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Autore: Rov    01/07/2015    3 recensioni
Cordelia ha diciassette anni quando Zar, il cavallo di suo nonno, le causa un terribile incidente che le impedirà di cavalcare di nuovo. Ora che perfino camminare è impossibile, vivere in un ranch di allevatori causa un doloroso ricordo. Ma la vera domanda è perché Zar si è imbizzarrito? Perché il nonno ha mentito, dicendo di averlo acquistato ad una fiera? E soprattutto, perché il nonno vuole salvarlo dalla soppressione?
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~~Mio nonno una volta mi disse che Dio aveva creato i cavalli per dare un corpo il vento.
Ma si sbagliava. L'evoluzione ha creato i cavalli, così come ha creato i cani, i conigli e i pappagalli; solo che li ha fatti pesare di più.
Insomma insieme a quelle fandonie tipo Babbo Natale, l'amicizia eterna e l'amore vero qualcos'altro devono pur dirti.
Il cavallo di mio nonno si chiamava Zar; credo avesse scelto quel nome per il suo portamento, la sua eleganza, la sua passione.
Era l'animale più bello del rench e il nonno non poteva fare altro che sentirsene fiero.
Parlare in pubblico non era mai stato il suo forte. Lui preferiva restarsene con in mano il bicchiere di whisky e tenere per sé i propri pensieri, ma tutto cambiava quando si parlava di Zar.
Il nonno ne parlava fino a sembrare eccessivo, per poi piombare nuovamente nel silenzio con il suo liquore e raccontava di quell'animale dal manto scuro, color del caffè, di un marrone monotono e rassicurante, dalla muscolatura possente e l'ossatura vigorosa.
Gli occhi bui.
Poi si soffermava a parlare della sua bravura nella corsa, del suo carattere equilibrato, della sinuosità dei salti, della resistenza al galoppo e di quanto fosse stato fortunato a trovarlo all'asta della fiera regionale.
"Vero, Delia?" diceva poi sorseggiando dal bicchiere e guardandomi sorridere.
Cordelia ero io.
In seguito, riflettedo su quanto era poi è accaduto, avrei affermato senza alcuna esitazione che quelle cose non erano vere: quel cavallo non aveva nulla di speciale a parte i 500 chili che erano stramazzati sulle mie gambe.
E sulla mia spina dorsale, dimenticavo.
Oggi sono ancora Cordelia, solo che adesso non vorrei esserlo più.

Avevo cavalcato Zar solo una volta, alla gara di equitazione della festa d'autunno.
"Ti porterà fortuna, vedrai Delia! Quel tipetto è speciale, devi crederci."
Speciale un paio di palle!
Anzi, un paio di gambe…
Avevo volato spesso su quel vento: spesso montavo senza sella per il gusto di farlo, sulla groppa di Artax, il mio cavallo. Gli avevo dato quel nome perché avevo letto la storia infinita ed era uno dei miei libri preferiti.
Avete presente la parte in cui Atreio vola a dorso di drago? Ecco, era così che mi sentivo.
Provavo qualcosa che pensavo di non poter dare nemmeno me stessa: era come un bruciore così forte, potente fino a spezzarmi e mi domandavo che cosa centrassi più con la realtà.
Dov'era il mondo in tutto questo? Dov'era la campagna intorno a me, il ranch, i confini del mondo e delle mie paure?
Dov'era finita Cordelia?
Forse è impossibile non sentirsi amati quando ci si sente bene con se stessi, facendo ciò che più infiamma, ciò che più libera, ciò che più appassiona.
E le mie pupille si dilatavano con quelle di Artax, i polmoni affamati, le membra stanche.
Completamente, per la vita e per la morte.
Era stato così fino a che il mio cavallo non si era ammalato.
"Laminite" aveva detto il veterinario.
È una malattia che colpisce gli zoccoli e  l'osso triangolare spinge verso l'alto e buca il cuscinetto poroso della zampa.
Prima che potessi rendermene conto Artax era diventato zoppo e non importava più a nessuno che fosse un cavallo meraviglioso, un compagno di vita o le mie ali.
Mio padre approvò l'abbattimento proprio due settimane prima della corsa ippica della festa d'autunno e mi ero sentita scoppiare il cuore: della competizione non mi importava più e mi sentivo così male al pensiero che io ed Artax non avremmo mai potuto correre insieme.
Continuavo a ripetermi che saremmo stati grandi, che saremmo stati i migliori e che non c'era stato il tempo di provarlo.
D'altra parte, ora mi rendo conto che non era importante perché migliori lo eravamo davvero e lo avevamo sempre saputo correndo liberi.

"Cavalca Zar!" aveva insistito il nonno.
"Non lo so portare..."
Lui aveva scosso la testa e aveva cominciato a sbuffare nelle sue quattro parole di rimprovero.
"Si che lo sai fare, Delia! Ho visto come correvi con Artax."
I miei occhi si erano riempiti di lacrime: io nemmeno ci volevo andare a vedere quella stupida corsa!
Ma su quel furgone c'ero salita lo stesso, anche se più in là me ne ero pentita; forse l'ho fatto soltanto perché ero fiera di essere una Morgan, la più grande famiglia di allevatori di cavalli di tutta la contea.
Sei generazioni, mica sciocchezze!
Oppure era stato perché sapevo che era giusto così: bisognava andare avanti, metabolizzare le cose brutte e trattenere soltanto i ricordi più cari.
"Vedrai..." aveva detto poi il nonno.
"Non devi mai negare a nessuno la possibilità di renderti felice. Mai nessuno, tantomeno a te stessa."
E quella sensazione di tradimento nei confronti di Artax era scemata nel momento in cui avevo preso quella stupida penna di plastica omaggio per iscrivermi alla gara.
"Nome del fantino: Cordelia Morgan. Nome del cavallo: Zar"

Zar era il cavallo del nonno.
Un animale docile che non aveva mai alzato la cresta in nessuna occasione, che si faceva accarezzare dai bambini e non si sentiva troppo disturbato dai cani che scorrazzavano per il ranch.
Il cavallo del nonno, non il mio.
Era un po' più grande di Artax, ma non altrettanto testardo.
"Può funzionare." avevo bisbigliato quando ci avevano chiuso nel box di partenza.
Per via di quella cancellata sterile che ci separava dalla pista avrei odiato il numero 4 per tutta la mia vita.
Zar sembrava tranquillo: non era la prima volta che gareggiava ed era abituato ad essere cavalcato da condicenti diversi. Tutto sarebbe andato per il verso giusto.
"Fantini pronti!"
Il cuore mi batteva all'impazzata: aspettavo che quella totalità, quella fusione si accendesse tra me e il mio nuovo destriero. Dovevamo essere una cosa sola se dovevamo cavalcare insieme, anche solo per quei pochi metri.
La campanella ad un tratto scoppiò nelle mie orecchie come uno sparo assordante e il cancello del boz si aprì.
L'istinto prevalse; mi abbassai per spronare le redini.
Volevo che Zar corresse come il vento, e lui lo fece.
Le corse a cavallo sono una fusione di anime e per un attimo mi parve di percepire così forte quella di Zar da dimenticare che cosa fosse la mia intesa con Artax. Lo vidi scivolare agilmente accanto ad un altro animale d'aria, color del bronzo, e lo sentii vibrare mentre i suoi zoccoli aravano lo sterrato della pista.
Passammo il primo segmento in linea retta, poi curvammo inclinandoci leggermente.
Davanti a noi c'era soltanto un fantino in groppa ad un cavallo nero: era un animale decisamente sinuoso, forse non con una gran tecnica ma probabilmente con molta resistenza alle spalle, e scalpitava come se lo inseguisse il demonio.
Nonostante avesse il paraocchi, quella bestia continuava a scuotere la testa, mentre il suo conducente cercava di richiamare la sua attenzione gridando e dandogli piccoli colpi con il frustino.
Sembrava avesse paura.

Il primo giro lo concludemmo da secondi.
Il nonno strepitava e vedevo papà applaudire sugli spalti.
Non c'era bisogno che un altro cavallo Morgan vincesse un'altra coccarda e nemmeno che la vincessi io, che sugli scaffali della mia camera da letto aveva una collezione di trofei già abbastanza traboccante.
Ma quella era la gara del cambiamento.
L'accettazione della crescita.
Ricordo che su quella sella mi sentii grande, matura abbastanza per affrontare ogni cosa potesse accadermi perché potevo essere tutto quello che volevo: potevo essere Cordelia, potevo essere Artax, potevo essere qualsiasi cosa.
Dio avrebbe dato il corpo del vento a me.
Fu proprio in quel momento che arrivammo di nuovo alla prima curva; Zar cominciò ad emettere una serie di piccoli sbuffi irregolari, a frenare e a scuotere la testa in su o in giù come si starnutisse.
"Cosa fai?" strillai.
"No! No!"
Avevamo perso terreno, anche se non abbastanza da farci superare ma la nostra natura ne era rimasta ferita: eravamo barcollanti e non armonici.
Spronai le redini, mentre avvertii un momento di sussulto da parte del fantino in groppa al cavallo nero al primo posto: aveva lanciato un'occhiata verso di me e qualcosa lo aveva distratto.
Zar continuò scuotere la testa in su e in giù come se provasse fastidio al muso: doveva trattarsi di un'ape, o di qualche insetto che gli era entrato nel naso.
Stavamo per imboccare la seconda curva.
Correre più veloci.
La virata verso sinistra.
Più veloci.
La sterzata dell'aria.
Ancora più forte.
Poi di nuovo il rettilineo.
Ma qualcosa andò storto.

Zar puntò le zampe anteriori e sgroppò con il posteriore, facendomi scivolare in avanti.
Mi ritrovai in pochi secondi quasi in braccio al suo collo a sostenermi su un paio di redini troppo molli perché potessero essere un valido appiglio.
Il cavallo non si fermò e, sbilanciato dalla mia posizione innaturale, continuò a correre fino a farmi cadere rovinosamente a terra.
Non era successo nulla fino a quel punto: ero caduta un sacco di altre volte da cavallo e mi ero sempre rialzata, più o meno dolorante, forse con qualche osso rotto e l'orgoglio un po' ammaccato.
Quella fu la prima volta in cui anche il cavallo che governavo prese parte alla rovinosa caduta con me e mi finì addosso.
Oggi mi dico che se devo prendermela con qualcuno, dovrei farlo con la fisica: quando un corpo ruota attorno a un centro, sempre più forte, sempre più velocemente, esiste una forza centrifuga che lo spinge verso l'esterno.
Fu proprio per questo che Zar mi cade addosso con i suoi cinquecento chili e una sella di almeno altri dieci.
Fece male all'orgoglio, più di quanto una vita di cadute non avevano provocato dolore.

Da ragazzina di diciassette anni paralizzata dalla vita in giù, ero sempre un po' indietro con i tempi, ma perfino io avevo sentito parlare del film "Quasi amici".
Sinceramente non importava un granché di andarlo vedere, tanto meno di andare al cinema che era troppo lontano e troppo faticoso da raggiungere.
A quasi un anno dalla mia paralisi mi ero resa conto che avevo dato per scontato un sacco di cose: scendere dalle scale come quando volevo per scendere a fare colazione e poter prendere un barattolo di marmellata da sopra il frigorifero, riuscire ad infilare un paio di calze di nylon e sentirmi sexy davanti allo specchio o decidere di scappare di casa, anche se non lo avevo mai fatto, e andare ovunque volessi.
Non ero mai stata una femminista, non mi era mai importato nella lotta per il salvataggio delle balene e nemmeno della politica; tuttavia mi era successo di affezionarmi molto ad alcune cause di cui sentivo parlare spesso in tv e di cui ormai parlavo di continuo.
"Dovremo mandare una donazione a questa associazione che salva i delfini spiaggiati in Giappone." avevo detto a colazione, immergendo il cucchiaio in una tazza di cereali mentre staccavo gli occhi dalla televisione.
Papà aveva mugugnato qualcosa, mentre la mamma aveva preso a rimestare più velocemente nella ciotola dell'impasto delle frittelle.
"Cordelia, perchè non vai fuori un po'?" domandò il nonno seduto sulla sua poltrona in soggiorno.
Me ne stavo là, seduta sulla mia sedia a rotelle del piano terra; questo perché ormai in famiglia ne avevamo ben due in modo che potessi salire e scendere dal montascale in completa autonomia e andare dove volessi.
Era veramente stupido da dire.
Ora papà stava impostando i documenti per l'iscrizione di alcuni cavalli a un concorso di bellezza che si sarebbe tenuto Sussex: esami del sangue, idoneità a gareggiare, certificati di salute dei fantini, cose così...
Quando impostava quelle scartoffie creava sempre un ingombro sul tavolo della cucina, un gran disordine che poteva anche sembrare un bello spettacolo; era un bene che non avesse smesso di lavorare a ciò che più amava.
"Allora?" chiese ancora il nonno come per attirare la mia attenzione.
"Fuori c'è l'erba: faccio più fatica con le ruote."
Il nonno aveva bofonchiato.
"Non c'è mica erba dappertutto..."
"Beh, con lo sterrato è lo stesso!"
Non avevo sorriso all'idea anzi mi sentivo arrabbiata e frustrata perché quel vecchio gentiluomo da divanetto del salotto pareva non capire: a distanza di un anno era ancora all'unico che cercava di convincermi a fare le stesse cose che avevo sempre fatto.
"Potremo aprire un'area per tipo terapia!" aveva esclamato un giorno tutto tronfi un felice ritornando da una passeggiata.
"Oppure fare dei piccoli corsi di equitazione rieducativa per disabili."
Ma per favore...
A chi poteva importare quella roba?
Sapevo che l'aveva detto per me, ma io ero diventata nervosa e gli avevo sbattuto in faccia che non volevo più sentire stronzate del genere e che sarebbe stato meglio che pensasse a tirare avanti con l'allevamento, come avevamo sempre fatto.
Da quella sfuriata avevo guadagnato un incontro con uno psicologo e la decisione di farmi ritornare a scuola.
Fantastico!
Non avevo mai fatto caso a quanto quell'istituto fosse pieno di barriere architettoniche, così quando ci ero tornata dopo una decina di mesi avevo scoperto che mi sembrava anche tutto più grande: le porte che prima aprivo con una mano sola, ora doveva spalancarmele qualcun altro e per raggiungere la mia classe ero costretta ad utilizzare il montacarichi con cui i fattorini della mensa trasportavano gli scatoloni o riponevano i vecchi banchi rotti in soffitta.
La mia non era il genere di famiglia che si prendeva a cuore le questioni burocratiche; tuttavia, non appena si presentò il problema fecero in modo che la scuola disponesse un banco speciale per me davanti alla cattedra e finanziarono la costruzione di una rampa con cui potessi entrare senza difficoltà nella palestra.
Assurdo!
Era un controsenso che ci fosse interessa farmi entrare in quel posto, come se potessi mettermi i vestiti e prepararmi per una corsetta...
Non voglio iniziare a raccontare storie strappalacrime su quante volte mi è stato offerto il pranzo o su quanti si siano premurati di farmi compagnia durante la ricreazione; mi rendevo conto che all'interno di quell'ambiente protetto non avevo nulla da temere.
Nessun episodio di bullismo, nessuna parola fuori posto.
"Delia è caduta da cavallo, l'autunno scorso!"
"Quell'animale l'ha calpestata quattro volte!"
"Mio padre mi ha raccontato che non era la prima volta in cui ha rischiato di morire..."
"Stava per vincere la corsa più importante della sua vita!"
E' così che nascono le leggende.
Mi sono domandata che cosa sarebbe successo se avessi smentito tutto: magari potevo raccontare di essere stata aggredita da uno squalo, oppure di aver partecipato ad una rapina in banca finita con un inseguimento alla 007 e un incidente d'auto con tanto di scoppio della macchina della polizia.
Sarebbe stata una storia molto più figa di quella vera.

La scuola era diventata una normalità.
Facevo lezioni di biologia, letteratura, matematica, laboratorio d'arte... insomma niente di speciale, ma mi permetteva di dare una cadenza al passare delle ore.
Non volevo tornare a quei mesi passati a letto a realizzare che il formicolio che sentivo non sarebbe passato mai, o peggio, che sarebbe passato subito, e la consapevolezza che ormai quelle gambe erano soltanto due estensioni di me su cui non avevo più alcun controllo.
Nel frattempo, per quanto ne sapevo, Zar se ne stava tranquillo nel suo box.
Il resoconto della gara di quell'autunno si era concluso con un fantino handicappato e un cavallo illeso; certo che la vita è buffa...
Non mi ero mai informata sul perché il cavallo si fosse imbizzarrito: non avevo chiesto se avesse visto qualcosa che potesse averlo spaventato, se fosse stato punto da un insetto, o se semplicemente glii fossero girate le palle per i fatti suoi!
I box e i recinti del ranch erano ormai una parte della casa che non esploravo più, semplicemente perché nella mia mente ormai non corrispondevano nemmeno più ad un'area della casa.
Il giardino finiva dopo i tre gradini dell'ingresso; gradini che peraltro avevano un corrimano di legno su cui era stato impossibile montare un saliscendi per le scale...
Avevo chiesto alla mamma almeno di rimuovere tutti i miei trofei dalla camera da letto; lei aveva protestato per un po', ma poi li aveva inscatolati e messi da qualche parte.
Mi sembrava giusto, quella era roba mia e ci facevo quello che volevo.
Papà mi aveva anche chiesto se potesse farmi sentire meglio se avesse rimosso gli articoli di giornale appesi in soggiorno che parlavano del nostro ranch, le coccarde sul cammino e i ferri di cavallo utilizzati come fermacarte, ma avevo detto di no: la casa era talmente piena di quegli ammennicoli che probabilmente avrebbero dovuto chiamare un arredatore se avessero rimosso tutto! Apprezzai molto quella proposta, come se tutti quei piccoli gesti potessero significare dei passi importanti per la mia accettazione.
Non si poteva dire lo stesso del nonno: sembrava uscito da uno di quei musical di Brodway in cui tutti sono felici e cantano la loro contagiosa gioia di vivere.
"Dai, Delia! Fuori c'è il sole!"
Ogni tanto veniva da me dicendo che l'aveva contattato un allevatore proponendogli una monta parecchio vantaggiosa, oppure che il veterinario era impazzito e gli aveva chiesto ben 100 cucuzze per vaccinare quattro animali.
Alla fine sorrideva speranzoso, ma non me ne importava nulla.
Fanculo a Zar e alla giumenta che l'aveva messo al mondo.

Quella mattina era stata abbastanza insolita per il fatto che nessuno avesse mostrato entusiasmo per la donazione all'ente benefico che salvava i delfini; di solito i desideri di un'handicappata sono sempre assecondati di buon grado...
Il nonno era fin troppo tranquillo per non essere intento a fare nulla di particolare: si vedeva lontano un miglio che stava archiettendo qualcosa.
Sorseggiò il suo caffè e poi si lisciò i baffi.
"C'e la fiera equina della contea." disse poi distrattamente, mentre io alzai gli occhi al cielo.
"E allora?"
"Beh, io dovrò andarci di certo!" si intromise mio padre lasciando correre il discorso e facendo saltellare le buste sulla superficie della tavola.
Decisi di concentrarmi sulla colazione: quel discorso non avrebbe portato assolutamente a nulla.
"Andiamo, Diana! Vacci anche tu!"
Fulminai mia madre con lo sguardo mentre il nonno si era alzato dalla poltrona per avvicinarsi.
Non avrebbe dovuto andare, non quando io ero a casa in quello stato.
"Che c'è di male, Delia?" domandò poi mister ottimismo over settanta.
"Non ho detto ninete."
"Hai alzato gli occhi."
Sorrise e io sbuffai.
"Penso solo che non dovrebbe lasciarmi quì da sola così!"
"Così come?"
Lo guardai con odio. Lo sapeva benissimo come, anche se io non riuscivo ancora a dirlo.
Avrei voluto andarmene correndo e sbattendo la porta, ma sarebbe stato tutto così lento che sarebbe stata uno schifo di dimostrazione di ribellione adolescenziale.
"Sarebbe solo per una sera." commentò mia madre.
"Una sera e una mezza mattinata. Rimarremo per la cena e torneremo per il proanzo del giorno seguente."
Stronza traditrice! Ci aveva già pensato.
Tutti d'accordo ad attendere il consento del cadavere dentro casa.
Fu come rendermi conto che il mondo intorno a me avrebbe continuato a giraree e io avrei fatto lo stesso, con l'unica differenza che io lo avrei fatto più lentamente e sarebbero stati gli altri a doversi preoccupare che tenessi il passo.
Avrebbero guardato con agoscia innanzi a loro pur desiderosi di proseguire, terrorizzati di correre troppo veloci e si sarebbero guardati alle spalle con il terrore di perdermi di vista.
Erano loro ad essere sospesi, non io.
"Non importa." concluse mia madre.

I miei genitori uscirono di casa pieni di scartoffie, falsi sorrisi e bugie.
"Sarà un noia mortale; il solito lavoro."
Non era vero, ma feci finta di crederci lo stesso anche quando il nonno prese tra le mani il volantino della fiera ippica e lo buttò nel cestino della spazzatura sotto il lavello.
"Beh, hai programmi per la giornata?" mi chiese poi.
"Sono stanca. Penso tornerò a dormire."
Lui si tolse il cappello e allungò una mano per trattenere uno dei manici della mia sedia a rotelle del pian terreno.
"Delia... io..." sussurrò.
"Tu cosa?"
"Io voglio che tu venga a vedere una cosa." disse venendo verso di me e guardandomi negli occhi.
Rimasi lì a fissarlo per un lungo minuto: avevo uno strano sospetto su cosa mi avrebbe chiesto di guardare.
"Si tratta di Zar."
"Oh, tu non puoi chiedermi..."
"Cordelia!"
"No!"
Avanzai bruscamente con la mia sedia verso il montascale.
"Tu non puoi costringermi a vederlo! Nè lui nè gli altri! Vattene via!"
Lo sapevo.
Lo sapevo da come si rigirava il suo giornale tra le dita, da come cercava di parlarmi negli ultimi tempi: era finito il momento degli incoraggiamenti, dei suggerimenti ad uscire e  degli sguardi di rimprovero.
"Delia!"
"Stai zitto!" strillai di nuovo, ma non avevo scampo. Non avrei mai potuto continuare ad urlare e contemporanamente issarmi sul montacarichi senza perdere il controllo di me stessa.
"Delia, Zar sta morendo."
Lo sputò come una verità assoluta. Un dogma. Un postulato.
Come se fosse l'unica cosa giusta da dire e l'ultima cosa vera.
Rimasi immobile, ansimando forte e non potendo credere a quelle parole orribili.
Il nonno tornò verso la porta d'ingresso e la aprì leggermente, come se l'ingresso della brezza autunnale fosse una conferma di realtà.
Il mio cuore si era improvvisamente riempito di gioia.

   
 
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