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Autore: Calliope49    24/06/2015    2 recensioni
*COMPLETA*
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Treville vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».

Una calma insolita è piovuta su Parigi, ma la situazione non è destinata a durare. Strani incidenti, un omicidio e la comparsa di un misterioso bandito daranno filo da torcere agli uomini del re. Nel mezzo, una ragazza e troppe cose che non sono quello che sembrano…
[AthosXNuovoPersonaggio; Accenni Constagnan e Annamis]
[N.B. La storia non tiene conto degli sviluppi della seconda stagione perché è stata ideata prima che ne cominciassero gli episodi]
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Captain Treville, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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XIX
Una lunga nottata

«Aramis, ma cosa…»
«Mi dispiace, Constance…»
«Oh Dio!»
«… non sapevo dove altro portarla. E mi serve una mano».
 
Le voci galleggiavano da qualche parte nel buio, sospese tra il nero soffocante e il dolore che la trapassava serpeggiando in ogni muscolo.
Dentro quel buio, era come annegare in un lago di liquido denso che le impediva i movimenti e le toglieva il respiro. Provò a dibattersi ma sentì solo altro dolore, più forte, un artiglio che le scavava la carne.
Odore di metallo e sangue e sudore che toglieva aria.
Provò ad aprire la bocca, a urlare, ma il corpo non rispondeva alla sua volontà e l’urlo rimase solo nella sua testa.
Un sentore di lenzuola pulite si mischiò a quel tanfo mortifero, poi tornò il buio, solido e impietoso. La soffocò e la spinse giù, in fondo, sempre più in fondo dove le voci non potevano arrivare e dove persino il dolore era una sensazione sbiadita.
Diane smise di lottare e si lasciò andare a quella vertigine.
Riemerse di colpo, dopo, un dopo che sembrava distante una vita intera.
Sulla sponda della sua coscienza brillavano candele e lampade a olio.
La ragazza emise un singulto. Il dolore la paralizzò così come la consapevolezza di essere ancora viva.
La prima cosa che vide furono un paio di mani che riemergevano da un catino di ceramica bianca e si asciugavano in un panno chiazzato di sangue - il suo. Il luccichio di un crocifisso di pietre incastonate balenò a margine del suo campo visivo.
«A- Aramis».
Il moschettiere, viso pallido e manica sinistra completamente zuppa di sangue, si chinò su di lei, chiuse gli occhi un istante e si segnò con un sospiro che vibrava di gratitudine.
«Come ti senti?»
«Fa male…». Diane sentì le lacrime salirle agli occhi, le sembrava infantile piangere di dolore eppure non riuscì a impedirselo.
«Sì, è l’effetto che fa un foro di proiettile, anche dopo che il proiettile è stato estratto» spiegò il moschettiere con una dolcezza paziente nella voce. «Ti conviene dormire. Possiamo cercare qualcosa di abbastanza forte da stordirti come si deve, ma almeno sei rimasta svenuta per tutto il tempo che mi ci è voluto per estrarre la pallottola».
Diane boccheggiò. Cercò di non pensare al male, si concentrò sui particolari della stanza, quella dove era rimasta l’ultima settimana a casa Bonacieux.
Oddio, povera Constance…
I suoi vestiti erano piegati su una sedia. Se avesse avuto abbastanza sangue in corpo, sarebbe arrossita.
Aramis intercettò il suo sguardo e decifrò la sua espressione imbarazzata sul viso sudato.
«Sì, ehm, Diane, mi dispiace» esordì il moschettiere, titubante.
«Direi che l’istinto di sopravvivenza conta più del pudore. Mi hai salvato la vita»
«E tu l’hai salvata ad Athos, ma non ti stavo chiedendo scusa per averti spogliata - operazione nella quale Constance ha ampiamente contribuito con tutto il corollario di discrezione femminile che la situazione richiedeva e, ehm…»
«Aramis… mi fa così male la ferita che voglio morire, non mettermi ansia, cosa succede?».
Una bussata alla porta, all’improvviso. Il cuore di Diane le si contrasse nel petto nudo, stretto nelle bende della medicazione.
Aramis indicò la porta con un gesto goffo, un attimo prima che si aprisse e il capitano Treville entrasse nella stanza come una furia.
«Ecco, era per quello che ti chiedevo scusa» bisbigliò il moschettiere. «Ho dovuto dirglielo».
Constance sulla soglia si alzava sulle punte per riuscire a guardare oltre la spalla del capitano dei moschettieri. Sospirò quando vide che Diane aveva aperto gli occhi.
E gli altri? Dov’erano Athos, Porthos e d’Artagnan?
Per un attimo sembrò che tutto fosse fermo, come lo sfondo di un ritratto, cristallizzato in un’immobilità innaturale.
Se il dolore che mordeva tra le scapole non fosse stato così forte, Diane non sarebbe stata nemmeno sicura di essere viva.
«Zio…» mormorò.
Treville spostò lentamente lo sguardo dal letto al viso di Aramis. «Lasciaci soli» ordinò in tono asciutto.
No, non farlo.
Il moschettiere rivolse un’ultima occhiata alla ragazza prima di defilarsi, chiudendo silenziosamente la porta dietro di sé.
Sotto le coperte, Diane strinse i pugni, conficcandosi le unghie nei palmi.
Il capitano mosse qualche passo, prese una sedia che era appoggiata contro il muro e la sistemò accanto al bordo del letto. Quando si mise a sedere, quasi lasciandosi cadere, la ragazza si accorse che era stanco, che la sua espressione dura e fredda di poco prima si era sciolta per lasciare il posto a una maschera di rammarico.
«Era proprio necessario arrivare a tanto?» le chiese. Non c’era alcuna nota di rimprovero in quelle parole, solo una triste incredulità.
«Non c’era altro modo» disse Diane.
«Avresti potuto dirmi tutto, fin dall’inizio»
«E tu cosa avresti fatto?»
«Me ne sarei occupato, con qualsiasi mezzo».
La ragazza scosse il capo per quel poco che le riuscì. Suo zio continuò.
«Tutto questo è più grande di te, Diane. Ed è un miracolo che tu non sia rimasta uccisa, stanotte» esclamò. «E quei quattro sconsiderati… non provare a dirmi di non prendermela con loro, ci rimetterei quel po’ di salute mentale che ancora mi rimane!»  
«A loro difesa posso dire che non è stato facile convincerli». Diane deglutì, cominciava a sentire la testa in fiamme e la stanchezza che le irrigidiva i muscoli. «Dove sono Athos, Porthos e d’Artagnan?»
«Non lo so, non sono ancora tornati. E credo sia meglio che non li abbia davanti in questo momento».
Quanto tempo era passato da quando era lì? Com’era possibile che i moschettieri non avessero ancora fatto ritorno dal porto?
La nipote del capitano chiuse gli occhi, provò a calmarsi e a rimanere lucida. Quando li riaprì puntò lo sguardo in quello di suo zio.
«Ti voglio bene» gli disse, con la voce impastata e resa roca dal dolore. «E non avrei mai voluto darti un simile dispiacere, ma non mi fermerò fino a quando Legrand non sarà sul patibolo, questo devi saperlo»
«Io non…»
«Certo, puoi sempre farmi rinchiudere, il duca ne ricavò qualcosa dopotutto».
Erano parole astiose e crudeli, dettate dal dolore, dal senso di sconfitta, dallo stordimento, dalle tante cose da cui Diane si sentiva sopraffatta.
Treville le prese la mano da sopra le lenzuola e la strinse. La ragazza sentì tutta l’angoscia di suo zio in quella presa. Era un soldato, era abituato a servire e proteggere, ce l’aveva fatta con qualcosa di maestoso ed etereo come un Paese, una bandiera, e ora invece la vita di sua nipote gli era quasi scappata tra le dita. I segreti di Diane erano nemici che non aveva potuto affrontare e tutta quella storia doveva apparirgli come una battaglia persa in partenza.  
Restarono a guardarsi, senza dire niente.
Constance schiuse la porta e lanciò un’occhiata all’interno prima di entrare.
I contorni della stanza cominciavano a essere sfocati.
La padrona di casa aveva in mano un piccolo bicchiere con dentro un liquido ambrato.
«Ora è meglio che riposi» suggerì, guardando il capitano con aria quasi autoritaria.
Si avvicinò al letto e aiutò la ragazza a sollevare la testa, versandole tra le labbra aride il contenuto del bicchiere. Era alcolico, forte, bruciava nella bocca e le salì immediatamente alla testa.
Treville si avviò verso la porta con aria esitante. Si voltò un attimo verso il letto prima di uscire.
«Se questo è davvero l’unico modo, allora dovremo trovare la maniera di farlo funzionare un po’ meglio» concluse.
Diane non riuscì ad afferrare il senso della frase. Ricadde con la testa contro il guanciale e fissò Constance con occhi smarriti.
Il liquore le stava facendo provare un senso di torpore soffocante.
«Dove sono gli altri tre? Perché non sono ancora tornati?» disse, piagnucolando. Non voleva addormentarsi senza sapere.
«Aramis ha detto che andava tutto bene quando ti ha portato via, avevano tutto sotto controllo» disse Constance. «Non ti devi preoccupare».
Perché tutti possono preoccuparsi per me ma io non devo mai preoccuparmi per loro?
Un pensiero stupido, l’ultimo barlume di luce prima che il buio tornasse a inghiottirla.
 
Sprofondò nel sonno come dentro a un pozzo, ma era una caduta che non finiva mai.
C’era ancora il porto, la Senna era un fiume di sangue che scintillava sotto la luce dei fuochi e lei era persa e sola in quella notte senza stelle. Vagò per la città deserta fino a cadere esausta sul ciottolato.
Enormi cani neri emersero dal buio, si avvicinarono ciondolando e lei seppe che doveva scappare ma non riusciva ad alzarsi.
I cani le giravano attorno, annusandola e sfiorandola con i nasi umidi, la bava schiumosa che colava dai musi scuri. Poteva sentire il loro respiro fetido su di sé.
Quel respiro divenne un basso ringhio e poi un verso graffiante e feroce. Quando si avventarono su di lei, Diane aprì gli occhi.
Riemerse dall’incubo e il buio era ancora lì, ma era leggero, sicuro.
Non c’erano bestie mostruose annidate nell’ombra, ma la ragazza percepì nettamente una presenza accanto a lei. Voltò piano la testa e distinse una figura seduta sulla sedia che Treville aveva lasciato vicino al letto.
C’era da aspettarselo che suo zio sarebbe rimasto lì tutta la notte.
Il dolore non l’aveva abbandonata, ma era abbastanza stordita da non sentirlo troppo forte.
«Ti stavi lamentando, quasi urlavi» disse l’ombra nel buio.
«Athos?…».
La voce del moschettiere suonava ovattata e stanca.
Diane cercò di mantenersi lucida, di mettere a fuoco i pensieri che danzavano in mezzo a spirali di nebbia nella sua testa. Provò a sistemarsi meglio sul guanciale, una fitta lancinante la paralizzò e la convinse a restare dov’era.
«Cosa è successo? State tutti bene?» domandò.
«Stiamo bene. Staremmo meglio se fossimo riusciti a prendere vivo qualcuno degli uomini del conte. Sono sopravvissuti tre contrabbandieri, li abbiamo portati allo Châtelet, siamo rimasti a interrogarli, ma non sanno a chi stavano davvero vendendo quelle armi. Ancora una volta non abbiamo prove, mi dispiace».
Era facile parlare di quelle cose, più facile che pensare all’idea di essere da sola con Athos.
«Ma tu ora non devi preoccuparti di questo» concluse il moschettiere.
«No, quella di preoccuparvi abbiamo già stabilito essere una vostra prerogativa» tentò di scherzare Diane.
Athos non rispose. Respirò pesantemente e tirò indietro la testa, piegandola contro la spalliera della sedia. Il suo sguardo era lucido, forse per l’alcool.
«Perché lo hai fatto?» chiese piano.
Era una domanda che non meritava risposta. Lo sai perché.
O forse no, non lo sapeva. Forse per indole o per esperienza, Athos pensava che non si potesse amare qualcuno e tenergli nascosto qualcosa. E anche adesso che non c’era più niente da nascondere, l’idea, per lui, doveva essere inarrivabile.
«Ho pensato che beccarmi una pallottola fosse una buona idea, da lì sarebbe stato tutto in discesa». Diane avvertì una freddezza non voluta nelle sue stesse parole.
Il moschettiere si alzò con fare stizzito, rischiando di rovesciare la sedia.
«Non dovevi farlo, non per me» sibilò, dirigendosi a passi nervosi verso l’uscita. «Non sono così importante» concluse uscendo e richiudendo con uno scatto la porta dietro di sé.
Diane rimase sola con il buio come unica compagnia. Quando il sonno pesante e appiccicoso tornò a sommergerla si chiese se quello scambio con Athos non facesse anch’esso parte del sogno.     
 
***
 
Il silenzio nel salotto di casa Bonacieux era al limite del sopportabile.
Per fortuna il marito di Constance era partito all’improvviso quello stesso pomeriggio, altrimenti quella nottata sarebbe stata ancora più impossibile.
La donna andava e veniva, come se a quell’ora tarda, con la sala invasa dai moschettieri, si fosse rammentata di mille faccende casalinghe da sbrigare.
Aramis si era medicato il braccio, ma il sangue sulla manica della sua camicia spiccava come una grande macchia opaca.
Athos, Porthos e d’Artagnan sedevano a spalle curve, sudati, sporchi e stanchi.
Per niente, tutto per niente…
Il capitano Treville camminava su e giù davanti al camino, il mento sprofondato nel petto e lo sguardo fisso. Il ticchettio ritmico dei suoi passi era l’unico suono a spezzare quell’immobilità tesa e silenziosa.
Athos pensò che stava per mettersi a urlare, gridare al capitano di dire loro quello che aveva in mente, spedirli diritti diritti verso un plotone di esecuzione e che non se ne parlasse più.
Era difficile credere che Treville potesse perdonargli anche quella bravata. Non si trattava di una zuffa con le guardie del cardinale, di una trasgressione ai comandi o al volere del re, era qualcosa che andava oltre. Avevano tradito la sua fiducia tenendogli nascoste le imprese di Diane, proprio come la ragazza aveva tradito loro.
Li aveva traditi, aveva mentito e manipolato. E poi si era beccata una pallottola nella schiena per salvare lui. Nella visione molto lineare che ad Athos piaceva avere del mondo, l’incidente di quella sera era una crepa sulla superficie di uno specchio che spezzava l’immagine in tanti riflessi e in ogni riflesso c’era una sfumatura diversa e inafferrabile.
Treville si fermò al centro della stanza, all’improvviso, come un pendolo che smette di oscillare, alzò lo sguardo e fissò uno ad uno i quattro moschettieri.
«Non vi chiederò perché lo avete fatto, se sentissi anche solo una scusa stupida potrei spararvi seduta stante» disse cupo.
Nessuno di loro parlò.
Non c’erano scuse stupide e nemmeno motivazioni valide. Non c’era stato modo di fermare Diane, si era immischiata in quella situazione come una ragazza curiosa del mondo dopo tanti anni di reclusione in un collegio, un travestimento che le calzava a pennello come quegli abiti da uomo. Loro non potevano immaginare che fosse molto di più, molto più folle e infida e testarda e coraggiosa.
Sulla porta a destra del tavolo, Constance Bonacieux si era fermata con il fianco appoggiato allo stipite, ad ascoltare con aria ansiosa. Anche lei si sarebbe parata tra loro e una pistola se Treville avesse deciso di sparare davvero contro i suoi uomini.
Athos rammentò di aver chiesto a Diane perché lo avesse fatto. Realizzò quanto tutta quella situazione lo avesse reso stupido.
«Immagino che non ci sia modo di tornare indietro» continuò Treville. «Mia nipote si è spinta troppo oltre e l’unica soluzione che riesco a immaginare per fermarla è rinchiuderla da qualche parte, ma non posso farle subire di nuovo una cosa del genere»  
«Ah, perché, c’è già stato qualcuno che l’ha rinchiusa?» si fece scappare d’Artagnan.
Il capitano gli lanciò uno sguardo assassino per zittirlo.
«Forse dovrei avere la mano ferma del duca de Leroux, e non solo con mia nipote» commentò asciutto. Si passò una mano sulla fronte prima di continuare. «Se proprio Diane deve proseguire su questa strada tanto folle, tanto vale che lo faccia sotto la mia supervisione».
I moschettieri annuirono senza essere certi di aver capito. Il capitano proseguì con il suo monologo.
«Ciò non toglie che il conte Legrand vada smascherato, arrestato e possibilmente impiccato, se tutto quello che ha detto Diane è vero».
Se tutto quello che aveva detto Diane era vero, il conte Legrand aveva fatto uccidere la sorella di Treville. Un motivo in più perché finisse sul patibolo.
Porthos alzò la mano con fare titubante, chiedendo il permesso di parlare come in mezzo a un gruppo di scolaretti.
«E per tutto questo c’è un piano, giusto?» chiese un po’ perplesso.
«Non ancora. Mi aspetto che ve ne facciate venire in mente uno quanto prima».
Aspettate che Diane si riabbia dalla convalescenza… probabilmente la ragazza stava già pensando alla prossima mossa da fare. Ora che tutte le carte erano state scoperte e che avrebbe avuto persino la benedizione di Treville per agire alla luce del sole, sarebbe stata inarrestabile. E pericolosa…
«E riguardo a Diane?» chiese Aramis.
«Avete già provato a insegnarle a sparare, no? Continuate così»
«Così come?». D’Artagnan spalancò gli occhi.
«Spada, pistola, dovrà pur imparare a usarle in modo decente se è tanto caparbia da voler fare la guerriera solitaria»
«E dovremmo insegnarglielo noi?» fece Porthos.
Treville corrugò la fronte. «Ma no, lo faremo fare a qualcun altro al quale racconteremo tutta la storia» sbottò. «Certo che dovete farlo voi!»
«Con tutto il rispetto, signore, vostra nipote non è un soldato» esclamò Athos, aprendo bocca per la prima volta dopo ore, con un fare drastico che mal si conciliava con la situazione in cui si erano cacciati lui e i suoi compagni.
«Se solo ve lo foste fatto venire in mente prima di trascinarla in una sparatoria» lo rimbeccò Treville mellifluo.
«Le avevamo detto di rimanere al riparo…» insistette Athos, senza preoccuparsi di irritare ulteriormente il capitano.
«Certo, perché notoriamente Diane è una che dà ascolto agli altri»
«… era al sicuro, è uscita fuori per salvare me!» continuò il moschettiere.
Prendetevela con me e con nessun altro. Non sono riuscito a convincere gli altri a tenerla fuori, non sono riuscito ad allontanarla quando avrei dovuto. Non sono riuscito a tenerla al sicuro!  
Aramis, Porthos e d’Artagnan voltarono il capo verso di lui nello stesso momento. Le loro espressioni sembravano dire che quel particolare sarebbe stato meglio non rivelarlo.
Treville aveva l’aria di uno che da un momento all’altro si sarebbe messo a picchiare la testa contro la mensola del camino. Alla fine, si stropicciò il viso con le mani e sospirò.
«Se non fossi totalmente sicuro dell’affetto che voi quattro sconsiderati provate per Diane vi avrei già spediti in mano alla corte marziale» concluse. «Ora andate a farvi una dormita, maledizione, sembrate dei rottami. Appena mia nipote si sarà ripresa ci occuperemo di come salvarla da se stessa e di tutto questo schifoso ginepraio».
Il capitano afferrò il cappello che aveva lasciato sul tavolo e si diresse verso la stanza dove sua nipote riposava, quasi travolgendo madame Bonacieux sulla porta.
I moschettieri restano a fissare il punto da dove Treville era sparito.
«Ho la sensazione che sarebbe potuta andare peggio» mormorò Constance, entrando nella stanza con un secchio di metallo da mettere sul fuoco e dei teli di lino gettati di traverso sulla spalla. «Vi metto a scaldare dell’acqua, datevi una ripulita e poi andate a dormire. Non voglio vedere moschettieri per almeno un mese».
«Non è la prima volta che te lo sento dire» rispose d’Artagnan, trovando chissà dove la forza d’animo di fare dello spirito.
Athos si alzò e andò alla finestra. Guardare Parigi avvolta nel silenzio quieto della sera lo aiutò a non pensare a quello che era successo - e a quello che doveva ancora succedere. Ma neanche un’intera botte di vino avrebbe tenuto lontano i pensieri, ormai.
Dopo qualche minuto avvertì il rumore di passi dietro di sé, riconobbe il riflesso pallido di Aramis sulla superficie lucida del vetro.
«Tu lo sai che tutto questo non è colpa tua, vero?» disse Aramis, piano.
«Perché mai dovrei pensarlo?» Athos arricciò le labbra, il sarcasmo nelle sue parole era aspro come vino scadente.
«Se proprio vogliamo stare qui a deprimerci, allora dovremmo dire che ognuno di noi ha un quarto di colpa, ma chi ha voglia di fare i conti?»
«Siamo stati solo fortunati che non sia andata peggio».
Aramis sbuffò. «Fattela passare» tagliò corto. «Abbiamo un sacco di lavoro da fare». 
 
  
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