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Autore: serClizia    13/06/2015    5 recensioni
Mental institution!AU in cui l'ospedale è un po' un purgatorio, un po' l'inferno.
Entrambi saranno costretti a fare i conti con i demoni nella propria testa.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Sam Winchester
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
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4.
 
It'll take a lot more than that
to set us free
 
 
Cas continuava a cambiare posizione, a disagio.
Lo staff aveva sistemato i posti troppo vicini l’uno all’altro e c’era troppo poco spazio.
“Smettila di contorcerti,” la voce di Dean gli soffiò sulla nuca. Era seduto dietro, alla sua destra, visto che per qualche motivo che non era chiaro i posti erano assegnati in base alle stanze. Se avesse potuto, Cas si sarebbe seduto in fondo, con Dean come sola compagnia. In terza fila si sentiva troppo… esposto.
Tentò di tornare alla sua innata immobilità statuaria, ma non gli riusciva. Sentiva l’odore di sudore e urina degli altri pazienti, il loro fiato sul collo, le loro braccia troppo lunghe che gli strusciavano contro i gomiti e le gambe. Chiuse gli occhi e cominciò a respirare profondamente, imponendosi un ritmo lento e cadenzato, cercando di immaginarsi il panorama fuori dalla sua finestra.
Li riaprì solo quando sentì la mano di Dean sulla spalla.
Sapeva che fosse la sua, un po’ perché nessun altro avrebbe osato toccarlo, un po’ perché aveva imparato a riconoscere quel tocco leggero.
Dean aveva cominciato a riportarlo indietro dal suo mondo a piccoli gesti, una mano sul polso, un leggero contatto del ginocchio contro il suo.
“Tutto bene, puoi ricominciare a respirare come un essere umano.”
Dean era seduto nel posto accanto al suo. Cas lo interrogò con gli occhi su come avesse fatto ad eludere la sicurezza e convincere un pezzo grosso come Frank a fare a cambio.
“Ho le mie risorse anch’io, sai. Non li ho minacciati con la forza, certo, perché sarei un idiota e verrei rinchiuso in isolamento con la camicia di forza…”, fece scivolare via la mano, chiudendola a pugno nell’altra e sistemandole tra le ginocchia. “Ma un sorriso e tanta buona volontà possono portarti lontano.”
Dean fece uno di quei sorrisi da gatto che lo riempivano di rughette agli angoli degli occhi.
Un improvviso brusio li fece voltare verso la porta d’ingresso, dove il musicista doveva essere appena entrato.
Era un ragazzino, sì e no 17 anni, un caschetto di capelli neri su un faccino asiatico decisamente molto spaventato. Il Direttore Shurley lo pilotò fino alla sedia vuota rivolta verso il pubblico. Un pubblico di malati mentali, Cas non si stupì di vedere il ragazzo muoversi meccanicamente e con lo strumento stretto al petto.
Il Direttore ottenne il silenzio con un gesto.
“Signori, signore…”, scoccò una breve occhiata a Susan, come per accertarsi che fosse veramente una signora, “questo è Kevin Tran. Si è offerto volontario per venire a suonarci un po’ di Bach… era Bach, vero?”, Kevin annuì seccamente, e non sembrava per niente un volontario, più che altro un condannato a morte. “Per suonarci un po’ di Bach con il suo violoncello. Ringraziate Kevin.”
Si alzò un flebile coro di ‘Grazie, Kevin.’
“Vai, Kevin! Wooo!”, urlò Dean con un breve scroscio di applausi.
Cas lo fulminò con lo sguardo. “Cosa? Sto solo cercando di metterlo a suo agio.”
Intanto il ragazzo si era sistemato sulla scricchiolante sedia di legno con un sospiro rassegnato.
Incoccò l’archetto sulle corde, inspirò brevemente, e incominciò a suonare ad occhi socchiusi.
Le note inondarono la sala, correndo fino alle orecchie di Castiel, entrandovi dentro, serpentine, fino ad annidarglisi nell’anima.
Sembrava il peggiore dei cliché, non aver mai sentito musica tanto bella. Non essersi mai emozionato ad ascoltare niente fino a quel momento.
Lui, che aveva sempre avuto un approccio rigido e militare alla vita, ad emozionarsi per l’interpretazione di un adolescente di una qualche aria di Bach - non era mai stato nemmeno un intenditore di musica.
Per la prima volta scordò la finestra, il bosco al di là di essa, i prati verdi assolati, il detonare ritmico degli spari, i cadaveri dei compagni trascinati via in barelle posticce.
Dimenticò tutto, una pace innaturale annidata nel petto, gli occhi chiusi e l’anima, per la prima volta, aperta.
Non si accorse del tempo che passava finché delle lacrime silenziose non gli solcarono le guance.
Cercò di toccarsele con la mano destra, ma aveva le dita allacciate a quelle di Dean, nocca contro nocca.
Dean lo guardò dentro, lesse tutto quello che c’era da leggere a labbra strette, e per la prima volta da sempre, non disse nulla nemmeno lui.
Castiel continuò ad asciugarsi le lacrime con la sinistra per il resto della serata.
 
“Cas, posso farti una domanda?”
“Certamente, Dean.”
“Non c’è… proprio nessuno che possa venire a farti visita?”
Cas osservò brevemente il vassoio da cui stava mangiando, cercando la risposta tra i broccoli e il polpettone.
“Non proprio, no.”
“Nel senso?”
Cas abbassò le mani sul tavolo. A differenza di Dean, non amava parlare con la bocca piena.
“Nel senso che non ho… una vera e propria famiglia.”
Dean annuì due volte, le guance piene di cibo. Cas trovava ancora assurdo come a Dean potesse piacere la cucina dell’ospedale, il polpettone soprattutto. Non che Cas non lo mangiasse, aveva provato di peggio, aveva visto persone in preda alla vera fame, ma le razioni dell’esercito erano comunque abbondanti, non era più il 1914. Forse Dean aveva avuto problemi a procacciarsi il cibo quando lui e Sam erano piccoli e John li lasciava da soli per troppo a lungo. Non gli aveva forse raccontato di essere andato in riformatorio una volta per essere stato sorpreso a rubare…?
“Ok, niente famiglia, capito. Ma amici? Cugini? Un prozio, forse?”
Cas scosse la testa. Aveva cominciato ad essere presente più a lungo durante la giornata, a parlare di più, e aveva molto da ringraziare a Dean per questo. Ma queste domande lo mettevano a disagio. Lo facevano sentire mille volte ancora più solo.
“Beh, ci perdono loro. E poi la famiglia può incasinarti ancora di più, sai… Se non stai bene,” si toccò la fronte con il coltello. “Con la testa.”
Cas strinse le labbra in una pallida linea sottile. Non gli piaceva parlare dei suoi genitori. Non gli piaceva parlare in generale, figuriamoci dei suoi genitori, di quello che aveva perso. Ma sentiva un debito nei confronti di Dean, e in qualche modo si sforzò di articolare.
“Sono…”, si schiarì la voce. “I miei fratelli sono morti in Afghanistan.”
Dean smise di far lavorare la mascella di botto. “Tutti quanti?”
Cas annuì con un gesto secco. “Tre. Io sono… ero, il quarto.”
Dean riprese a masticare, lentamente. Prese un lungo sorso d’acqua e si pulì il viso con il tovagliolo. Cas sapeva cosa stava facendo, prendeva tempo prima della prossima domanda. Osservarlo era sempre interessante. “Genitori?”, chiese, finalmente.
“Padre in missione, praticamente sempre sotto copertura. Madre…”
Cas odiava parlare in frasi brevi e disarticolate così, ma gli sembrava che lo aiutassero a mettere più distanza tra lui e quello che usciva dalla sua bocca. Come un filtro. Come una finestra.
“Mia madre è a casa, credo.”
“Cosa, e non può venire a trovarti?”
Cas cominciò a sentirsi irrigidito, innervosito dalle domande. Guardò gli altri pazienti nella sala, si perse un attimo nel rumore di bicchieri posati e forchette tintinnanti sui piatti. “No, Dean, non può venire a trovare il suo unico figlio rimasto al manicomio.”
“Cristo, scusa Cas, stavo cercando di…”
“Di cosa?”
“Di conoscerti meglio, sai… adesso che finalmente le nostre conversazioni non sono a senso unico."
Cas si sentì un po’ in colpa. Dean gli aveva raccontato tutto di sé, mentre dalla sua parte aveva incontrato solo silenzio. Come poteva stupirsi delle domande, del volerne sapere di più? Pure lui era stato curioso, e aveva silenziosamente aspettato il prossimo racconto del passato di Dean.
“Le mie scuse.”
“Nah, va bene,” Dean sventolò un mano davanti al viso e riprese a mangiare. “Sono stato troppo avventato, comunque. Non puoi sapere tutto in un giorno solo, no?”
Cas appiattì di nuovo le labbra e non rispose.
Riprese a mangiare, cercando di pensare al mondo fuori dalla finestra, ma per qualche motivo più se ne allontanava più trovava difficile tornarci. Si accontentò di osservare Dean, studiare i suoi movimenti, e cercare di rilassarsi nel verde prato d’estate dei suoi occhi.
Un giorno, forse, sarebbe riuscito a far capire a Dean quanto significasse per lui la loro zoppicante amicizia.
  
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