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Autore: Bellamy    30/05/2015    1 recensioni
La battaglia tra i Cullen e i Volturi termina in maniera inaspettata: i Cullen perdono, Edward e Bella si uniscono alla Guardia di Aro e Renesmee perde la memoria. I pochi mesi di vita vissuta da Nessie vengono spazzati via.
Dopo quasi un secolo, Aro invita Renesmee a Volterra.
Genere: Malinconico, Suspence, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Nuovo personaggio, Renesmee Cullen, Volturi | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Breaking Dawn
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Mancava solo un giorno alla data di partenza. Non preparai neanche una valigia, mi veniva da ridere anche al solo pensarci. Per il dispiacere di Nina non venni più a scuola negli ultimi giorni ma rimanemmo sempre in contatto, la invitai pure a dormire a casa mia. Ne fu felicissima.
Usai una scusa, ovviamente, le dissi che dovevo raggiungere dei parenti in Italia di punto in bianco e non sapevo quando tornavo. Nina reagì male, mi pregò di restare, non fece molte obbiezioni, capì che c’era qualcosa che non andava ma preferì non chiedere ulteriori informazioni. Mi sarebbe mancata. Non ero molto brava a creare relazioni con gli umani, Nina era la mia prima vittoria.
Quei ultimi giorni di libertà li passai a casa, ad oziare, a nutrirmi in continuazione visto che i Volturi non erano vegetariani ed io non sapevo proprio come nutrirmi in Italia. Girovagavo per la casa, avendo la mia famiglia tra le calcagna con l’intenzione di non lasciarmi neanche per un minuto, senza un pensiero fisso in testa.
Non sapevo cosa pensare a riguardo di quella visita, pensavo fosse un passo nel vuoto, pronta a cadere nel buio, in qualcosa di ignoto.
Esme e Carlisle cercarono di tranquillizzarmi, diventai incredibilmente nervosa, un fascio di nervi: non li avevo mai conosciuti quei Volturi, non sapevo che persone fossero oltre alle descrizioni dei miei familiari, non ero mai andata in Italia – avevo girato tutto il mondo ma mai l’Italia e i paesi vicini. E più di tutte, non sapevo cosa aspettarmi.
Ero nervosa ma non avevo paura, sapevo che al ritorno avrei ritrovato la mia famiglia e meglio ancora, qualsiasi cosa mi fosse capitata, loro sarebbero corsi da me. Soprattutto, contavo su me stessa. Con questo viaggio volevo dimostrare alla mia famiglia che da sola potevo cavarmela benissimo. Ero stata coccolata fin troppo a lungo, dovevo farmi le ossa da sola.
I nonni, la sera stessa in cui mi avevano avvisata della partenza, mi rassicurarono che dovevo soggiornare a Volterra per soli pochi giorni, che mi avrebbero tratta bene, avrebbero rispettato la mia dieta, che erano tutti molto gentili.
Non riuscii molto a credere alle loro parole, non ce la facevo. Vedevo, dietro le loro espressioni rassicuranti, una maschera di ostentazione, di perplessità. Neanche loro sapevano veramente cosa i Volturi volessero, tutto era successo in pochi minuti.
La preoccupazione e i segreti della mia famiglia erano loro: i Volturi vennero a Forks per richiedermi.
Ad un ordine dei nostri Signori si obbediva subito.
Era per questo che i Quileute ci chiamarono per allertarci. Non volevano altri sporchi succhiasangue in mezzo.
Ma non immaginavo proprio che la causa fossi io.
Per il resto dei vampiri, io ero il mezzo vampiro del Clan dei Cullen, la loro mascotte. I mezzi vampiri non erano molto soliti ed averne uno in un clan era qualcosa di veramente insolito. Ero la nota stonata della melodia, un carico in più che i Cullen dovettero prendersi nelle loro mani per cause ancora a me maledettamente sconosciute. Non conoscevo nessun clan, oltre al mio, con un ibrido incluso.  
I Volturi mi volevano nella loro patria per conoscermi. Volevano conoscere un essere vivente diviso tra due mondi, Aro era molto affascinato da queste nuove scoperte, mi dissero Esme e Carlisle, le loro espressioni contrite. Non sembravano apprezzare le sue parole.
Il fenomeno dei mezzi vampiri stava spopolando negli ultimi anni, mi disse Carlisle come spiegazione, e Aro voleva studiarli, conoscerli.
Quindi scelse me. Uno dei membri del clan del suo carissimo amico Carlisle.
“Solo pochi giorni e dopo ritornerai a casa.” dissi a me stessa, la stessa cosa che mi ripetevano sempre i miei familiari in quei ultimi tre giorni.
Tre giorni in cui non mi lasciarono solo nemmeno per un attimo. Sembrava che volessero gustarsi gli ultimi attimi con me. Mi piaceva ma era preoccupante, non stavo andando in guerra o altro. Come continuavano a ripetermi, dovevo stare via solo per pochi giorni, non capii tutto quel attaccamento ma non feci obbiezione.
Come i nonni, nemmeno i miei zii riuscirono a nascondere la perplessità unita a confusione, soprattutto Rosalie.
Alice cercava di vederci qualcosa, la sentii dire una notte quando ero a letto, ma disse che non riusciva a captare nulla, vuoto. Non sapevano se credere a quello che avevano annunciato gli scagnozzi di Aro o meno. Letteralmente, i Cullen vedevano solo buio in quella faccenda.
“Se entro una settimana non la vedo a casa, la vado a prendere io.” Disse prontamente Rosalie.
 
Quella notte non dormii. Perché non potevano accompagnarmi loro? Nessuno di noi era sicuro di quello poteva succedere: perché buttarmi in pasto agli squali in quel modo?
 
 
 
 
Era il giorno della partenza ed io non riuscii a muovermi dal letto. Il cuore mi batteva forte nel petto, le mie mani tremavano. Non ero pronta.
Era un passo nel vuoto, lo era, ne avevo avuto la certezza. Non avevo nessuna garanzia.
Ma, dall’altro canto, che cosa poteva capitarmi mai?
Non mi diedi nessuna risposta, dovevo solo soggiornare un paio di giorni nella intoccabile dimora dei Volturi, i nostri signori. Non mi sarebbe capitato nulla. Speravo.
C’era silenzio nella zona. Solo lo scorrere del fiume vicino e il fruscio del vento tra gli alberi. Il suono del silenzio mi inquietava, dava maggior carico alla giornata quale era.
Non era un viaggio di piacere, poteva accadere di tutto in un certo senso, i miei familiari non erano ben proprio sicuri e fiduciosi. Tutto questo non era da aiuto e non calmava i miei nervi. Stavo facendo la cosa giusta?
E se mi fossi opposta? Come avrebbero reagito i Volturi? Il nonno era tendente ad obbedire a quella richiesta di ricevermi e, malgrado le preoccupazioni, mi stava lasciando andare.   
Potevo ritirarmi a far mangiare la parola già data di Carlisle? Ci sarebbero state punizioni?
Forse era per quel che ci stavo andando senza fiatare. Mi stavano… sacrificando per evitare il peggio? Non volevo proprio pensarci, non ci riuscivo, mi rifiutavo.
Ed io non sapevo cosa pensare ma mi fidavo ciecamente della mia famiglia. Una battaglia interna fatta di contraddizioni mi torturava. Mi sentivo di fare un passo in avanti e dieci indietro.  
Dalla porta spuntò Alice, mi fece un sorriso timido, le ciocche nere sparate ovunque. “Buongiorno, posso?”
Le sorrisi e le feci segno di entrare, si mise a sedere nel letto accanto a me, accarezzandomi i capelli.
Rimanemmo in silenzio. Le strinsi la mano.
“Cosa c’è, zia?”
Lei afflosciò le spalle all’ingiù e puntò gli occhi sul copriletto. “Non riesco a vedere nulla.” Mormorò mortificata.
Alzai gli occhi verso di lei e le strinsi maggiormente la mano. “Tranquilla zia, andrà tutto bene.”
Alice mi strinse forte la mano, in quel gesto lessi le sue scuse.
Mentre pensavo a quella frase, venivo attaccata dalla consapevolezza che non avevo le prove che tutto sarebbe andato bene. Nessuna certezza, e nemmeno Alice ne aveva e per questo motivo un po’ era colpa mia: non poteva vedere il futuro degli ibridi e vedeva poco e niente se qualche ibrido era protagonista di qualcosa nelle sue visioni.
Trattenni di farle la domanda del perché allora mi stavano lasciando andare, decisi di non rovinarle ulteriormente il suo umore già basso.
 Ma continuavo a rassicurarmi, ci provavo.
 
 
In macchina nessuno parlò, ero seduta nei sedili posteriori, Esme e Carlisle davanti, il silenzio padroneggiava.
Lasciai gli altri a casa. Sentivo ancora le strette forti dei miei zii. Sentii una stretta a cuore quando li abbracciai, la mia mente viaggiava in pensieri catastrofici che scacciai immediatamente, preferii concentrarmi sulle loro parole calorose. 
Stava piovendo e le nuvole erano grigie, quasi nere, come il mio umore. Improvvisamente la mia spavalderia mi lasciò per prendere posto la confusione. Mi sentivo spaesata, un pesce fuor d’acqua ed ancora non mi trovavo a Volterra. Volterra, una cittadina piena di incognite.
L’aeroporto di Seattle erano enorme, gremito di gente e bambini che andavano a destra e a sinistra: chi andava e chi tornava, chi diceva addio e chi risalutava i proprio cari. Tante emozioni, tante situazioni quante le valigie che circolavano. Ognuno perso nei propri pensieri, persi in quei attimi veloci, incuranti del vero mondo che li circondava.
Camminai stretta a i miei nonni con una mano di Esme appoggiata alla mia spalla destra, come se avesse paura che potessi perdermi. Saltammo tutti i gate e check-in ed entrammo in un lungo tunnel nascosto da tutti i negozi presenti nel plesso, qualche minuto dopo ci trovammo fuori, nella pista di decollo, davanti a me c’erano ad aspettarmi due hostess con uniformi eleganti e con sorrisi cordiali. Dietro di loro un jet pronto a partire.
Non avrei preso un normale volo di linea.
Fui percorsa da brividi interminabili. Mi voltai verso i miei nonni, si stringevano la mano. Se fosse stata in grado, Esme si sarebbe messa a piangere, ne ero sicura. Non volevo lasciarla.
“Ci vediamo presto.” Sussurrai.
Li abbracciai, forte, i miei genitori. Carlisle mi diede un bacio nella fronte e mi lasciò con uno “Stai attenta.”
Esme mi baciò nelle guancie e mi accarezzò i capelli. “Ti vogliamo bene, tesoro mio. Ci vediamo presto.”
Cercai di farle un sorriso, dentro di me stavo morendo.
 
L’abitacolo del jet era piccolo e confortevole ma non m’ interessai all’estetica.
Mi gettai nel primo sedile che vidi ed allacciai le cinture di sicurezza facendo finta di ascoltare le hostess.
Appiccicai il viso nell’oblò dell’aereo: sotto di me vidi allontanarsi Esme e Carlisle, lei si voltava sempre verso il jet. Ebbi un tuffo al cuore.
Chiusi gli occhi e feci un respiro profondo.
 
 
Caddi addormentata. Feci un sogno strano, non il solito dei uomini con i mantelli neri.
No, mi trovavo in un labirinto. I muri di foglie gelide e secche alti metri e i corridoi stretti, quasi da togliere il respiro.
Era notte, il buio profondo ed io ero totalmente cieca. Cercai di aggrapparmi ai rami pieni di spine per potermi alzare dal terreno freddo e roccioso, la testa mi martellava ed ebbi un forte senso di vertigini.
C’era silenzio, un silenzio pesante, nessun suono tranne per quello del mio respiro affannato.
Faceva freddo ed io mi sentivo nuda, scoperta. Senza protezione.
Barcollando, iniziai a camminare senza una meta precisa, la speranza di poter uscire dal quel labirinto minaccioso non scalfiva la me del sogno. Ero tranquilla in preda al buio totale, al silenzio e al freddo.
Man mano che passavo tra un corridoio all’altro, i muri divennero ancora più stretti al punto di stringermi come in una morsa.
E in quel momento un urlo. Qualcuno mi chiamò. Un urlo forte e chiaro, consapevole. Una voce femminile.
“Renesmee!”
Guardai in alto, la luce delle stelle lontane e sfocate era la mia unica guida. Passarono dei secondi ma ci fu solo silenzio.
Feci altri passi veloci e gridai “Sono qui!”
L’interlocutrice sconosciuta rispose immediatamente alla mia risposta, la voce ora era disperata e strozzata.
“Renesmee!”
“Renesmee!”
“Sono qui!” gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni ed iniziai a correre vedendo nero davanti a me, scostandomi i rami che graffiavano il mio viso, sentivo il sangue colarmi nelle labbra.
Correvo, correvo, correvo. “Sono qui!”
Le gambe mi bruciavano e caddi a terra. Mi presi la testa fra le mani. Sentivo troppo caldo, le tempie mi pulsavano.
Davanti mi trovai un incendio indomato. Lingue di fuoco zampillavano fino ad irritare le mie guance.
Era un cerchio di fuoco che da piccolo sembrava diventare sempre più grande. Dentro c’erano due ragazzi ma non riuscii a focalizzare i loro volti di quanto alte erano le fiamme.
Vidi solamente un paio di mani stringersi, forte. 
  
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