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Autore: Bolide Everdeen    25/06/2015    2 recensioni
[Storia ispirata alla fan fiction interattiva "500".
Distretto 9, Athena Rainway.
Nda: la storia si svolge a Capitol City.]
Anche le sue lacrime tentarono di suonare il loro brano, scivolando e raggiungendo i tasti. Lei le asciugò con le mani, facendo attenzione a lasciare il pianoforte nel suo silenzio. Perché avrebbe ritenuto un sacrilegio emettere un suono per sbaglio. Non avrebbe dovuto piangere, per lasciare nella pace eterna lo strumento che l'aveva capita, apprezzata, supportata.
Per recuperare le sue colpe, si promise di non piangere mai più per suo padre e per il suo passato. A cosa sarebbe servito rendere malinconico tutto ciò che era stato un sogno sulla terraferma?

[...]
La strada procedeva, e la trascinava verso un nuovo destino, verso una nuova storia, verso una nuova se stessa.
Avrebbe voluta frenarla. Ma la vendetta sarebbe sempre stata più veloce.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '500 - Behind the scenes'
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Capitol City era zitta fuori dalla finestra. Forse attendeva solamente che la ragazza iniziasse a suonare. E, perciò, lei obbedì agli ordini. E le sue mani scivolarono sulla nota sbagliata.

Con calma, Athena. Un'altra volta.

Le dita della ragazza presero a ticchettare con furore ancora crescente rispetto alla volta precedente i tasti del pianoforte dinnanzi a lei. Non sapeva cosa pensare a riguardo dello strumento, in quel momento. Le sue emozioni erano talmente confuse che non riusciva a comprendere se lo stesse odiando o pregando di emettere i suoi suoni nel modo più grazioso e giusto possibile per quelle corde. Spesso suonare la rilassava, ma in quel momento persino il suo piano era divenuto vulnerabile. In realtà, erano le sue mani la fonte del nervosismo di quella musica. Quando caddero inerti ed impotenti per l'ennesima volta sulla tastiera, si accorse che la colpa era solamente sua.

Trasse un profondo respiro, come se l'aria potesse essere ghiaccio per i suoi pensieri. Cosa era accaduto in quei giorni? Così tante cose, così tanti cambiamenti. I trentesimi Hunger Games, e il disastro provocato da un tributo dichiaratosi parte dei ribelli. Gli Strateghi convocati in una stanza per una riunione straordinaria prevista dal presidente, e la porta chiusa dietro di loro per non essere più aperta. Suo padre... suo padre era stato ucciso con loro, con del gas asfissiante. Un'altra fitta di insicurezza le avvolse l'intero colpo e fece sobbalzare le mani sul pianoforte, producendo un suono lugubre e confusionario. La vita di Abraham Rainway si era spenta in questo modo tragico, senza neanche porle un saluto, e lei non riusciva ad accettare quel furto di persona.

C'erano così tante memorie riguardanti suo padre, nella sua mente. E lei si tuffava in ciascuna di queste, nel momento in cui i suoi occhi si perdevano in un qualunque obiettivo del paesaggio circostante. E quegli occhi vivevano solo per trattenere alcune lacrime che le inumidivano gli occhi.

In quel momento, era persa nel ricordo di tutte le sue barzellette raccontate, di quegli infiniti aneddoti che non conquistavano mai vecchiaia. Quanti ne aveva narrati. Di quanti non avrebbe mai potuto dire nulla. Su, passerà. Ora, prova un'altra volta. Questa sarà quella buona.

Quella solita voce che tanto si manifestava in quegli ultimi giorni nella sua mente ritornò ad insinuarsi nei suoi pensieri, infrangendo un attimo la sua concezione dell'intero spazio. La cercò nell'aria, e poi si accorse che era esattamente nella sua mente. Non c'era nient'altro da fare che darle ragione, perciò. Ricominciò a suonare quel tumultuoso brano, tentando di essere solamente in quello per qualche momento, quando qualcuno irruppe nella stanza.

«Athena! Forza, muoviti. Prendi le tue ultime cose; fai velocemente; qualche Senza-voce salirà per farti le valigie. Ma muoviti, mi raccomando. E lascia perdere quello stupido piano!» Si voltò in un attimo per vedere la nuvola di capelli viola di sua madre, Lawra Montgomery, fluttuare per la stanza. Ma, prima di poter replicare, quella scomparve al di fuori della porta, lasciandola un'altra volta sola.

Cosa diamine stava accadendo? Come mai sua madre si stava comportando in questo modo? Cosa... cosa avrebbe dovuto fare? Le sue mani erano ancora sulla tastiera. Azzardò una nota, ma essa giunse desolata e confusa nel silenzio furioso di quella stanza.

Si alzò, lentamente. Cercò una spiegazione con lo sguardo, ma la sua stanza rimaneva lì, intatta, sorridente quanto terrificante. Un enorme letto a baldacchino, dove lei si era addormentata fin dall'infanzia. File di peluche, a cui spesso se ne aggiungeva uno nuovo, come tenero regalo di suo padre. Una vasta stanza circolare, delle dimensioni conformi all'enorme abitazione in cui abitava lei, a Capitol City. Le finestre la irradiavano della luce di un sole desolato, grigiastro, e in quel momento tentò di elaborare le frasi di sua madre. “Forza, muoviti. Fai velocemente.”

Si attivò in quell'istante. Arraffò tutto il possibile dagli scaffali, tutto ciò che aveva un significato per lei, tutto ciò che era oro del suo passato. Alcuni gioielli, alcuni pupazzi, infinite fotografie mentali di quella camera. Un sospetto le aveva aggredito i polmoni, un sospetto che adesso le infuocava la gola. Come per confermarlo, un servo muto irruppe in quel momento senza reverenze nella sala. “Qualche Senza-voce salirà per farti le valigie.”

Stavano partendo. E quella sarebbe potuta essere l'ultima volta in cui avrebbe visto quella stanza, il suo territorio dell'infanzia e dell'adolescenza.

Stava succedendo veramente? Non aveva mai immaginato che qualcosa avrebbe potuto turbare l'equilibrio di quella casa, della sua vita. E non voleva scappare. Non voleva lasciare tutto ciò che era stato la sua quotidianità per quindici anni, non voleva lasciare le sue convinzioni intatte pronte per essere distrutte. E non voleva lasciare quel pianoforte a cui era seduta fino a qualche minuto prima.

Si sentiva... persa. Si accorse di desiderare di suonare in un ultimo tremito il suo brano preferito, per congedo a tutto ciò che aveva. Cosa sarebbe accaduto, altrimenti? Non aveva neanche porto l'addio definitivo a suo padre, le ultime parole, l'ultimo abbraccio. L'aveva salutato con un'allegra indifferenza, immersa nelle sue più comuni azioni ordinarie, che in quel momento stavano disperdendo tutto il loro senso nella disperazione.

Le sue mani erano occupate dalla presenza di più oggetti possibili che avrebbero potuto mantenere il significato della vita che ormai era già passato, e lì gettò tutti per terra. Non contavano, in quel momento. Si accomodò al pianoforte, senza alcuna considerazione per i lamenti a gesti del Senza-voce. Ed iniziò. La musica riempì l'aria fin dalla prima nota, la musica fu l'aria. Lei la respirò a pieni polmoni, e quella sensazione di eterna calma la pervase e divenne la sua nutrizione per tutto il tempo in cui eseguì la melodia. I suoi occhi erano chiusi, la testa dondolava come trascinata dalle onde del mare. Non una nota era errata, non una stecca venne effettuata. Era perfetto. Come tutto era, come avrebbe desiderato che tutto restasse.

Si concluse prima di accorgersi della chiamata dal mondo esterno. Non si alzò. Stava ancora appurando che quella era stata la sua ultima esecuzione, e aveva incarnato la tranquillità e la perfezione da lei sempre sognata. Era stato... magnifico. E mai più sarebbe potuto avvenire qualcosa di simile.

Anche le sue lacrime tentarono di suonare il loro brano, scivolando e raggiungendo i tasti. Lei le asciugò con le mani, facendo attenzione a lasciare il pianoforte nel suo silenzio. Perché avrebbe ritenuto un sacrilegio emettere un suono per sbaglio. Non avrebbe dovuto piangere, per lasciare nella pace eterna lo strumento che l'aveva capita, apprezzata, supportata.

Per recuperare le sue colpe, si promise di non piangere mai più per suo padre e per il suo passato. A cosa sarebbe servito rendere malinconico tutto ciò che era stato un sogno sulla terraferma?

Ora vai, Athena. Sii forte. Ce la puoi fare. La voce si presentò un'ennesima volta, con lo scopo di confortarla in modo esaustivo, ma lei si accorse che qualche nota dolorante era presente anche nel suo tono. I suoi ultimi secondi come Athena Rainway erano trascorsi. Ora sarebbe divenuta qualcun altro, una straniera, forse neanche una capitolina, ciò che lei era sicuramente sempre stata. E non si sarebbe potuta accordare con il suo stesso carattere, avrebbe dovuto rivoluzionare anche la sua personalità. Quando in una persona qualcosa varia, la mutazione si estende a tutto il corpo. Athena lo trovò terrificante, ma si alzò dal piano. E in quel momento sentì tutto vorticare, per poi scappare via.

«Eccomi.» Fu la sua prima parola della sua nuova vita, quando si accorse che la stanza era invasa dalla presenza di sua madre e di un paio di servi. Il suo volto era ancora rigato dalle lacrime, gli occhi arrossati. Ma non temette la reazione degli altri.

«Ti avevo detto di fare velocemente!» fu la furiosa risposta di sua madre, urlata, che trasse il suo polso in salvo dal suo mondo precedente e lo portò a sfilare davanti ai corridoi, ai quadri, alle statue che un tempo erano state sue. Le salutò tutte, mentalmente, e non poté evitare di valutare quegli sguardi languidi impiantati fin dall'inizio della loro esistenza veritieri. Mi spiace di lasciarvi soli. Prendetevi cura di casa mia. Lo spirito morente della delicata Athena Rainway sussurrò nel suo spirito quelle parole alle creature, e fu all'esterno della casa prima di poterlo immaginare. I due servi consegnarono uno scarno rifornimento di vestiti formati da una valigia ad entrambe, e le due signore di quella casa si gettarono in un auto senza alcun fiato. E così, quella casa fu solo una memoria perduta nella loro esperienza.

Solo allora sua madre cominciò a parlare.«Un vecchio amico di tuo padre mi ha detto che il presidente si vuole vendicare. Ce l'ha fatta con gli Strateghi, ma non gli basta. Ora tocca alle loro famiglie.»

Gli occhi di Athena s'impregnarono di una macabra sorpresa, mentre fuori dalla sua bocca rantolò un «Che cosa?» strozzato. La volevano uccidere? Un brivido le trapassò la pelle, e non poté evitare di provare una profonda sensazione di freddo. L'avevano già ammazzata, in parte. Però, il suo cuore batteva sempre. E quella era la maggiore priorità.

L'altra, senza neanche considerare l'intervento della figlia, proseguì:«Il presidente di certo non sarà rieletto, e perciò perderà tutto il suo potere. Una vendetta gli sembra valida. Per fortuna, l'ho saputo prima che ci potessero attaccare. Ho preso un po' di soldi, qualche vestito, il necessario. Niente di troppo eccessivo. Non si può essere troppo appariscenti, nel distretto 9.»

Il distretto 9? La madre di Athena era sempre stata attirata dagli estesi campi di grano dorati, ma lei no. Forse, ammirarli poteva essere un'esperienza fantastica, che avrebbe popolato in eterno le sue immagini positive, ma lavorare dentro di essi in cosa poteva consistere? Suo padre le aveva spesso raccontato che, nei distretti più poveri, anche i suoi coetanei lavoravano. E lei sapeva di non poterci riuscire, di essere estremamente debole, di non essere adatta a sostentare una famiglia. L'angoscia la tartassò, come i dubbi e, soprattutto, il fantasma dell'impotenza.

«Ah, mi ha dato anche questo. Tienilo tu.» Insieme a queste parole, la donna porse un piercing a forma di freccia. Quello di Abraham. Era tutto ciò che erano riusciti a salvare di suo padre? Era così affezionato ad esso, non lo toglieva mai.

Athena si tolse in un impeto il suo orecchino e vi infilò il dono della madre. Per poter portare ancora lo spirito di suo padre appresso. Sapeva che non l'avrebbe mai dimenticato, ma, se si fosse protratto solamente nella sua mente, avrebbe potuto avere qualche dubbio su di lui. Aveva bisogno di qualcosa di fisico per ricordarlo. E quel qualcosa non poteva essere altro che il piercing.

Suo padre era con lei. Quella fu la prima idea che la conquistò, quando se lo fu infilato.

La strada procedeva, e la trascinava verso un nuovo destino, verso una nuova storia, verso una nuova se stessa.

Avrebbe voluta frenarla. Ma la vendetta sarebbe sempre stata più veloce.

 

Spazio autrice

Sì, eccomi. Di nuovo.

Questa volta, la one shot è su Athena Rainway, tributo femminile del distretto 9 nella fan fiction interattiva “500” (le one shot fin ora scritte sono raccolte nella serie “500 – Behind the scenes”. È ambientata circa un anno prima degli eventi della storia, e penso non ci siano da fare molti chiarimenti sulla trama. A meno che non sia stata totalmente scoordinata nel raccontare la vicenda; potrebbe essere anche avvenuto, perché io la conosco e tendo a “sottovalutarla”. Insomma, mi auguro sia stata compresa.

Qui, Athena ha un carattere lievemente differente rispetto alla fan fiction (un po' più mite), semplicemente perché il trasferimento ha influito su di lei e l'ha resa più cupa.

Penso di non aver niente da aggiungere. Grazie mille a chi ha letto,

Bolide

P.S.= non mi so spiegare il motivo del titolo. Evidentemente, m'ispirava. “Home” nel più generale dei sensi.

  
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