Come Home -Parte I
And
right now there's a war between the vanities
But all I see it's
you and me
The fight for you is all I've ever known
(Come Home - One Republic)
Impazienza.
Se
avesse dovuto dare un nome alla sensazione che in quel momento gli
attanagliava lo stomaco, non sarebbe potuto essere altri che
quello.
Evidentemente, calma e sopportazione non erano doti a lui
congeniali. O più semplicemente non lo erano a quella
situazione, in
cui sussultare ad ogni rumore sembrava essere l'inevitabile condotta
associata al suo ruolo di sposo agitato.
Tentò di concentrarsi
sulle pieghe della giacca -che ostinate continuavano a riapparire, a
prescindere da quante volte lui vi passasse la mano sopra- e sul nodo
della cravatta -fattosi improvvisamente opprimente-, ma ogni suo
tentativo era vanificato dall'agitazione delle dita, incapaci di
eseguire correttamente anche il movimento più elementare, e
soprattutto dal mellifluo frastuono delle flûtes
di vetro,
che da quasi dieci minuti aveva preso a tintinnargli senza sosta
nelle orecchie.
«Hey amico, vacci piano! È già il
quarto
bicchiere quello»
Insoddisfatto del tono esageratamente pungente
con cui gli si era rivolto, Esposito in aggiunta dedicò
anche
un'occhiata storta a Castle, in piedi accanto al piccolo rinfresco
alcolico, le cui labbra si bloccarono a mezz'aria, l'attimo prima di
potersi ricongiungere con l'orlo del bicchiere.
«Avanti Esposito,
non risparmierai sullo champagne, spero! È il giorno del tuo
matrimonio, bisogna festeggiare! Questi sono eventi che capitano una
volta sola, di solito...»
«Sì, ma vedi di non arrivare ubriaco
alla cerimonia. Preferirei evitare la parte in cui uno dei miei
testimoni sviene sull'altare»
«Per favore, ricordati con chi
stai parlando. Questo fegato ha visto tempi più duri...e
migliori,
in effetti»
Con fare scocciato Esposito colse l'occhiata poco
convinta che, nonostante tutto, l'amico aveva appena osato rivolgere
al contenuto del proprio bicchiere, il cui sdegno non sembrava
tuttavia trovare riscontro nelle sue azioni. Tornò
così a dedicarsi
all'altro uomo -quello agitato ed eccitato dentro lo specchio- giusto
in tempo per sorprendere il riflesso di Castle a scolarsi in un unico
sorso il resto del calice, con un'espressione di agitazione e
aspettativa che aveva appena visto espressa a chiare lettere sul
proprio di viso, e che vedere riflessa anche su quello dell'amico non
gli piacque affatto. Soprattutto perché, nel suo caso, non
la si
poteva imputare all'imminenza di un matrimonio.
«Se mi rovina le
nozze giuro che lo ammazzo...»
La frase uscì esasperata e con un
tono volutamente troppo basso perché il diretto interessato
potesse
udirla, ma giunse comunque a destinazione attirando l'attenzione del
secondo dei tre uomini riuniti con lui in quella stanza, e fino ad
allora rimasto in disparte, immerso in un'agguerrita lotta con i
polsini della camicia.
«Andiamo, adesso rilassati. Filerà tutto
liscio»
«Ah sì? Allora perché ho la continua
impressione che
qualcosa debba andare storto?»
«Solo un po' di sano panico da
matrimonio... Vedrai che nel giro di un anno sarà quasi
sparito»
Ryan gli fu presto accanto, senza nemmeno curarsi di
nascondere il sorriso eloquentemente divertito maturatogli sul volto
alla vista del partner in preda a un vero e proprio attacco di
panico, a prescindere che lui volesse ammetterlo o no.
E in
effetti, se anche fosse stato conscio della curiosa e irrazionale
scarica di terrorizzato eccitamento che stava provando al pensiero
che da lì a un'ora sarebbe stato sposato, come avrebbe mai
potuto
ammetterlo ad alta voce?
Lui, perennemente a contatto con
l'ingiustizia e il dolore -se non suo, di altri-, che aveva
incontrato la morte più volte di quanto dovesse poter essere
concesso a un solo uomo, e ancora prima aveva visto la guerra -quella
vera-, riflessa sulla canna del proprio fucile... Lui, che aveva
sparato ad assassini e obiettivi militari a distanze incalcolabili ad
occhio nudo, e che adesso non riusciva a tenere le proprie dita ferme
neanche per il tempo necessario ad abbottonarsi la giacca. Aveva
conosciuto lo stress post-traumatico, sapeva cosa volesse dire
convivere con l'ansia ogni giorno e sentirla divorare le proprie
viscere: come avrebbe mai potuto ammettere, anche solo a sé
stesso,
che dopo tutto ciò che aveva vissuto e sopportato, bastasse
la
semplice idea di sposare la donna che amava -e con cui avrebbe
comunque passato il resto della sua vita, a prescindere dalla firma
apposta su un documento- a mandarlo in panico adesso? L'orgoglio e il
disperato tentativo di conservare la propria virilità non
gli
avrebbero mai permesso di venire deliberatamente a patti con quel
pensiero, pur tuttavia già ben noto al suo subconscio:
ciò
nonostante quel paradossale contrasto tra il sapere e il non volerlo
ammettere non lo aveva del tutto privato della sua lucidità,
almeno
non al punto da non rendersi conto che la sua ansia era sì
in gran
parte, ma non del tutto imputabile a sé stesso e alla
propria
sciocca paura. Quella cricca sparuta di neuroni dissidenti, che
popolava l'angolino del suo cervello rimasto immune alla frenesia da
matrimonio, continuava infatti a riproporgli a ondate informazioni
non pertinenti compreso, tra le altre, il ricordo dei recenti
avvenimenti tra due dei suoi più cari amici che -aveva
realizzato
con orrore quella stessa mattina- si sarebbero incontrati dopo mesi
proprio al suo matrimonio. Quindi, in un moto di amaro compiacimento,
dovette concludere che la sua preoccupazione nei confronti della
labilità di controllo di Castle era del tutto giustificata.
Checché
ne dicesse Ryan.
«Signori, è ora»
La porta della camera
d'albergo si aprì e la testa dell'organizzatore -una pertica
pallida
dalla barba curata, avvolta in un elegante completo beige- vi fece
capolino, facendo sobbalzare Esposito, colto proprio nell'unico
istante in cui -troppo occupato a riflettere- non aveva prestato
orecchio all'avvicinarsi dei passi nel corridoio, che gli avrebbero
consentito di realizzare che era ora di andare con almeno qualche
secondo d'anticipo, così da potersi preparare mentalmente.
Avendo
sprecato quei preziosi istanti, fu così costretto a
respirare
profondamente e contemporaneamente a camminare verso l'uscita; una
doppietta che gli costò parecchia fatica, specie dopo
l'occhiata
ebete e sorridente che spiò nel suo riflesso allo specchio
un attimo
prima di voltargli le spalle, e che gli provocò un irritante
moto di
auto-derisione.
Odiava comportarsi in quel modo, si sentiva
così... Ryan.
Le mani leggermente sudate d'eccitazione, si
posizionò di fronte alla porta d'un passo indietro rispetto
all'organizzatore, in attesa di un suo cenno per procedere finalmente
fuori dalla stanza, lungo il corridoio, e poi giù per le
scale fino
al giardino, dove un gazebo e un'ottantina di invitati lo stavano
già
attendendo. Dietro di lui Castle e suo cugino Oliver stavano adesso
prendendo posto, sfruttando quegli ultimi attimi per mettere a punto
le proprie mise, mentre un Ryan già pronto e sorridente gli
si era
posto quasi a fianco, sostenendolo discretamente come ogni giorno da
che erano diventati partner.
«Hai la pistola con te?»
«Certo
che no, perché mai dovrei portarmi la pistola al tuo
matrimonio?»
Ryan gli rivolse un'occhiata confusa e sbalordita,
indeciso su come interpretare quella richiesta. Gli fu tuttavia
sufficiente seguire il suo sguardo, posatosi sullo scrittore alle
loro spalle per un breve ma intenso istante, per capire che non era
autolesionismo da stress ciò di cui avrebbe dovuto
preoccuparsi, ma
un potenziale omicidio di primo grado.
«Pazienza, vorrà dire che
nel caso me ne occuperò a mani nude»
Febbraio nella
Hudson Valley era un spettacolo mozzafiato. Di per sé
sufficiente a
giustificare la scelta di uno dei mesi più freddi
dell'inverno New
Yorkese per celebrare un matrimonio con rito all'aperto.
All'orizzonte la natura si apriva libera e incontaminata in una
vallata nebbiosa, spruzzata qua e là d'argento -ricordo
forse di una
recente nevicata. A chiudere quella conca erbosa, fitti filari
d'alberi ancora sopiti sotto le spire brumose dell'inverno,
attraverso cui il sole tentava faticosamente di filtrare, diffondendo
nell'aria, quando vi riusciva, una luce soffusa e quasi eterea che
riempiva gli occhi. E tra un ramo disadorno e l'altro, ogni tanto
Kate riusciva persino a spiare il riverbero del lago, distante poco
più di un chilometro, sfuggente e abbagliante come uno
specchietto
lasciato a giocare col sole.
Il rigido contrasto tra quella vista
selvatica e la perfezione artificiosa del giardino dell'hotel non era
che il coronamento di quel panorama, contribuendo ad aumentare
l'impressione di trovarsi in una piccola oasi di perfezione isolata
in mezzo a un paradiso arboreo.
La sensazione di essere fuori
posto, per una cittadina come lei, era però sempre in
agguato. Così
Kate, affacciata alla finestra della stanza adibita alla preparazione
della sposa, si premurava di non indugiare troppo su nessun dettaglio
che potesse farle prendere reale coscienza di dove si trovasse e
perché: onde evitare che il rientro nella sua
città natale -vista
di sfuggita dal finestrino del taxi, un attimo prima di venire
inghiottiti dal traffico delle strade provinciali- non fosse reso
più
traumatico dal distacco dal suo ambiente naturale, fatto di cemento e
fumosità.
Privata dell'unica distrazione disponibile, il cambio
d'abito, negli ultimi dieci minuti i suoi sforzi avevano
però
iniziato a far cilecca lasciando così campo libero ai
pensieri che,
come le foglie fuori dalla finestra, avevano preso a ornargli le
centinaia di ramificazioni gemmatesi nella sua mente. Alla fine Kate
aveva escogitato uno stratagemma, e aveva ripreso a osservare il
panorama attraverso l'alone di condensa che ad ogni respiro
contribuiva ad alimentare sul vetro, attraverso cui la vista di quel
luogo si faceva quasi accettabile. Lei si sentiva come quell'alone:
una presenza incorporea e quasi invisibile, dai contorni confusi,
tenuta in vita dal gesto automatico del respirare e nulla
più. E
intanto il corpo, elegantemente avvolto nell'abito vinaccio, flirtava
con le vertiginose décolleté, prendendo parte ai
festeggiamenti che
si stavano consumando alle sue spalle, e a cui la testa sembrava
invece non essere stata invitata. Persa in quel groviglio mentale,
l'unico legame attuale col suo corpo era infatti il peso irrisorio
dello chignon basso, che costringeva i suoi capelli in una morbida
morsa e che, sottomesso alla forza di gravità, era l'unica
cosa ad
assicurarle di rimanere con i piedi ben piantati a terra.
In quel
brusio indistinto di voci e di brindisi, e di pensieri turbinanti, ci
volle il suono rassicurante del proprio nome, pronunciato da una voce
altrettanto rassicurante e familiare, per convincerla a riemergere da
quell'apatico stato di quiete.
«Kate, cosa ne pensi?»
Voltate
le spalle al vetro, una visione altrettanto ragguardevole le si
parò
davanti quando una splendida Lanie vestita di bianco raggiunse il
centro della stanza, raggiante come poche altre volte nella vita.
L'abito -un gioiellino di alta sartoria scovato mesi prima in un
outlet- la fasciava delicatamente sulla vita, accentuando il seno
già
prosperoso senza scadere nel volgare, per poi aprirsi in una morbida
gonna ampia che terminava con un piccolo ma raffinato strascico.
Nella sua semplicità, il vestito si sposava perfettamente
con la
carnagione scura di Lanie e con il pendente d'oro e ametista verde
che le adornava il collo -unica nota eccentrica nel suo aspetto.
«Sei
magnifica, Lanie»
Il sorriso sbocciato radioso sul volto della
sposa raggiunse rapidamente anche le labbra di Kate, contagiando in
breve tempo anche le altre donne presenti nella stanza che, con
commenti estatici e gridolini eccitati, s'erano unite al coro di
complimenti inaugurato dalla damigella d'onore. Jenny in particolare,
complici gli ormoni, si sciolse in un appena accennato pianto di
commozione che costrinse Marla, la storica compagna di
università di
Lanie, a intervenire prontamente con dei fazzoletti, onde evitare che
il trucco dell'altra si distribuisse dagli occhi anche sul resto del
viso. La scena ebbe il merito di smorzare la tensione, che palpabile
s'era sostituita all'aria della stanza nel momento in cui Lanie era
uscita dal camerino e tutte avevano definitivamente preso atto che
stava per sposarsi. Ne derivò che, quando la proprietaria
dell'hotel
si materializzò tra loro invitandole a seguirla, non ci
furono altri
pianti o contrattempi emotivi.
«Lo sposo la attende, signorina
Parish»
Sotto lo sguardo gioviale di Mrs Nasser, la proprietaria,
e quello decisamente più composto di sua madre, Lanie
lasciò che
Kate le appuntasse il velo, e si concesse un'ultima rimirata allo
specchio prima di incamminarsi lungo il corridoio. Dietro di lei, il
piccolo esercito di parenti, addetti e damigelle -Kate compresa-
procedeva disordinato, col picchiettare dei tacchi sul parquet a far
loro da colonna sonora. L'assembramento si ruppe non appena
raggiunsero l'androne, col giardino che faceva capolino dall'angolo
di portone spalancato appena visibile dalla loro posizione. Lo stesso
portone di legno che Kate aveva l'impressione la stesse spiando,
minaccioso e imponente, oltre la colonna dietro cui lei stava
pazientemente attendendo il proprio turno. Troppo distante per
restituire lo sguardo, poteva tuttavia sentire il mormorio indistinto
della gente verosimilmente assiepata lì fuori, appena
qualche metro
più avanti, in trepidante attesa del loro arrivo. Non aveva
avuto
modo di vedere l'allestimento finale, essendo arrivata quando ancora
i camerieri stavano disponendo le prime sedie sul prato sotto il
gazebo, e questo non fece che aumentare la sua ansia. Sarebbe
riuscita a non cadere? Sarebbe stata capace di arrivare fino alla
fine di quel tappeto di petali senza cedere all'impulso di
scappare?
Vide la madre di Lanie allontanarsi con altri membri del
gruppo e sparire oltre l'uscio, segno che la cerimonia sarebbe presto
iniziata e che tutti, eccetto sposa e damigelle, dovevano affrettarsi
a prendere posto. Ancora pochi istanti e la marcia nuziale avrebbe
preso a suonare, segnalandole che era giunto il momento di aprire le
danze. Si guardò brevemente intorno: accanto a lei ormai
solo Jenny
e Marla, e Lanie ovviamente, insieme all'onnipresente signora
Nasser.
«Sei pronta?»
Lanie, profondamente concentrata sulla
delicata operazione dell'alternare l'inspirare all'espirare, parve
sobbalzare quando Kate si rivolse a lei, ma tutto il suo stupore
morì
rapidamente nella dolcezza di un nervoso sorriso sbocciato a fior di
labbra.
«Credo di sì»
Kate le strizzò con forza la mano,
decisa a infonderle un coraggio di cui in verità non era
certa di
disporre attualmente, ma negli occhi di lei lesse la gioia e non ebbe
dubbi che, a dispetto del suo tono incerto, il resto di Lanie era
più
che pronta a quel matrimonio.
E lei, lei era davvero pronta a
uscire lì fuori? La sua mente continuava a ripeterle di
sì, ma le
mani erano in chiaro disaccordo, intente a torturarsi e torturare il
piccolo bouquet di rose bianche e lavanda. Il bouquet sbagliato, si
disse, mentre l'aroma le invadeva prepotente le narici fino a farle
girare la testa. Gelsomini e fiori di ciliegio: quello sarebbe stato
giusto. Il che le ricordò che anche febbraio non era il mese
adatto:
la primavera infatti avrebbe dovuto fare da sfondo a qualunque cosa
la aspettasse là fuori.
No, non era pronta.
Fu un fruscio di
stoffe a riportare la sua attenzione alla realtà e alla
sposa
-quella vera-, che sotto preciso ordine di Mrs Nasser era andata ad
occupare l'ultimo posto di quella sontuosa carovana composta da lei,
Jenny e Marla. E con un moto di sgomento dovette faticare per far
notare alla propria mente quanto insensati fossero quei pensieri, e
ricordarle che quello era il matrimonio di Lanie, non il suo.
Nonostante sentisse che la stessa agitazione che imporporava
-legittimamente- le guance di Lanie, fosse attualmente dipinta sul
proprio di viso, sebbene in realtà non potesse vantarne
alcun
diritto. Intercettata l'amica con lo sguardo, le rivolse un sorriso
d'incoraggiamento, dietro cui nascose il senso di colpa che l'aveva
di colpo investita, tentando di rimettersi addosso i panni della
damigella d'onore e svestire quelli di qualunque cosa il suo cuore
cercasse di farla sentire in quel momento. E tuttavia, un attimo
prima che la musica la raggiungesse, quello stesso cuore si
premurò
di farle notare come, in realtà, non avesse avuto occasione
di
vederlo neanche una volta da che era arrivata all'hotel,
così che
quello di fronte all'altare sarebbe stato il loro effettivo primo
incontro dopo mesi di silenzi, caricando quel momento di ulteriore
attesa che, tirando a indovinare, avrebbe persino potuto superare
quella di Lanie e del suo futuro sposo.
Il che, ridicolmente, la
fece sentire ancora di più come la diretta interpellata di
quella
marcia nuziale che aveva appena iniziato a suonare.
Percepì solo
con gli occhi il cenno del capo della proprietaria che la invitava a
muoversi, mentre la testa era troppo impegnata a ricordarsi di
alternare ad ogni passo un respiro, onde evitare un'insufficienza
d'ossigeno prima dell'arrivo.
Se Kate avesse potuto vedere Castle,
avrebbe capito di non essere l'unica a provare la buffa sensazione
d'essere lei la protagonista di quella corsa all'altare. Avrebbe
visto le sue gambe impegnate in un'impercettibile quanto nervosa
danza, di cui le mani, sfregate senza sosta l'una contro l'altra,
scandivano il ritmo. Avrebbe spiato il disagio degli occhi, incapaci
di fermarsi a riposare su un punto abbastanza agevole da chiamare
casa, costringendolo piuttosto a guizzare con lo
sguardo a
destra e a sinistra, incespicando ogni qual volta nel suo viaggio si
posava erroneamente su di lei. E avrebbe poi scorto i rapidi e
intermittenti movimenti del suo torace quando, con profondi e
spezzati respiri, riemergeva da apnee che non sapeva d'aver tentato,
e l'espressione di irritato sgomento quando s'accorgeva d'esser
ricaduto in un altro digiuno d'aria.
Se avesse potuto, ma non
poteva. Poiché non alzò mai gli occhi, non
finché non ebbe
compiuto l'ultimo passo almeno.
Procedette invece lungo la navata,
aprendo la strada a Jenny e a Marla, e tutto ciò a cui
poté
aggrapparsi per evitare di crollare, e tradire così la
propria
agitazione, era il bouquet, stretto nella morsa d'acciaio delle sue
dita. Ad ogni passo la ciocca in cima alla testa minacciava di
sfuggire all'intricata tela dell'acconciatura, allentandosi sempre un
po' di più, e Kate avrebbe voluto redarguirla, interrompere
il
fastidio di quel delicato sfregamento contro la propria fronte, ma
temeva che a reggersi con una sola mano al suo appiglio odoroso
sarebbe crollata. Quando infine giunse di fronte all'altare furono le
sue gambe, immuni dalla schiavitù del cuore, a evitarle la
pessima
figura dell'occupare il posto ritualmente spettante alla sposa, di
cui condivideva quantomeno lo stato d'animo se non il ruolo, e a
spingerla un po' più a destra nel posto che invece spettava
a lei,
semplice damigella d'onore. La fonte di tanta confusione le stava ora
dinnanzi, e pure con cinque metri e due sposi a dividerli, i loro
sentimenti erano talmente ingombranti da schiacciare lo spazio
circostante al punto da far quasi avvicinare l'altare e il prete,
quel tanto che bastava a far sì che entrambi, nello
sfarfallio di un
istante, riconoscessero negli occhi dell'altro la consapevolezza
curiosamente condivisa d'essere in un punto troppo pericoloso per
loro, quasi sull'orlo di un burrone, in cui le uniche alternative
erano tuffarsi o rimanere seduti ad aspettare. Forse per qualche
minuto, forse per sempre.
La cerimonia per fortuna procedette
comunque distesa e senza intoppi.
E talora qualche momento di
commozione la spinse persino a concentrare la propria attenzione sui
due protagonisti, per il resto ostinatamente ed egoisticamente
concentrata su un altro di smoking, quello del secondo
testimone.
Nonostante quella cura nello studiarlo però, non seppe
mai se Castle si fosse tuffato o meno nel loro personalissimo mare
emotivo. Lei sicuramente non lo aveva fatto, preferendo ancora una
volta la strada più prudente e meglio delineata: quella
dell'attendere al sicuro, al riparo dall'imprevedibilità
delle
correnti che avrebbero in un istante spazzato via ogni sua
possibilità decisionale futura. E dentro di sé
sapeva d'averlo
fatto più per paura di scoprirsi capace di nuotare in quel
mare
inesplorato, che per timore di non esserne in grado. E tuttavia, pur
non tuffandosi, non trovò neanche mai il coraggio di
smettere di
immergere i propri piedi nell'acqua, e di chiedersi come sarebbe
stato tuffarsi dentro quelle due pozze cristalline che la stavano
silenziosamente e discretamente fissando di rimando.
Quando il
prete infine dichiarò Lanie ed Esposito “marito e
moglie” la sua
attenzione le concesse l'ultimo dei suoi rari scarti, consentendole
di dare a quel momento -e ai suoi due amici- l'importanza che
meritavano. Si commosse nel sorriso eccitato di Lanie, si sciolse
nello sguardo umido di Esposito, gioì nel vedere quegli
sguardi e
quei sorrisi fondersi nel primo loro, appassionato, bacio
coniugale... Ma di nuovo, al separarsi di quelle labbra, sul
sottofondo di uno scrosciante applauso generale, le sue ultime
energie si dissiparono non nel battere le mani a tempo con gli altri,
ma piuttosto nell'intercettare lui ancora una volta, dipingendo
quella scena finale con un ultimo loro sguardo.
Preceduti dai
novelli sposi, lei insieme agli altri cinque occupanti della scena si
incamminarono infine lungo il corridoio erboso -per l'occasione
improvvisatosi navata- tra petali di fiori, chicchi di riso, applausi
e urla. E per uno strano scherzo del destino, che spinse Ryan -primo
testimone- a intercettare Jenny -seconda damigella-, portandosi al
suo fianco e catturandola in un abbraccio che valse loro il primo
posto di quella passerella umana, l'ordine venne invertito e Kate si
ritrovò a camminare accanto alla persona più
sbagliata: Castle.
Con
poco spazio a disposizione e un'andatura confusamente accelerata, le
loro dita finirono irrimediabilmente con lo sfiorarsi più e
più
volte ad ogni passo, in una scarica elettrica che l'attraversava da
parte a parte: dalla mano destra a quella sinistra, ancora salda al
bouquet. Quando infine mossero l'ultimo passo di quella sfilata, il
primo impulso fu quello di separarsi: decisi e senza esitazioni, uno
da una parte e uno dall'altra. Eppure, nell'istante in cui la brezza
fredda di febbraio tornò a lambirle la mano, lì
dove prima s'erano
posate le sue dita, l'urgenza di prolungare quel contatto si fece di
colpo più impellente di quella di sfuggirgli, prendendo la
forma di
un suono che, come un seme maturato nella gola, si fece strada verso
alla bocca, fino a fiorire nel suo nome. D'altra parte quel suo
bisogno non sembrò trovare riscontrò in Castle
che, pur fingendo di
non averla sentita, non riuscì però a impedire
alle proprie spalle
di irrigidirsi prima di proseguire diritto per la propria strada, in
una determinazione che Kate tradusse come il più chiaro
degli inviti
a non cercarlo.
Per un secondo valutò di assecondarlo in quella
che, forse, si sarebbe rivelata la scelta migliore per entrambi, a
dispetto della vocina nella sua testa che, imperterrita, continuava a
chiamare il suo nome. Alla fine comunque Kate non poté che
arrendersi a quella voce, conscia che l'impulso a parlargli era
troppo forte per resistervi per un'intera giornata, così
come quello
di toccarlo e di guardarlo senza dover ricorrere a languide occhiate
rubate.
«Castle fermati, non puoi evitarmi per sempre. Hey sto
parlando con te!»
Stretti i pugni contro i fianchi accelerò il
passo. E sebbene la sua andatura fosse alquanto affrettata, Kate non
ebbe particolari problemi a stargli dietro, forte anche di quella
particolare abilità di correre sui tacchi maturata in tanti
anni di
lavoro come detective. Un'unica sosta in effetti la
rallentò, quella
necessaria ad abbandonare il bouquet sulla prima superficie che
incontrò sulla strada, e che la costrinse a girare l'angolo
con
qualche secondo di scarto rispetto a lui: il proprio arrivo preceduto
dall'ennesimo, perentorio, richiamo. Fu allora che la vide.
Il
sapore ancora fresco del suo nome sulle labbra, smorzato dall'amaro
di quella visione: Castle, finalmente arrestatosi, accanto a quella
che, senza ombra di dubbio, doveva essere Laura. Si bloccò a
metà
strada, seguendo l'esempio di polmoni e cuore che, solo dopo parecchi
interminabili istanti, riprese a pomparle violento il sangue nelle
vene.
La donna, di cui possedeva solo l'ombra tuttavia vivida di
una voce, s'era ora vestita di un corpo tutt'altro che irrisorio,
ornato d'un delicato vestito blu ardesia che contrastava
armonicamente con l'incarnato luminoso e la chioma corvina. Riconobbe
i tacchi vertiginosi con cui Castle l'aveva dipinta ai suoi occhi, in
un portamento rilassato e sereno con cui lei non riusciva a
immedesimarsi, specie se immaginandosi accanto a lui, che era invero
sempre stato capace di d'investirla d'una agitazione tutta
particolare ed estatica.
Concessasi un paio di secondi
supplementari per smaltire lo shock, comprese di colpo la fretta
dell'uomo come di colpo ne condivise l'urgenza di sospendere ogni
loro contatto. Tuttavia ciò che lei aveva vissuto come
lunghissimi
minuti non erano state che frazioni di secondo il che, unito al modo
tutt'altro che discreto con cui aveva chiamato in precedenza il suo
nome, le fecero realizzare con orrore che non solo non sarebbe potuta
sparire senza destare sospetti, ma che con la sua irruenza aveva
attirato anche l'attenzione di Laura, la quale aveva preso a guardare
nella sua direzione con un cipiglio curioso in volto.
«Rick,
tesoro. Credo che quella donna laggiù ti stia
cercando»
Come
paralizzata, Kate rimase ferma nella sua posizione a osservare il
dito della donna alzarsi e puntare diritto verso di lei, seguito
subito dopo dal viso di Castle che, ormai in trappola, non
poté fare
a meno di voltarsi a guardarla.
«Oh, Beckett, ciao!»
Il tono
di finta noncuranza di cui si vestì quella frase la
colpì con tutta
la forza e l'irritazione di un pugno allo stomaco, mentre una parte
di lei -quella razionale- lo stava invece ammirando per il modo
encomiabile, e apparentemente disteso, con cui era riuscito a
dissimulare l'intera faccenda. D'altra parte lei, del tutto
impreparata a quell'incontro, dovette fare appello a tutte le sue
forze per decidersi a muoversi e uscire da quell'impasse alquanto
imbarazzante. E mentre malvolentieri si apprestava a raggiungerli, si
dette della stupida per non aver considerato
quell'eventualità, che
in realtà era più una certezza considerato che,
essendo
perfettamente al corrente che stavano ancora insieme, il portare al
matrimonio la propria ragazza -e qui il cuore di Kate fece una
capriola- sarebbe stata una mossa più che ovvia da prevedere.
«Devi
scusarlo, è sempre così distratto»
«È vero, ma potrebbe
essere anche colpa di tutti quei brindisi con i ragazzi, prima della
cerimonia»
Una risata cristallina si levò dalla donna di fronte
a lei, stemperata dal sommesso sorriso del suo compagno, e Kate si
sentì in dovere di partecipare a quel surreale scambio di
ilarità,
sorridendo a sua volta nel modo più naturale che le
riuscì.
«Comunque io sono Laura, piacere. La fidanzata dello
svagato, qui presente. E tu se non sbaglio sei una delle damigelle
della sposa...»
«Sì, piacere Katherine Beckett»
«Oh ma
certo, Beckett! L'amica poliziotta di Lanie che lavora a Washington!
Ho sentito dire grandi cose sul tuo conto»
L'entusiasmo sincero
con cui furono pronunciate quelle parole la lasciò di
stucco, certa
che quel primo incontro si sarebbe consumato sotto il segno della
circospezione e del disagio, e non dell'aperta cordialità.
Eppure le
sue spiccate doti investigative non colsero alcun segno di ipocrisia
nel suo atteggiamento né altro di avverso, se non
un'eccessiva
espansività tipica di quella categoria gente solare e
genuinamente
spensierata, di cui Kate aveva sino ad allora ritenuto Castle l'unico
sopravvissuto rimasto.
Nel ringraziarla di quei complimenti, Kate
comunque continuò a soppesarne le parole, indecisa se
sentirsi più
lusingata o più svilita dalla poca apprensione che quella
donna
sembrava nutrire nei confronti del suo passato con Castle. Qualche
altro minuto e un paio di frasi scambiate, la portarono infine a
concludere che con tutta probabilità Laura non avesse idea
di che
lei fosse -o fosse stata- per Castle, certa che tanta spigliatezza
non sarebbe potuta essere naturale neanche in una
personalità del
genere. E di nuovo Kate si sentì combattuta tra due
sentimenti
contrapposti: tra il sollievo cioè d'essere scampata a un
incontro
potenzialmente molto imbarazzante, e lo strano risentimento
repentinamente maturato nei confronti di Castle, che sembrava non
aver ritenuto il loro passato qualcosa di sufficientemente importante
da metterne a parte la nuova arrivata.
«Scusatemi è il lavoro,
devo rispondere. Torno subito»
Lo squillo di un cellulare giunse
a mettere fine a quel surreale quadretto di vita sociale,
costringendo Laura ad allontanarsi e contemporaneamente Rick e Kate
ad avvicinarsi in un inevitabile e necessario confronto. Non prima
però di aver condito la scena d'un rapido e sgradevole bacio
a
stampo di commiato, che attorcigliò le budella di Kate con
tanta
violenza da farne riversare la bile all'esterno, dritta sulle sue
parole.
«Lei non hai idea di chi io sia, vero?»
«No»
«Come
è possibile che non sappia nulla di noi?»
«Quando l'ho
incontrata era già da un pezzo che non esisteva
più un noi,
Kate. Inoltre non è una fan dei miei libri»
Il fatto che Laura
non fosse una sua fan, sebbene sufficiente a farle perdere qualche
punto ai suoi occhi, non era per Kate un'informazione esauriente,
essendo la sua domanda mirata a sapere come lui avesse potuto non far
neanche cenno a lei in tutti quei mesi, più che al come lei
potesse
essere tanto estranea al loro mondo da non averne mai sentito mai
parlarne. Non seppe dire se lui non avesse davvero inteso il senso
della sua richiesta, o se avesse deliberatamente virato sui libri per
evitare di rispondere. Ad ogni modo, dopo averlo sentito
puntualizzare quel noi a denti stretti, non ebbe
più cuore di
approfondire la faccenda. Specie perché al momento c'erano
questioni
più urgenti da dirimere.
«Rick ho bisogno di parlarti, ti
prego»
«Sinceramente Kate, non credo ci sia nulla di cui
parlare»
«Nulla, davvero? E quello che è successo a
Washington
lo chiami nulla? Non puoi fare finta che non sia accaduto niente,
Castle!»
«Non faccio finta, Kate. So perfettamente cosa è
successo, e cioè ci siamo fatti trascinare dagli eventi e
abbiamo
commesso un errore. Fine della storia. Per cui come vedi non
c'è
nulla di cui parlare»
«Tutto qui? Trascinati dagli eventi, un
errore... Andiamo Castle, non ti sembra troppo semplicistica come
storia. Sappiamo entrambi che non è il tuo genere»
«Le persone
cambiano, Kate. A volte. Ora scusami, c'è un matrimonio in
corso e
vorrei andare a congratularmi con gli sposi»
Da quando Castle
l'aveva lasciata da sola in mezzo al giardino, Kate aveva deciso di
interrompere ogni contatto sociale con chiunque. Una decisione
temporanea la sua, e terribilmente egoistica -ne era consapevole-, ma
necessaria affinché nessuno si accorgesse dei suoi occhi
rossi e le
chiedesse spiegazioni. Un ritiro preventivo, atto a proteggere il
giorno di Lanie ed Esposito dai suoi problemi, ma soprattutto a
preparare lei -era inutile negarlo- al prossimo inevitabile incontro
con Castle. Per tutta la durata dell'aperitivo, allestito nel piccolo
portico adiacente al luogo della cerimonia, Kate s'era dunque
rifugiata in un angolino appartato del muretto di cinta: abbastanza
vicina da seguire i movimenti del convito, ma sufficientemente
lontana da non venirvi coinvolta. L'unica eccezione era consistita
nella rapida e calcolata incursione al tavolo delle bevande, grazie
alla quale Kate si era accaparrata il gelato calice di bianco,
custodito ora gelosamente tra le proprie dita. I suoi venti minuti di
tranquillità vennero fatalmente interrotti dall'arrivo di
Ryan, una
presenza tuttavia neutrale e che Kate si scoprì sinceramente
lieta
di accogliere nella propria solitudine.
«Beckett»
«Ryan,
ciao!»
Abbandonato il suo tesoretto alcolico per un istante, Kate
scese dal muretto su cui era appollaiata per arricchire quel saluto
di un allegro abbraccio, che l'ex collega non tardò a
ricambiare. Un
gesto inusuale per loro, ma giustificato da una lontananza prolungata
a cui nessuno dei due, a dispetto del tempo trascorso, era ancora
totalmente abituato.
«Ti trovo benissimo!»
Si separò da lui
per concedergli una rapida occhiata, mentre il suo corpo aveva
già
riguadagnato posizione nel suo sedile di fortuna e presa sul
bicchiere di vino. Non passò molto tempo prima che l'amico,
liberatosi dell'impaccio della giacca, arrivasse a farle compagnia
sedendosi a sua volta.
«Anche tu sembri in forma, un po' stanca
forse... A Washington vi fanno faticare, eh?»
L'ultima frase
venne palesemente aggiunta per smorzare la profondità di
quell'appunto sulla stanchezza, che Kate imputò alla vista
del suo
sguardo, evidentemente ancora non del tutto scevro di lacrime. Una
premura che apprezzò particolarmente, avendo colto in essa
la
preoccupazione dell'uomo per il suo stato e contemporaneamente tutta
la delicatezza e la discrezione che facevano di Ryan l'amico prezioso
che era.
«Diciamo che a volte rimpiango la flemma dei killer di
New York»
«Posso immaginarlo, anche se credo che Washington ti
porti a idealizzare un po' troppo il crimine di New York... Forse lo
hai scordato ma anche i nostri assassini sanno essere particolarmente
creativi, se vogliono»
Quello scambio di battute si perse in una
risata condivisa, che andò a riempire lo spazio vuoto di cui
Kate
aveva faticosamente tentato di circondarsi fino a quell'istante.
«Ho
saputo di Jenny, congratulazioni. Sarai eccitatissimo all'idea,
immagino»
«Grazie! In effetti non sto nella pelle. Non pensavo
che dopo quello che ci ha fatto passare Sarah Grace i primi tempi
sarei stato così ansioso di tornare ad avere a che fare con
coliche,
pappe e notti insonni... ma a quanto pare l'istinto paterno annebbia
la mente»
Un'altra risata tornò ad increspare le labbra di Kate,
fomentata dalla smorfia comparsa indisciplinata sul viso dell'amico,
probabilmente al ricordo dei suoi drammi neo-paterni.
«Ah, eccovi
voi due!»
«Jenny!»
La conversazione venne interrotta proprio
dall'arrivo di Jenny, quasi fosse stata richiamata dalle loro parole.
Approfittando dell'ilare distrazione dei due, si era infatti
avvicinata a loro con discrezione, ed era passata inosservata
finché
lei stessa non si era annunciata parlando. Ryan, la giacca malamente
gettata su una spalla, non aveva sprecato neanche un attimo per
balzare giù dal muretto e guadagnarne il fianco.
Adesso che
l'aveva di fronte, Kate si prese qualche minuto per studiarla, con
una cura che non aveva potuto prestarle prima: perché seduta
durante
il cambio d'abiti della sposa, e perché semplicemente meno
interessante di altri durante la cerimonia. La pancia non era che
accennata, una lieve curvatura sulla striscia di tessuto che le
avvolgeva il ventre; sarebbe facilmente passata inosservata a chi non
vi avesse ricercato intenzionalmente i segni d'una gravidanza, come
lei. E tuttavia il suo viso era più eloquente di qualunque
rotondità, roseo e florido come appena baciato dal sole,
nonostante
si fosse in inverno: una stagione tutt'altro che coerente con la
solarità che sprigionava da ogni poro della sua pelle. Nel
guardarli
adesso, con Ryan a cingerle la vita con un braccio, in un
inconsapevole abbraccio protettivo, Kate fu colta da un inatteso moto
di tenerezza, fiera, e quasi onorata, di esser stata testimone di
quell'amore fin dai suoi albori, quanto Jenny non era ancora che la
metà della coppia aperta di Ryan. Come
lui stesso aveva
candidamente sottolineato in passato, durante un caso che l'aveva
vista sorprendentemente coinvolta.
«Il pranzo sta per essere
servito, Lanie e Javier mi hanno chiesto di venirvi a
chiamare»
«Grazie, tesoro. Vogliamo andare allora?»
Il
braccio era stato porto a Jenny, ma il resto di Ryan aveva invece
posto quella domanda a Kate, ancora indugiante sulla soglia del suo
rifugio. Ma non c'era scelta, doveva seguirli. E del resto non
avrebbe potuto nascondersi lì tutto il giorno, né
voleva farlo: era
il matrimonio dei suoi migliori amici, dopotutto. Forte di una nuova
determinazione -per cui, per qualche motivo, sentì di dover
ringraziare Ryan- si decise quindi ad alzarsi e a seguirli oltre il
giardino, dentro la sala ricevimenti dove la festa li attendeva.
A
dodici anni i suoi genitori l'avevano portata in vacanza in Italia.
A
dispetto della suggestività dei paesaggi e delle campagne
toscane,
il suo animo di bambina aveva trovato maggiore soddisfazione
nell'esplorazione dell'agriturismo in cui soggiornavano, e dove i
suoi genitori -dopo parecchie rimostranze- si erano infine convinti a
lasciarla in occasione di escursioni particolarmente faticose, e meno
appetibili quindi per la figlia. In quegli sprazzi di esotica
solitudine, Kate aveva finito per fare amicizia con la figlia dei
proprietari e, in breve, con il resto della piccola ma ardita
compagnia di coetanei che sembravano affollare le camere di quella
provvisoria sua dimora. Superate le difficoltà delle
barriere
linguistiche, grazie a quella particolare capacità, tutta
infantile,
di non notare le diversità altrui percependole come un
problema,
s'erano lanciati in avventure che non richiedevano necessariamente
l'uso della parola, finendo con l'instaurare una singolare afona
amicizia. Un gioco in particolare aveva occupato i loro pomeriggi
più
afosi, le cui regole vennero apprese grazie all'intervento mediatore
del proprietario che, tra una spiegazione in italiano e una in
inglese, aveva concesso loro di cimentarsi in divertenti sfide a
carte: un gioco noto come “Lupus”.
Con il peso di troppi anni
a gravarle sulla memoria, Kate non era certa che avrebbe saputo
prendervi parte adesso con la stessa abilità di allora, e
tuttavia i
ruoli almeno le erano rimasti ben impressi per la loro
particolarità:
così, a seconda della carta estratta, vi erano i semplici
passanti,
i lupi -il cui obiettivo era quello di eliminare ad uno ad uno i
primi con un abile e discreto gioco di sguardi-, e il cacciatore,
chiaramente votato alla ricerca dei suddetti predatori.
Mentre la
portata principale del pranzo veniva consumata, Kate -tra una
chiacchiera e un boccone- continuava a pensare a quel gioco e, pur
non capacitandosi del perché, aveva il forte sospetto che
quella
passeggiata lungo il viale dei ricordi avesse a che fare con
l'intensissima guerra di sguardi che si stava compiendo a quel tavolo
da quasi due ore, da quando cioè ognuno aveva preso posto
scoprendo
la carta assegnatagli. Si era così venuto a instaurare un
inquieto
equilibrio: loro due, inevitabili membri dello stesso branco, intenti
a scambiarsi occhiate eloquenti e sguardi fuggevoli ma fin troppo
insistenti, in un'evidente distorsione delle regole, tale per cui non
minacciavano di morte gli astanti ma sé stessi e il proprio
autocontrollo. E il cacciatore tra loro, nelle rassicuranti e
voluttuose vesti di Laura, inconsapevolmente preposta alla ricerca di
un canale comunicativo che neppure sospettava esistesse, confidente
in una ferrea sicurezza di sé o semplicemente nell'ignoranza
circa
il passato del suo uomo e della donna che gli sedeva di fronte. E
così, a parte loro, nessuno dei presenti sospettava nulla,
vittime
tutte inconsapevoli di quel conflitto a fuoco tra iridi che avrebbe
facilmente potuto trasformarsi in un massacro se solo una piccola
scintilla di consapevolezza avesse attraversato gli occhi del
cacciatore.
«Prima di passare alla prossima portata, faremo una
pausa. Nel frattempo fate un bell'applauso e accogliamo tutti il
primo ballo degli sposi»
La voce del cantante del gruppo -una
piccola band neo-melodica le cui cover avevano conquistato Lanie
già
ad un precedente matrimonio- si levò sopra il festoso
frastuono di
stoviglie, posate e chiacchiere gioviali, attirando l'attenzione di
tutti i presenti. Dal fondo della sala che -con una magnifica vetrata
affacciata sul giardino a fare da sfondo- accoglieva il tavolo degli
sposi, emersero quindi Lanie e Javier, i quali un po' impacciati, una
per l'abito l'altro per l'agitazione, raggiunsero il centro della
sala, incoraggiati dalle urla e dagli applausi dei tavoli
intorno.
Quando infine fu soddisfatto della loro posizione, il
cantante abbandonò i toni irruenti dello speaker per passare
a
quelli suadenti che più si confacevano al suo ruolo, e ben
presto
l'atmosfera nella sala cambiò. Lanie e Javier, evidentemente
poco
pratici dei ritmi rilassati di un lento, dopo un inizio un po'
incerto iniziarono però a carburare, e ben presto la coppia
prese a
volteggiare abilmente per la pista. Kate conosceva già le
doti
danzerecce di Esposito -avendo avuto modo di apprezzarle durante i
talent annuali della polizia a cui immancabilmente lui e Ryan si
esibivano- e conosceva la passione di Lanie per le discoteche e per
il ballo, che in tempi meno rigidi aveva condiviso con lei. Tuttavia
vederli in quella veste, di sposi e ballerini insieme, era uno
spettacolo nuovo e attraente, specie perché mai, anni
addietro,
avrebbe potuto immaginarseli così: felici e innamorati,
cullati
dalle note di una canzone così lenta da scontrarsi con
l'effervescenza delle loro personalità.
Col passare dei minuti lo
scenario cambiò, e dopo una breve sostituzione di partner
per Lanie
-che passò da Esposito al padre, e poi di nuovo ad Esposito-
alla
coppia principale se ne aggiunsero pian piano tante altre,
finché i
tavoli non iniziarono a svuotarsi e la pista a riempirsi. E al
cambiare dello scenario, arricchito di volta in volta da nuovi
protagonisti o da diversi appaiamenti dei precedenti, anche i ritmi
cambiavano, con un frizzante altalenio tra motivi dance e melodie
romantiche che in breve contagiò quasi la
totalità della sala.
Compresi Castle e Laura.
Nel vederli alzarsi, mano nella mano, e
prendere poi a loro volta parte alle danze, Kate si sentì
trafiggere
al petto, per l'ennesima volta quel giorno. Se già doverli
osservare
a tavola era stato un boccone duro da digerire, adesso doverli
guardare piroettarle gioiosamente davanti agli occhi si stava
rivelando quasi impossibile da sopportare.
Indugiò nell'alzarsi
per il semplice fatto che la sua posizione attuale le garantiva una
certa discrezione, essendo rimasta da sola in quel tavolo, tale da
permetterle di poter continuare a godere della vista di Castle senza
timore di essere scoperta, approfittando della confusione generale da
cui tutti sembravano distratti. Tutti, tranne Castle, che di tanto in
tanto, quando la folla lo permetteva, spiava oltre la spalla della
sua compagna per restituirle lo sguardo, con un intensità
che valeva
più di qualunque parola Kate avrebbe potuto sperare di
sentirsi dire
da lui.
Desiderio, questo leggeva infatti nei suoi occhi.
Desiderio e turbamento.
E per quanto si ripetesse che non era
possibile -sereno com'era tra le braccia di Laura-, e che anche
essendo vero non avrebbe fatto alcuna differenza per loro, Kate non
riusciva a smettere di crogiolarsi in quella consapevolezza. La
consapevolezza che dopotutto, per quanto lui l'avesse definita una
storia semplice, quella di Washington -lungi
dall'essere
semplice- era una ferita ancora aperta.
Fu un bacio infine a
farla desistere da ogni proposito. Qualunque idea malsana stesse
tentando di affacciarsi alla sua mente, venne spazzata via
dall'incontro delle loro labbra -un incontro decisamente più
appassionato di quello a cui aveva assistito precedentemente in
giardino- e che le fornì la dose di dolore necessaria a
farla alzare
dalla sedia. Un'ultima occhiata languida, sfuggita erroneamente al
suo controllo, andò a colorare i suoi occhi, riflettendosi
poi in
quelli dell'uomo,e certa che a lui non fosse sfuggita Kate
accelerò
il passo, fuggendo letteralmente dalla sala.
Varcato l'uscio, ben
poche prospettive le si aprirono dinanzi e, visto il rossore che le
infiammava le guance, concluse che il bagno sarebbe stata una scelta
più idonea del giardino. La prospettiva di rinfrescarsi si
tramutò
infatti in un'urgenza, e raggiunti rapidamente i servizi,
aprì al
massimo il rubinetto del piccolo lavello marmoreo, lasciando che il
getto d'acqua fredda le imperlasse le dita. Lentamente prese poi a
picchiettarsi la faccia con le mani umide, non potendo permettersi di
sciacquarsi davvero considerate le quantità di trucco che
aveva
addosso. Quando alzò il capo per incontrare il riflesso
nello
specchio, ringraziò di non riuscire a distinguere se quelle
sul suo
viso fossero lacrime, gocce d'acqua o un insieme di entrambe. Il suo
orgoglio non avrebbe retto a un altro pianto.
Le ci vollero
parecchi minuti prima che si sentisse pronta a uscire e tornare alla
festa, e quando finalmente si disse soddisfatta del suo aspetto e
predisposta a un secondo round, si augurò con tutto il cuore
che il
momento delle danze si fosse concluso. Avrebbe preferito mille volte
doversi sorbire la faccia di Laura di fronte a un buon pasto, che
vederla ancora abbarbicata a Castle. Troppo presa da quei pensieri,
si accorse a malapena della presenza appostata fuori dalla porta del
bagno, e saltò in aria quando una mano le planò
con violenza sul
braccio, afferrandola con una forza bruta e non necessaria.
«Castle,
fermati. Mi fai male!»
«Vieni con me»
Il tono della sua voce
era duro e perentorio, quanto la presa sul braccio: le dita talmente
spinte in profondità nella sua carne che Kate era quasi in
grado di
sentirne le protuberanze ossee delle falangi premerle contro le vene.
Nella concitazione del momento, pose tuttavia in secondo piano il
dolore che aveva preso a irradiarle l'arto, cercando piuttosto di
capire il perché di quel gesto, e soprattutto di indovinarne
le
intenzioni, ora che aveva preso a trascinarla per il corridoio,
verosimilmente verso le scale.
«Si può sapere dove mi stai
portando?»
La voce le uscì meno combattiva di quanto avrebbe
voluto, ma a giudicare dallo sguardo febbrile che gli illuminava gli
occhi, Kate dubitò che il tono di voce avrebbe potuto
sortire alcuna
differenza: parlare non sembrava infatti essere una priorità
per
lui, attualmente troppo concentrato a trainarla al piano di sopra.
Solo quando raggiunsero una stanza nell'ala destra dell'hotel -in cui
lei non aveva mai messo piede, ma che tirando a indovinare doveva
aver ospitato il cambio d'abito dello sposo-, Castle finalmente si
decise a lasciarla andare, non prima di averla cacciata a forza al
suo interno e d'essersi richiuso la porta alle spalle.
«Si può
sapere che ti è pres-»
«Devi smetterla, Kate! Smetterla di
guardarmi, e di cercarmi... Smettila! Dammi tregua, per l'amor di
Dio!»
«Lo dici come se fossi l'unica a farlo, ma siamo in due
Rick! Anche tu mi guardi, e mi cerchi! Non dare la colpa a me di
qualcosa che in realtà vuoi anche tu!»
«Io voglio essere
lasciato in pace, Kate! Questa è la sola cosa che
voglio!»
«E
io non ti credo!»
Vide la sua mascella fremere e le labbra
tremare, pressate l'una contro l'altra con tanta violenza da ridurle
a nient'altro che una sottile fessura nel suo volto. Le mani, strette
a pugno, caddero pesanti lungo i fianchi rendendo la sua figura
ancora più rigida, e lo sguardo s'impregnò di
collera,
incupendosi.
In poche altre occasioni aveva visto Castle in quelle
condizioni, ancora meno erano state quelle in cui una tale rabbia era
stata diretta verso lei. Persino nelle loro peggiori litigate, l'ira
era sempre stata stemperata da un'amorevolezza di fondo e dai
silenzi, di cui loro erano abili fruitori: altrettanto incisivi delle
parole certo, ma meno violenti. Prevedere cosa sarebbe venuto dopo,
fu dunque per Kate impossibile. E poi d'improvviso quella furia lui
gliela scaraventò addosso.
Nella violenza della sua presa, nel
modo rude in cui la sollevò, nella mancanza di accortezza
con cui
poi la depose sulla superficie fredda del mobile bar... ogni suo
gesto trasudava rabbia e frenesia. Anche quei baci, appassionati e
roventi, di cui la stava adesso inondando non avevano nulla di
amabile: sapevano solo di sangue e disperazione. Nulla a che vedere
con la tenera e struggente passione che li aveva sorpresi a
Washington mesi prima: quella che stava per consumarsi adesso era la
resa dei conti, in tutta la sua ferocia. In quella foga, nel veemente
sollevarsi della gonna, ostacolo inaccettabile, lei e Castle non si
stavano preparando a fare l'amore, stavano litigando, si stavano
odiando... Dando voce a quel confronto necessario, ma non per questo
meno doloroso, che lei aveva cercato sin dalla fine della cerimonia,
e che lui le aveva strenuamente negato fino ad ora.
Il corpo di
lui era adesso completamento adeso al suo, talmente vicino che Kate
poteva indovinarne ogni curva e sporgenza anche attraverso la spessa
e ruvida fattura della stoffa del suo vestito. E in quella
prossimità, Kate non poté più ignorare
il desiderio che stava
ormai consumando entrambi, reclamando a gran voce appagamento.
Febbrili, le dita si avventurarono verso il basso, sotto la
cintola, alla ricerca di quei bottoni che ostinati ancora si
frapponevano al loro piacere. Con suo enorme disappunto
quell'operazione le richiese più tempo del previsto, avendo
una sola
mano a disposizione, poiché l'altra era stata catturata da
quella di
lui, in un intreccio graffiante ancorato al muro sopra la sua testa.
Quando infine riuscì a liberare la prima asola dal suo
ospite, e
carica di compiacimento si apprestava già a liberare le
altre due
con più determinazione di prima, tutto di colpo si
fermò, e da che
quasi non riusciva a respirare -con il petto pressato dai suoi
pettorali e la bocca a rubarle di baci i pochi scampoli di ossigeno
che riusciva a racimolare- Kate si ritrovò improvvisamente
spoglia,
circondata da più spazio e aria di quanto le fosse
necessario.
Quell'improvviso apporto di ossigeno in esubero quasi le fece
girare la testa, e fu con lo sguardo ancora intontito e ubriaco di
passione che si guardò intorno, tentando di capire cosa
avesse
spinto Castle, a un passo dalla meta, ad allontanarsi con tanta
violenza da lei.
«Non ti fermare...»
La voce le uscì
boccheggiante, ancora in riserva d'ossigeno, ma non ottenne nessuna
risposta. Indispettita, con la frustrazione che cedeva rapidamente il
passo alla confusione, seguì allora lo sguardo dell'uomo, in
piedi
di fronte a lei, che con ancora la sua mano stretta tra le dita ne
osservava ora un punto preciso con sconvolta curiosità.
Quando
la consapevolezza mise radici nella mente di Kate era ormai troppo
tardi per ritirare la presa, e lo stesso sconcerto di lui
arrivò a
devastare anche il suo di sguardo.
«Cos'è questo?»
Il tono
confuso era condito di una nota sufficientemente incisiva d'ira. Kate
ne fu spaventata e tentò inutilmente di ritrarre la mano,
mentre lui
di contro aumentava la presa sul suo polso.
«Ti ho chiesto
cos'è!»
Strappato con violenza l'intreccio delle loro dita dal
muro che le aveva sinora ospitate, Castle le aveva adesso sbattuto
davanti agli occhi il quadrato di pelle incriminata, con una forza e
una veemenza tali da rendere inutile ogni tentativo di divincolarsi
di Kate.
Sentì le ossa scricchiolare sotto la circonferenza
delicata del polso, e dovette mordersi l'interno di una guancia per
impedirsi di gemere.
«Non
è nulla, solo uno stupido tatuaggio! Vuoi lasciarmi andare
adesso?»
«Sappiamo
entrambi che è più di questo, Kate!»
Con
la stessa irruenza con cui l'aveva afferrata poco prima -in un impeto
ben più piacevole di quello attuale- Castle le
restituì infine la
mano.
Sentire il sangue tornare a circolare lungo le sue dita fu
un sollievo doloroso, che Kate tentò di lenire
massaggiandosi
delicatamente la zona di pelle arrossata. Nel farlo istintivamente il
polpastrello del pollice percorse in lunghezza la piccola linea del
tatuaggio, reo d'aver scatenato l'ira dell'altro, lasciando che il
senso del tatto registrasse, ancor prima della vista, ognuna delle
sei piccole lettere che insieme componevano la parola “always”,
marchiata indelebilmente nel suo polso. Piccola, quasi impercettibile
per un occhio non attento, seguiva parallela la linea della vena: una
promessa, un simbolo di qualcosa che le era entrato in circolo e di
cui mai avrebbe potuto disfarsi.
Poteva capire la reazione di
Castle,era prevedibile, e tuttavia non se ne era mai davvero curata:
nessun altro, eccetto loro due, avrebbe potuto riconoscere il reale
valore di quella parola all'apparenza insignificante, e d'altra parte
fino a qualche mese fa era stata convinta che lui non avrebbe mai
più
avuto modo di avvicinarsi a lei tanto da notarla.
Si era
sbagliata, evidentemente.
Quella notte, a Washington, era stata
fortunata: un bracciale, il buio e la passione del momento l'avevano
protetta. Ma adesso, senza maschere e con gli animi a nudo l'uno di
fronte a l'altra, e col sole a baciare ogni centimetro delle loro
pelli, aveva peccato d'ingenuità nel non mettere in conto
quella
scoperta.
«Maledizione Kate, sei tu che mi
hai
lasciato! Che diritto hai di rimpiangerlo adesso? Che diritto hai
di... questo!»
Evidentemente
turbato, Castle camminava adesso avanti e indietro, coi pugni chiusi
ad agitarsi in aria contro nessun obiettivo in particolare, eccetto
per quel breve istante in cui uno di essi andò a scontrarsi
con
forza contro la parete, per la fatica richiestagli dal pronunciare
quell'ultima parola.
Seduta sul suo giaciglio di legno, con il
cestello del ghiaccio ormai sciolto a farle compagnia, e il vestito
ancora malamente sollevato oltre le ginocchia, Kate lo osservava,
turbata e scossa da quella reazione, mentre ostinata ordinava alle
lacrime di tornare indietro. Indecisa su cosa fare, e non ricevendo
nessun indizio da lui -silenziosa presenza di fronte a lei-, scese
allora dal mobile, si sistemò il vestito e
indugiò poi nel
fissarlo, attendendo che facesse o dicesse qualcosa che li tirasse
fuori da quell'impasse.
«Quando lo hai fatto?»
Riprese
a parlarle qualche minuto dopo, vietandosi categoricamente
però di
guardarla negli occhi. E Kate, sentendo le sue gambe cedere, ritenne
opportuno sedersi di nuovo: il mobile che prima l'aveva ospitata era
però ancora rovente della loro passione, il che non lo
rendeva un
luogo ospitale, e alla fine non trovò nulla di meglio del
pavimento.
Si sedette così contro la spalliera del letto, lasciando che
il peso
intollerabile del suo capo gravasse sul materasso e non più
sul
collo, già troppo provato.
«Qualche
settimana dopo essermi trasferita a Washington»
«Perché?»
La
rabbia di Castle sembrava essersi notevolmente ridotta: il tono si
ammorbidì, le mani si aprirono in un incerto tremolio, e un
sospiro
rassegnato ne addolcì la piega dura delle labbra. La
tensione si
alleviò al punto che l'uomo osò persino venirle
vicino, sedendosi
accanto a lei, pur ben attento a non sfiorarla mai.
«Perché mi
hai cambiato la vita. Coi tuoi libri già prima che ci
incontrassimo,
dopo rimanendomi ostinatamente vicino, e ancora adesso, Rick, tu me
la cambi. Ogni volta che ho una decisione difficile da prendere, o
che vivo un brutto momento, non riesco a non chiedermi “Cosa
farebbe Castle?” o
“Cosa mi direbbe
lui?”.
Quando ho un caso complicato la mia mente d'impulso ripercorre tutte
quelle teorie strampalate con cui mi hai riempito la testa negli
anni, non mi forniscono praticamente mai la soluzione, ma in compenso
mi aiutano ad aprire la mente, a ragionare fuori dagli schemi. Come
mi hai insegnato tu. Tu mi hai cambiato la vita, Rick, in un modo che
non credevo possibile. Hai lasciato un segno indelebile in me, per
sempre...»
Con uno sbuffo di ilarità che in nessun modo
suonò
allegro, le labbra di Castle si incresparono in un riso amaro, e la
ridicolezza di quella situazione vinse persino sui suoi propositi di
non voltarsi a guardarla. L'occhiata che si scambiarono fu comunque
ben lontana dall'essere rassicurante per Kate.
«Malgrado ciò, tu
mi hai lasciato andare Kate»
«Sì, l'ho fatto, ma non perché
non ti amavo abbastanza. Anzi, è perché ti amavo
troppo, e avevo
paura. Tutte le persone a cui tengo si feriscono, muoiono o mi
lasciano. Dirti di sì, quel giorno al parco, avrebbe
significato
abbandonarmi completamente a te, includerti a pieno titolo nel mio
mondo, e a quel punto non avrei avuto più difese e se tu mi
avessi
lasciato... »
«Non lo avrei mai fatto.»
«Non puoi saperlo»
Le avversità che aveva dovuto affrontare in passato la
spinsero
a rispondere istintivamente a quella frase, con i residui di cinismo
della sua vecchia vita che ancora trovavano modo di riemergere in
situazioni ad alto coinvolgimento emotivo, come quella attuale.
Bastò
però uno sguardo all'uomo accanto a sé, per far
sì che i toni si
smorzassero.
«Ma sì, forse non mi avresti mai lasciato, non
volutamente almeno. Ma sai come sono fatta, lo sai forse anche meglio
di me: non riesco a non pensare al peggio, specie quando le cose
vanno bene. Non riesco a non pensare alla fine, perché sono
abituata
a vedere le cose finire. So che avrei potuto avere la mia
indipendenza e questo lavoro e te, lo so adesso, ma allora ero troppo
spaventata anche solo per provare a immaginarlo, e ti ho lasciato
andare... E di questo mi pentirò per sempre.»
Non seppe dire se
a spingerla a proseguire in quella, già oltre i limiti,
presa di
coscienza fosse stata l'incapacità di fermare la propria
ugola dal
parlare -ora che finalmente le era concesso di farlo per la prima
volta-, l'aver maturato quella consapevolezza solo adesso, o lo
sguardo di Rick e il modo in cui era mutato durante il suo discorso,
tale da indurla a covare una sciocca e rediviva speranza in un loro
futuro. Ciò che fece fu semplicemente smettere, per una
volta, di
mettere paletti ai propri desideri, e le parole scivolarono leggere e
indisturbate fuori dalla sua gola, senza alcuno sforzo.
«Io ti
amo, Rick, ti amo ancora. E tu? »
Si sentì sciocca
nell'ascoltare la propria voce formulare quella frase e porgli quella
domanda così infantile, eppure così logicamente
bisognosa di
risposte. E istintivamente la sua mano cercò conforto e si
posò su
quella di lui, adagiata sul parquet a qualche centimetro di distanza,
e nonostante qualche attimo di rigida esitazione, alla fine le sue
dita si rilassarono, in un gesto che Kate tradusse come una resa ad
accoglierla.
La resa durò poco tuttavia, giusto il tempo
necessario all'altro per metabolizzare quella domanda e vederne, in
tutta la loro pericolosità, le implicazioni.
«Non ho intenzione
di risponderti, perché so già che la risposta non
mi piacerebbe. E
dirlo ad alta voce non servirebbe a nulla, se non a rendere tutto
questo ancora più complicato»
Con uno scatto rapido delle gambe,
Castle si alzò, allontanandosi da lei e deciso senza ombra
di dubbio
a mettere fine a quella discussione.
«Rick...»
«Devo tornare
di sotto adesso, e anche tu»
«Rick, ti prego!»
Di fronte al
suo sguardo implorante -consapevole che ormai tentare di
salvaguardare l'orgoglio era sforzo vano- Rick sembrò per un
attimo
capitolare, ma alla fine fu più determinato di lei nelle sue
intenzioni.
«No, Kate. Di sotto c'è una donna che mi aspetta,
una donna onesta e intelligente, che non si merita niente di tutto
questo... Abbiamo entrambi le nostre vite da vivere, e nessuna delle
due prevede più la presenza dell'altro ormai»
Le voltò le
spalle e si diresse verso la porta della camera, a passo di carica.
Kate dal canto suo rimase immobile, seduta nello stesso angolo di
parquet, con la testa voltata verso di lui che invece non la guardava
più. E che non la guardò nemmeno quando, con la
mano già sulla
maniglia della porta, riprese a parlare.
«Sai Kate, io non
rimpiango nulla di quei cinque anni, e forse quello che sto per dire
ti sembrerà assurdo... E in effetti lo è,
perché non saremmo le
persone che siamo senza quella parte della nostra vita che abbiamo
condiviso. Eppure sono convinto che se la Kate e il Rick di oggi si
conoscessero, adesso per la prima volta, senza un passato come il
loro alle spalle, si piacerebbero, e stavolta avrebbe funzionato.
Sarebbero stati solo una comune donna e un comune uomo davanti a un
comune caffè, a parlare di sé e a scoprirsi,
innamorandosi ad ogni
parola. Rick senza dubbio. E forse adesso avremmo il nostro lieto
fine, il nostro Always.
Forse eravamo le persone giuste, Kate, ma era il momento ad essere
sbagliato. E di questo non ha colpa nessuno, né tu
né
io»
Quell'ultima frase le si abbatté addosso, pesante come un
macigno, e nel momento in cui il rumore della porta sbattuta contro
il telaio di legno segnalò la sua uscita dalla camera, le
lacrime
presero a scenderle copiose lungo le guance e giù fino al
vestito,
punteggiandolo di piccoli nei umidi e scuri. E Kate non poté
opporvi
resistenza.
In quel trambusto del suo animo, sentì a malapena la
porta riaprirsi, mentre la mano tremante si alzava nel vuoto a
ghermire l'aria per posarsi poi spasmodica sulla bocca, a soffocare i
singhiozzi del suo cuore.