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Autore: morphological    26/06/2015    1 recensioni
"Erano amici da tempo immemore, più di novecento anni. Entrambi si ricordavano bene quel giorno in cui la loro amicizia si trasformò in qualcos’altro, un sentimento più forte e più esigente, che li aveva pian piano trascinati in un vortice di amore e sofferenza, che aveva portato con sé ogni conseguenza. Tutto ciò che era venuto dopo era stata una conseguenza più o meno indiretta di quel sentimento che brillava come una gigante blu. E ogni volta che si guardavano dopo tutti quegli anni passati lontano ricordavano quel giorno, quando tutto era cominciato, su un prato di erba rossa."
il maestro e il Dottore, una storia che, nascosta tra le pieghe del tempo, vale la pena di raccontare.
Forse mi sono lasciata lievemente ispirare da Last Christmas, perché questa storia, formata da vari missing moment, è un ricordo dentro un ricordo, all'interno di un pensiero.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Doctor - 10, Master - Simm
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Fandom: Doctor Who
Rating: giallo
Genere: Sentimentale, angst, fluff
Tipo di coppia: Slash
Personaggi: Doctor – 12; Master – Missy; Doctor – 10; Master – Simm; Doctor – Theta Sigma; Master – Koschei  
Canzone: nei giardini che nessuno sa – Laura Pausini. Da ascoltare A S S O L U T A M E N T E
Note:  vi presento questa piccola  Doctor/ Master senza pretese, di 3.057 parole colme di angst con qualche stilla di fluff. La prima volta che pensai ad una fic di questo genere  avevo l’intenzione di fare un missing moment ai tempi dell’accademia. Poi però mi resi conto che ce n’erano troppe, davvero troppe. Così mi è venuta in mente questa. Un sentimento unico vissuto attraverso tre loro diverse rigenerazioni. Spero che vi piaccia, anche perché è la prima volta che scrivo una cosa del genere.
Timeline: pre Last Christmas, post 8 x 12
Disclaimer: Doctor Who non mi appartiene, e non ci ricavo niente scrivendoci sopra – al massimo qualche pomodoro marcio per la schifezza che ho scritto.
Beta: Evil Devil, anche se non ama particolarmente lo Slash
Ringraziamenti: grazie ad Evil Devil, che sopporta tutti i miei scleri e che ogni volta che le propongo una nuova fusissima idea  mi appoggia senza se e senza ma; grazie alla ragazza che incontrai sull’autobus – che forse non è nemmeno su EFP, ma io ci provo – e alla piacevole chiacchierata sul fatto che Moffat non aveva bisogno di far diventare il Maestro una donna per rendere Canon questa coppia.





Nei Giardini che Nessuno Sa


Erano amici da tempo immemore, più di novecento anni. Entrambi si ricordavano bene quel giorno in cui la loro amicizia si trasformò in qualcos’altro, un sentimento più forte e più esigente, che li aveva pian piano trascinati in un vortice di amore e sofferenza, che aveva portato con sé ogni conseguenza. Tutto ciò che era venuto dopo era stata una conseguenza più o meno indiretta di quel sentimento che brillava come una gigante blu. E, ogni volta che si guardavano dopo tutti quegli anni passati lontano, ricordavano quel giorno, quando tutto era cominciato, su un prato di erba rossa. E ora il Dottore, con il TARDIS lasciato alla deriva nello spazio, lì dove un tempo c’era stato Gallifrey, si chiedeva il perché di quella bugia. Eppure lei sapeva che gli avrebbe spezzato i cuori, che così facendo l’avrebbe distrutto pezzo per pezzo, eppure non se n’era curata.
“La tua ultima vittoria, Maestro, perché tu hai sempre cercato di essere un passo avanti a me. E questa volta ci sei riuscito”, continuava a parlare di lui al maschile, perfettamente conscio del fatto che per lui sarebbe sempre stato un ragazzo dai capelli neri e gli occhi di ghiaccio, quello con cui era cresciuto. Perché ogni volta che posava lo sguardo su di lui lo rivedeva da giovane, quando entrambi andavano ancora all’Accademia e lui era un ragazzo con poca voglia di passar gli anni sui libri e con un’incredibile passione per i terrestri. A quel tempo capiva veramente poco di quel sentimento che veniva chiamato amore, troppo ansioso di vedere posti nuovi e correre, correre fino a sentire i polmoni bruciare, correre fino a lasciar volare via i propri pensieri con il vento che gli accarezzava il viso. Correre con lui. Lo amava con tutto se stesso e non lo sapeva nemmeno, sapeva solo che quando lo aveva al suo fianco si sentiva bene, era felice e tutto gli sembrava apposto, come se stare l’uno al fianco dell’altro fosse l’unica cosa importante. Erano due facce della stessa medaglia, la luce e il buio, sempre in equilibrio sull’orlo dell’abisso, consapevoli che una sola parola sbagliata  li avrebbe fatti cadere inesorabilmente giù, portando con loro tutti quegli anni di perfezione assoluta, che si sarebbero trasformati in polvere trasportata dal vento, un eco lontano di un passato irraggiungibile. Perché quei ricordi erano lì, sempre presenti e vivi, che gli ricordavano il suo primo amore e il suo fallimento. Gli aveva promesso una vita piena di felicità, ma non aveva fatto altro che accelerare l’avanzata dell’oscurità che aveva preso possesso dei suoi cuori, li aveva consumati, trasformando tutti i meravigliosi sentimenti dentro di lui in rabbia, sete di conquiste e pazzia. Ancora il Dottore si chiedeva come i Signori del Tempo avessero potuto fargli questo, trasformare un ragazzino senza colpe in un pazzo assassino. Perché era questo ciò che gli avevano fatto. Solo per salvarsi, sapendo bene che lui non avrebbe mai permesso, che li avrebbe fermati a qualunque costo.
E a quel punto, quando i suoi pensieri andarono a quella rigenerazione, a quella versione del Maestro che si era sacrificato per lui, per la sua amata terra, non poté far altro che pensare all’Anno Che Non Era Mai Stato.
Si lasciò cadere sul pavimento, la schiena appoggiata alla consolle, gli occhi chiusi e qualche lacrima che cercava di uscire. Ancora non si era permesso di piangere per la sua morte, quasi certo che sarebbe tornata con qualche altro dei suoi stratagemmi una volta scoperto il suo inganno, ma ancora non l’aveva vista, e aveva paura che non l’avrebbe mai più fatto. E faceva male. Così male che pensava di non reggere ancora. Il sapore di lei ancora sulle labbra, in ricordo di quei meravigliosi baci che si erano scambiati,  il battito dei suoi due cuori ancora nelle orecchie e sotto le sue dita. Appoggiò la testa alla consolle e si lasciò trasportare dei ricordi, fino ad andare in un’altra vita...




Un solo giorno era trascorso da quando Martha si era teletrasportata, un giorno che era sembrato un’eternità.
“Allora!”, esclamò il Maestro, da solo con il Dottore nella sala principale, “Ora io e te ce ne andiamo in un posto!”, gli disse con fare misterioso, dopo aver preso il controllo della carrozzella dove l’aveva messo. Si sentiva in sua balia, come non lo era da anni, e questo lo disorientava. Il Maestro aveva sempre amato avere il controllo, e anche questa sua rigenerazione non lo smentiva. Perché anche quando sei un Signore del Tempo e puoi rigenerarti, alcune cose del tuo carattere rimangono uguali. Così come lui era sempre volto ad aiutare le persone, e si faceva in quattro pur di non arrendersi, allo stesso modo il Maestro era sempre quello che tramava alle spalle degli altri e che voleva avere la situazione sotto controllo.
I due fecero un percorso strano, verso un’ala della portaerei Valiant che il Dottore non aveva mai visto. Si fermarono solo quando giunsero davanti ad una porta di metallo che era sigillata con una serratura ad impronte digitali. “Dietro questa porta custodisco un segreto, e vorrei condividerlo con qualcuno”, il Maestro prese il cacciavite laser dalla tasca e lo puntò sul Dottore, “ma preferirei farlo con la versione più giovane di te.”, detto questo, gli puntò il cacciavite contro, premette un pulsante e gli tolse quegli anni in più che gli aveva dato.
Il Dottore si alzò dalla sedia a rotelle, ma prima che potesse emettere un fiato, il Maestro gli mise al polso due grossi e pesanti bracciali di metallo. “Perché?”, chiese solo il Dottore con tono sconvolto.
“Un modo per impedirti di scappare”, disse giocando con il suo cacciavite, “Mettiamo, ad esempio, che tu decida di scappare, io farei semplicemente così”, premette un pulsante del cacciavite e il Dottore si piegò subito in due dal dolore, cercando di togliersi quei cosi, i quali gli avevano appena dato una fortissima scarica elettrica, “e ti prendi la scossa, in questo modo tutti i tuoi tentativi di fuga sono stroncati sul nascere.” Il Maestro mise la mano sulla serratura, facendola scattare. Quando la porta si aprì, ciò che era celato al suo interno scosse il Dottore così profondamente da farlo rimanere senza fiato e fargli accelerare i battiti cardiaci: davanti a lui si estendeva a perdita d’occhio un prato di erba rossa come il fuoco, immersa in una stabile immobilità, e per un attimo il Dottore credette che ad ingannare i suoi occhi fosse un ologramma, creato proprio per confondergli le idee. Eppure, guardando l’erba, gli sembrava vera, perfetta persino in quella particolare tonalità di rosso che caratterizzava il suo amato pianeta natio. Fece qualche passo, senza nemmeno accorgersi che la porta di metallo si era chiusa alle loro spalle, e si lasciò cadere sul prato; non appena le sue mani sfiorarono con delicatezza quei morbidi steli i suoi sensi gli rivelarono che quello non era affatto un ologramma. L’arte e la scienza dei Signori del Tempo, più grande all’interno, pensò il Dottore, per una volta a corto di parole. Sentiva gli occhi pizzicare, le lacrime che rischiavano di assalirlo, perché anche questa volta il suo migliore amico aveva trovato il modo di distruggerlo sul piano emotivo senza veramente far nulla; questo era il grande potere che il Maestro aveva su di lui.
“Ho nascosto questa stanza, non è presente nemmeno nei progetti originali”, la voce del Maestro interruppe il silenzio assordante ce c’era in quel luogo. Il Dottore si diede un contegno e lo guardò negli occhi, rivedendo per un attimo quel sentimento che avevano condiviso balenargli nello sguardo, per poi sparire di nuovo, celato dietro una maschera di indifferenza. Il Dottore non ebbe nemmeno bisogno di chiedere perché? Perché hai fatto tutto questo?, la risposta l’aveva già intuita. Anche chiedere come? sarebbe stato inutile, come forse qualsiasi vera parola scambiata con la voce. Gli si avvicinò, più di quanto avesse mai fatto da quando avevano deciso che tutto doveva finire, e lo portò giù, su quell’erba rossa che, quando era mossa dal vento, sembrava magma incandescente. Il Maestro, Harold Saxon, il Primo Ministro inglese, si sciolse tra le sue braccia. Non disse nemmeno una parola mentre si faceva portare sull’erba. Ogni parola era futile.
Ed eccoli lì, nella stessa posizione che assumevano da giovani, come se tutto ciò che c’era stato prima, che li aveva divisi fosse stato cancellato in nome di qualcosa di più grande. Seguendo l’istinto i due Signori del Tempo si avvicinarono, fino a quando le loro fronti non si toccarono, e i loro pensieri non divennero condivisi. Nessuno dei due si sorprese quando si accorse che l’altro stava pensando a quel giorno, quel giorno in cui tutto era cambiato.





Due ragazzi, forse addirittura adulti per alcune culture, ma ancora dei bambini per la loro secolare razza, correvano su di un prato di erba rossa. Andavano incontro ad uno dei due soli del pianeta, che andava tramontando, facendo scendere la notte sui Gallifrey. Entrambi erano ormai senza fiato, e uno dei due, con i capelli neri e gli occhi di puro ghiaccio, si fermò.
“Basta Theta, non riesco a starti dietro.” Disse,  buttandosi per terra. Ebbe un morbido atterraggio, i fili d'erba gli solleticavano il collo lasciato scoperto dalla tunica rossa che indossava.
“Questo perché nessuno mi batte nella corsa Koschei, nemmeno tu.” Disse l'altro,  battendosi una mano sul petto e passandosi l’altra tra i folti capelli biondi, un sorriso comparve sul suo volto, facendolo sembrare ancora più bambino di quanto non fosse in realtà. Gli occhi marroni  pieni di curiosità e voglia di vivere erano spalancati sul mondo.
“Sai in cos'altro non ti batte nessuno?”
“In cosa?”, Theta era certo che l'amico gli avrebbe risposto in maniera sarcastica, lo conosceva fin troppo bene.
“In quanto ad ego. Superi persino me, e non è cosa da poco.”
“Molto divertente, davvero, Kosh.”
L'altro rise di quel suo tono scocciato. E mentre lo faceva, sicuramente nella sua testa folle, governata dal rumore dei tamburi,  non sarebbe neanche passata per l'anticamera del cervello l'idea che Theta si potesse vendicare, cosa che effettivamente fece. Si buttò sopra di lui e gli mozzò il respiro; ma la cosa più brutta fu che cominciò a fargli il solletico.
“Sei insopportabile, veramente infantile!”  Riuscì a dire Koschei tra le risate, non senza fatica.
Quando entrambi rimasero senza fiato,  il Dottore si sdraiò accanto a lui, con il petto che si alzava e abbassava al ritmo forsennato dei suoi due cuori.
I due erano veramente vicini,  sdraiati su un fianco con le mani quasi unite e le fronti in contatto per lasciare aperto il legame telepatico. Per i Signori del Tempo era normale entrare nella mente degli altri, passeggiare attraverso i ricordi di altre specie, ma se a connettersi erano due Signori del Tempo era tutta un'altra storia. Comunicavano,  scambiavano pensieri e immagini. Molte persone erano restie a far entrare nella propria mente qualcuno che non fosse la persona che amavano,  perché comunicare in quel modo era talmente intimo che solo con una persona amata era giustificabile. Koschei e Theta, invece, non avevano mai avuto problemi di questo tipo, comunicavano così da neanche loro sapevano quanto.  Ormai era routine.
I due ragazzi avevano stampato in volto lo stesso sorriso felice e spensierato.  O almeno, questo era ciò che succedeva di solito; quel giorno Koschei aveva lo sguardo perso nel vuoto, ricolmo di tristezza.
“Che hai oggi Kosh?”
“Niente Theta,  non preoccuparti.”, facile più a dirsi che a farsi, pensò Theta, che invece era ancora più preoccupato.
“Certo, ora che mi hai detto di stare tranquillo mi sono messo l'anima in pace,  come no.”, gli disse, con la voce che traboccava di sarcasmo.
Koschei sospirò e si girò dall'altro lato. Non poteva sopportare ancora quella conversazione, perché se c'era qualcosa che aveva imparato in tutti quegli anni, era che Theta, il Dottore,  otteneva sempre quello che voleva.  E proprio non poteva dirgli cosa gli stesse passando per la mente. È mai possibile,  pensò il giovane Gallifreyano,  che io provi qualcosa per quello che dovrebbe essere il mio migliore amico? Io mi sono innamorato di Theta... ma non potrò mai dirglielo. E forse il ragazzo che aveva scelto come suo nome "il Maestro" avrebbe potuto continuare a fare elucubrazioni di quel tipo, se il rumore, il rullo di tamburi, che sentiva nella sua testa non avesse cominciato ad essere più forte, facendogli male, oscurando ogni suo razionale pensiero. Koschei si portò le mani alla testa,  un dolore lancinante gli mozzava il respiro, e alcune lacrime minacciavano di uscire dai suoi occhi offuscati dalla follia.
Theta, che come nome aveva scelto "il Dottore", lo strinse tra le braccia come era solito fare in quelle situazioni,  aspettando che passasse. Se era preoccupato non lo diede a vedere, si limitò a chiudere gli occhi con un sospiro. Lo strinse ancora più forte per sentirlo vicino, perché quelli erano gli unici momenti in cui il suo amico, schivo e che detestava i contatti di affetto gratuiti, era fragile e aveva bisogno di quel contatto. Non voleva approfittare di quella sua debolezza, eppure non poteva proprio farne a meno. Il Dottore amava sentirlo vicino, sentire i loro corpi che combaciavano, le farfalle che vagavano nel suo stomaco in subbuglio. Sapeva bene che cosa era ciò che sentiva, ma non ne parlava mai.
Il Maestro, dopo qualche minuto, si rilassò tra le sue braccia: i tamburi avevano ricominciato a suonare a una velocità normale nella sua testa. Li sentiva da quando aveva guardato nello Scisma Incontrollato,  risuonavano nella sua mente,  non smettevano mai, scandivano il ritmo della sua vita. E ancora lui non sapeva cosa gli avrebbero causato: una vita schiavo dell'oscurità che albergava dentro di lui. Quei tamburi preannunciavano tempi di guerra,  sofferenza, morte.
I due ragazzi rimasero stretti in quell'abbraccio che diceva tutto e niente,  ai confini di quello che era il loro universo privato.
'È il momento' pensò il Dottore 'ora o mai più'. Si prese di coraggio e premette le labbra sulle sue. Dentro di lui scoppiarono i fuochi d’artificio, e cominciò a sentire le gambe deboli: se fosse stato in piedi sarebbe certamente caduto. Il suo primo bacio, il primo bacio di tutte le sue vite. E l'aveva donato a colui che doveva essere il suo migliore amico.
Il Maestro,  dal canto suo, rimase paralizzato per qualche attimo prima di capire bene cosa stava succedendo. E quando se ne rese conto,  il suo istinto,  qualcosa di animalesco dentro di lui, gli disse di approfondire quel bacio. E lo fece. Se prima di quel giorno qualcuno gli  avesse detto che avrebbe donato il suo primo bacio a Theta probabilmente gli avrebbe riso in faccia, piegandosi a metà per non far vedere quanto fosse arrossito. E se quel qualcuno gli avesse anche detto che a fare il primo passo sarebbe stato proprio l'altro era certo che sarebbe svenuto dalle risate. Perchè Theta era  quello che, non riuscendo a baciare una ragazza, la mollava per poi chiudersi in stanza a costruire un nuovo cacciavite sonico. E di certo non era un tipo che faceva la prima mossa, eppure eccoli qua, che si donavano completamente l’uno all’altro.





Amore. Si amavano così tanto che dopo quel gesto niente cambiò, tutto rimase uguale, e allo stesso tempo cambiò inesorabilmente. Tutti quei baci rubati, notti che sarebbero rimaste sempre nei loro cuori, bloccate nei ricordi di quel periodo meraviglioso che avevano passato insieme. Quando la felicità era qualcosa che si assaporava nell’aria, e che si dava per scontata. Adesso, invece, era tutto diverso, ed entrambi lo sapevano bene.
“Sembrava tutto così facile”, disse il Dottore, interrompendo il silenzio.
Il Maestro gli fece uno di quei sorrisi malinconici, per sostituirlo subito dopo con un ghigno. “Ma lo è anche adesso”, e unì le loro labbra, spinto da quel desiderio crescente che bruciava come fuoco nel suo petto. Il Dottore si lasciò trasportare, sapendo che poi ne avrebbe sofferto, perché il senso di colpa l’avrebbe colpito come una frusta dritto in viso. Per una volta aveva gettato la maschera, rivelando di nuovo quel lato di lui dolce e fragile.
Si separano dopo un tempo inquantificabile, ore, minuti, secondi. Niente aveva più importanza. Erano di nuovo in quel loro meraviglioso universo privato. Non esisteva più la guerra, la sofferenza, la morte, i tamburi. Solo il Maestro e il Dottore, sempre e per sempre. Non si sarebbero mai lasciati, nemmeno se a dividerli ci fosse stato un campo di battaglia colmo di sangue e corpi, sarebbero comunque rimasti connessi da un filo.  Ed entrambi ne erano coscienti.
“Non ci provare.”, gli disse il Maestro, avendo sentito uno dei suoi pensieri. “Anche se mi implorerai non smetterò di fare quello che sto facendo”, sussurrò tagliente nel suo orecchio.
“E allora perché tutto questo?”
“Per capire se qualcosa è rimasto.”
Il Dottore si separò da lui, interrompendo anche il contatto tra le loro menti.
Allora il Maestro sorrise con cattiveria e si alzò, sistemandosi meglio la giacca. “Alzati.” Ordinò perentorio. Quando il Dottore lo guardò alzando un sopracciglio con fare scettico, premette il pulsante del cacciavite, dandogli di nuovo la scossa.
Violenza, sempre violenza e dolore. Non gli aveva portato altro da quando lo aveva perso, da quando era impazzito davvero, eppure lo amava ancora, forse non avrebbe smesso mai. Era una delle tante cose che si rimproverava: di essere sempre convinto che chiunque aveva la possibilità di redimersi. Era sempre stato un inguaribile ottimista.

Lo portò ogni giorno in quella stanza, momenti rubati dove dimenticavano tutto, e farlo, anche solo per poco, li faceva sentire più leggeri. Ma, appena varcata di nuovo quella soglia, il Maestro lo faceva di nuovo invecchiare e tornavano ad essere i nemici che tutti conoscevano. Continuarono così fino a quel giorno, quando il Dottore tornò ad essere di nuovo solo. Si era sentito come se un altro pezzo di sé se ne andasse per non tornare più. Di nuovo. Soffriva, ancora, e ancora. Forse non avrebbe smesso mai di farlo.




Il pensieri del Dottore vennero interrotti dal suono di qualcuno che bussava alla porta del suo TARDIS. Non sapeva chi potesse essere a bussare in mezzo allo spazio profondo, ma gliene fu immensamente grato. Se avesse continuato a rivangare il passato sarebbe impazzito definitivamente. E ciò che vide una volta aperte le porte, gli fece pensare che forse era già successo.
Perché Babbo Natale non esiste...!
  
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