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Autore: Lusivia    24/06/2015    1 recensioni
[STORIA IN VIA DI REVISIONE: primi SETTE capitoli aggiornati.]
Un tempo credevo che quelle piccole sferette bianche fossero la sola cosa che mi impedisse di impazzire, quel filo stretto attorno alle rovine della mia mente, e tutto ciò che dovevo fare per evitare il collasso era chiudere gli occhi e buttarle giù.
Per diciotto anni avevo vissuto nella convinzione che fosse giusto così, che non poteva esserci via d'uscita da quella villa nascosta tra le colline, ma spiriti antichi avevano cominciato a sussurrare le loro verità.
Un giorno, da un debole atto di ribellione scoprii che ciò che vi era dentro di me era molto più che il riflesso della malattia; era qualcosa di più antico, l'eco del sangue versato in nome di quell'eterna battaglia che continuava ad emettere i suoi clangori, ma l'umanità era ormai troppo giovane per ricordarne il suono.
Ho dovuto vivere le favole narrate dalle antiche voci nella mia testa per scoprire la verità su di me, sul mondo, sull'autentica faccia dell’umanità, e ancora non sono sicura che sia davvero tutto.
Ma ora dimmi, Laura: quanto indietro vuoi tornare per scoprire che la tua vita è, ed è sempre stata, una bugia?
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Kadar Al-Sayf, Malik Al-Sayf, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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                                                                                              Capitolo 14
                                        
                                                                  Il passato non svanisce mai.
                                           

                                              

                                                                                   

Piccoli passi, uno dopo l’altro, ma era sempre difficile non sentirmi estraniata dalle mie stesse gambe.
Era passato un anno dall’incidente e a quel punto, a pochi giorni dal mio sesto compleanno, avrei dovuto star meglio, ma la verità era che la riabilitazione fu più complessa del previsto.
C’erano delle immagini nella mia testa, immagini a volte sfocate, a volte così reali che credevo di poterle toccare, ed ero spaventata. Ero spaventata, perché quando trasalivo da quell’apnea d’immagini e suoni di un luogo lontano mi ritrovavo nella mia stanza, sola e in ginocchio davanti alla luna.
Ero spaventata, perché quelle persone contornate da abiti bianchi e lucenti mi avevano abbandonato di nuovo all’oscurità, nelle angosce di un mondo di mezzo dove realtà e illusione si mischiavano senza preavviso.
Non parlavo mai, perché dall’incidente avevo scordato come si facesse, e avevo perso il senso del tempo.
Rimasi seppellita sotto le coperte afose del mio letto per giorni e giorni, settimane, finché intuii dal sopraggiungere di una rondine sul davanzale e dalle foglie bruciate fuori la finestra che dovevano esser passate due stagioni.
La schizofrenia aveva preso ogni cosa di me: oramai, vivevo fuori istante.
A quel punto, prima che le allucinazioni diventassero per me l’unico mondo che esistesse, mia madre decise di portarmi in un ospedale psichiatrico, ma non per lasciamici lì, perché non lo avrebbe mai fatto, ma per aiutarmi.
Ogni fine settimana, salivo in macchina e passavo un’ora di silenzio nell’abitacolo della macchina finché non cominciavo a vedere le ombre delle fronde verdi, e lì, tra i tronchi di quel bosco, si erigeva un piccolo edificio bianco dall’aspetto asettico e moderno.
Aveva scelto quel posto perché conosceva il direttore, un giovane uomo dagli occhi melanconici e l’aspetto vissuto, con cui, alquanto pare, aveva già lavorato in passato.
Ogni volta che andavamo da lui per fare un controllo generale dei miei progressi, la Templare si truccava, acconciava i bei capelli sulle spalle sottili, e mi faceva indossare i vestiti più vezzosi che avessi nell’armadio; infatti, in quell’occasione particolare, venni acconciata con un vestitino rosso e le scarpette in vernice scura, mentre i capelli corti erano stati fermati da un fiocco scarlatto.
Erica ci teneva a rendermi presentabile, sennonché irresistibile, per quell’uomo.
Ricordavo che era Dicembre, il giorno prima di Natale.
Sebbene fosse la vigilia dell’anniversario del mio incidente, e del mio compleanno, Erica aveva deciso di portarmi all’ospedale psichiatrico per una piccola visita di cortesia, ma credevo che in verità volesse solo rivedere il direttore.
Una bizza a neon lampeggiò per un istante dal soffitto bianco del corridoio, inibendo i miei già provati sensi abbastanza da confondere il mio equilibrio, e sarei caduta se non fosse sopraggiunto il braccio di mia madre, che mi esortò a continuare.
Erica quel giorno aveva un giubbotto in pelliccia grigio che incolonnava la sua aitante figura e la faceva sembrare un leone, fiera e dal passo sicuro sui suoi stiletti gialli, con la criniera dorata sciolta sulle spalle. Era così silenziosa, così magnifica, così donna.
Percorremmo il corridoio dell’ospedale in silenzio finché non giungemmo davanti a una porta bianca, dunque ci fermammo e mia madre bussò con i suoi guanti grigi.
Poco dopo, una voce maschile ci accordò il permesso di entrare.
L’ufficio era grande e accogliente, l’aria profumava di pino silvestre e lillà e ai lati della stanza erano stati disposti dei divanetti per gli ospiti che arrivavano fino alla finestra panoramica dietro la scrivania in cedro.
Dall’altra parte dell’ampia vetrata, si scorgevano le fronde verdi del bosco circostante e una sottile bruma che si disperdeva dalle montagne.
Seduta a gambe incavalcate su un divanetto, una donna coi capelli rossi e una camicetta dallo scollo vertiginoso, che lasciava intravedere abbondantemente un neo sul seno destro, aveva appena smesso di parlare e ora si voltava verso di noi, un po’ seccata.
Appoggiato al davanzale, invece, se ne stava il dottore, un uomo di circa trentacinque anni cui scorrere del tempo sembrava essersi fermato da parecchio, perché la sua freschezza compassata, il viso pallido ed elegante, i capelli scuri e il ciuffo che ricadeva in un turbine morbido sui suoi occhialetti, oltre cui si celava uno sguardo nero e melanconico, erano rimasti intatti probabilmente dal suo ventesimo compleanno.
Come sempre, aveva indosso un camice bianco ottico ma quella volta era sbottonato per lasciar intravedere il pullover nero, che stringeva sui pettorali accentuati e il fisico invidiabile.
Non appena Erica vide la rossa intrigante nella stanza, si freddò alla soglia e di riflesso bloccò anche me, che invece ero pronta a precipitarmi dietro la scrivania, dal dottore.
Le due si squadrarono, si studiarono, si annusarono da lontano come leonesse che si sentono minacciate. Poi, la rossa sorrise.
– Chi non muore, si rivede. E nel tuo caso, Erica, è proprio vero.
– Posso dire lo stesso di te, Iole. – cominciò algida l’altra – Sono anni che sei sparita, senza lasciar detto quanto saresti mancata da casa. Eri in Svizzera o in Tailandia, questa volta?
– Iole è tornata poco fa dalla Francia. – a rispondere fu il dottore, che sorrise pacato non appena i miei occhi si posarono trasognanti su di lui.
La prima volta che incontrai quell’uomo, ricordai che provai un gran turbamento.
Quel tale in bianco che accolse me e mia madre nel suo ufficio, un anno fa, tutto raccolto e composto con le mani dietro la schiena, aveva un gran rumore nel suo sguardo.
Un rumore che non coincideva con la calma ostentata del suo aspetto composto e i capelli bruni tirati dal gel. Un rumore che finì col stregarmi.
Erica analizzò la scioltezza dell’uomo con un lieve cruccio, poi fu attratta dal movimento della rossa che sciolse le gambe sinuose e si alzò lentamente dal divanetto, dirigendosi verso di noi con calma e penetrante concentrazione.
Non era molto alta, ma il suo corpo era ben proporzionato e aggraziato, simile a quello di una gazzella che saltella sulle sue sottili gambe abbronzate, aveva gli occhi a mandorla e di un azzurro-grigio acceso.
Iole si piantò di fronte a noi e affrontò in un duello visivo mia madre.
– Perché sei così scontrosa, sorella mia? È da tanto che non ci vediamo, in fondo, perché non rinfoderi i tuoi artigli e mi permetti di vedere per la prima volta la mia adorata nipotina?
L’altra socchiuse gli occhi con astio – Laura neanche ti conosce, Iole, perché non sei mai venuta a vedere tua nipote in maternità.
Quella arcuò le labbra rosse e lucide come una ciliegia – Ah, che peccato che io non abbia mai condiviso le gioie della gravidanza con te, ma sai, l’Ordine prima di tutto. – poi, qualcosa sul viso della sorella catturò la sua attenzione. – Ti trucchi, adesso? Misericordia, che fine a fatto quel maschiaccio dalla coda d’oro che da ragazzine ripudiava il trucco perché era una cosa da “gallinelle”?
Erica rimuginò in silenzio. – Perché sei tornata?
Subito la donna serrò gli occhi in un sorriso falso e lascivo, che lasciava intendere più di quanto avesse mai potuto dire, poi chinò lo sguardo su di me e immediatamente lasciò perdere tutto ciò he non fossi io.
Iole si sedette sui suoi tacchi a spillo e sporse il busto verso di me tenendo le braccia incrociate sotto i seni tondi, dunque mi scrutò curiosa e rise soave quando provai a sparire dietro la manica del cappotto di mamma.
Non conoscevo quella donna e non mi piaceva per niente, mi ricordava in qualche modo la tigre famelica di un documentario.
– Oh, sei timida, piccina? – il sorriso di Iole fu un ansimo di meraviglia – Che bambina meravigliosa! Ha  la stessa bocca di suo padre, carnosa e molle, ti viene voglia di strappargliela! E gli occhi, ah, li ha proprio rubati a lui; stesso cruccio melanconico e sensuale! Non è vero,Dante?
L’uomo alla finestra annuì con un sorriso sornione, analizzandomi all’interno dei suoi begli occhi castani e incantandomi come ogni volta, presa in quella gabbia dolce e soffocante delle sue orbite nere.
– Che sei venuta a fare qui Iole? – Erica ripropose la domanda con più impazienza.
La rossa continuò a fissarmi pensierosa, ma in verità i suoi pensieri erano rivolti altrove. –Sai, quando sono finalmente tornata in Italia dopo tutti quegli anni lontana da casa e dall’Ordine, alcuni dei nostri mi hanno riferito certe cose un po’ strane.
– Intendi che Laura non è stata iniziata? Sì, le voci sono vere.
Quelle parole pizzicarono le guance di Iole come di rabbia e subito dopo la vidi drizzarsi in piedi biasimevole e castigatrice, mentre Erica si preparò ad affrontarla con tutta la fredda razionalità che possedeva e che l’aveva spesso salvata da scontri inutili.
– Spero che tu stia scherzando, Erica. Non volevo credere ai pettegolezzi di salotto della Confraternita, ma allora, se ciò che dici è vero…ti rendi conto di quello che hai fatto? Hai allontanato la Confraternita, hai infranto il volere dell’Ordine!
– Tu non puoi sapere ciò che è accaduto il giorno della sua iniziazione. Ascolta, se in te è rimasto un briciolo di affetto, un ricordo del nostro legame di sangue, Iole, ascolta le mie ragioni…
– Non voglio sentirti! Apri le orecchie, Erica, non permetterò che Laura, mia nipote, faccia la tua stessa fine! Lei deciderà il suo Credo una volta per tutte, chiaro?
Erica trasalì d’ira e strinse dolorosamente i guanti intorno alla mia mano, ma non riuscì a fare altro se non tirare il respiro di una frase che, però, rimase nella sua gola.
– Credo che Erica voglia parlare con me di Laura in privato, Iole. – fu Dante, con tono calmo e fiducioso, a freddare i loro animi prima che la stanza crollasse nel caos di vecchi rancori e conflitti irrisolti.
A quel punto, dopo esser stare riprese benevolmente dal dottore, le due sorelle chinarono remissive il collo e rinunciarono a qualsiasi confronto, rimandando a quando si sarebbero riviste, magari quando il fato lo avrebbe voluto, o l’ostilità le avrebbe fatte cercare di nuovo.
– Bene. Non ho intenzione di discutere con una traditrice. – sibilò a denti stretti Iole, poi ritornò con la schiena e il volto fieramente diritto e sorpassò mia madre con un colpo di spalla.– Chiamami, se hai ancora bisogno di me, Dante.
La furia rossa sbatté la porta alle sue spalle, nell’ufficio calò un silenzio imbarazzante ed Erica cominciò a fissare l’uomo difronte a lei con un lieve risentimento.
– Non guardarmi così. – disse Dante mentre s’incamminava verso di noi, prendendomi tra le sue braccia tese, ed io mi ci infilai entusiasta.
Erica ci venne dietro con espressione contrariata – Potevi dirmelo che mia sorella era tornata.
Lui sospirò e spostò la poltrona di pelle nera con un piede, dunque mi fece accomodare dietro la sua postazione di lavoro e lasciò che prendessi a giocare con gli oggetti sparsi sulla superficie.
– Non mi aspettavo una sua visita. – ammise, arrotolando le maniche fin sopra il gomito e poggiando le mani sui braccioli ai lati – Sinceramente, non credevo che l’Ordine l’avrebbe richiamata così presto, ma diceva che voleva dare un’occhiata ai miei progressi.
– Ebbene?
Lui esitò, visibilmente frastornato.
– Che dire, i miei pazienti reagiscono male alle terapie. – cominciò, togliendosi gli occhiali per massaggiarsi le palpebre con le dita – Una ragazza ieri si è ammazzata. Era affetta da schizofrenia e il suo organismo ha rigettato le pillole. Non ho potuto aiutarla. Era…sfracellata. I resti erano ovunque. È stato uno strazio raccogliere i suoi organi, davvero.
La Templare osservò il dottore con sguardo compassionevole, più morbido di prima, dunque sospirò e si tolse i guanti per appoggiarli sulla scrivania, poco lontani da un anello d’oro con la croce riposto lì sopra quasi per caso.
– Mi dispiace.
Lui sorrise debolmente. – Sei molto bella, oggi, Erica. – osservò poi, percorrendo con disinvoltura le gambe di lei con gli occhi – Nuove scarpe?
Mia madre arrossì appena, ma non si fece incantare. – Non mi chiedi dei miei, di progressi?
– Stavo per farlo.
– Come no. – rise – Beh, non sei l’unico ad essere a un punto di stallo nelle ricerche. I valori hanno avviato un processo di omeostasi dall’ultima scarica e ho registrato solo un feedback negativo.
– Ma se avrai un feedback positivo, vorrà dire che ci siamo, no? – Dante sembrò risollevato e, con accresciuta speranza, mi carezzò la testa quasi per caso.
Erica osservò tesa quel suo gesto. – Sì, ma sta passando troppo tempo. E i progressi di Laura sono troppo, troppo lenti. Non possiamo fallire, Dante, lo capisci? Non importa ciò che vuole la Confraternita, Laura dipende da noi.
– Stiamo già rischiando molto facendo questa cosa, Erica. Ma non devi preoccuparti, arriveremo presto a una soluzione.
– Non fare promesse che non puoi mantenere.  
Dante tornò rigidamente composto dietro la poltrona di pelle, e con lentezza ripose gli occhiali sul dorso del naso diritto.
– Ero venuta da te, Dante. Ti avevo detto che la richiesta dell’Ordine di iniziare Laura così giovane, solo perché era mia figlia, solo perché era la figlia di una Maestra Templare, non era un valido pretesto per rubargli l’infanzia così precocemente. Tu mi dicesti che l’avresti portata via, lontano da loro e da me. E invece, è successo qualcosa di peggio.
– Sai cosa accadde quella notte di Natale, quando Laura avrebbe dovuto esser ri-battezzata. E non fu colpa mia.
A quel punto ci fu una breve pausa, una pausa in cui il volto di Erica era divenuto rosso, come se fosse sul punto di piangere, tuttavia non lo fece, perché ancora una volta la sua mente razionale soffocò ogni emozione.
Eppure, l’angoscia era divenuta tale in lei che non poté più nasconderlo, dunque si sbottonò in un lamento della sua paura più inconfessabile.
– Laura li vede Dante. Degli individui in banco, nella sua testa. Uno, in particolare, è ricorrente nelle sue visioni, lo so perché chiama il suo nome nel sonno. Laura vede gli Assassini. E Agata questo lo sa. Temo…che mia figlia sia in pericolo.
Riemersi da quel mondo onirico con il fiato spezzato e la fronte bagnata, ma il sudore si asciugò non appena venne a contatto con il clima rigido del deserto notturno.
Il fuoco bruciava a pochi metri dall’angolo ove mi ero appisolata e con il suo scoppiettio teneva illuminato tutto l’accampamento, il fianco mastodontico degli stalloni che dormivano e la schiena snella di Altaïr.
Era supino su di un fianco e sembrava dormire profondamente.
Cercai di staccarmi dalla contemplazione del suo bel volto addormentato, così innocente e puro nell’incoscienza del sonno, e provai, invece, a scorgere nell’orizzonte violaceo le mura di Damasco.
Mi chiesi cosa stesse facendo in quel momento Malik. Se dormisse, se fosse ancora vivo o se, più semplicemente, si fosse perso anche lui nell’osservazione della notte, magari mentre stringeva in mano la lettera che gli avevo lasciato alla porta prima di partire.
Chissà perché, ero sicura che l’avesse stracciata.

*  *  *
Il giorno in cui giungemmo nella città il sole era particolarmente caldo.
L’aria frizzava dei rumori del mercato e del vociare continuo ma monotono della gente nelle strade, che si ramificavano a perdita d’occhio dal mercato fino alla Grande Moschea.
Altaïr era distratto, continuava a cambiare direzione, ma forse era solo una scusa per dare un’occhiata in giro prima di recarsi nella sede locale degli Assassini.
La cosa m’infastidiva, perché il chiacchiericcio dei passanti e gli odori contrastanti nelle strade, di pane o piscio che fosse, non facevano altro che aggravare il mio mal di testa.
Più o a meno, ne soffrivo da quando ebbi la visione dello spettro di Kadar, qualche settimana prima.
– Come va la testa? – bisbigliò Altaïr mentre mi affiancava prima di svoltare un angolo.
Lo guardai di soppiatto – Bene. Grazie per…quella roba che mi hai dato prima. Cos’era, menta? O droga? Ti prego, non dirmi che era droga.
Lui mi fissò da sotto il cappuccio. – Ho letto in qualche libro che quell’intruglio d’erba giova a voi donne in quel periodo del mese, quindi ho pensato che ti avrebbe fatto star meglio.
– Oh. Oh, ecco, non è uno di quei giorni. Ma… credo che debba graziarti, giusto?
– Fa un po’ come vuoi. Stammi dietro, adesso ci muoveremo sui tetti per evitare le pattuglie.
Improvvisamente, Altaïr prese a correre tra la folla e, ricavatosi un corridoio tra la gente che si scostava terrorizzata, si lanciò in una corsa acrobatica sui tetti che lo portò in pochi secondi ad avere un enorme vantaggio su di me.
Ovviamente quel suo gesto accese in me lo spirito di competizione, dunque serrai i pugni e li mossi in armonia con l’ampio movimento delle gambe, che mi portarono dopo poco su di un cornicione da dove potei poi raggiungere il tetto.
Altaïr mi stava aspettando lì, a braccia conserte, e con aria rigorosa mi guardò risalire goffa.
Poi, quando lo ebbi raggiunto, m’indicò con il dito un punto invisibile nell’orizzonte della città.
– Lo vedi quell’edificio in fondo, nascosto tra la casa in costruzione e il fabbro?
Aguzzai la vista – No.
– Fa nulla. Cerca soltanto di non rimanere troppo indietro, intesi?
– Aspetta, forse ho visto l’edificio…
Ma, ormai, parlavo all’aria.
Altaïr aveva, infatti, ripreso a correre verso il bordo del tetto, sfruttando la velocità e l’equilibrio datogli dal movimento delle braccia per saltare, in un armonioso calore dei muscoli che giocavano nell’aria, dunque  balzò.
Lo vidi scivolare nel vento, sfruttare il suo corpo come un rapace a caccia, preparare le gambe all’impatto e rotolare sul tetto successivo con successo, per poi rimettersi in piedi senza il benché minimo affanno.
Rimasi scombussolata quando mi resi conto che vederlo mi aveva eccitato, in qualche modo.
– Beh? – mi richiamò con un fischio – Intendi star lì tutta la giornata?
Deglutii un boccone a vuoto mentre mi sporgevo sulla strada sottostante, ritraendomi proprio quando una folata di puzzo proveniente dal vicolo si diffuse sotto la cappa.
– Credevo che fossi tu il Novizio, qui. Perché mi stai mettendo alla prova?
– Vedila così, Laura: questo è il tuo primo inquadramento come Assassino. Sai arrampicarti abbastanza bene e sei discreta nella velocità e sufficiente nella tecnica, tuttavia, non basta. A volte, bisogna prendere la strada più pericolosa ma anche la migliore per scampare rapidamente da un inseguimento, ragion per cui ci vuole tecnica e…sì, una certa dose di incoscienza. Ma nessuno ha mai detto che questo fosse un lavoro facile.
– Lo consideri un lavoro, ammazzare le persone? Che filantropo.
– Vuoi saltare o no?
– Certo che no! È troppo lontano, mi schianterò nel vicolo di sicuro!
Lui roteò la testa altrove, assumendo un’espressione quasi arrabbiata – Quanto sei lagnosa. Fa un po’ come ti pare, ci vediamo lì. Sempre se saprai arrivarci. – disse e senza indugi si dileguò sul tetto sottostante.  
Quando vidi la sua figura allontanarsi sempre di più provai una gran frustrazione e una certa invidia, ma poi ricordai che sarebbe stato difficile ritrovare la via nelle viscere di Damasco qualora avessi perso la mia unica guida, e così ripresi subito a correre.
Percorsi una via più nelle mie corde, una serie di tetti addossati e collegati da piattaforme sospese tra un vicolo e l’altro per permettere alle sentinelle di passeggiarci sopra durante le ronde, passando di lì proprio nel cambio di turno che mi permise di procedere senza intoppi.
Altaïr, invece, preferì spostarsi per un percorso più veloce e articolato.
S’issava sulla sporgenza di una finestra e si dava la spinta con i piedi per scattare al muro laterale, aggrappandosi saldamente con le dita un secondo prima di stirare la schiena in alto e salire tra le cupole di un complesso edificio azzurro, poi ripeteva i gesti con rituale precisione su ogni edificio.
Era talmente agile, così sicuro delle capacità del suo corpo, che quasi lo invidiai.
Mentre io ero pateticamente costretta a seguire il lineare percorso sui tetti delle case nascoste dall’ombra delle cupole, l’Assassino balzava lesto su di esse adattando perfettamente i piedi alla loro forma irregolare.
Da bambina mi arrampicavo sugli alberi del giardino, sull’acacia e il pesco fiorito, e rimanevo appostata sul tetto difronte alla mia finestra come un gatto in osservazione del sentiero sdruccioloso, in attesa di vedere in lontananza la macchina metallizzata di mia madre.
Altaïr, invece, si era addestrato una vita intera, aveva consumato le sue ossa negli addestramenti e affondato i denti nel suo stesso sangue quando cadeva da altezze vertiginose, tutto per poter poi, una volta divenuto uomo, assicurarsi la sopravvivenza sui tetti della Terra Santa.
Una vita da fuggitivo non poteva di certo competere con quella oziosa di un gatto sul davanzale di casa.
Poi, dopo quasi tre isolati di corsa, Altaïr si fermò in cima al tetto di una chiesa bianca, a tre metri dal cornicione dove mi ero fermata a riprendere fiato.
Mentre ero piegata in due dalla fatica cui avevo sottoposto i miei polmoni, alzai lo sguardo nella sua direzione e, nonostante la lontananza, vidi chiaramente la sua bocca incresparsi in un sorriso.
Un sorriso di sfida.
Ed io ero così eccitata che accettai la provocazione senza indecisione.
Lui riprese a correre, questa volta per balzare su un edificio a cinque metri dall’angolo più prossimo della chiesa, ed io feci lo stesso.
Andavamo all’unisono, a dividerci solo qualche metro di altezza.
Avvistai difronte a me la fine del cornicione, il prossimo tetto a quattro metri da lì.
Per un momento presi in considerazione la possibilità di fermarmi, ma sapevo che ormai avevo preso troppo velocità e che non sarei riuscita a bloccare la corsa prima della fine del percorso.
Dovevo continuare, non potevo fare altrimenti.
A pochi metri dal balzo, cercai con lo sguardo la figura dell’Assassino che, nel frattempo, aveva preparato il suo corpo a saltare.
Perfetto, lo avrei imitato.
Giunse al capolinea.
Altaïr si diede la spinta più forte che le sue possenti gambe potessero fornirgli, il corpo rimase perfettamente stabile nel breve volo per sfruttare l’impulso del balzo, poi cominciò ad aprirsi come un’aquila che si scaglia sulla sua preda, e in un attimo ruzzolò sul tetto, sano e salvo.
Ma non esultai troppo per il suo successo, perché adesso toccava a me evitare di schiantarmi contro il muro dell’edificio successivo.
I piedi frenarono di poco sull’orlo del tetto, poi saltai.
Mai nella mia vita ebbi così tanta paura come in quel momento, perché, mentre sentivo il corpo spostarsi in avanti, quasi per volere di un’entità sovrannaturale, capii che non mi sarei avvicinata abbastanza al cornicione da afferrarlo.
Tesi ugualmente la mano in avanti ma, come previsto, le dita andarono a vuoto.
Un grido risalì direttamente dalla mia gola ma per fortuna non uscì mai, perché la presa salda di Altaïr mi afferrò per il polso prima che la gravità mi reclamasse al suolo.
Un secondo dopo, ero tra le braccia dell’Assassino, con il naso schiacciato contro il suo petto e il corpo intero che tremava come una foglia al vento.
Avvertivo le membra vibrare e bruciare, il sangue pompava adrenalina fredda e calda allo stesso tempo, eppure continuavo a sentire i piedi sospesi nel vuoto.
Avevo saltato a un’altezza di quindici metri ed ero atterrata su un tetto lontano quasi cinque.
Potevo morire, ma non era successo.
Così, mentre Altaïr aveva cominciato a tessere elogi un po’ mascherati sul mio coraggio un sconsiderato, io tremavo in balia di un’onda di paura ed eccitazione sconvolgente.
Perfino adesso, mentre lui mi lasciava andare con espressione velatamente orgogliosa e palesemente severa, perché d’ora in poi avrei dovuto fare di meglio se volevo sopravvivere in quella città, ero pervasa da un’estasi che mi portava a sorridere e a confondere sempre più la giovane Aquila.

*  *  *

Non appena mi calai nel cuore del covo, nel vestibolo occupato dall’ombra di piante lussureggianti e stendardi dell’Ordine, distinsi chiaramente tra lo zampillio fresco della fontana il bisbiglio di due uomini che parlottavano sottovoce.
Io ero seduta sotto l’entrata dal tetto, su un tappeto rosso dai motivi arabeschi verdi e viola.
M’infastidiva dover tenere il cappuccio sulla testa perché lì dentro l’aria era quasi irrespirabile e appestata dall’odore acre d’incenso misto a colori a tempera, tuttavia Altaïr mi aveva chiesto di attender fuori mentre lui mi annunciava al rafiq ed io avevo deciso di dargli ascolto, per una volta.
Erano lì dentro a discutere da un po’, oramai.
Stanca di aspettare, spinsi i palmi sulle ginocchia e mi alzai dal tappeto, dirigendomi zitta zitta verso l’entrata dell’ufficio del rafiq.
Mi affacciai poco ma sufficientemente per inquadrare la scena.
La stanza era piccola e ingombrata per lo più da un numero considerevole, sennonché esagerato, di vasi gretti, che erano perlopiù accatastati in una piramide sotto la finestra, mentre altri che erano stati decorati erano posizionati lungo un muro pulito.
Feci spaziare lo sguardo e incappai subito nella schiena possente di Altaïr, poi nel viso di in un uomo tutto ripiegato dietro al bancone di legno scuro che era stato ingombrato da una serie di oggetti utili per la pittura e la decorazione vascolare.
Il burocrate della filiale assassina era un individuo di mezza età, dalla carnagione abbastanza chiara e con una notevole massa di capelli brizzolati che si univano in una cornice con la barba quadrata.
Sembrava contrariato da ciò che stava dicendo l’Assassino, il quale cercava di mantenere comunque una posizione autorevole mentre lo pregava di lasciarmi almeno la possibilità di presentarmi come figlia della Confraternita, ma lui continuava a rifiutarsi.
– Non è che io non voglia conoscere la nuova protetta del Gran Maestro, Altaïr. – cominciò pacato l’uomo – Ma sai, le voci corrono davvero, davvero in fretta nella Terrasanta. Un Iniziato è venuto qua e mi ha riferito le ultime su di te.
Il ragazzo s’irrigidì un po’ – Ebbene?
Quello appuntò con il pennello una rifinitura sul collo del vaso – Suvvia, Altaïr, rinfoderiamo gli artigli! Insomma, se Al Mualim ha deciso di darti un’altra possibilità, ebbene, allora ti sarà data. Ma per quanto riguarda la ragazza, scordatelo.
– Lei vuole solo presentarsi! – esclamò Altaïr, puntando i palmi sul bancone e sporgendosi appena verso l’uomo mentre aggiungeva – Rafiq, Laura è la figlia di Faheem Al-Sayf , figlia di un Maestro Assassino. Ha diritto di nascita alla protezione della Confraternita e, giacché Al Mualim ha visto in lei il talento dei suoi fratelli, ha deciso di adottarla come sua protetta…
Ma quello lo freddò con una stoccata di pennello all’aira – Conosco la sua storia e per il solo motivo che è figlia di Faheem cercherò di non essere troppo brusco. Ma ciò non vuol dire che le voci di alcuni di noi non siano vere. Ora, il tuo istinto non ti ha mai mentito, vero, Altaïr?
Quello si ritrasse, improvvisamente pallido. – Sì.
– E dunque, dimmi, fratello: quella donna è o non è una Templare?
– No. – la risposta fu repentina.
Sia io che il rafiq ci trovammo un po’ confusi, parecchio sorpresi e scettici, eppure sentii nel mio stomaco una strana sensazione di sollievo che mi portò ad abbandonarmi di schiena contro il muro del corridoio. Mi aveva protetta.
– Oh…
– Cosa?
– Non mi ero accorto del tuo sguardo, Novizio.
– E cosa avrebbe?
– Nulla, nulla! Suvvia, ragazzo mio, fa' entrare questa fanciulla! La voglio vedere!  
Ci fu un momento di silenzio, poi dei passi – Cambi idea come niente, eh, rafiq…
Capii che Altaïr si stesse avvicinando alla porta ma feci in tempo solo a staccare la schiena dal muro, perché il suo volto sotto la cappa stretta si affacciò per prendermi in castagna prima che tornassi di corsa sul tappeto.
Tirai indietro la testa senza staccare gli occhi dai suoi, che mi fissavano atoni, ma, non appena provai a giustificarmi, lui mi troncò di netto.
– Vieni, piccola ficcanaso. – e mi fece segno con l’indice di seguirlo dentro.
Per quanto mi sentissi terribilmente imbarazzata, alla fine, mi grattai nervosamente la fronte sotto il cappuccio ed entrai nel bureau.
L’uomo era lì, con i palmi stesi sul bancone e un’espressione stranamente sorridente, dunque mi accolse facendo un ampio arco con il braccio, indicando tutto il locale.
– Benvenuta, benvenuta, uhm… – rise imbarazzato – ecco, non saprei come definirti, mia cara! In ogni caso, sono davvero, davvero lieto di averti qui!
Altaïr fece un grugnito di dissenso, ma sia io sia l’uomo lo ignorammo.
– Salute e pace, rafiq. – ricordai le buone maniere da Assassino un secondo prima di avanzare verso il bancone.
– Oh, che bella pronuncia! – mi squadrò impudente dalla testa ai piedi – Ma, suvvia, cosa sono queste formalità, figliola? Perché non ti metti a tuo agio, perché porti ancora la cappa da Novizio? Qui sei al sicuro, sei a casa!
– Accetto con gioia la tua ospitalità. Ma sto bene così.
– Bene, bene. E dimmi, come sta tuo fratello, Malik?
– Se la cava.
– Capisco. Certo, non dev’esser stato facile per te far fronte a questa catastrofe. – poi guardò di soppiatto Altaïr, continuando – Ma tuo padre, Faheem, era un mio caro amico e posso dire che i suoi figli hanno ereditato la sua tempra focosa e la resistenza. In oltre, direi anche che tu hai dimostrato magnificamente il tuo retaggio. Tutti ormai conoscono la parabola della tua prima e più eclatante missione come infiltrata al Tempio, di cui contributo, c’è da dire, ha piegato il peso della bilancia a favore dell’Ordine, sebbene l’avventatezza di qualcuno.
Si bloccò, rivolgendo un’occhiata fuggevole ad Altaïr, che rimase stranamente muto, in un titanico sforzo della sua volontà di non ricadere di nuovo nel suo peccato di superbia, e ne rimase impressionato.
– In oltre, vedo che riesci perfettamente a tenere per i genitali il tuo Novizio. – aggiunse malevolo il burocrate.
– No, non direi. – risposi invece – Non c’è n’è bisogno.  
Il rafiq alzò un sopracciglio con aria scettica, poi si si voltò e cominciò a rovistare dagli scaffali della libreria, alla ricerca di una lettera, un documento, o un qualche appunto messo da parte per il nostro arrivo.
Poi, senza alcun preavviso o pretesto, riprese a parlare. – Sai, Laura, l’Ordine è importante per noi, nessuno escluso. La Causa è la nostra vita. Ovviamente, il tuo mentore ti avrà spiegato in cosa consiste la nostra Causa. – mi spiò da sopra una spalla – O no?
Intuii al volo che il suo era scetticismo e decisi di provocarlo sdegno un po’.
– Uccidere i Templari. – risposi asciutta, sapendo perfettamente che in questo modo avevo ridotto all’osso l’articolato codice d’onore della Confraternita.
Il rafiq si voltò con una pergamena in mano, sorridendo teso – In linea di massima, è così. Bada però, che non uccidiamo i Templari per inutili questioni sociali o religiose, ma perché il loro modo di agire opprime la libertà altrui. Loro predicano pace, ordine e giustizia, ma per farlo versano sangue e ribaltano le bancarelle delle città. Noi abbiamo provato a collaborare, davvero, ma le loro condizioni di resa avrebbero ridotto in schiavitù la nostra gente, e non solo loro, ma tutti i popoli della terra. Quindi, abbiamo deciso di combattere, per la nostra libertà e per quella di tutte le genti. Comunque, i Templari non sono gli unici nemici che combattiamo, giovane Novizia.
Lo guardai in silenzio mentre srotolava la pergamena e ne fermava le estremità sotto due pesi rettangolari, rivelando una serie di appunti ricavati dalle informazioni delle sue spie in città.
Poi, alzai gli occhi di poco e incappai all’istante nei tizzoni roventi dei suoi bulbi oculari.
– Peggiore di un Templare, mia cara, c’è solo un traditore. E tu non sei una traditrice, vero, figlia di Faheem Al-Sayf?
Rimasi incastrata in un rigido silenzio, il cervello era entrato in confusione.
Ma poi, qualcosa mi sfiorò il palmo socchiuso della mano sinistra e un calore improvviso allentò i miei nervi fino a distenderli completamente; le dita di Altaïr.
Voleva che mi calmassi, che concludessi quella discussione con la stessa diplomazia che avevo mostrato fino a quel punto, perché lui aveva assistito in disparte proprio per questo, perché sembravo insolitamente sicura di ciò che dovevo dire, ed io decisi di non deluderlo.
Così, proprio mentre le sue dita si allontanavano dal mio palmo, presi un bel respiro e dissi – Mio caro rafiq, di tante cose posso esser accusata, ma di tradimento, oh, quello mai.

*  *  *

Il rafiq ci disse che Tamir era un trafficante molto famoso del mercato nero e che ultimamente stava creando noie con i suoi commerci, dunque ci indicò come prima tappa per le nostre ricerche il Souk al-Silaah.
Detto questo, ci accordò il permesso di ribaltare la città per cercare informazioni su Templare.
Chiaramente, poiché lo scopo di quella missione era rieducare Altaïr nella Confraternita, doveva procurarsi le informazioni da solo ed io, essendo la sua Maestra, non potevo favorirlo in alcun modo.
Lui, però, non pensò per un solo istante a una scorciatoia, né fu innervosito dal dover svolgere il lavoro sporco di un Novizio, anzi, cominciò la ricerca quasi entusiasta.
Partimmo dal Souk Al- Silaah, come suggeritoci dal burocrate in nero, e subito dovemmo fare i conti con la grandiosità degli spazi che s’intromettevano tra noi e le ricerche.
L’Aquila sfrecciava da una zona all’altra del souk come se quello fosse il suo habitat e lo scorrere della gente tra le bancarelle le correnti in cui dispiegava le sue lunghe penne lucide; io, invece, sembravo più un piccione che tubava sgraziato tra uno spintone e l’altro del passante di turno.
A un certo punto, quando oramai avevo perso le tracce dell’Assassino, passò nella stradina un tizio con il suo carro e m’investì il piede destro, facendomi sputare veleno e insulti in mezzo alla via abbastanza da uscire dall’anonimato.
Subito cercai con fare impacciato un angolo dove strisciare a nascondermi, quando fui incuriosita da una voce concitata al centro di una cerchia di persone di fronte alla chiesa e decisi di avvicinarmi un po’.
Sbirciai tra la folla, credendo che Altaïr fosse già nascosto lì in mezzo, ma non lo vidi.
Comunque, il fare accorato con cui quel predicatore parlava senza sosta, sudando e riprendendo respiro come un dannato mentre stringeva la mano al petto e con i piedi si alzava dalla cassetta su cui era salito, mi fece pensare che dare un’occhiata non avrebbe fatto di certo male.
Il mio zelo venne ripagato, perché il predicatore stava parlando proprio del nostro bersaglio, Tamir, che veniva apostrofato quasi come un santone del commercio che avrebbe portato prosperità e ricchezza per la città.
Poi, quand’ebbe finito il suo encomio di quasi quindici minuti, l’uomo scese dalla cassa e cercò velocemente di eclissarsi tra la folla, ignaro, tuttavia, che un predatore bianco gli fosse dietro.
Lo seguii fino alla svolta di un vicolo, entrai nella stradina e cercai di allungare il passo, ma lui mi aveva già sentito arrivare.
Feci per stendere la mano sulla sua spalla, con l’intenzione di parlargli civilmente, ma fui immediatamente scaraventata contro il muro dal suo gomito.
Mi piegai in vanti con le scapole curvate per il dolore, alzai gli occhi annebbiati sull’uomo e lo vidi mentre fuggiva verso la strada principale.
Lo inseguii furiosa, lui gettò un’occhiata da sopra una spalla ma ebbe il tempo di schivarmi quando allungai le braccia verso di lui e mi spinsi in avanti, travolgendolo con tutto il mio peso e facendolo sdraiare tra la sabbia.
Con il fiato corto, spinsi il ginocchio contro la sua testa e subito quello cominciò a urlare e ad agitarsi finché riuscì a liberare un braccio, dunque mi sferrò un pugno al fianco e, approfittando della mia debolezza, mi gettò di lato.
Con il cuore in gola, il fuggitivo si diresse verso l’uscita del vicolo, lasciandomi a terra mentre lo guardavo dileguarsi con l’amaro sapore della sconfitta in bocca, almeno finché la testa mi ricordò del pugnale da lancio nella fodera.
Così mi misi faticosamente in piedi e con le dita sfilai l’arma dall’elsa.
Pochi secondi e l’uomo sarebbe sparito tra la folla.
Compressi il respiro nei polmoni, bloccai la tremarella del braccio e contai.
Uno. Due. Tre!
Il fendente tagliò l’aria in un secondo, infilzandosi nella natica destra dell’uomo, che strillò.
Quello provò a zoppicare fino alla fine della stradina, ma dovevo avergli colpito un nervo perché poco dopo non riuscì più a continuare e, digrignato i denti gialli, si gettò sfinito al suolo.  
Beh, per lo meno lo avevo fermato.
Quando raggiunsi il fuggiasco, quello stava piagnucolando con le dita aperte attorno alla lama conficcata nella sua natica, ma non appena provava ad estrarre l’arma il dolore gli costringeva di nuovo la guancia al suolo.
Lo fissai per un istante e, dopo aver pensato alle domande, cominciai l’interrogatorio.
– Poco fa, stavi parlando di un certo mercante. Scommetto che ti ha pagato, per dire quelle cose.
Il banditore grugnì forte, affondando il naso tra le pieghe della manica.
– Tamir. – insistetti io – Dove lo trovo?
– Fottuto Assassino di merda, vai a farti inculare da un cane!
– Quanti bei fiorellini escono da quella tua bocca. Ora, te lo ripeterò un’ultima volta…
– Lascialo a me, Laura. – Altaïr era appena entrato nella stradina e ora si stava dirigendo sicuro verso di noi, con un mezzo sorriso celato dall’ombra del cappuccio. – Sei troppo morbida per condurre un interrogatorio con un villano del genere. – aggiunse poi, bloccando gli stivali a pochi centimetri dal volto rabbioso del predicatore, che lo fissava già consapevole di ciò che sarebbe successo.
Sinceramente, il suo intervento mi aveva cavato via da un bell’impiccio, pertanto gli cedetti il posto con un’alzata di mani e uscii dal vicolo, attendendo vicino a una panchina.
Passarono quasi quindici minuti, dopo di che vidi il mio confratello tornare con la lama sporca di sangue e l’espressione leggermente più soddisfatta di prima.
– Vedo che hai ottenuto le informazioni che volevi. – lamentai, seguendolo fuori dalla stradina.
– Non iniziare con questa storia. Mi sembri tuo fratello.
Io feci una smorfia.–Mentre io giocavo al “gatto e topo” con quell’uomo, tu dov’eri? – chiesi poi.
– Esattamente dietro di te. Avevo adocchiato quel banditore già da un po’, ma poi ti ho visto tra la folla ed eri così concentrata che mi pareva un peccato soffiarti la preda. Dunque ho seguito la scena dal tetto, lasciandoti libera di giocare con il tuo “topo” come meglio credessi. E ho fatto bene. Eri molto divertente da vedere, Laura.
– Ah. Felice che ti sia piaciuto lo spettacolino, allora.

*  *  *

Altaïr riferì quanto scoperto al mercato al rafiq, il quale giudicò le informazioni sufficienti e ci consegnò una piuma, il segno di Al Mualim che ci dava l’autorizzazione per uccidere il nostro bersaglio.
Altaïr aveva pianificato l’attacco a Tamir durante il grande raduno al souk che si sarebbe tenuto tra un’ora, dunque tornammo sul luogo e ci appostammo sopra le cupole blu di un edificio che dava sulla piazza inondata di bancarelle.
Facemmo passare il primo quarto d’ora in silenzio, l’uno in piedi e con la schiena poggiata sulla linea curva di una cupola, l’altra seduta scompostamente all’ombra con il viso accaldato e una sete pruriginosa.
Il sole batteva accecante sul fianco dell’Assassino, eppure lui sembrava non risentire affatto delle temperature elevate del pomeriggio, anzi, quasi nessuno in piazza pareva provato.  
Ma per me, era una tortura.
– Stavo pensando… – la voce di Altaïr fu roca, dunque la schiari subito dopo.
– Cosa?
Lui indugiò, poi preferì rimanere in silenzio. – Niente.
Sbuffai – Bene…
Tornammo entrambi a guardare l’ondeggiare monotono della gente, che passeggiava senza neanche alzare lo sguardo in alto, come se nulla vi fosse aldilà dei vermi e del lerciume che vedevano i loro piedi, come se il cielo neanche esistesse, e provai una leggera pena.
– Perché hai detto al rafiq che non sono una Templare? – chiesi poi.
Lui piegò un po’ la testa, come per pensare, e disse – Perché mai avrei dovuto dire il contrario?
– Sembri sicuro.
– Della tua sincerità? No, non lo sono. Ma sono sicuro di ciò che vedono i miei occhi, perché, come forse ti avrò già detto, non sbagliano mai.
Tirai le ginocchia al petto, sospirando – E cosa vedono quando mi guardano, i tuoi occhi?
Lui rifletté. – Non ne sono ancora sicuri. Vedono una bella, anzi, una bellissima ragazza, con un’insolita ritualizzazione dell’igiene personale. E una promettente guerriera. Ma anche una Novizia indolente all’autorità. Diciamo che li confondi. – si morse il labbro inferiore, tornando a guardarmi intensamente – E, alla fine, convengono che ciò che ho davanti non è una ragazza come le altre, come quelle che passeggiano a capo coperto nel souk. No. Tu sei diversa. A volte, parli come una visionaria, sei emancipata come nessuna femmina che sia mai entrata nella mia vita, hai la stoltezza e l’ardire di tenere testa agli uomini, come se anche tu avessi il cazzo, e anche bello grosso. E mi diverte. Ma, allo stesso tempo, mi fa pensare.
Io lo fissai. – E a cosa pensi, Altaïr?
Lui socchiuse la bocca, l’alito fuoriuscì ma la sua risposta venne mozzata in due dal un grido gelido che risalì dal mercato e paralizzò i nostri corpi, improvvisamente confusi e arrabbiati mentre ci rendevamo conto che la piazza era appena crollata nel caos sotto i nostri occhi.
Ci sentimmo due idioti, ma non tardammo a individuare il motivo del disordine e subito rimanemmo scioccati da ciò che scorgemmo al centro del mercato.
Un uomo con turbante vistoso, abiti pregiati e grossi baffi neri stava stringendo la spalla di un poveraccio cui petto era stato trafitto più e più volte dalla sua lama, e ora fissava furioso la sua vittima, che era straordinariamente viva, mentre a mani congiunte pregava pietà.
Poco più in là, le due guardie del corpo del baffone osservavano la scena con turbamento ma, allo stesso tempo, impotenti.
Improvvisamente, proprio quando la folla sembrava atterrita, il carnefice cominciò a strillare e a sbraitare cose senza senso sull’uomo morente e diede un altro colpo, questa volta più profondo, che provocò l’orrore di tutti i presenti.
Sentii un senso tremendo d’ingiustizia gelarmi l’estremità del corpo e subito avvertii l’istinto di intervenire in suo aiuto.
Ma, non appena provai a calarmi dal tetto, fui bloccata da Altaïr.
– Che credi di fare?
– Dobbiamo aiutarlo!
– No, non dobbiamo. Attenderemo che si sarà stancato con quell’uomo, poi lo avvicineremo nella confusione del mercato.
Inorridii – Ma che razza di mostro sei, Altaïr?
– Laura, non puoi aiutarlo.
– Non rimarrò qui, a vedere un uomo che viene massacrato da un pazzo mentre tutti gli altri stanno a guardare!  
Dunque scrollai la sua mano dalla spalla e scivolai velocemente giù per la scala al lato dell’edificio, atterrando con una storta nella stradina sottostante proprio mentre Altaïr mi ordinava perentorio di tornare immediatamente da lui.
Lo ignorai e procedetti ugualmente verso la piazza.
M’inserii nel primo gruppo di persone in cui m’imbattei e una donna parve insospettirsi quando mi vide lì, ma alla fine pensò che fossi solo un ragazzino interessato al massacro di quel poveretto e tornò a guardare la scena.
L’uomo stava cercando disperatamente di guadagnare minuti supplicando il suo carnefice di dargli più tempo per accontentare la sua richiesta, ma sapevo che più aspettavo più le possibilità di sopravvivere per quell’uomo diminuivano.
Uccidere Tamir era la scelta più ovvia.
Ma io non lo avrei fatto. Non avrei ucciso un altro uomo, non di nuovo.
Per fortuna, la risposta ai miei problemi etici sopraggiunge sotto forma di un oggettino in terracotta di quelli in vendita nelle bancarelle attorno, che arrivò a tutta velocità tra la folla e si schiantò contro la nuca di una delle due guardie.
Il colpo fu forte e mandò in frantumi l’oggetto, riuscendo a sbriciolare la tensione dell’esecuzione brutale di Tamir, che bloccò il colpo fatale a pochi centimetri dalla gola dell’uomo.
Non riuscii a credere ai miei occhi quando scorsi accanto a una bancarella il cappuccio bianco di Altaïr, che ora aveva preso tra le dita scure un altro oggetto di quelli esposti e lo faceva saltellare con aria di sfida.
Immediatamente, il mercante allentò la presa sul poveraccio e quello ricadde a terra con un lamento strozzato, trovando subito aiuto da una donna coraggiosa che lo portò al sicuro, tra la folla.
Il mercato era ammutolito, tutti guardavano il giovane in bianco che era appena intervenuto, condannandosi con le sue stesse mani.
La guardia colpita si portò una mano alla nuca e , vedendo il sangue fuoriuscire, non esitò a dirigersi verso l’Assassino con i pugni all’aria e gli occhi che fiammeggiavano d’ira, ignaro di esser appena finito nella sua trappola.  
Quando la preda fu abbastanza vicina, Altaïr gettò l’oggetto in aria e si piegò in avanti, sicuro che l’omaccione avrebbe d’istinto alzato lo sguardo, come di fatto accadde, guadagnando così il tempo sufficiente per colpirgli il mento con un montante e metterlo fuori uso in un lampo.
Un sorriso vittorioso solcò il suo volto, poi roteò gli occhi gialli verso l’alto e tese la mano appena in tempo per riacciuffare, in una palese dimostrazione di virtuosismo, l’oggetto.
Subito ci fu qualche spettatore coraggioso che incitò l’inattesa ribellione con applausi e fischi e questo accese il volto dell’altra guardia e la collera spropositata di Tamir.
– Che pagliacciata è mai questa? – esclamò stridulo il Templare, agitando il pugnale tinto di rosso come se fosse sul punto di gettarsi nella mischia lui stesso, ma alla fine preferì delegare tale rischio alla guardia. –E tu, che diavolo stai aspettando? Voglio le palle di quel dannato Assassino in un sacchetto, muoviti, o avrò le tue! E io non parlo tanto per dire!
La guardia non parve molto convinta, tuttavia la possibilità d’incorrere nell’ira del suo superiore gli parve peggiore che morire per mano di un Assassino e così attaccò per primo.
Mentre i due intrapresero una lotta all’ultimo fendente, io capii che era l’occasione giusta per atterrare Tamir e stordirlo con una semplice ginocchiata alla tempia.
Poi, finalmente, lo spietato mercante abbassò leggermente la guardia; era il momento!
Trattenni il respiro nel torace, allungai velocemente le mani verso il suo braccio per storcerlo esternamente e costringerlo a inginocchiarsi, ma il rumore della sabbia sotto la suola mi tradì.
I suoi occhi piroettarono verso di me, trafiggendomi letali, e la paura inibì la mia prontezza a reagire.
Cercai pietosamente di brandire la spada al fianco, ma non fui abbastanza veloce.
Zack.




Angolo autrice:
 
Mi scuso enormemente per il ritardo, ma ho avuto così tanto da fare che a malapena ho avuto il tempo di respirare (= o =). Comunque, spero di non avervi fatto attendere troppo e, soprattutto, di esser stata all’altezza delle aspettative. Ho cercato di riportare la prima missione di Altaïr-Novizio con quanta più precisione potevo, ma del resto dovevo riportare qualche modifica per rendere partecipe Laura. Ho inserito un altro flashback, o ricordo se preferite, per cominciare a fare un po’ di chiarezza sul passato della nostra protagonista; alquanto pare, nuovi pezzi del puzzle si aggiungono, mischiando, dissimulando, componendo un quadro sempre più vasto e confuso, ma presto verrà la resa dei conti per tutto. Sarà capace la nostra Laura di tenere il polso fermo?
Baci, Lusivia.   
   
 
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