Serie TV > The Musketeers
Segui la storia  |       
Autore: Calliope49    13/06/2015    3 recensioni
*COMPLETA*
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Treville vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».

Una calma insolita è piovuta su Parigi, ma la situazione non è destinata a durare. Strani incidenti, un omicidio e la comparsa di un misterioso bandito daranno filo da torcere agli uomini del re. Nel mezzo, una ragazza e troppe cose che non sono quello che sembrano…
[AthosXNuovoPersonaggio; Accenni Constagnan e Annamis]
[N.B. La storia non tiene conto degli sviluppi della seconda stagione perché è stata ideata prima che ne cominciassero gli episodi]
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Captain Treville, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

XVII
Sotto la maschera
 

 
Sola nella stanza, Diane pensava a quanto crudele fosse l’ironia di trovarsi lì in quel momento.
Non avendo altro posto in cui portarla, la casa di Athos era parsa a tutti l’unica soluzione possibile. E ora la ragazza era seduta su una sedia traballante, polsi e caviglie legati, a guardare fisso il letto davanti a sé, lo stesso letto che aveva sistemato e rifatto prima di andarsene quella mattina. Lo stesso letto dove il giorno prima a quella stessa ora…
Sospirò, guardò verso l’alto, verso la soffitta del minuscolo edificio dove i moschettieri si erano chiusi a parlare e a decidere sul da farsi.
Le avrebbero fatto almeno il favore di ascoltarla, prima di portarla allo Châtelet? Avrebbero lasciato che Athos l’ammazzasse subito o avrebbero sentito le sue ragioni?
Non avevano aperto bocca da quando l’avevano smascherata, nessuno di loro, e lei aveva pensato che fosse meglio non mettere alla prova la pazienza dei soldati.
Sentiva un’enorme voglia di piangere, ma non una lacrima le salì agli occhi. L’unica cosa che si muoveva nel suo sguardo era una freddezza da felino, nella testa il martellare forsennato del suo cuore si mischiava al rumore di ingranaggi che scricchiolavano: alla fine, il suo piano era andato storto, l’avevano presa.
Era tutto più facile se pensava solo con la testa del bandito, con la mente allenata alla logica di ferro a cui Sebastiano aveva cercato di abituarla quando lei gli aveva confessato i suoi progetti per il futuro: tornare a Parigi, smascherare il conte, vendicare i suoi genitori.
Era tutto più facile, visto attraverso le fessure della corazza, ma se abbassava lo sguardo su se stessa, Diane vedeva solo un cuore sanguinante, una fontana di fiele e veleno.
Il bandito era ferito nell’orgoglio, arrabbiato per la parte di piano che non aveva funzionato, per l’umiliazione della sconfitta. La ragazza non reggeva il peso del male inflitto a qualcuno che si era fidato di lei, che si era affezionato a lei.
«Te l’avevo detto, non è l’affetto che tu provi per loro il problema, è quello che loro provano per te» disse la voce di Sebastiano, urlando più forte di tutti i suoi fantasmi. «E questo amore stupido e del tutto sconveniente».
Dell’amore, o qualunque cosa fosse quella che provava per Athos, non c’era da preoccuparsi: ormai era perduto. Dell’affetto dei moschettieri… be’, se fosse bastato a evitarle il patibolo, sarebbe stato già tanto.
«Non possono farti giustiziare».
Da quando i suoi fantasmi erano così ottimisti? 
«A conti fatti, non hai commesso nessun crimine vero e proprio».
Non si trattava di quello che aveva fatto, si trattava di quello che loro credevano che il bandito avesse fatto, e la fiducia dei moschettieri ormai doveva essere totalmente compromessa.
Diane chinò il capo. Sì, sarebbe stato davvero d’aiuto piangere, ma le lacrime restarono ben nascoste sul fondo della corazza, dietro una cortina di gelo che non le lasciava sciogliere in pianto.
Sentì i passi lungo le scale scricchiolanti e alzò la testa di scatto verso la porta.
C’era solo un moschettiere sull’uscio ed era l’ultima persona al mondo con cui Diane avrebbe voluto restare da sola in una stanza.
Lo sguardo di Athos la trapassò come una lama. Sarebbe stato meglio se lui l’avesse uccisa in quel vicolo, prima che lei potesse vedere la sua reazione quando le avevano strappato il bavaglio. Gli aveva fatto del male: ancora prima della delusione e della rabbia lui aveva provato dolore.
Mi dispiace. Mi dispiace così tanto…
Non osò dar voce a quel pensiero.
Il moschettiere entrò nella stanza e mosse qualche passo lento tra il letto e il tavolo. Guardò fuori dalla finestra, come se cercasse di prendere tempo, di mettere insieme le parole. Come se non fosse davvero importante e lei fosse un criminale qualunque colto in flagrante.
«Tra un attimo, gli altri scenderanno e tu ci racconterai ogni cosa» le disse. Parlava con quell’indolenza un po’ accondiscendente che si rivolgerebbe a un cane da abbattere. «È una premura che dobbiamo al capitano Treville. Almeno hai avuto la decenza di non rimanere sotto il suo stesso tetto, con un po’ di fortuna, riusciremo a evitargli lo scandalo»
«Mh». Diane annuì con noncuranza. «E la ragione per cui tu sei qui da solo, a parte la soddisfazione di tormentarmi con quella faccia di marmo, esattamente qual è?».
Se doveva farsi detestare, tanto valeva farlo per bene. Quell’aria sfrontata era tutto ciò che le rimaneva, la sua ultima difesa, la corazza piena di crepe.
Athos mosse appena il capo, la sua espressione rigida non si alterò di una virgola. «Assicurarmi che tu non faccia qualche mossa eccessivamente subdola».
Diane sentì la rabbia accendersi come un formicolio nello stomaco, una sensazione di fame insaziabile che mordeva e bruciava. «A te non interessano le mie ragioni, vero? Ti interessa solo che ti abbia nascosto…»
«Che tu mi abbia ingannato? Sì, mi sembra abbastanza rilevante. Tutto il resto però lo è ancora di più, non sono così vanesio da concentrarmi solo su me stesso».
La ragazza arricciò il naso. «Tutto il resto? Aspetta, aspetta! Tu credi che io abbia fatto cosa, esattamente? Sparato a d’Artagnan? Tentato di ucciderti la sera dell’incendio?»
«Diciamo che non lo escludo».
Diane sbuffò. Le lacrime dentro di lei erano un fiume gelido che travolgeva e annegava, ma il suo sguardo rimase fermo, di sfida. Da Athos poteva accettare la rabbia, non quella cieca stupidità.
«Sono certa che persino a tua moglie tu abbia concesso il beneficio del dubbio» borbottò. Si pentì di quelle parole mentre ancora le stava pronunciando.
Lui la guardò come se gli avesse appena conficcato un palo nel petto. Un attimo dopo le diede le spalle, fece qualche passo e cercò di riacquistare la calma.
Scoprire che lei era il bandito a cui aveva dato la caccia doveva avere, in qualche modo, il sapore di qualcosa che aveva già vissuto. Non era semplice delusione, era di più, il baratro di una frattura insanabile, nel vuoto del precipizio un buio pieno di fantasmi e rostri di lame e vetri che dilaniavano l’anima.
«Purtroppo conosci cose pericolose, volevo parlarti solo per assicurarmi che tu stia zitta al riguardo» disse poi Athos, dopo qualche minuto.
Diane non capì subito. Impiegò qualche istante a riportare a galla il ricordo: era qualcosa che aveva sepolto dentro di sé fino a dimenticarlo, fino quasi a cancellarne l’importanza. L’idea che Athos se ne crucciasse la fece quasi ridere.
«Oh mio Dio, tu ti stai davvero preoccupando che io possa parlare di Aramis e della regina?» sbottò. «È la cosa più idiota che io abbia mai sentito!»
«Ritengo di essere stato idiota su altri aspetti di questa faccenda, non su questo».
Era sfiancante, da picchiare la testa contro il muro. «Sei meglio come amante che come compagno di conversazione» disse Diane, e ottenne di far arricciare le labbra del suo algido interlocutore. «Pensa quello che vuoi, io non farei mai del male ad Aramis o a nessuno di voi, neppure se decideste di spararmi qui ed ora»
«Vorrei poterti credere» mormorò Athos. Dondolò il capo, come se fosse stanco e si voltò a guardare il letto ancora in ordine, rimasto intatto da quella mattina. «Anche questo faceva parte del tuo piano brillante?» chiese e non riuscì a impedire a una nota di tristezza amara di incrinargli la voce.
«Cosa? Innamor-». Diane strinse i denti, ingoiò le parole come un boccone amaro.
Sei il primo e unico uomo con cui sia mai stata? Non è abbastanza?
«Che importanza ha? Se te lo dicessi, non mi crederesti».
Il moschettiere la guardò con un’espressione indecifrabile e respirò lentamente.
Sentirono i passi degli altri arrivare dalle scale e lui si voltò, fermandosi accanto alla finestra come se avessero smesso di parlare da tempo e lei non fosse minimamente degna della sua attenzione.
Idiota! pensò Diane. 
I tre moschettieri gettarono un’occhiata circospetta all’interno della stanza.
«Avevamo detto che l’avremmo slegata» disse Aramis, avvicinandosi alla ragazza. Athos scrollò le spalle.
Quando Aramis tagliò le corde, Diane sentì il sangue riprendere a circolare più liberamente nelle mani e nei piedi. Il moschettiere la guardò negli occhi, prima di rialzarsi, sembrava dispiaciuto. Se era dispiaciuto per la condizione in cui l’avevano lasciata o per quello che era successo, non si riusciva a capire.
Dopo qualche istante di silenzio di tomba, i tre moschettieri aprirono la bocca e parlarono in contemporanea. Le loro voci si accavallarono e Diane non fu in grado di capire una sola parola.
«Una domanda alla volta, per alzata di mano, per piacere» sbuffò. 
«Mi dispiace di averti colpita…» fece subito Porthos.
«Questa non è una domanda»
«… però tu sei una maledetta pazza. E io voglio credere che tu abbia avuto le tue buone ragioni e… Dio santo! Non ci sono buone ragioni per vestirsi da uomo e andare in giro a fare… tutte quelle robe che hai fatto tu»
«Punto primo: vestirsi da uomo è comodo, a prescindere dal motivo. Punto secondo: ho delle buonissime ragioni. E non ce l’ho con te per avermi colpita con quella botte» concluse Diane. Realizzò che sarebbe stata una serata incredibilmente difficile. Più di quanto non lo fosse già stata. 
D’Artagnan mosse un passo e si accovacciò davanti alla sedia dove la ragazza era seduta. Ne studiò il volto e alla fine sospirò. «Non sei stata tu a spararmi in quel vicolo, quella sera, vero? Cioè ora so che è stato l’altro, ma tu eri lì»
«Per la cronaca, non ho una pistola e non so sparare. Se anche avessi saputo farlo, non avrei sparato a te. Stavo pedinando Morice, come voi, quella sera. Quando l’altro ti ha sparato sono rimasta lì ad aspettare che arrivasse qualcuno e che ti trovassero…».
D’Artagnan accennò un mezzo sorriso. Non aveva mai pensato che lei avesse cercato di ucciderlo e Diane si sentì un po’ più leggera.
«Non sai sparare, non sai andare a cavallo però tiri di scherma e non proprio come una principiante» intervenne Aramis. «Credo che tu abbia davvero una bella storia per noi».
Diane appoggiò le mani sulle cosce. Chiuse gli occhi e sentì finalmente le lacrime pizzicarle le ciglia. Ma non poteva mettersi a piangere ora, aveva resistito e doveva continuare a farlo, non voleva muovere a pietà i moschettieri, non voleva la loro commiserazione, voleva solo che  capissero. Athos poteva anche detestarla, adesso e forse per sempre, ma almeno avrebbe dovuto comprendere la sensatezza delle sue ragioni e i motivi che l’avevano spinta a fare quello che aveva fatto.
«La casa dove vivevo con Marie, prima che lei morisse» esordì la ragazza. «Il secondo piano è disabitato perché pericolante. È lì che ho nascosto tutto»
«Tutto cosa?»
«Questi vestiti, le armi e i diari di mio padre. Sono ancora lì»
«I tuoi genitori sono morti dieci anni fa, cosa c’è di così importante in quei diari?» chiese Porthos.
«La verità» rispose semplicemente Diane. «Lasciate che cominci dall’inizio, permettete?».
 
«Avevo dodici anni, abitavamo in una bella casa nel centro di Parigi. Vi ho già detto che mio padre era benestante, aveva una ditta di costruzioni, era un uomo dabbene.
Quella sera io rimasi a casa con la domestica, i miei genitori erano stati invitati da un amico - mio padre, sapete, conosceva un sacco di gente importante, lui e mia madre non disdegnavano la vita mondana.
La mattina dopo mi svegliai e non erano tornati. Al loro posto c’era mio zio, Treville, mi disse che erano stati uccisi, una rapina… niente di nuovo in quella zona di Parigi dove capitava che i ricchi signori venissero attaccati dai borseggiatori. Ma di rado i borseggiatori uccidono, no?
Treville non si diede pace fino a quando non trovarono i responsabili della rapina. All’epoca non ci pensai, ma era stato tutto troppo facile.
Pochi mesi dopo partii per l’Italia. Il fratello di mio padre aveva ricevuto il titolo di duca, la sua famiglia era da sempre fedele al cardinale e Richelieu lo mandò a Roma come ambasciatore della Francia presso la corte del Papa.
Il duca non aveva tempo di occuparsi di me, non aveva una moglie che potesse farlo e mi spedì in collegio.
Avevo portato con me da Parigi i diari di mio padre, cominciai a leggerli quando mi sentivo sola, alla sera, nel dormitorio. Pensavo che avrei trovato qualche bel ricordo della nostra vita prima della tragedia, storie su di me, su mia madre… ma nelle ultime pagine di uno di quei quaderni trovai tutt’altro.
Prima di morire, mio padre stava lavorando a una commissione per il conte Legrand, pensava fosse un buon lavoro. Poi cominciò a scoprire cose… strani traffici nelle acquisizioni dei terreni dove il conte faceva costruire le sue opere, e poi le armi, un traffico di armi su una rete vasta forse come l’intera Francia.
Mio padre annotò tutto, voleva montare un caso contro il conte, avrebbe presentato tutto al re e al Consiglio. Ma il conte lo scoprì.
Forse temeva che mio padre avesse raccontato qualcosa delle sue indagini a mia madre, perciò dovevano morire entrambi.
Mio padre sapeva che sarebbe morto, lo aveva capito. Forse la sera in cui lui e mia madre furono uccisi, era andato a casa di un qualche amico importante proprio per cercare di ottenere un’udienza con i consiglieri del re, prima che fosse troppo tardi.
I borseggiatori hanno sempre negato di aver ucciso i miei genitori. Ora so che forse dicevano il vero, sono stati solo un capro espiatorio…
Nel collegio trovai il soldato disertore che si nascondeva, Sebastiano, ve ne ho già parlato. È stato lui a insegnarmi a tirare di scherma… a dire il vero, all’inizio non lo fece di sua iniziativa e con particolare entusiasmo: dovetti ricattarlo - sì, non ne vado fiera, ma soprassediamo. Avevo deciso che sarei tornata a Parigi, prima o poi, e avrei fatto quello che mio padre non era riuscito a fare: incastrare il conte Legrand.
Nel primo mese, dopo il mio ritorno, mentre ero a casa di mio zio, ho cercato informazioni. La rete del conte oggi non è tanto diversa da come aveva annotato mio padre nei suoi diari; mi è bastato solo guardarmi un po’ in giro, incontrare le persone giuste. Marie… povera cara, scoprii che era l’amante dello scagnozzo del conte, l’avvicinai e, fortuna volle, mi disse che cercava una coinquilina. Io dovevo trovarmi una casa lontano da mio zio, non potevo rischiare che mi scoprisse, e non potevo metterlo nei guai se fossi stata scoperta.
Quando riuscii ad avere tutte le informazioni che mi servivano, quando riuscii a mettere insieme i pezzi, cominciai a mettere in atto il mio piano.
Sapevo che non potevo accusare il conte senza prove, né potevo lasciargli capire che stavo indagando, altrimenti avrei fatto la fine dei miei genitori. Dovevo fare in modo che altri indagassero, dovevo fare in modo di attirare l’attenzione su di lui.
Le colombe, il giorno dell’inaugurazione, sono state opera mia. Erano un messaggio per Legrand e per la gente, per dire a tutti quanto le mani di quell’uomo fossero sporche di sangue. 
Poi c’è stato l’omicidio di Robert Bourell… non sono così cinica da ritenerlo un colpo di fortuna a mio favore, ma ha fatto scendere in campo voi e il fatto che io mi sia trovata lì quando è stato scoperto il corpo, mi ha dato una scusa per interessarmi al caso.
La casa di rue Saint-Lazare l’ho incendiata perché volevo attirare l’attenzione su Morice e sulle armi. Sapevo che poi tutto il resto sarebbe venuto da sé, sapevo… o almeno speravo, che voi ci sareste arrivati.
Sono gli unici crimini che ho da confessare, l’incendio e le colombe. Per gli innocenti che hanno perso la vita sono rammaricata, ma non mi sento responsabile… anche se Bourell e Marie erano brave persone e non meritavano quello che gli è successo.
E mi dispiace anche di aver approfittato della vostra amicizia e della vostra fiducia, ma non ho avuto scelta.
Se volete arrestarmi, fatelo pure. Ma promettetemi che continuerete le indagini e che troverete delle prove contro il conte, promettetemi che verrà smascherato per il mostro che è…»
 
Diane chinò la testa. Doveva essere notte fonda, la stanchezza e le emozioni cominciavano a presentare il conto e lei si sentiva come se non avesse la forza di pronunciare più una sola parola.
I moschettieri erano rimasti in silenzio durante tutto il racconto, ora la guardavano fissi, cercando di mettere insieme i pensieri.
Fu Aramis il primo a parlare. «Perché scegliere una strada tanto pericolosa? Perché non dirlo a Treville e lasciare che ci pensasse lui?» chiese.
«Se lo avessi detto a mio zio c’erano due possibilità. Poteva non credermi e io avrei perso il vantaggio della segretezza. O peggio, poteva credermi e mettersi contro il conte. Mio zio voleva molto bene a mia madre, se scoprisse che il responsabile effettivo della sua morte è rimasto impunito, be’ credo che persino la sua proverbiale ragionevolezza vacillerebbe»
«Non fa una piega» concluse Porthos, dondolando il capo. «Ma resta il fatto che sei una pazza e che potevi finire uccisa e che devi imparare a usarla meglio quella spada e magari dobbiamo anche insegnarti a sparare!»
«Adesso stiamo tutti molto calmi» lo riprese Aramis con un’occhiata severa. Anche d’Artagnan e Athos lo guardarono come se avesse preso a parlare in greco antico all’improvviso.
«Quindi, non mi arresterete?» domandò Diane.
«Hai intenzione di appiccare altri incendi e perpetuare altre crudeltà sugli animali?» disse d’Artagnan.
«No, se non sarà necessario»
«Allora credo proprio che ci manchi una scusa ragionevole per portarti allo Châtelet» concluse Porthos.
«Questo non significa che tu potrai andartene in giro conciata così a fare la giustiziera solitaria» precisò Aramis, puntando l’indice con fare ammonitore. 
«Non posso arrampicarmi con una gonna»
«No, no, che tu ti arrampichi è proprio fuori discussione»
«Athos, dille qualcosa!» fece d’Artagnan.
Athos si riebbe dal suo cupo mutismo. «Curioso che tu ci chieda una così grande prova di fiducia quando sei stata la prima a non credere in noi» disse. «Ci hai spiegato la tua storia, ci hai detto cosa vuoi, siamo perfettamente in grado di portare a termine questa indagine senza di te»
«Se non fosse stato per me, non ci sarebbe neppure questa indagine» obiettò la ragazza.
«Avresti dovuto dircelo prima!». Athos alzò di qualche ottava il tono della voce, spazientito e irritato. Ora che aveva ascoltato le ragioni di Diane sembrava interdetto perché non poteva più avercela con lei e trattarla da criminale, non gli restavano scuse concrete per la sua rabbia nei suoi confronti, solo la delusione di non aver capito con chi aveva a che fare. «Sapevi che ti avremmo aiutato, ma no, tu hai dovuto fare di testa tua e…».
Diane si alzò di scatto, rovesciando la sedia e gli si avvicinò come se avesse voluto investirlo. «Sì, ti ci vedo, se ve lo avessi detto prima» sbottò, furiosa, poi imitando una voce bassa e maschile aggiunse: «“È fuori discussione, Diane” “Torna a ricamare, qui pensiamo a tutto noi, Diane” “Non sono cose adatte a una ragazza, Diane”».
Aramis, Porthos e d’Artagnan erano indietreggiati e si scambiavano occhiate imbarazzate, osservando in un silenzio attonito la scena della ragazza che sbraitava furiosa contro Athos.
«… sai che ti dico? Sono cose adatte a me da quando sono rimasta in quel collegio, da sola, con quei dannati diari! Io l’ho iniziata e io la porterò a termine, se volete darmi una mano bene, altrimenti continuerò a fare quello che ho fatto fino ad ora, e state sicuri che ne verrò a capo!».
Athos restò a guardarla e la lasciò a terminare quella sua invettiva - che vista da fuori doveva sembrare vagamente isterica. Quando la ragazza chiuse la bocca, lui sospirò e con tutta la flemma di cui era capace ricominciò a parlare.
«Noi siamo moschettieri e questo è il nostro lavoro» le disse. «Tu, se il conte ti scoprisse a indagare su di lui o a mettergli i bastoni tra le ruote, finiresti come i tuoi genitori. L’hai detto tu stessa»
«Perché credi che me ne vada in giro con una dannato bavaglio sulla faccia? E il cappuccio e tutto il resto?»
«Perché ti rifiuti di capire? Pensi di essere coraggiosa, ma stai solo rischiando la vita inutilmente»
«È la mia battaglia, Athos. Sì, anche una donna può avere le sue battaglie da combattere, con una spada o senza, e sì, anche una donna può scegliere di rischiare la propria vita per qualcosa in cui crede. Mettetevelo in testa» concluse Diane, perentoria. «E adesso, ridatemi la mia spada e andiamo a cercare quella maledetta nave!».
 

***


Il porto era come lo avevano lasciato, spettrale e deserto, mezzo devastato dalla tempesta.
La città era buia, immobile. A notte fonda persino Parigi riposava.
Athos sentiva il gelo entrargli sotto pelle ed era l’unica sensazione su cui voleva concentrarsi. Diane camminava davanti a lui, stivali di cuoio chiaro alti fino al ginocchio, una giubba di lana color rosso cupo, con il cappuccio che le ricadeva dietro le spalle e i capelli, ora liberi dalla bandana, sciolti e spettinati. Teneva la mano mollemente appoggiata all’elsa della spada, in una posa da vero soldato.
Con il senno di poi sembrava così ovvio che sotto quegli abiti il bandito nascondesse forme femminili. 
Con il senno di poi sembrava tutto ovvio. Athos ricordò della prima volta che l’aveva vista alla reggia, nel giardino, sembrava turbata, respirava a fatica, gli aveva detto che era per il corsetto dell’abito a cui non era abituata. E invece ora il moschettiere sapeva che era perché quel giorno a corte c’era il conte Legrand: la ragazza aveva appena incontrato l’uomo responsabile della morte dei suoi genitori.
Era ovvio il motivo per cui, quando Treville le aveva ordinato di lasciare la casa dopo l’omicidio di Marie, Diane si fosse impuntata per occuparsi personalmente di raccogliere le sue cose.
Era ovvio il lampo di genio dietro le sue intuizioni.
Era ovvio il suo interesse per i moschettieri, quel frequentare assiduamente la guarnigione con più solerzia di quanto fosse normale. Era stato solo questo, solo per i suoi scopi. Era un pensiero che faceva male, ma era un pensiero facile, come chiudere la porta di una stanza e ignorare quello che rimaneva all’interno.
Il furore che Athos aveva visto negli occhi di Diane, la lucida determinazione, la sfacciata indolenza… non potevano appartenere alla ragazza che credeva di conoscere, che aveva creduto di poter amare. Convincersene era solo fare un passo indietro, di nuovo verso il buio silenzioso a cui era abituato.
Era una caduta che aveva già subito una volta. Solo che adesso gli sembrava che il precipizio fosse molto più alto, come ricevere un taglio su una cicatrice mai rimarginata: fa più male della prima volta.
La porta dell’ufficio della dogana era spalancata, come l’avevano lasciata. La candela accanto al registro si era consumata e ora la stanza era nient’altro che un antro scuro che odorava di acqua stagnante e legno vecchio.
D’Artagnan rimase sulla soglia, lanciando un’occhiata circospetta all’esterno come a controllare che non arrivasse nessuno.
Chi vuoi che arrivi, è notte fonda, pensò Athos, ma si appoggiò con le spalle al muro e restò con il ragazzo a guardare il porto, la superficie lucida e nera della Senna.
Dentro, Aramis aveva acceso un’altra candela. Lui, Porthos e Diane spostarono fogli, mossero pagine, parlottarono a voce bassa di quello che stavano leggendo.
«E adesso?» disse d’Artagnan all’improvviso, incrinando il silenzio rotto solo dallo sciabordio del fiume.
Athos lo guardò di sottecchi. «Adesso aspettiamo la nave e…»
«Avanti, lo sai di cosa sto parlando»
«Non c’è bisogno che tu mi faccia ricordare quanto sono stato sciocco. Certo, bisogna ammettere che ho anche un po’ di sfortuna»
Il guascone gettò all’indietro il capo e strabuzzò gli occhi. «Se vuoi avercela con Diane perché ti ha nascosto…»
«Ci ha nascosto tutta la storia. Perché sembra che io sia l’unico ad averlo notato?»
«Perché il tuo coinvolgimento è diverso dal nostro e perché hai una prospettiva distorta sulle donne, soprattutto sulle donne con dei segreti».
Athos guardò d’Artagnan con un’occhiata scettica. Il ragazzo continuò. «Hai mai arrestato un ladro?» gli chiese.
«Mi è capitato»
«E ne hai mai lasciato andare qualcuno?»
«No, ovviamente» rispose Athos secco, poi ci ripensò. «Un ragazzo, una volta, aveva rubato del pane per la madre malata. Porthos gli comprò anche un cesto di mele».
D’Artagnan aprì i palmi come a sottolineare l’ovvietà del ragionamento a cui stava cercando di arrivare. «Perché rubare per fame e rubare per avidità non sono la stessa cosa, no?»
«Non venirmi a fare la morale. Non sto dicendo che quello che ha fatto Diane sia cattivo, solo sbagliato. Non ce l’ho con lei, solo che non posso fidarmi»
«Questa è una menzogna»
«Cosa?»
«Che non ce l’hai con lei». D’Artagnan strinse le labbra. «Ce l’hai con lei perché ti ha nascosto un segreto, ma soprattutto ce l’hai con lei perché ti ha costretto a rivivere una situazione simile a… be’, lo sai. Solo che è proprio questo quello che sto cercando di dirti: non è la stessa cosa dell’altra volta». Il guascone lanciò un’occhiata alle sue spalle, Aramis e gli altri erano ancora impegnati a consultare carte. 
«No, non lo è» ammise Athos con un sospiro stanco.
«Ah, bene. Quindi?»
«Quindi cosa?» 
«Cosa hai intenzione di fare?»
«Niente»
«Niente in che senso?»
«D’Artagnan, mi stai facendo venire mal di testa… Non ho intenzione di fare niente. L’hai sentita: non si farà da parte, che faccia come crede. A noi non resta che fare il nostro lavoro»
«Sì, va bene, tutto quello che vuoi. Io volevo sapere cosa hai intenzione di fare di te e lei»
«Niente. E prima che tu mi dica “niente in che senso?”, niente nel senso di niente. Se lei non si è fidata di me e io non posso fidarmi di lei, niente è proprio l’unica cosa da fare. Sono abbastanza sicuro che anche Diane ne convenga».
D’Artagnan sbuffò e scosse forte la testa. «Ti prenderei a pugni…» borbottò.
«No, non lo faresti» concluse Athos.
Alle loro spalle, gli altri tre riemersero dalla penombra con un foglio mezzo strappato tra le mani.
«L’abbiamo trovata» annunciò Diane, sventolando il pezzo di carta. «Si chiama la Cerbero - che razza di nome! - è una delle tre navi il cui attracco era previsto per stasera. Una trasportava vino, un’altra era vuota e doveva imbarcare merci da portare a nord, la Cerbero invece ha dichiarato come carico legname e metallo»
«Ora dovrebbe essere attraccata a Le Havre» disse Porthos.
«La andiamo a cercare lì?» propose d’Artagnan.
I moschettieri si guardarono in viso, valutando la possibilità di correre fino al porto di Le Havre che distava quasi un giorno di marcia.
«No, rischieremmo di perderla» concluse Athos. «Non scaricheranno le armi in un porto così lontano da Parigi, sarebbe un rischio troppo grande trasportarle fino qui a cavallo. Dobbiamo aspettare, se il tempo si mantiene buono,  la nave dovrebbe arrivare domani»
«E non scaricheranno prima di sera, rischierebbero di dare troppo nell’occhio» aggiunse Aramis.
«Allora se ne parla domani sera» concluse Porthos. «Io propongo di andare tutti a farci una dormita come si deve. Abbiamo tutti bisogno di dormirci su… ehm, di riposare»
«Un’ottima idea» approvò d’Artagnan, poi si voltò verso Diane. «Però prima ti riportiamo a casa». 
 
 

  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The Musketeers / Vai alla pagina dell'autore: Calliope49