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Autore: Alsha    16/06/2015    3 recensioni
|modern!AU war!AU| spoiler sulla saga di Tartaros| Silver x Ur|
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Prima classificata al "Fairy Tail crack contest" indetto da rhys89 sul forum di EFP
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-Non vi è differenza – cantilena – tra vivere e morire.
Gray sussulta e la guarda come fosse un fantasma.
-Non vi è differenza tra essere lasciato vivere ed essere ucciso.
E lo sa che la frase è sbagliata, ma per lei ha senso.
Quel giorno è rimasta in vita, ma è come se avessero ammazzato anche lei.

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Bisogna essere forti per andare in guerra, ma bisogna essere ancora più forti per poter tornare.
E non per tutti la guerra finisce una volta tornati.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Altri, Gray Fullbuster, Silver, Ul
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!
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Quattro piccole note prima di lasciarvi alla storia:
-Il disturbo post traumatico da stress (DPTS), di cui soffre Ur, è un disturbo d'ansia che affligge chi ha subito un grave trauma. Il sintomo principale è la presenza ricorrente di flshback, ovvero ricordi intrusivi che compaiono senza preavviso e portano a rivivere un momento già vissuto solitamente legato al trauma.
-Il titolo indica lo "shell shock", una variazione del DPTS che definisce il cosiddetto "shock da bombardamento", ovvero dovuto al rumore di esplosioni e spari che caratterizzano le zone di guerra. È volutamente in inglese, come rimando all'Iced Shell, la magia con cui Ur si è sacrificata per sigillare Deliora.
-Ur e Polyushka non sono medici militari, ma operano all'interno del campo come volontarie.
-Come cognome di Ur ho scelto Milkovich, il cognome di Ultear che da qualche parte dovrà pure essere arrivato.
Tutto il resto dovrebbe spiegarsi da solo, ma dovessero esserci cose poco chiare chiedete pure spiegazioni e non lo dico perché sto elemosinando disperatamente recensioni.

 

La storia si è classificata prima al "Fairy Tail crack contest" indetto da rhys89 sul forum di EFP.







 



SHELL SHOCK
 
I passi di Ur quasi non si sentono quando lei cammina per il corridoio buio di casa.

I capelli corti sono bagnati di sudore e le si appiccicano sul viso e sul collo, ma lei non si preoccupa di scostarli.

È tutto troppo offuscato perché lei si occupi per una sciocchezza simile, a malapena riesce a camminare tanto le tremano i muscoli. Riesce a non cadere solo per abitudine: oramai percorre quella strada tutte le notti.

Ur rabbrividisce quando poggia i piedi nudi sulle piastrelle fredde della cucina e si passa le mani sulle braccia per far passare la pelle d’oca.

I sensi si fanno appena più lucidi, e per la donna è più facile riconoscere il profilo dei mobili illuminati dai lampioni giù in strada e dallo spicchio di luna che brilla in cielo.

Il braccio si solleva automaticamente verso uno dei pensili per aprirlo, e da esso tira fuori un barattolo di caffè, mentre tende la mano verso lo scolapiatti per prendere la caffettiera.

Resta bloccata quando sente l’interruttore del corridoio scattare, ma non si volta fino a quando la luce aranciata non disegna un profilo sull’uscio.

E Ur ricorda.

 

 
L’entrata della tenda viene scostata, e la luce del sole di mezzogiorno invade l’interno, disegnando la sagoma scura del visitatore.

-È permesso? – chiede entrando. Si sta reggendo la mano destra con l’altra, da cui il sangue gocciola piano, e sorride teso, forse un po’ imbarazzato.

Ur batte un paio di volte le palpebre per scacciare le fastidiose macchie bluastre dovute alla luce esterna, poi si alza facendogli cenno di sedersi.

Si tratta di un uomo sulla quarantina, con i capelli neri lisciati indietro alla bell’e meglio e occhi scuri. Passerebbe inosservato se non fosse per la cicatrice che gli sfregia la fronte, passando per poco vicino all’occhio sinistro.

-Salve. – dice lei con un sorriso, indicandogli il lettino un po’ sbilenco – Si accomodi. Cos’è successo? – domanda poi preoccupata.

Lì, sul campo di battaglia, con l’acqua mai completamente potabile, esposti al caldo e allo sporco, qualsiasi ferita poteva essere letale.

Lui abbassa lo sguardo.

-Mi sono tagliato con un bicchiere. Mi è caduto e…

Ur vorrebbe scoppiare a ridere, ma per fortuna non ricorda più come si fa: sarebbe una mancanza di rispetto. È anche vero che dopo mesi a curare ustioni, mutilazioni, ferite di proiettili, un taglio da vetro sembra quasi un sogno, uno squarcio di normalità in mezzo alle raffiche scostanti dei mitra, agli scrosci di esplosioni.

Gli prende la mano grossa e callosa tra le sue, più fini ma non meno segnate, e lo disinfetta, per poi bendarlo in silenzio religioso.

Un giro, due giri, tre, e poi ancora altri, fino a che non fissa la garza in modo che non si sposti e gli sorride.

Prende il registro, un grosso raccoglitore pieno di fogli sgualciti che scrocchiano tra le dita per il calore dell’ambiente, e tira fuori la penna dal taschino.

Segna la data, l’ora e il motivo per cui ha curato il paziente, poi salta un riquadro e firma.

-Nome e grado. – domanda all’uomo che ha davanti, picchiettando la penna nello spazio vuoto.

-Prima lei, signorina. – risponde affabile lui, ma senza la malizia che spesso Ur ha trovato negli occhi degli altri soldati.

-Dottoressa Ur Milkovich, signore, ma basta solo Ur.

Lui le tende la mano fasciata e stringe la sua con delicatezza.

-Tenente Silver Fullbuster, è un piacere conoscerla.


 
-Ur? Ur, ti senti bene?

La donna batte le palpebre un paio di volte, e si sorprende di non avere più di fronte il mobiletto. Quelli che ha davanti sono due occhi un po’ allungati, scurissimi, sotto un ciuffo spiovente di capelli neri.

Appartengono ad un ragazzo a torso nudo, con indosso solo i pantaloni del pigiama, che piegato verso di lei la scuote debolmente per le spalle.

-Gray, calmati. – gracchia la donna – Sto bene.

E con una mossa fluida scivola fuori dalla presa di lui e ritorna alla sua occupazione. Smonta la caffettiera, la riempie d’acqua, apre il cassetto per prendere un cucchiaino ma Gray l’anticipa, porgendoglielo.

-Sicura che va tutto bene? – Ur annuisce, mentre spinge piano la polvere di caffè per avvitare la parte superiore della moka – Sono tornati?

La domanda resta sospesa tra di loro, un filo di ragnatela che parte dal ragazzo e galleggia nell’aria vicino a sfiorare la pelle di lei; passa qualche secondo prima che il filo la tocchi e Ur risponda.

-Sì. Tornano sempre, alla fine.

Mette la caffettiera sul fuoco, quella grossa per tutti e due, e si concede di sedersi su una delle sedie di legno accanto al tavolo su cui si è appollaiato Gray.

Alla luce fioca che invade la stanza, un pallido riverbero di quella di fuori ed un riflesso stonato proveniente dal corridoio, il ragazzo non le sembra più piccolo come lo aveva visto la prima volta.

Silver sarebbe stato davvero fiero di lui, pensa.

 

 
-Guarda, questo è mio figlio.

La foto che Silver le porge è un po’ rovinata, porta il segno delle numerose carezze che le sono state rivolte.

Raffigura un bambino con i capelli scuri arruffati ed un grande sorriso sul volto. Dietro di lui c’è una donna dai lunghi capelli scuri, che sorride, bellissima, davanti una torta glassata con il numero otto in bella mostra.

-Beh, adesso è più grande. – aggiunge frettolosamente l’uomo, sfilando un’altra foto ripiegata. Questa mostra un ragazzo di quindici, al massimo sedici anni, con la divisa bianca e rossa di una squadra di basket che tiene sottobraccio un pallone. Accanto a lui c’è un altro giocatore della stessa età, con i capelli rosa tutti arruffati ed un sorriso che sembra strabordare dalle guance.

Nonostante sia cresciuto, i capelli neri e gli occhi scurissimi sono inconfondibili; anche il sorriso è lo stesso, anche se quello del ragazzo sembra sparire
confrontato a quello del bambino.


-Si chiama Gray. – aggiunge Silver.

-Sembra un bravo ragazzo. – afferma Ur, sorridendo, mentre sente un peso crescere nel taschino del camice.

-Lo è.

-Quella nella foto con lui…? – domanda, sperando di non essere troppo indiscreta.

-Mia moglie Mika. Era.

Quell’ultima parola resta sospesa nell’aria polverosa per minuti, in attesa, e il peso nella tasca di Ur aumenta, tanto che lei si piega sulle ginocchia per la fatica.

Ancora un po’, si dice, il peso sparirà, sparisce sempre.

Ma il peso non se ne va, così la donna deve mandarlo via prima che strappi il camice, e conosce un solo modo per farlo.

-Mia figlia Ultear. Era.

Tra le mani regge una foto spiegazzata di sé stessa sul letto di ospedale,mentre regge una bambina minuscola, con una zazzera di capelli scuri a coprirle la testolina. L’angolo in alto a destra della foto è strappato, restano solo una parte di un torace e delle mani da uomo.

La parola resta sospesa, fluttuante nell’aria dove prende a danzare con la sua gemella pronunciata dall’uomo poco prima.

-Malformazione al cuore. – risponde Ur, anche se nessuno ha detto nulla.

-Incidente d’auto. – risponde Silver a sua volta.

-E tuo figlio è rimasto da solo? – domanda poi Ur.

-È grande. – come se potesse spiegare tutto – E questa è l’ultima missione. Ancora qualche settimana e tornerò da lui. Per sempre.

Silver sorride.

È davvero un peccato dover correre a sostituire la collega Polyushka all’infermeria, pensa Ur, ma non c’è tempo per nulla in guerra se non per restare in vita.

Ur saluta, e quando se ne va sta sorridendo anche lei.


 
È il gorgoglio della moka che la sveglia, e Ur si accorge di essersi ripiegata in avanti come quando la foto nella tasca inizia a pesare tanto per i rimpianti e i ricordi.

Rannicchiato a terra Gray la guarda preoccupato e respira come se non l’avesse fatto per gli ultimi minuti, e magari è così.

-Ur? Ur! – il richiamo si trasforma in un’esclamazione quando la donna perde l’espressione smarrita e spaventata e recupera il controllo.

-Il caffè. – risponde lei, è fa per alzarsi, ma non riesce a muoversi perché Gray l’ha bloccata per le spalle e l’ha messa a sedere.

-Non importa adesso. Siediti, respira e…

Ma con uno strattone lei si è liberata e prima che il ragazzo possa fare nulla per rimetterla a sedere sta già prendendo le tazzine. Gray sospira rumorosamente dietro di lei, ma non rifiuta il caffè quando lei glielo porge, senza cucchiaino per mescolare perché, anche se sa che a lui da fastidio, lo ha già mescolato lei.

Poi si preoccupa del suo, due cucchiaini di piccoli granelli bianchi che scivolano oltre il velo scuro del caffè, e Ur aspetta che affondino tutti quanti prima di iniziare a mescolare.

Mentre il primo tintinnio del metallo contro la ceramica si sta estinguendo nell’aria, Gray si precipita sul lavandino, sputandoci dentro il caffè e aprendo il rubinetto per attingere acqua con cui sciacquarsi la bocca.

-Che schifo! – esclama – Dio, che schifo! – l’acqua gli cola giù per il mento, sul torace nudo – Orribile. Ma cosa diavolo ci hai messo?!

Ur fissa inespressiva prima il ragazzo, poi il barattolo di vetro sul tavolo, poi quello identico nell’armadietto ancora aperto.

In fondo lei l’aveva detto a Gray di passare a comprarne due con le scritte per cambiare quelli delle conserve che utilizzavano per sale e zucchero.

Solleva la tazzina e l’appoggia alle labbra.

-Ma cosa fai?! – strilla Gray precipitandosi a toglierle la tazzina di mano, un po’ come farebbe un padre davanti alla sua bambina che si sta mettendo in bocca qualcosa di raccolto da terra, ma la donna ha già buttato giù il primo sorso.

È amarissimo e ustionante, per non sputarlo Ur deve fare uno sforzo immane, ma alla fine vince la lotta e spinge il sorso di liquido scuro giù per la gola, facendo spazio a quello che segue, e a quello dopo, e a quello dopo ancora, fino a che sul fondo non restano solo dei granellini bagnati di scuro che non si sono sciolti.

Sa di lacrime, si rende conto Ur, come se qualcuno di avesse pianto dentro. Come se lei ci avesse pianto dentro.

Ma lei non ha pianto nemmeno quando ha visto la morte a pochi centimetri dal viso.


 
-Andrà tutto bene, Marde. Respira, andrà tutto bene.

Silver stringe forte la mano del compagno di molti combattimenti tra le sue, mentre Ur stacca con cautela i brandelli di stoffa della tuta dalla ferita del soldato.

Il sangue li ha imbrattati tutti, e continua a colare fuori sulla pelle chiara del ventre del paziente.

Una granata lo ha investito mentre assieme alla sua squadra cercava di portare in salvo una famiglia la cui casa, come molte altre, era stata data alle fiamme.

Polyushka fa schioccare i guanti di lattice tenendoli ben tesi sulle mani, e prende in mano un paio di pinze per ripulire la ferita dalle schegge della bomba artigianale che gli è stata lanciata contro e dai frammenti della piastra del giubbotto antiproiettile.
Ur, al suo fianco, fa quello che può.

Bolle l’acqua per disinfettarla il più possibile, passa gli attrezzi, per qualche momento dà il cambio alla collega.

Il caldo è opprimente, il respiro dell’uomo sulla barella è sempre più graffiante, come se ad ogni soffio la vita cercasse di uscire ma qualcosa la ingabbiasse all’interno, e allora era costretta ad arrampicarsi con gli artigli sulle pareti della gola per poter sfuggire a tutto il dolore.

-Va tutto bene, Marde. Respira, andrà tutto bene.

Silver lo ripete da quando ha portato il suo compagno in braccio fino all’infermeria, mentre tra una frase e l’altra la chiamava.

“Ur!” gridava “Ur, salvalo!”

Polyushka le ordina, perentoria come sempre, di prendere della garza e di pulire la ferita.

-In fretta! – grida – Devo poter operare!

Il corpo del giovane sussulta quando lei inizia a passare la pezza bagnata attorno alla ferita.

-Va tutto bene, Marde. Respira, andrà tutto bene.

Ur vorrebbe che Silver parlasse a lei.

“Va tutto bene, Ur. Respira, andrà tutto bene”

Nessuno bada a lei, nessuno pensa che anche lei potrebbe aver bisogno di sostegno. Il suo insegnante di medicina dell’università lo aveva detto, essere un medico rende quello che fai tutto dovuto. All’epoca non aveva capito, ma adesso è tutto chiaro.

I soldati che cura lottano contro altre persone, e per quanto atroce non c’è nulla da capire. Lei, invece, lotta contro nemici subdoli, invisibili, impossibili da
afferrare, e c’è da capire molto. C’è da capire che non ci si può permettere di perdere, ma che tutto quello che si fa non verrà mai elogiato.


È solo dovere, ma un dovere subdolo come la morte. Lei deve compierlo, ma nessuno lo saprà.

Marde dal suo lettino lo sa, invece, e solleva la mano per poggiarla su quella della dottoressa.

“Si fermi,” dicono i suoi occhi neri come la notte “non andrà bene.”

Poi, con un ultimo rantolo la testa si lascia andare e tutti i muscoli si rilassano, insieme. La foto nel taschino di Ur pesa come un macigno.

-MARDE! MARDE, RISPONDIMI!

-Ehi, tu! Non puoi mollare adesso!

Tutti gli sguardi sul corpo esanime, e nessuno vede Ur che crolla al suolo.


 
Il contenuto dello stomaco si riversa in gola e il sapore amaro del caffè salato è ancora più acido di prima.

Quella di Marde Geer non è stata la prima morte di un suo paziente avvenuta sotto i suoi occhi, ma non potrà mai perdonarsela.

Piegata sul lavello rimette il caffè appena bevuto e quello che è rimasto della cena prima; Gray le tiene la testa e le passa una mano sulla schiena per calmarla.

-Io ti avevo detto di non berlo! – sbotta. Ah, se solo sapesse…

-Avevi. Ragione. - ansima. Meglio non spiegargli quanto poco basta a farle ricordare momenti orribili della guerra – Mi ero. Distratta.

Gray allunga una mano sotto il rubinetto che ha aperto, e le getta acqua fresca in faccia fino a che lei non riprende a respirare bene.

A volte Ur si chiede come faccia ad essere così forte quel ragazzo. Lei non riuscirebbe a sopportare tutto quello, lei non ci riesce.

 

 
La bara viene portata in trionfo verso l’aereo militare.

Silver piange. Non la guarda.

La odia.

 
Ah, se solo Gray sapesse…

 
Ciò che resta di Marde Geer sparisce oltre il portellone.

Silver la guarda.

Gelo.

 
Anche Gray la odierebbe.
Silver le passa accanto.

Non le parla, non la tocca.
 

Assassina.

 
Due giorni dopo Silver la aspetta fuori dall’infermeria.

Non la saluta, non la guarda negli occhi, le si accosta.

-Andrà tutto bene.

Se ne va.

 

Ur vorrebbe piangere, ma riesce solo a lacrimare mentre Gray la aiuta a bere qualche sorso d’acqua.

-Andiamo di là. – le dice sollevandola per portarla in camera, ma lei si discosta. Non vuole tornare in quel regno di ombre che le parla di Silver e basta. È lei che ha preso la sua stanza quando si è trasferita lì, ma non può tornarci, e allora è meglio il divano.

Gray capisce e l’accompagna in salotto.

È strano, molto, ma in quella stanza non ci sono molte foto, e quelle poche che ci sono non si vedono nella luce fioca che viene da fuori ma riflettono quella aranciata che ancora viene dal corridoio, senza che si veda quello che c’è sotto.

Meglio così, pensa Ur che di altri ricordi proprio non vuole saperne. Però è cosciente del fatto che la culla del buio non basterà a proteggerla, e si raggomitola tra i cuscini e una vecchia coperta di pile che chissà quando è stata abbandonata lì.

Gray si siede accanto a lei e le solleva la testa, poggiandola sulle sue gambe per accarezzarle i capelli con dolcezza.

Ancora una volta aspetterà che si addormenti, non importa quanto tempo ci vorrà, non importa se domani c’è scuola. Può sempre dormire durante geografia, tanto il professor Clive non ci darebbe peso, anzi, forse glielo proporrebbe lui stesso.

-Stai meglio? – le domanda. È da tanto che Ur non stava così male – Hai preso le medicine?

-Sì. E no. – la dottoressa che è in lei riemerge prepotentemente - Lo sai che quelle sono peggio degli incubi.

Ur si mette seduta e lo guarda negli occhi. Scintillano nel buio e lei lo trova così rassicurante.

-Lo so.

Si lascia stringere tra le braccia da Gray.

 

 
Silver non le ha più parlato dopo quel breve, brevissimo incontro dopo la morte di Marde Geer.

Come se servisse qualcos’altro a farla sentire un mostro.

Ci avevano messo settimane di chiacchiere rubate tra i turni sfiancanti per diventare –cos’erano loro due?- amici, e adesso è tutto finito. Ma lo aveva sempre saputo che sarebbe rimasta delusa, tutti alla fine la abbandonano.

Polyushka la guarda e non capisce. Vorrebbe tanto sapere cosa passa nella testa della sua giovane collega, ma non ci riesce e l’unica cosa che le viene in
mente di fare e urlarle contro per riscuoterla.


Ur lo apprezza tanto.
Lo sa che la donna si comporta in quella maniera odiosa per svegliarla dal torpore che le ha annebbiato i sensi, e questo la aiuta tanto a ricordare che non è la sola ad aver fallito, ma che si va avanti sempre, lo devono anche a chi non ce l’ha fatta.

-Vado a cambiare delle fasciature. – le annuncia, sbattendo la sua vecchia e fidata borsa di pelle contro la gamba – Tu non combinare guai mentre non ci sono. – e sparisce fuori sotto il sole cocente.

Ur riprende a rassettare, ma si irrigidisce quando sente Polyushka sbraitare ordini che lei non riesce a capire. Qualcuno le risponde e lei urla ancora.

-STUPIDI GIOVANI! – è l’unica cosa che capisce chiaramente prima che qualcuno si infili nella tenda.

-Ciao.

Il rotolo di garza le sfugge dalle mani e lei si tuffa a recuperarlo prima che tocchi terra. Ci riesce, fortunatamente.

Quando si tira su, Silver la sta fissando con le mani dietro alla schiena, ed è buffo perché così sembra un adolescente alle prese con un’interrogazione troppo difficile.

-Hai bisogno di aiuto? – per un attimo ha pensato di dargli del lei, ma le riuscirebbe troppo difficile dopo tutti quei giorni passati a darsi del tu come vecchi amici.

-Come stai?

-Bene.

-Anche io. Cioè, finche non torno da mio figlio non posso stare bene al cento percento ma credo di stare relativamente bene. – ecco, sta straparlando. Silver le ha detto che gli capita se è molto nervoso. Al suo primo appuntamento, le ha raccontato, ha parlato per quasi cinque minuti di fila alla sua ragazza senza darle il tempo di rispondere.

Associare quel momento al ricordo di un appuntamento le pare oltremodo fuori luogo, si redarguisce, e scaccia il pensiero.

-Capisco. Come mai sei qui?

-Volevo vedere come stai? Non mi sembra che tu stia bene. C’è un motivo?

Il motivo glielo legge negli occhi, e quindi l’abbraccia.

Per un attimo Ur rimpiange quell’intesa che li porta a intuire quello che l’altro pensa senza che glielo dica, poi si lascia andare contro il petto dell’uomo.

-Non mi odi? – si pente subito di averglielo chiesto.

-No. – sembra sincero – Hai cercato di salvarlo, hai fatto il possibile. Non posso odiarti. – non sembra abbastanza – Nemmeno Marde ti odia, ne sono certo.

-Avrei potuto salvarlo. – sospira – E non ci sono riuscita. Si che mi odia. L’ho ucciso.

-Sai, non vi è differenza tra il vivere e l’essere lasciato vivere, come non vi è differenza tra il morire e l’essere ucciso. – prende un respiro profondo – Se Marde non si fosse messo in mezzo, quella bomba avrebbe preso me e una donna anziana. È morto, è stato ucciso, non cambia nulla, noi possiamo solo andare avanti.

-Cambia per me. – è quasi un singhiozzo questo, ma Ur non piange, lo ha giurato sul corpo della sua bambina – Come posso andare avanti? Come?

Solleva la testa e lo guarda negli occhi. È così bello, Silver.

È più di essere solo avvenente, è qualcosa che ti spinge a guardarlo ancora e ancora, per dimenticarti di tutto.

Le sfiora le labbra con le proprie.

Appena più di un attimo, perché non possa sorgere il dubbio di un incidente, ma leggero, perché è presto per dire se sia amore o meno.

La stringe ancora tra le braccia.

-Così.



 
È bello poter contare su certi ricordi, pensa Ur con un sospiro.

Quando quei momenti riaffiorano le si riempie il petto di un calore tiepido e morbido, come se le avessero avvolto il cuore con un asciugamano caldo.

Per la prima volta quella notte, chiude gli occhi e si tuffa nel passato con un sorriso dolce ad incresparle le labbra.

 
A quel bacio ne sono seguiti altri.

Molti altri, in realtà.

E quella sensazione strana che ha risvegliato il cuore vuoto di Ur ha finalmente un nome.

Lo ha capito una sera, mentre accorcia i capelli che con il tempo si sono allungati e ora le danno fastidio.

Con un paio di forbici in mano, mentre le ciocche di capelli blu svolazzano verso il pavimento, la sé stessa nello specchio cambia posizione, intrecciando le dita e appoggiandosi con i gomiti sul tavolino di plastica, che al di là del vetro è diventato una stupenda scrivania di legno scuro, identica a quella che Ur aveva nel suo studio prima di abbandonare tutto.

L’altra Ur la guarda con un’ espressione un po’ dispiaciuta.

-Sì, gli esami non lasciano dubbi. I sintomi sono quelli… No, non va bene per nulla. Mi dispiace signorina, lei è proprio innamorata.

Poi la dottoressa nel vetro si alza e se ne va, e Ur torna da sola nella tenda che condivide con Polyushka e altre due volontarie.

Un’altra ciocca di capelli blu finisce al suolo.

“Perché ti dispiace?” vorrebbe chiederle, ma sa già cosa le risponderebbe.

“Siamo in guerra.”

“Potremmo non tornare più a casa.”

“Lui ha un figlio.”

Appoggia la testa al vetro scheggiato dello specchio, che scivola indietro sul debole sostegno della sua cornice, e rimane lì a respirare sempre più forte per scacciare via i brutti pensieri.

-Mi hanno detto che qui c’è una dottoressa un po’ triste. – cinguetta qualcuno entrando nella tenda.

E dire “cinguetta” suona un po’ strano, visto che è Silver ad entrare, e la sua voce roca non è proprio quella di un uccellino.

Ma il tono canzonatorio e malizioso le fa venire in mente solo quella parola, mentre si volta verso di lui.

-Che cosa stai combinando? – le chiede, guardando le forbici e i capelli sparsi per terra.

-Taglio. A te cosa è successo? – accenna ad un sorriso, perché Silver è tutto impolverato e un po’ divertente lo è.

-Umpf. Si è alzato vento mentre eravamo in ricognizione… -si passa la mano sul viso, con il risultato che adesso ha una strisciata di polvere chiara che gli attraversa la faccia e Ur scoppia a ridere davvero – Non ridere! Non è per nulla divertente!

-Sì che lo è! – poi il tono diventa meno scherzoso, più sognante – Tra poco è finita. Un paio di settimane e dirai addio alla polvere e alle armi per tornare da tuo figlio. Sei felice?

Lui si dondola sui piedi, da destra a sinistra, e l’espressione da scolaretto alle prime armi è tornata.

Ur spesso si chiede se lui lo faccia solo per farle tenerezza o se davvero non sappia che pesci prendere.

-Vorrei chiederti una cosa. – dice, e si ferma. Ur lo incita con lo sguardo – Torna con me. Non posso lasciarti qui. Potresti venire a vivere con me e Gray. Tipo una famiglia. Potresti aprire il tuo studio, potremmo…

-A Gray andrebbe bene? – lo interrompe. L’ultima cosa che vuole è essere trattata come le matrigne dei film.

-Sono sicuro che ti adorerà.

Ur pensa a tante, tantissime cose, tutte assieme.

Forse potrebbe andare. Ma sarebbe sbagliato infilarsi così all’improvviso nella loro vita. Magari potrebbe iniziare prendendo una casa in affitto, per farsi conoscere da Gray.

Però non può lasciare il suo lavoro, infrangere la promessa che ha fatto alla sua piccola Ultear.

Nessun altro deve soffrire.

Ma la sua bambina avrebbe voluto vederla felice, giusto? Giusto?!

-Sì.



 
Ultimo ricordo felice.

E Ur non vuole ricordare ancora.

Certo, potrebbe tuffarsi nei ricordi di tutti i baci, tutti gli abbracci che si sono scambiati, le promesse che si sono fatti, le speranze che hanno riposto l’uno nell’altra, ma sa che quelle sono solo un tramite, un percorso che la porterà inevitabilmente alla fine.

Ma lei non vuole vederla quella fine, vuole che il tempo si blocchi un attimo prima che tutto crolli, come un fermo immagine, e rimanere lì immobili, uno davanti all’altra, ed essere felice ancora un po’.

-Non vi è differenza – cantilena – tra vivere e morire.

Gray sussulta e la guarda come fosse un fantasma.

-Non vi è differenza tra essere lasciato vivere ed essere ucciso.

E lo sa che la frase è sbagliata, ma per lei ha senso.

Quel giorno è rimasta in vita, ma è come se avessero ammazzato anche lei.

 
Sono soli nell’infermeria.

Polyushka dice che è meglio così, sostiene che se la mandasse in giro per il campo diventerebbe presto irreperibile per colpa di “quello lì”. Almeno qui sanno che potrebbe entrare chiunque in qualsiasi momento e devono darsi una regolata.

Seduta sulle ginocchia di Silver con lui che le accarezza i capelli e le racconta di come sarà bello vivere insieme, Ur ringrazia di essere lì, di essere con lui.

 
Passeranno pochi minuti e lo desidererà ovunque tranne che lì.

 
Silver le parla, ma questo ricordo è troppo sbiadito, troppo usato per essere definito, e le parole non si sentono tutte. Sa solo che le sta raccontando di come sarà bello passare il Natale tutti assieme.

Che di solito fanno una grande festa con le famiglie dei migliori amici di Gray, anche se oramai sono un’unica famiglia a tutti gli effetti con gradi di parentela più o meno riconosciuti.

Passa del tempo, ma non si capisce quanto.

È fluido nei ricordi, scorre come vuole lui fino a che non arriva qualcosa che lo rende definito, qualcosa che cambierà tutto.

Ur vuole rimanere così, in braccio a Silver a farsi cullare dalle sue parole.

Vorrebbe fermare tutto in quel momento, con il tempo che si cristallizza e sembra non passare mai.

Ma il qualcosa che cambia tutto arriva comunque.

Prende la forma di pick-up, di grida in una lingua che Ur non conosce e di grida che Ur conosce bene, di granate e mitragliatrici.

Non fa in tempo a chiedersi come loro abbiano fatto ad entrare nel campo perché Silver la spinge a terra.

Ur aspetta che lui si accucci accanto a lei rassicurandola, spiegandole cosa fare, ma non accade.

Al posto della voce calma di Silver le giunge alle orecchie lo stridore dei colpi di una mitragliatrice, ed è panico.

Si gela, voltandosi verso l’uomo, che sembra bloccato a metà della caduta.

Si guardano, il blocco dura meno di un secondo ma a lei basta per scorgere i due fori di proiettile sul ventre di lui, poi Silver le cade addosso.

Lei cerca di sfilarsi di sotto, deve fasciarlo, deve fermarle l’emorragia, ma lui la incastra contro il terreno.

Respira ancora, ma per quanto lo farà?

Stesa sotto di lui, sente il sangue che la bagna e le lacrime che premono per uscire. Ma lei le ricaccia indietro, perché lei è un medico e non può permettersi di perdere la lucidità, non in momenti come quelli, costi quel che costi.

 
A conti fatti, sarebbe stato meglio lasciarsi andare in quel momento per poter essere lucida dopo.

 
-Lasciami. Ti salvo. Posso ancora facela – gli dice, e si dimena sotto di lui, ma è troppo pesante e lei teme di peggiorare le sue ferite.

Il sangue è arrivato a bagnarle il ventre attraverso i vestiti.

-No. – rantola – Fingiti morta.

Ur vorrebbe urlargli che morirà comunque se lui non dovesse farcela, ma il tempo è poco e non vuole sprecarlo.

Con le ultime forze, Silver apre la giacca della mimetica quel tanto che basta per tirarne fuori un ciondolo argento a forma di croce.

-Portalo a mio figlio. Ti prego.

Lei annuisce e avvolge le dita attorno al ciondolo. Stanno così bene, intrecciate a quelle di lui… Ancora qualche minuto, le basterebbe solo qualche minuto…

Vorrebbe dire qualcosa ma le parole si bloccano in gola.

Niente lacrime.” è tutto quello che riesce a pensare “Non deve finire con un pianto.”

Lui si spinge più in alto e le bacia le labbra, che all’inizio tremano ma poi rispondo al bacio quel tanto che è concesso loro.

-Ti amo. – le dice. Non se l’erano mai detto.

-Ti amo. – risponde.

-Lo so. – prende un respiro, la pozza di sangue sul suolo è sempre più larga, la sua voce sempre più debole e il frastuono fuori sempre più forte – Ora fingiti morta, non voglio che ti facciano del male.

Lui appoggia la fronte per terra, nascondendola sotto il suo corpo.

Respira ancora, ma sempre peggio, e a dispetto di quanto dicono nei romanzi, per quanto lei possa amarlo non vuole esserci nel momento in cui smetterà.

Il suo corpo lo capisce, e tutto diventa nero.


 
Ur si accascia di nuovo sul petto di Gray, il ciondolo argentato le tocca il naso.

Le braccia del ragazzo la stringono più forte.

-Ma perché. Deve morire. Ogni volta. – ansima.

Una volta le è bastato.

Si rimette seduta pian piano e con la mente corre avanti.

A quando l’hanno rimandata a casa, quando ha incontrato Gray, quando le hanno diagnosticato una sindrome da disturbo post traumatico e Gray le ha chiesto se voleva vivere in casa con lui perché non era il caso che rimanesse da sola con “quella roba dei traumi” e comunque lui una casa da solo non era ancora in grado di tenerla.

-Vai a dormire, domani hai scuola.

Gray la guarda un po’ spaesato, decisamente insonnolito.

Lui si alza e va nella sua camera con l’andatura da zombie, troppo intontito dal sonno per protestare. A quel punto anche Ur si alza.

Meglio tenere la mente occupata, magari ripulire la cucina e…

Il suo sguardo finisce sugli scaffali e lì si perde.

Le foto sono poche, per lo più ci sono libri e qualche dvd, oltre ad alcuni soprammobili.

C’è anche una nave in bottiglia, un veliero in miniatura che sembra quello dei pirati anche se non ha la bandiera nera con il teschio.

Gray le ha raccontato che l’ha comprato con Silver ad una svendita svuota garage prima che partisse per la sua prima missione.

Non sa per quale motivo lo ricorda, forse è il modo in cui il ragazzo gliel’ha raccontato che l’ha colpita.

Gli occhi luccicavano mentre le spiegava che per Silver quello era un vascello magico perché anche mentre lui era lontano bastava che Gray gli pensasse e quella nave lo avrebbe portato subito vicino a lui.

Anche Ur la vuole una nave del genere per andare da quelli che ama, da Silver, dai suoi genitori, dalla sua bambina…

Gli occhi si fanno lucidi e Ur rimane a fissare il veliero, fino a che sente tirare la camicia da notte.

Si volta e si trova davanti Gray, con i capelli tutti arruffati e…

-Stavi sbavando nel sonno? – non può trattenersi di chiedere.

-Vieni a letto. – la strattona ancora e poi la incita con l’ingenuità di un bambino piccolo – Ti proteggo io dagli incubi, se è questo il problema.

-Già, con te e il tuo pigiama a fiocchi di neve non oseranno avvicinarsi. – le labbra di Ur si increspano in un sorriso mentre lo segue.

 

Da qualche parte anche Silver sta sorridendo.



 
  
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