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Autore: Calliope49    30/05/2015    3 recensioni
*COMPLETA*
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Treville vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».

Una calma insolita è piovuta su Parigi, ma la situazione non è destinata a durare. Strani incidenti, un omicidio e la comparsa di un misterioso bandito daranno filo da torcere agli uomini del re. Nel mezzo, una ragazza e troppe cose che non sono quello che sembrano…
[AthosXNuovoPersonaggio; Accenni Constagnan e Annamis]
[N.B. La storia non tiene conto degli sviluppi della seconda stagione perché è stata ideata prima che ne cominciassero gli episodi]
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Captain Treville, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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XVI
Tempesta - parte seconda
 
 
Una luce grigia e opaca penetrò sotto le sue palpebre chiuse.
Athos aprì gli occhi e riemerse pian piano dal torpore del sonno, prendendo coscienza dei rumori ovattati provenienti dall’esterno e della gamba destra fredda e formicolante che spuntava dalla coperta troppo piccola per due.
Due…
La consapevolezza di non essere solo in quel letto tornò a galla di colpo. Strizzò le palpebre per mettere a fuoco lo sbuffo di capelli castani sotto al suo naso, un groviglio di ciocche scomposte che gli solleticavano il mento. Era in bilico sul bordo del materasso, nei muscoli e nelle ossa la rilassatezza languida di chi riemerge da una buona dormita - avevano dormito poco quella notte, ma era una vita che non dormiva così bene.
Diane era rannicchiata contro il suo petto, con un ginocchio piegato che premeva dolorosamente contro lo stomaco del moschettiere. Athos non osava muoversi, per non rischiare di cadere a terra ribaltando letto, materasso e ragazza in un sol colpo.
Sentì uno sbuffo nasale e abbassò lo sguardo su di lei. Diane aprì prima un occhio poi l’altro e alzò piano la testa.
«Buongiorno» mugugnò la ragazza.
Athos strinse leggermente la presa attorno al suo fianco nudo. Era un mistero come fossero riusciti a incastrarsi a quel modo, una matassa di gambe, braccia, lenzuola, vestiti appallottolati in fondo al materasso.
«Tuo zio mi ucciderà» disse il moschettiere, stropicciandosi il viso con la mano che riuscì a recuperare da sotto al cuscino.
«Sul serio? Sono queste le tue prime parole?»
«È la verità»
«Nah, sei il suo soldatino preferito».
Athos annuì con finta accondiscendenza. «Lo vedremo…» sussurrò, e baciò la ragazza sulla fronte, in mezzo ai capelli spettinati. Diane sfregò il viso contro il suo petto.
I loro corpi erano una bolla di calore piacevole e accogliente. Fuori c’era il freddo umido della città mezza allagata dalla tempesta di quella notte.
«Il tuo ginocchio sta cercando di uccidermi, comunque» disse Athos.
Diane si scosse, si districò da quella posizione assurda e pigiò la schiena contro il muro a cui era appoggiato il letto. Sembrava volesse recuperare una distanza impossibile in uno spazio così minuscolo.
Strattonò le coperte e se le tirò fin sopra al mento, come se avesse realizzato di colpo che era svestita, in una situazione disdicevole.
Quello sfoggio di candore e imbarazzo non sembrava appartenere alla ragazza che i moschettieri avevano conosciuto.
«Va tutto bene?» chiese Athos.
«Ieri sera era più…»
«Buio?»
«Sì».
Con molta cautela, il moschettiere si voltò verso di lei e le prese la mano, aspettando che Diane si riavesse da quell’attimo di turbamento.
La ragazza si rilassò e tornò a rannicchiarsi contro il petto di Athos. Con i capelli arruffati e il viso rosso, era troppo bella perché il suo corpo non reagisse a quella visione. Diane si mosse per stendere le gambe, con un tocco leggero e involontario che gli fece saltare un battito.
Doveva alzarsi da quel letto o non sarebbe stato in grado di staccarsi da lei.
«Io dovrei…» esordì roco. Quando si mosse, il materasso minacciò di capovolgersi e la ragazza gli finì addosso.
Dovrei andare.
Il lenzuolo le scivolò via. Athos vide la linea sottile di qualche graffio che le aveva lasciato tra la gola e i seni nudi.
Dovrei andare, ma non adesso.
Le appoggiò le mani sui fianchi e lei sorrise, la curva delle labbra sembrava già molto meno innocente.
Quando la ragazza mosse il bacino contro quello del moschettiere, la guarnigione e i suoi compagni erano già dimenticati. 
Vide il suo nome sulle labbra di Diane, pronunciato senza voce, solo con il respiro. Gli mancava già baciare quelle labbra.
La ragazza crollò, sotto la spinta dell’orgasmo, nascondendo il viso nell’incavo della spalla di Athos.
In silenzio, restarono ad aspettare che il respiro tornasse regolare.
Diane sollevò la testa e appoggiò il mento sul petto del moschettiere, contro il suo sterno, guardandolo di sbieco con gli occhi all’insù.
Lui si odiò per quello che stava per dire. «Devo andare» fece, mortificato. Allungò un braccio fuori dal letto, cercando a tentoni i vestiti lasciati sul pavimento.
«Mh-mh». Diane afferrò la coperta e ci si avvolse, lasciandolo mezzo nudo nel freddo della stanza. Lo guardò e sembrava che i suoi occhi stessero memorizzando una ad una tutte le cicatrici, ricordi degli anni da soldato.
Il modo in cui gli sorrise fece provare ad Athos un senso di pace sconosciuto.
«L’importante è che poi torni».
E dove altro vuoi che vada?
«Non tornerò prima di domattina» le disse.
«Non so come farò a sopravvivere fino ad allora» scherzò la ragazza, teatrale.
Athos la baciò a lungo prima di staccarsi definitivamente. Aprì la finestra e tirò dentro un secchio di acqua che posò sul pavimento, versando qualche schizzo.
«Mi dispiace, credo sia gelida» mormorò.
Diane scosse il capo, come a dire che non importava. Si stese di schiena, raggomitolata sotto la coperta, con lo sguardo fisso sul soffitto  mentre Athos si preparava a uscire.
Alla fine, il moschettiere si chinò su di lei e le prese la mano, vi impresse un piccolo bacio, pensando che se l’avesse baciata sulle labbra non sarebbe stato in grado di lasciare quella stanza.
«Ci vediamo domani» le disse. «Torna a dormire, se vuoi».
Diane lo trattenne, stringendo le dita attorno alle sue. Di colpo sembrava preoccupata, quasi spaventata. «Athos…»
«Cosa c’è?».
La ragazza lo guardò. Aveva lo sguardo pesante, come le nuvole che la sera prima avevano assediato Parigi.
«Niente. Fa’ attenzione. Tu, e quelle altre tre teste bacate» concluse.
Lui annuì senza dire niente.
I moschettieri non muoiono facilmente.  
Parigi quella mattina gli sembrò tremendamente fredda, con le strade piene di pozzanghere e acqua grigia che scorreva in rivoli tra i ciottoli. La gente parlava dei quartieri dove la Senna aveva straripato, di case di legno con i tetti di paglia abbattute dalla tempesta come giunchi.
La guarnigione era mezza deserta, una strana eccezione a quell’ora già tarda.
«Cosa succede?» chiese Athos, avvicinandosi al tavolo dove gli altri tre erano seduti tra i resti della colazione. Afferrò un pezzo di pane e fece vagare lo sguardo per il cortile mezzo vuoto.
«La tempesta di questa notte ha fatto molti danni in città» spiegò Porthos. «Treville ha mandato un po’ di uomini a dare una mano in giro»
«Io non ho chiuso occhio» si lamentò d’Artagnan, nascondendo uno sbadiglio nel palmo della mano, poi lanciò un’occhiata ad Athos. «Tu l’hai sentita, la tempesta, vero?».
Non disse niente, non si era accorto di quanto quel temporale fosse stato tremendo. Vide che gli altri tre lo stavano fissando e non occorreva chiedersi il perché.
«Mi stavo giusto chiedendo come avesse fatto Diane a scoprire dove abito» disse, fingendo un’aria più torva del solito.
«Ha fatto tutto d’Artagnan!» esclamò Aramis di colpo. Alzò le mani e scosse la testa.
Il ragazzo incrociò le braccia sul petto, inarcando un sopracciglio. «Vienimi a dire che ho fatto male…» borbottò.
Athos non rispose, si voltò continuando a mangiare la sua fetta di pane. Alle sue spalle gli altri tre si alzarono rumorosamente e lo accerchiarono come lupi affamati di notizie.
Porthos allungò il collo fermandosi con la faccia a un palmo dal viso di Athos come per analizzarlo, o forse aveva intenzione di baciarlo. «Non sembra cambiato, però» disse. «Stessa aria funerea di sempre».
Il moschettiere guardò uno ad uno i suoi compagni, inclinando la testa di lato.
«Non avrete una sola parola da me» dichiarò.
«Ci mancherebbe, un gentiluomo non parla di certe cose» lo rimbeccò Aramis.
«Sembrate molto sicuri del fatto che ci sia qualcosa di cui parlare»
«Ah, se ti avessimo lasciato fare ci sarebbero voluti anni. Confidavamo nello spirito di iniziativa di Diane, più che altro» insistette Aramis, sarcastico.
«Credo che sia proprio persa. Cosa ci trova in te ancora lo devo capire» fece Porthos.
Athos li fulminò con lo sguardo. «Parlate più forte, magari Treville non ha sentito»
«Cosa vuoi» sbottò Porthos. «Il capitano ci adora, gli piacerebbe l’idea di dare sua nipote a uno dei suoi uomini»
«Il capitano non ci adora, ci sopporta, è diverso». Athos si sistemò il cappello in testa. «E non voglio sentire un’altra parola sull’argomento»
«Be’, se ne dovrà riparlare prima o poi» osservò d’Artagnan. «Non si è fatta tutta questa fatica per niente».
Athos non ci aveva pensato. Non aveva pensato al momento in cui avrebbe dovuto sorbirsi le battute dei suoi compagni. Non aveva pensato a cosa sarebbe stato di lui e Diane dopo quella notte.
Aramis e gli altri erano abituati a considerare le loro conquiste come un gioco, qualcosa che meritasse la semplicità e la leggerezza della goliardia tra amici; per lui le cose non erano così semplici, non lo erano mai state. Si rese conto all’improvviso che tutto quello che gli era rimasto nella testa era una strana confusione, e dietro il velo di confusione, un senso di contentezza che non riusciva ad afferrare.
Diane gli era entrata dentro piano piano, e la sua presenza aveva fatto eco nel vuoto che Athos si portava nel petto. Adesso per lui era difficile immaginare quel vuoto riempirsi di una voce nuova, di nuovi sorrisi, di nuovi occhi.
Ma non era quello il momento di pensarci.   
«E quale fatica avreste mai fatto, voi, sentiamo? Anzi, no, non ditemelo…» borbottò.
La voce di Treville, dall’alto, li fece sobbalzare tutti e quattro all’unisono.
«Quando avete finito di ciarlare come pescivendole» esclamò il capitano, «gradirei molto avervi nel mio ufficio, se non è di troppo disturbo».
I moschettieri si affrettarono a dirigersi verso le scale.
Treville aveva l’aria di aver dormito poco e niente. Un velo di barba gli copriva le guance e la branda nel suo ufficio era sfatta.
La tempesta doveva essere stata davvero spaventosa.
«Mi sono arrivati dei dispacci dal porto» disse il capitano. «La nave che cercate non è ancora arrivata»
«La tempesta deve aver creato problemi alla navigazione» ipotizzò Porthos. «Ma ora dovrebbe essere tutto calmo. Stasera arriverà»
«Andremo comunque al porto a controllare» aggiunse d’Artagnan. «Non possiamo lasciarci sfuggire l’occasione. Se non l’intercettiamo adesso, chissà quando avremo una seconda possibilità».
Treville si chinò in avanti e appoggiò i gomiti sul piano della scrivania.
«Portatemi quelle armi» concluse secco.
 
***
 
Il cortile davanti a casa Bonacieux era vuoto. La domestica non era ancora uscita a stendere i panni e c’erano buone probabilità che non fosse stata ancora servita la colazione.
Diane si guardò attorno. Le sue speranze erano vane: era già mattino inoltrato, Constance si svegliava sempre di buon’ora e di certo aveva già notato la sua assenza. O magari aveva pensato che lei fosse ancora addormentata e la credeva coricata nel letto della stanza degli ospiti.
Dio, ti prego, fa’ che sia così…
Aprì piano la porta e scrutò dentro. L’ingresso era vuoto e silenzioso, non si udiva nemmeno la vocetta nasale e petulante di monsieur Bonacieux. Forse poteva ancora intrufolarsi in camera sua e fingere di essersi svegliata tardi.
Entrò, con i suoi passi silenziosi attraversò l’atrio, ma non arrivò neppure a mettere un piede sul primo gradino della scala.
«Diane! Santo cielo!». La voce alterata di Constance la fece quasi inciampare.
La ragazza si voltò, si accorse delle pedate di fango e acqua sporca che aveva lasciato dietro di sé, dell’orlo della mantella zuppo e chiazzato che gocciolava in una piccola pozza ai suoi piedi.
«Pulirò tutto subito» si affrettò a dire.
Constance la guardò senza capire. Solo dopo qualche secondo realizzò il disastro che era diventato il suo pavimento sempre perfettamente pulito. 
«Lascia perdere il pavimento» sbottò, infuriata. «Ieri sera sono venuta a controllare che stessi bene, quella tempesta è stata un inferno, e indovina: tu non c’eri»
«Lo so, Constance, scus-»
«E allora ho pensato di venirti a cercare, ma era impossibile uscire. Stamattina dovevo decidere se era il caso di avvisare tuo zio che eri scomparsa! Dovevo decidere se avere un suo infarto sulla coscienza e intanto l’infarto è venuto a me! Pensavo che ti fossi persa di ritorno dalla guarnigione! Pensavo che fossi rimasta in strada con quella tempesta! Che fossi annegata nella Senna!».
Diane incassò la testa nelle spalle, schiacciata dalla voce di Constance che andava crescendo parola dopo parola e dalla rabbia sempre più percepibile sul suo viso arrossato dall’esasperazione.
«Scusami, Constance, perdonami» disse, alzando le mani davanti a sé come se la donna avesse potuto lanciarle contro la brocca che aveva in mano.
«Si può sapere dove sei stata?»
«Non volevo farti preoccupare e non era assolutamente in programma il passare la notte fuori. Ti avrei avvisata se avessi potuto, te lo giuro»
«Non ho sentito ancora una risposta alla mia domanda E credimi, ti conviene che la risposta sia molto buona»
«Ero con Athos» rispose precipitosamente Diane.
L’espressione sul viso di Constance si congelò. Per qualche istante lei rimase perfettamente immobile, ponderando le possibili implicazioni di quella frase. Alla fine, con una lentezza quasi innaturale, schiuse le labbra.
«Ah»
«Ero andata a riportargli la mantella, poi è iniziato a piovere a dirotto e sono rimasta bloccata a casa sua».
Diane guardò la padrona di casa, aspettando che lei dicesse altro, ma madame Bonacieux sembrava non avere argomenti e solo dopo lunghi secondi di silenzio imbarazzato riuscì a riscuotersi.
«Ha una stanza per gli ospiti, Athos?» disse con una voce insolitamente stridula.
«Non direi…»
«Oh, povero caro, avrà dovuto dormire sul pavimento» concluse Constance, lo sguardo imbarazzato di chi ha già capito che le cose erano andate in tutt’altro modo.
Diane sentì il ricordo della notte appena trascorsa colpirla come un pugno allo stomaco. Era qualcosa di forte, pesante, che le si era aggrappato alle spalle e la soffocava.
Sono andata a letto con Athos. Realizzò, come se solo in quel momento la cosa si rivelasse nella sua mente per quello che era: un enorme, completo, totale disastro. Il pensiero le trafiggeva la testa come una lama rovente.
Avrebbe dovuto scappare da quella casa, anche sotto la pioggia, anche in mezzo alla tempesta. Avrebbe dovuto scappare via quella mattina, almeno, trovare il coraggio di dire a lui e a se stessa che era stato un errore, anche ferirlo, se necessario. E invece era rimasta e aveva…
«Oh, Dio mio…» farfugliò. Si portò una mano alla bocca e si piegò sulle ginocchia, finendo seduta sui gradini.
Constance restò a guardarla per un attimo, senza sapere cosa fare di se stessa e della brocca che aveva in mano. Alla fine, appoggiò la brocca sul piano di un mobile e andò verso la ragazza, ancora rannicchiata sulle scale. Si sedette accanto a lei e le circondò le spalle con un braccio. La rabbia e la preoccupazione erano già svanite dal suo viso.
«Se anche… se anche non ha dormito sul pavimento, va bene lo stesso» le disse, incerta. Non riusciva a capire da dove venisse il turbamento della ragazza, non avrebbe nemmeno potuto immaginarlo.
Diane le posò il capo sul petto. Era così stanca del peso che si portava dentro, stordita dalla gravità di quello che era accaduto quella notte. Era così stanca di lottare contro il suo stesso cuore, contro l’affetto per i moschettieri e i suoi sentimenti per Athos.
Voleva solo sentirsi dire che sarebbe andato tutto bene, anche se non era vero. Ma Constance di certo non poteva capire.
«Ho sbagliato tutto» piagnucolò, e si sentì tremendamente stupida.
La donna le batté la mano sulla schiena. «Perché dici questo? Cosa può mai esserci di sbagliato? Sei libera di amare chi vuoi, Diane, e hai fatto la tua scelta» le disse.
Amare? Libera? Lei?
Non ho abbastanza cuore per questo. Athos forse credeva di essere quello più restio all’amore, ma non era così.
«Athos… lui…» farfugliò la ragazza, stringendosi nell’abbraccio della donna come se temesse di annegare.
«Athos è un brav’uomo» rispose Constance con fermezza.
«Non doveva succedere» sospirò Diane, ritrovando un attimo di calma e di lucida freddezza.
«Perché?».
Era una domanda che non poteva avere una risposta, o forse ne aveva troppe e tutte impossibili da pronunciare.
Diane prese un lungo respiro e cercò di ricomporsi. Si alzò e corse su per le scale, verso la sua camera, lasciando Constance turbata e preoccupata.
«Mi tolgo questa roba bagnata di dosso, poi sistemo il pavimento» esclamò, in cima ai gradini, prima di chiudersi dentro. «Credo che stasera uscirò di nuovo, non stare in pensiero per me».
 
***
 
L’odore di acqua stagnante era così forte da dare le vertigini.
Il porto era quasi deserto a quell’ora e non c’erano navi attraccate al molo.
Nella sera umida, i respiri diventavano fumo sottile nell’aria.
La tempesta di quella notte aveva danneggiato la pedana di legno sospesa verso il fiume e ribaltato il gabbiotto di legno della guardia. Il porto era deserto, nemmeno il personale della dogana si era azzardato a mettervi piede.
«Alla fine pare proprio che la nostra nave non sia attraccata» sospirò Aramis. Alla fine, era abbastanza ovvio, ma trattandosi di una nave con merce illegale, avevano pensato che si fosse arrischiata a compiere manovre che gli altri mercantili non avevano osato in mezzo al temporale.
Con le loro mantelle nere, i moschettieri erano ombre nella sera. Attorno ai quattro uomini, lo spettacolo del porto vuoto aveva un che di lugubre.
«Valeva la pena di fare un tentativo» disse Porthos.
D’Artagnan fece qualche passo, guardandosi attorno, sorpassando una pila di casse ribaltate, pezzi di legno annegati in una pozzanghera profonda come un lago.
«Potremmo dare un’occhiata ai registri doganali» suggerì. «La nave che ha portato le armi il mese scorso fa deve pur essere stata registrata in qualche modo. Anche se il conte, o chi per lui, ha corrotto gli ufficiali portuali».
Athos fece un cenno di approvazione e si massaggiò le braccia intirizzite sotto la mantella scura. La mantella aveva lo stesso odore di sapore e di buono che aveva Diane, la ragazza era stata un pensiero molesto durante tutto il giorno, impossibile da allontanare. Pensò che quando l’avrebbe rivista avrebbero dovuto accennarle della storia del porto e delle armi, non avrebbero potuto tenere a bada la sua curiosità ancora per molto.
Rivedere Diane era un pensiero che rendeva meno gelida l’aria di quella sera.
«Se riusciamo a scoprire qualcosa dai registri, almeno potremmo dire di non essere venuti qui per niente» disse.
La porta dell’ufficio si arrese al primo calcio di Porthos, spalancandosi con uno scricchiolio di legno e cardini poco oliati.
L’ufficio era un angusto spazio con scaffali traboccanti di documenti arrotolati. Dove il mobilio lasciava scoperte le pareti erano appese cartine nautiche ingiallite.
Il soffitto gocciolava in un angolo, con l’acqua che cadeva producendo un fastidioso ticchettio contro le assi del pavimento.
Il registro che i moschettieri cercavano era aperto in bella mostra sul tavolo in fondo alla stanza, accanto a una candela accesa che proiettava un cerchio di luce dorata sulle pagine.
I quattro uomini si fermarono, interdetti.
«Chi ha acceso quella candela?» bisbigliò d’Artagnan.
«Qui non c’è nessuno. Nessuno viene al porto da stamattina» osservò Porthos.
Qualcuno doveva esserci. E qualcuno che si era intrufolato in un ufficio abbandonato, senza essere un moschettiere in servizio, non doveva essere qualcuno di particolarmente raccomandabile.
Di istinto i moschettieri misero mano alle pistole. Si guardarono attorno, ma non videro nessuno, la stanza sprofondata nella penombra sembrava vuota.
«Gli scuri alle finestre sono chiusi e la porta era sbarrata prima che l’aprissimo» disse Aramis. «Da dove è entrato?»
D’Artagnan fu il primo a cogliere, a voltarsi verso le gocce d’acqua che continuavano a cadere dal soffitto.
Il tetto. Qualcuno era passato dal tetto, approfittando di qualche apertura lasciata dai danni causati dalla tempesta. E adesso, dov’era finito? Non poteva essere già sparito, lo avrebbero sentito mentre entravano.
Athos alzò la mano per intimare a tutti di fare silenzio. Era certo che lo avrebbe udito, da qualche parte, uno scricchiolio, il suono di un respiro, magari. Guardò verso l’alto, ma il tetto si perdeva nel buio.
Furono distratti da un colpo di vento che fece tremare le imposte delle finestre.
Contro i vetri chiusi, illuminati appena dal riverbero dorato della candela, Athos scorse l’ombra di un movimento, una sagoma sbiadita come un fantasma.
Si voltò e lo vide. Il bandito - testa incappucciata e spada al fianco - si era calato dalle travi, ora era alle loro spalle, diretto verso la porta che avevano lasciato aperta. Non aveva fatto il minimo rumore, i suoi passi erano impossibili da udire, come quelli di…
Athos scosse la testa come per allontanare un insetto. Non era quello il momento di pensare alla ragazza.
«Fermo!» gridò. La tentazione di sparare fu fortissima, sentì il furore vibrargli nei muscoli.
Quello era un maledetto criminale. Lo aveva ferito. Aveva bruciato la casa di rue Saint-Lazare. Aveva lasciato d’Artagnan a morire nella neve e chissà quali altre scelleratezze aveva compiuto. Forse meritava una pallottola tra le spalle senza troppo riguardo, ma Athos si rese conto che gli serviva vivo, che era la terza volta che si trovava sul luogo di un qualche avvenimento legato alla loro indagine e doveva certamente saperne qualcosa.
Il bandito infilò la porta e scappò, come se il grido del moschettiere gli avesse messo le ali ai piedi.
Gli altri tre dovettero pensare tutti la stessa cosa: non potevano sparargli, dovevano solo inseguirlo. Quattro contro uno l’avrebbero preso.
Uscirono di corsa. Il bandito era già lontano, con quelle sue gambe maledettamente veloci. I moschettieri si lanciarono a perdifiato dietro di lui.
Prima di lasciare il molo, Porthos afferrò una piccola botte riversa per terra, la prese con entrambe le mani e la lanciò come una palla. La botte disegnò una mezza parabola e colpì il bandito alla schiena con perfetta precisione, schiantandosi contro le sue spalle.
«Gran bel colpo» si complimentò Aramis con il fiato corto, grato di potersi prendere una pausa da quella corsa che li aveva lasciati senza respiro.
Il bandito cadde a terra con un gemito spezzato. Si voltò su un fianco e si rialzò barcollando. Non si poteva negare che fosse un osso duro, ma ormai aveva perso terreno e velocità. Mosse qualche passo rapido verso l’imbocco di un vicolo buio, ma i moschettieri lo avevano già raggiunto.
Quando si voltò verso di loro, si accorsero che aveva il viso mezzo nascosto da un bavaglio; le falde del cappuccio facevano ombra su quel che restava scoperto di una faccia indistinguibile.
Realizzando di non poter più scappare, il bandito sguainò la spada in un ultimo disperato tentativo. La lama brillò nella luce argentea della luna, lucida e perfetta come se fosse nuova.
Athos allontanò con un braccio gli altri tre che avevano mosso un passo verso il criminale. «È mio» sibilò, estraendo la spada a sua volta e avvicinandosi minaccioso all’avversario.
«Credo che lo infilzerà molto prima di riuscire a dirgli “ciao”» mormorò Porthos.
«Se non lo infilza lui lo faccio io» rispose d’Artagnan, secco. 
Aramis non disse niente, mosse qualche passo verso lo spazio destinato al duello; con lo sguardo inquieto e il labbro stretto tra i denti, sollevò la pistola, pronto a fare fuoco. Forse non si fidava della lucidità di Athos, forse il suo istinto di soldato gli aveva fatto fiutare qualcosa di pericoloso, di fuori posto.
Athos sferrò il primo colpo. Il bandito fu rapido a parare e rispondere.
Le lame delle spade stridettero nel silenzio della strada deserta.
I duellanti si separarono con un balzo e restarono a fissarsi con le armi puntate l’una contro l’altra, parallele alle loro braccia tese.
Veloce, sei veloce e nient’altro, si disse Athos. Sapeva che la rapidità per uno spadaccino poteva valere più della maestria, ma quel maledetto non era neppure minimamente in grado di tenergli testa.
Forse sei bravo abbastanza da poter tener testa a qualche criminale di strada, ma i soldati addestrati non sono pane per i tuoi denti.
Era solo questione di minuti.
Athos estrasse il pugnale, attese che fosse l’avversario a sferrare il colpo successivo, colpo con il quale era certo, si sarebbe tradito.
Il bandito esitò un istante, come se stesse cercando di capire il suo gioco - almeno non era stupido.
«Arrenditi adesso». Athos sentì la voce di Aramis alle sue spalle. «Arrenditi e forse riuscirai a evitarti il cappio».
Lui non voleva che quel criminale si arrendesse, voleva fargli mangiare la polvere e umiliarlo, per fargli scontare tutto.
Il bandito strinse la mano attorno all’elsa della spada e mosse il capo con un gesto forse stizzito forse irriverente. Tra sé e sé Athos sorrise senza allegria.
Come previsto, il bandito sferrò un colpo, un perfetto affondo diritto che colpì di piatto la lama di Athos e gli fece quasi male al braccio. Ignorando la botta che ancora gli vibrava nei tendini, il moschettiere mosse appena il polso, scoccando un fendente fortissimo.
Le lame scivolarono l’una verso l’altra, fischiando e producendo una scia di scintille. Il colpo arrivò fino all’elsa della spada del bandito, così forte e inatteso da fargli perdere la presa.
La sua lama nuova di zecca, cadde a terra con un tonfo. Lui fu abbastanza rapido da indietreggiare, prima che un colpo montante lo colpisse al braccio.
Solo col pugnale, una misericordia dall’elsa di argento cesellato, il bandito restò a distanza, indietreggiando piano, mettendo quanto più spazio poteva tra se stesso, la lama del moschettiere e quel suo sguardo gelido e furioso.
Restarono a guardarsi, i moschettieri e il bandito, come se nessuno fosse sicuro di cosa fare ora. 
«C’è un limite oltre il quale la tenacia diventa idiozia. Se provi a scappare, ti sparo» promise Aramis, perfettamente calmo, quasi amichevole.
A spada in pugno, Athos mosse qualche passo verso il bandito, con la punta della lama gli abbassò il cappuccio, scoprendo il volto nascosto dal bavaglio e il capo stretto in una bandana che copriva i capelli - o magari una testa completamente calva. Solo un paio di occhi chiari brillarono impauriti nel riflesso della lama con cui il moschettiere teneva sotto tiro il suo avversario, occhi che la scarsa illuminazione rendeva impossibili da riconoscere.
Ancora memore della ferita alla mano, Athos fissò il bandito con astio. «Getta quel pugnale» ringhiò. Quando si spinse verso di lui, il criminale cadde all’indietro, spaventato forse o sopraffatto dalla sconfitta. Il pugnale rotolò tra i ciottoli, il moschettiere lo calciò via, lontano.
Sentì i passi di Aramis correre verso di lui.
«Non voglio ucciderlo, il boia si dovrà pur guadagnare il suo stipendio» disse. Ora che lo avevano preso, un po’ del suo furore sembrava essersi attenuato, e così la tentazione di passare da parte a parte quell’arnese da forca. 
Athos e Aramis si chinarono sul bandito che non provò neppure a opporre resistenza.
Anche Porthos e d’Artagnan si erano chinati in terra, pronti a prevenire qualsiasi colpo di testa del loro nuovo amico. 
Athos gli strappò la maschera e la bandana con un solo gesto.
Per un attimo tutto si fece immobile, il vento, il rumore della città, lo sciabordio della Senna poco distante, persino i loro respiri.
No.
I moschettieri restarono chinati sul bandito come statue di angeli su un sepolcro.
Athos fu il primo a spezzare il quadro di quell’immobilità. Si alzò di scatto e si allontanò verso il fondo del vicolo, come se tra le mani avesse qualcosa di incandescente che non riusciva più a toccare.
«No».
Gettò via la spada con rabbia, tenerla in pugno avrebbe potuto essere una tentazione troppo forte.
I visi degli altri tre erano congelati dallo stupore.
Il bandito in terra, non aveva osato muoversi, la sua faccia era diventata così pallida da far credere che fosse morto sul colpo.
Morta, anzi.
Athos si voltò, senza osare avvicinarsi, senza riuscire a guardare.
«Legatela» ordinò secco. Ed era un ordine che aveva già pronunciato una volta, con quella stessa voce, con quello stesso stravolgimento, con quella stessa espressione che aveva reso il suo viso una maschera grottesca alterata dal furore.
Aveva pensato a quell’individuo così a lungo, si era chiesto come fare a trovarlo, e per tanto tempo era sempre stato con loro.
Diane si tolse la benda che ancora le copriva la curva del mento, ormai non ne aveva più bisogno, e allungò le mani verso Aramis, consegnando i polsi al morso ruvido della corda. 
 
 

 
  
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