì. - replicò Magor - Non mi sono mai mostrato contrario alla vostra idea, e non lo farò oggi.”
“Io non ci sarò per diversi mesi, Magor. Ora il mio posto verrà preso da te: sarai tu il più potente stregone qui, prima del mio ritorno. No, non ribattere, sai che è così. Temo che con la mia assenza la gente si rivolgerà a te per i problemi che erano soliti far risolvere a me. Tieniti pronto.”
“Lo sarò. Forse ve ne siete dimenticato, ma diverse volte è stato chiesto aiuto a me.” rispose Magor
“Mi fa piacere. Ora passando a cose più personali…ecco, ti lascio le chiavi del mio appartamento. Potrai vivere lì finchè non ritorno, e ti prego di dar da mangiare a Edvinx e di farlo uscire ogni tanto.”
“Mi lascerai anche le chiavi del laboratorio?”
“Certo che no, Magor! - rise Razael - Voglio che quello che è lì dentro rimanga segreto, a meno che io non voglia il contrario. Non dubito che con un po’ di impegno tu riesca a rompere gli incantesimi che proteggono la serratura, ma ho fede che tu non mi disobbedirai. In fondo ti sto prestando la mia casa, e credimi non l’ho pagata poco.”
Magor abbassò la testa. “Perdonatemi.”
“Su, su, non farne un dramma.” lo risollevò il maestro.
“Ti prometto che quando tornerò avrò padroneggiato la creazione del diamante.” Asserì l’apprendista, con un vivo fuoco negli occhi. Il ‘tu’ invece del ‘voi’ non è stato un errore.
“Hai tutto il tempo per riuscire a farlo, Magor. Non metterti troppa fretta, io sarò sempre orgoglioso di te.”
Razael strofinò entrambe le guance su quelle di Magor, prima di congedarsi da lui. “Ora devo andare.” e oltrepassò l’apprendista.

Finalmente arrivò al porto, dinanzi a una pressoché semplice ma splendida e grandiosa nave in legno. Non era dipinta, era interamente di corteccia marrone con parti dorate. E le parti dorate erano di oro vero, non semplice pittura. Razael ne rimase stupefatto. Nonostante non fosse decorata e dipinta con la raffinatezza e la precisione dei vascelli degli abbienti signori, l’enorme quantità di elementi in oro la rendevano ricca oltremisura. Possedeva due alberi dotati di due vele dai riflessi dorati ciascuno, più un terzo albero minore sulla prua vestito di una vela triangolare.
Da fessure intarsiate in oro laddove l’acqua toccava la nave emergevano diverse file di remi.
A poppa, sopraelevato al ponte, si ergeva un largo castello navale. Mozzi e marinai salivano e scendevano dalla nave per terminare carichi e preparativi.
Sul ponte, intravide il capitano che lo salutava e lo incitava a salire, chiamandolo a gran voce.
Un ultimo dettaglio che lo colpì, fu il nome della nave stampato in argento nei caratteri della lingua vicia che vici, zoari e elfi attualmente parlavano ma nella lingua originale elfa: Mudras, saggezza. Un chiaro simbolo riguardo la missione della nave.
Salì sul ponte di legno che collegava e permetteva il passaggio tra ponte della nave e terraferma, in mezzo a molti marinai indaffarati, tra i quali diversi gli rivolsero saluti.
Il capitano, trionfale, con le mani sui fianchi, nella sua giubba blu, decorata e rinforzata, con spalline dorate così come i bottoni, lo aspettava sorridente. Un vecchio amico d’infanzia.
Era un uomo pelato come lui, ma che più di Razael mostrava i segni del tempo sebbene avessero la stessa età. Viso solido e bonario, un po’ pieno sotto il mento, ma allungato ed equilibrato, dal naso sottile fino alla fronte ampia dalle regolari rughe. Gemme di una indefinibile miscela di blu e di verde erano i suoi occhi. Era un uomo pelato. Si erano conosciuti molto tempo fa, ai tempi della scuola primaria, e sin da allora avevano percorso insieme la carriera scolastica, sebbene Razael abbandonò presto la scuola di secondo grado per accedere direttamente all’università di magia, viste le sue capacità, ma non si erano mai persi di vista. Nemmeno la distanza tra Inverrith e Lacedimora impedì che la loro amicizia fruttasse e maturasse, si mantennero in contatto con una dispendiosa, impegnativa quanto commovente corrispondenza. Era un uomo pelato, dico, perché la lunga permanenza ad Inverrith, il contatto con costumi nuovi e totalmente slegati da una tradizione mantenuta viva da una comunità omogenea e radicata, lo influenzò e non si sentì più in dovere di mantenere il cranio calvo e liscio o coronato da fluenti capelli. Ostentava una zazzera molto corta, nera, vagamente riccioluta.
Si avvicinarono e si strofinarono amichevolmente le guance, ben tre volte.
“Allora, grande mago! - esclamò il capitano Ricardo Tarrant, dandogli una possente pacca sulla spalla - Pronto per questo viaggio?”
“Ora come lo sono sempre stato, caro mio.” rispose entusiasta Razael.
“Ah, vecchia volpe! - diede un’altra pacca - E’ da un bel po’ che non ci vediamo. Ho fatto fatica a riconoscerti: l’ultima volta avevi i capelli biondi lunghi! Come mai questo cambiamento?”
“La mia bella pelata fa più effetto dei capelli lunghi. Insomma, in quanti hanno una crapa così liscia? E’ stato doveroso radermi.”
Lasciò cadere lo zaino e il bagaglio, sentendosi leggero e volendosi sentire ancor di più ora che i suoi piedi non erano più sulla dura e immobile terra ma sul legno galleggiante.
“Dai, ammettilo che eri geloso della mia! Quando l’avevo, ovviamente. – vociò il solare capitano; si interruppe e notò i bagagli dell’amico - Vuoi che te li faccia portare dentro?” chiese.
“No, grazie, faccio da solo.”
 
Il ponte di collegamento fu rimosso. Le corde che relegavano la nave al suo posto nel porto sciolte e portate a bordo. Le vele furono spiegate.
“Levate l’ancora!” risuonò forte la voce del capitano dal ponte, dove si trovava il timone.
La catena che teneva l’ancora legata al fondale fu riportata tutta all’interno del galeone.
“Si parte!” Con una rapida manovra, il capitano ruotò il timone e con esso l’intera nave virò verso il mare occidentale, col vento che magicamente aveva preso a soffiare forte nelle quattro vele.
“Facciamo vedere come andiamo veloci, uomini!” sfidò il capitano.
I remi ai lati della nave presero a battere le onde con voga e la nave aumentò vertiginosamente velocità. Razael, in piedi sull’estremità della prua, si godeva la brezza marina e la velocità della nave sull’acqua, e gli spruzzi della spuma. Si rese conto che, se munita di arpioni e/o cannoni, la Mudras sarebbe stata migliore di molte navi dell’esercito.
Razael provò una sensazione di vita e di passione finora solo assaggiata e vagamente indovinata.
Sorrise ampiamente mentre il la spinta dei robusti vogatori innalzava la nave verso l’orizzonte blu sconosciuto, soffiando un vento profumato degli aromi dell’ignoto e degli abissi nel viso rilassato dello stregone.
Un vento che riempì di desiderio di conoscere, di vedere panorami la cui luce mai incontrò gli occhi impauriti e superstiziosi dalla gente del Grande Golfo, di sfondare i limiti imposti al mondo dalla società troppo pigra per abbandonare le proprie radici, di segnare nuovi contorni di isole e continenti nel grande mare inesplorato, da cui mai nave inoltratasi troppo aveva fatto ritorno sicuro.
Avrebbe dimostrato che i progressi congiunti delle città-stato degli elfi, della Repubblica Indipendente di Inverrith e della tribù zoara dei Raminghi, che aveva partecipato ampiamente nella costruzione dell’imbarcazione, avrebbero portato il successo tanto insperato per la misera gentaglia comune e aperto alla comunità di quella ristretta striscia di terra i cancelli dorati di un mondo meraviglioso e di un’era di ricchezza e di sviluppo. In più, a garantire il successo dell’osteggiata missione esplorativa, vi era lui, il più grande stregone del suo tempo. Non era un uomo pieno di sé, e raramente soleva definirsi con queste parole, ma in fin dei conti era vero. E con lui nessun pericolo avrebbe potuto fermare il corso della Mudras.
   
 
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