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Autore: LeMuseInquietanti    14/01/2009    5 recensioni
<< Perché, Luna, credi ancora nei Nargilli? >> Aveva acceso lei quelle candele, erano cumuli di rabbia a liquefarsi. Lacrime di cera perché lei, di lacrime vere ne aveva già versate troppe. E restava solo il vuoto, dentro. [Personaggi: Luna Lovegood, Xenophilio Lovegood, Mrs Lovegood.]
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Luna Lovegood
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Yes, we can

A Sakijune, compagna di chiacchierate cibernetiche scandite dalle esplosioni del mio computer
o della sua connessione traballante, causata dalla neve.
Perchè Wendell è il nostro eroe.
E a te. Yes We Can.


<< Perché, Luna, credi ancora nei Nargilli? >>


Le gocce di pioggia scandivano il tempo.
Nella chiesa deserta le luci delle fiaccole accese ai due lati del grande corridoio illuminavano fiocamente i banconi. Spettri invisibili d’ombra li velavano d’un manto scuro, di pece, quel colore che lei detestava con tutta se stessa.
La gabbia che la fasciava era nera. Avrebbe voluto strapparsela di dosso.
E gridare. E piangere. E soprattutto gridare.
Notte nera e senza stelle.
Aveva acceso lei quelle candele, erano cumuli di rabbia a liquefarsi. Lacrime di cera perché lei, di lacrime vere ne aveva già versate troppe.
E restava solo il vuoto, dentro.

La bara era piccola e semplice. Una scatola di legno che si reggeva in bilico, su un portante che traballava appena, sotto il suo peso.
Lui guardava quell’oggetto e non sapeva spiegarsi come sua moglie avesse potuto finire lì dentro. Era impossibile accettare che si trovasse a due passi, e stesse dormendo mentre quel vocione spaventoso con cui il parroco sproloquiava sulla vita eterna e altre stupidaggini simili saturava l’aria di rumorose consonanti. Si incagliavano nel padiglione auricolare, e sbatacchiavano nel cervello cercando di legarsi tra di loro, pezzi disconnessi attaccati con il nastro isolante, per costruire frasi scarne, vuote, che gli riempivano il petto di nuove minuscole scosse. Un terremoto senza epicentro si stava svolgendo nel suo animo ormai da tre giorni.
Xenophilio Lovegood fissava insistentemente la bara.
Fuori la pioggia lambiva le vetrate variopinte della cattedrale gotica. A lei erano sempre piaciute quelle chiese così impegnative, non che le cose semplici la disgustassero ma lei era conscia che le meraviglie del mondo fossero dei rebus complessi da dover risolvere ostentando uno spirito audace e indagatore.
Le cattedrali gotiche avevano scandito la loro esistenza.
Si erano giurati eterno amore solo pochi anni prima, in quella stessa grande chiesa.
E lei sorrideva, e lui sorrideva.
Ora lei non poteva più farlo.
Se ne stava muta e gelida in quel lettino scomodo.
Aveva da sempre problemi di schiena, ripensava l’uomo stringendo i pugni, e ora non avrebbe riposato bene nemmeno nella morte.
Se fosse stato per lui, non l’avrebbero mai smossa dal loro letto.
Sarebbe stata una principessa addormentata, e lui avrebbe trascorso l’intera esistenza cercando l’antidoto a quel brutto esperimento.
Le piaceva indagare e sfidare il mondo e le sue leggi a tal punto che il mondo, oltraggiato o invidioso del suo estremo acume, l’aveva ripagata facendola saltare allegramente in aria. Sfigurandole le belle labbra sempre pronte a dischiudersi in un sorriso, graffiandole la fronte.
Sarebbe morta con quei tagli maledetti addosso, funi di sangue che l’avrebbero trattenuta per sempre a questo mondo ingiusto.
Lei non sarebbe mai andata via del tutto, ma doveva essersi offesa.
Perché sua moglie aveva chiuso gli occhi e non gli aveva risposto più.
Xenophilio era conscio che ce l’avesse con lui.
Lui la spronava sempre alla ricerca, avrebbero scoperto i segreti delle creature magiche insieme. Portato com’era alla venerazione del mistero per amore del suo maledetto rotocalco, l’appoggio di sua moglie gli permetteva di mostrare sempre nuovi e sbalorditivi articoli con i quali demistificava il progresso razionale e allo stesso tempo esilarava i critici bigotti, che non credevano ad una parola delle sue << bufale galattiche >>
Lei gli credeva, anche se nessuno dei suoi esperimenti sembrava avvalorare le tesi del marito. La notte, nel letto disfatto, lo cercava nel buio solo per segnargli la fronte con un bacio. Quella promessa valeva più di mille parole.
Niente poteva separarli, il loro amore è più potente di ogni altra forza.
Poi la morte aveva bussato alla loro porta, chiedendo la rivincita, e aveva sbancato il botteghino clamorosamente. In un’esplosione di luce che aveva infranto la barriera della ragione.
Si dice che la velocità della luce è la massima consentita nell’universo.
Ma qualcosa di ancora più rapido esisteva.
Era la formazione delle crepe in un cuore che si infrange.
Xenophilio si voltò appena, e scorse il capo di sua figlia, tenuto coraggiosamente eretto, nonostante le ultime frasi del parroco lo inducevano a gettarsi a terra, in posizione fetale e ad urlare che la facesse finita.
O peggio.
Correre da sua moglie, aprire la tomba e abbracciarla, scuoterla, schiaffeggiarla per arrossarle le gote. Come se si potesse far tornare oltre il pallore, la vita.
La pioggia gracchiava, graffiando le finestre della chiesa vuota.
Li derideva la natura dall’alto.
Quale fosse la loro colpa lui non lo sapeva. Forse erano troppo felici insieme, perché le cose dovessero finire bene.
Il lieto fine esisteva solo nelle favole, quelle che lei raccontava con passione alla loro bambina per calmarla nelle notti in cui temeva la comparsa della Banshee, la strega dalle unghie affilate che gioiva nello spargere il sangue dei bambini.
Xenophilio aveva trovato la sua piccola Luna a ficcare il naso sulla bozza dell’articolo su questo argomento, e aveva scorto la paura più profonda e innocente nei suoi occhi, nemmeno la frangia bionda aveva mascherato l’onda tremenda che si propagava dalle pupille sconvolgendo ogni sua espressione più naturale.
Ne aveva riso con sua moglie, e da allora, per un mese, la bambina aveva temuto l’apparizione della strega come se fosse stata stabilita la sua venuta. E non aveva chiuso occhio per notti interminabili.
La donna nella bara allora l’aveva vegliata con dolcezza e pazienza, riempiendole la testa di storie a lieto fine, raccontandole di animaletti che suo padre l’avrebbe portata a vedere, e di quante nuove scoperte stava realizzando con la sua equipe.
Aggiustandosi gli occhiali scuri e squadrati, sorridendo sempre in quella maniera candida che è tipica delle persone modeste, quel sorriso per cui tutti l’amavano e se ne innamoravano fino a perdere la testa, aveva dissipato ogni timore nella sua piccola, che un giorno aveva dichiarato con noncuranza che << per quel genere di streghe l’unico sentimento da mostrare è la compassione >>
A cinque anni Luna capiva già cosa fosse la compassione.
Non era sentirsi a disagio con una persona sofferente.
Ma era pura carità. Patire insieme.
Xenophilio ripensò alla commozione di sua moglie udendo quelle parole incantate e meravigliose, e scoppiò a sua volta in lacrime.
Il suo stupore fu sentire la mano di Luna serrare la sua in una morsa che pareva inossidabile. Come l’acciaio.
Lei che aveva assistito all’incidente, con gli occhi a palla spalancati in una espressione di strabiliato terrore, aveva più forza di lui, in quel momento. Resisteva all’istinto di piangere e nel frattempo lo stringeva possessivamente, un abbraccio che andava oltre la loro carne miserabile.
Soffrivano.
Stavano soffrendo insieme lui e sua figlia, soffrivano l’uno per l’altra e non solo. Perché erano in quella bara insieme. Con lei.

Occhi bassi, silenzio tombale.
E la chiesa del paese bagnata dalla pioggia.
I tetti affogano tra gli scrosci d'acqua.
Bottiglie accatastate, ai lati delle strade.
Il dolore si è preso anche le parole.
Non c'è nulla da sottolineare, ormai.
Resta il silenzio, e pervade l'aria.
L'aria tossica, che sporca i suoi occhi.
Seduta in un angolo, uno qualsiasi, non sembra si sia accorta del temporale
La tempesta che le sconvolge l’animo sommerge la realtà.
Orecchie sorde, riempite dalla musica
La sua musica, solo lei la conosce
Testi stranieri, per sottolineare che non è più di lì.
Ha lasciato questa terra quando la sua bara è stata inghiottita
Terra fredda e brulla, che ha spazzato via la perfetta armonia del suo viso
E le sue parole.

Puzza di alcol. Il profumo della pioggia.
Si frange sui gradini della chiesa mentre i rintocchi battono il tempo
Ma il tempo è vuoto, inutile sottolinearlo
Il tempo sfugge, e lui resta immobile
Lo hanno derubato del suo tempo.
Sepolto come ogni puttanata, sotto quella terra nera che trasuda lacrime.

E la pioggia continuava, frangendosi come una maledizione sulla loro testa.
Il tempo immobile, annullato da quel tamburellare meccanico, restava incagliato oltre il cancello di casa loro. Il giorno del funerale non era mai terminato. Tanti filosofi avevano parlato dell’eterno ritorno. Attimi che si ripetevano all’infinito, senza cambiare mai.
E quel dolore che perforava il petto di padre e figlia era un vorticoso circolo che bruciava loro la pelle, e impediva il riposo, gonfiava gli occhi.
Lacrime di cera calda per ricordare quell’incenso straziante, l’ultimo profumo su quella pelle cadaverica.
Anche Luna era diventata estremamente pallida.
Xenophilio la osservava con apprensione, o forse lo faceva per puro egoismo. Lei gli ricordava mortalmente sua moglie, aveva la stessa fulgida bellezza, ancora più intensa perché Luna ne era completamente dimentica. Erano passati due anni dalla scomparsa della donna, e nel frattempo la vita paradossalmente era andata avanti. In modo impetuoso, osava aggiungere Xenophilio scuotendo il capo.
Luna frequentava la scuola di magia, abitava in un castello evanescente dove lui non poteva entrare. Erano soli, come se gli ultimi fili che li stringevano fossero stati inghiottiti con la signora Lovegood nella sua tomba.
Luna non parlava mai dell’evento, si mostrava docile e allegra con chiunque, ma spesso veniva trattata con poco riguardo dai suoi compagni. Xenophilio lo sapeva, lo leggeva nei suoi occhi appena spenti, che racchiudevano la tristezza del mondo dietro la patina di falsa letizia con cui li mascherava.
L’agonia di simili maschere lo faceva impazzire.
<< cos’hai, bambina mia? >> gli domandava a tavola, propinandole piatti sempre troppo salati o insipidi, lui non era mai stato un bravo cuoco. Ma aveva dovuto adattarsi.
Lei scuoteva il capo, sorridendogli << niente, papà. Piuttosto, come vanno le tue ricerche per il Cavillo? >>
Parlavano spesso del Cavillo, in quel giornale era come se si fosse impresso lo spirito della donna del loro destino. Entrambi lo sapevano, ed era per questo che Luna si era visceralmente affezionata alle sorti del giornale e Xenophilio solo per lo stesso motivo non aveva chiuso bottega, colto dal raptus rabbioso con cui ormai conviveva da due anni.
Voleva sparire, disintegrarsi e ritornare al nulla.
In paradiso o nel nulla, ma da lei.

Preso com’era dal suo dolore, sicuro che Luna avesse ormai elaborato, o presuntuosamente portato a ritenere che non le pesava così tanto, c’era lui ad amarla doppiamente, anche per lei, l’uomo si accorse troppo tardi di quello che sua figlia stava covando.
Una notte di pioggia scese in cucina a cercare un po’ d’acqua, mezzo addormentato. Come spesso accadeva di quei periodi, pioveva.
E cadeva dal cielo, come quel giorno maledetto.
<< morivi due anni fa, amore mio >> sussurrò a se stesso, prima di brindare alla sua memoria.
Il bicchiere gli andò di traverso.
Un singhiozzo soffocato proveniva da quel luogo tremendo. Dove né lui né Luna mettevano più piede dal triste evento.
Il laboratorio di sua moglie.
La luce proveniva soffusa da quella stanza.
Xenophilio guardò l’orologio, la mezzanotte era appena passata.
Muovendosi come un gatto, raggiunse la porta. << chi è lì? >> sussurrò debolmente, il tremore sulle labbra.
<< oh >>
Il sospiro turbato di Luna lo rincuorò.
Luna in pigiama era stesa sul pavimento.
Aveva il viso smunto, gli occhi gonfi, le labbra tumide.
Aveva inequivocabilmente pianto.
Xenophilio le si avvicinò, la cinse con rabbia al petto. << lo so. È dura. Ma dobbiamo farcela. Noi possiamo >>. Ma la voce gli tremava, come le mani. E le gambe.
<< non posso. Io >> sussultò la ragazzina, poggiando il capo sulla spalla del padre << io >>
Non ricordava più il suo viso.
Non ricordava il viso di sua madre.
Xenophilio la guardò negli occhi, le sorrise dolcemente << non preoccuparti. Lo ricorderò io per entrambi >> mormorò, carezzandole le gote. << basta che tu non scordi mai com’era il suo animo. Ricordi come ci faceva sorridere? Era sempre in ritardo, sbadata, amava danzare, e quella musica d’annata che la faceva piangere, te la ricordi? >>
Luna smise di piangere, e al posto della tristezza fiorì un debole sorriso. Ma non era abbastanza, bisognava rafforzarlo.
<< Visto che siamo qui, svegli e melanconici, che ne dici di andare a fare una passeggiata? >> le propose. La bambina si guardò la veste. Pioveva ed era mezzanotte.
<< Non serve che ti cambi d’abito. La Smaterializzazione esiste per questo. E per scappare alle bestiacce dell’Ungheria, suppongo >>
Luna annuì, e come allora, in quel maledetto funerale, aveva cinto la sua mano, questa volta mostrandosi fragile, debole, friabile.
Il tempo di socchiudere gli occhi, e Luna si ritrovò in una grossa grotta, illuminata di fievoli luci azzurrine.
Non erano candele, né fiaccole. Nemmeno lucciole. Erano molto meglio.
<< Nargilli??  >> sussurrò, al vuoto della grotta.
L’avevano seppellita in quella cavità adunca, un mausoleo di terra e roccia, per proteggerla dalle lacrime della pioggia che impediva al tempo di scorrere, di rifluire.
Il riflusso dei pensieri che si drenavano nelle menti dei vivi, avvelenava il ricordo di lei.
Ma quella notte, anche la ragione soccombeva alla bellezza della natura.
La bellezza innocente e inspiegabile che aveva vestito anche la signora Lovegood di luce.
<< Non l’abbandonano mai >> affermò Xenophilio, guardandosi intorno << sapevi che i Nargilli di notte emettono questa bella luce cristallina? >>
Lei scosse il capo. << è il colore dei suoi occhi >> mormorò.
Xenophilio sorrise << vedo che in fondo non hai dimenticato l’essenziale. E se mai ti venisse il dubbio, prendi uno specchio e guardati. Sei identica a lei >>
Quella notte non piansero, sorridevano senza motivo.
Parlavano alla donna come se ella potesse rispondere.
Era un palliativo fantastico, sedere vicino a lei, potere accarezzare la terra che la ricopriva, e che si era fusa con lei.
Abbraccio fatale che il tempo non poteva cancellare.
La pioggia cadeva e loro sorridevano.
Ci sarebbe voluto tempo, anni, forse non sarebbero mai stati abbastanza.
Ma Luna guardava suo padre e chinando gli occhi per terra si lasciava sfuggire delle risate vere e proprie. Lo sapeva.
Non avrebbe dimenticato mai sua madre, ma ce l’avrebbe fatta.
Aveva Xenophilio a sorreggerla. Suo padre.
<< Grazie, papà >> disse, alzando gli occhi verso di lui << grazie davvero >>
Lui la osservò, il colore dei Nargilli che si rifletteva nei suoi occhi identici specchi d’acqua.
La prese con rabbia, stringendola a sé.
Rimasero abbracciati, fino a stordirsi.



<< Perché Luna, credi ancora nei Nargilli? >>
Neville la osservava, percorrendo con le dita le autostrade intricate dei suoi capelli biondi.
Erano seduti in quella grotta, a mangiare biscotti e sproloquiare di qualsiasi cosa.
Luna lo metteva in imbarazzo, con la sua sincerità spaventosa.
Lui non riusciva a vedere il mondo con i suoi occhi.
Gli sorrise, fino a farlo imbarazzare << è una storia lunga, non so se tu vuoi ascoltarla >> confessò.
Neville arrossì, cercando un po’ di coraggio in quel sospiro immortale della terra << adoro ascoltare le tue storie >> disse.
Luna rispose con un altro sorriso.
E accarezzando quella terra antica, prese a raccontare.

FINE



Spazio tutto mio!
u_u
Spero vi sia piaciuta. Davvero. oh, beh. So di aver inventato quella storia sulla luce dei Nargilli.Scusatemi tanto, ma è stato più forte di me *_* capirete, non è vero??? >,<
Maria
  
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