Casa
non le era mai sembrata così bella. Vestiti comodi, acqua
calda che usciva dal
doccione, phon, cibo preconfezionato, riscaldamenti, nessuna fontana
assassina
o lupi e
soprattutto nessun incubo. Non sognava da quando era tornata ed erano
passati giorni
ormai. Sua madre aveva quasi avuto un infarto quando l’aveva
vista. L’aveva stretta con
tanta forza da soffocarla quasi e anche Dominic era
stato più affettuoso del solito. Non
aveva saputo che scusa inventare per il
fatto di essere sparita per un mese, così aveva
semplicemente detto la più
assurda delle bugie. Non ricordava nulla. Assolutamente nulla.
Christian
l’aveva trovata priva di sensi in un vicolo della
città e l’ultima cosa che
ricordava
era che era uscita di casa la mattina in cui era scomparsa. Sua madre
non aveva indagato
oltre, le aveva solo chiesto centinaia di volte se stesse
bene. In effetti, tutte quelle attenzioni
non le dispiacevano. Veniva
coccolata, viziata e, per la prima volta da tanto, ascoltata.
Quello
che non aveva apprezzato erano state le attenzioni della polizia.
L’avevano
sommersa di domande, scrutandola come se fosse una pazza o una
bugiarda. E non
avevano tutti i torti. Ma lei aveva continuato a sostenere la sua tesi.
Non
ricordava nulla.
Inoltre Christian aveva detto di averla trovata a terra,
svenuta.
Aveva
dovuto fare anche una visita medica di accertamento dei
“danni”, ma l’unica
lesione
che avevano trovato era stato il livido che aveva sul polso sinistro,
dove la bestia l’aveva
afferrata per portarla nelle segrete. Alla fine i
poliziotti avevano lasciato perdere, almeno
finché lei non avesse ricordato
qualcosa che potesse aiutarli nelle indagini.
Christian
era diventato più protettivo nei suoi confronti, come tutti
del resto. Ogni
notte, prima
di andare a dormire, socchiudeva appena la porta della sua stanza
e le chiedeva se fosse
tutto okay.
Aveva
sfiorato più volte il pensiero di raccontargli tutta la
storia, di Rosaline e
dei suoi sogni,
ma ogni volta scacciava quell’idea.
Inoltre,
che importanza aveva più? Ora che Christian aveva rotto lo
specchio, non
avrebbe
più rivisto il castello, né tanto meno Adam.
lasciato al buio, in una stanza dove non sarebbe entrato mai
più, dove non
avrebbe più
potuto vederlo. Aveva chiesto alla strega di proteggerlo con un
incantesimo, così che non
sarebbe appassito mai, così che ci sarebbe sempre
stato almeno quel flebile ricordo.
Avrebbe
voluto distruggerlo, bruciarlo, stringerlo tra le mani
finché tutto il suo
colore non
l’avesse abbandonato, scorrendo sulle sue mani colpevoli, ma
non
aveva potuto, perché
ora quel sottile petalo rimasto conteneva tutta la sua
anima. E lui non era altro che un
corpo vuoto.
Aveva
dovuto, aveva dovuto lasciarla andare. Lì, costretta in
quelle mura, con una
bestia
che non aveva fatto altro che mentirle, sarebbe morta. E lui non
avrebbe
sopportato che
quella luce nei suoi occhi si spegnesse, non se lo sarebbe mai
perdonato.
Aveva
sempre creduto di essere solo un mostro e che nessuno avrebbe mai
potuto
salvarlo, ma, quando quella notte aveva visto per la prima volta i suoi
occhi,
l’aveva sperato
con tutto se stesso. Aveva sperato che potesse essere salvato,
redento, per poter essere
degno di quello sguardo. Si era aggrappato con
disperazione alla speranza che potesse
anche solo avvicinarsi a quell’anima che
vedeva attraverso quegli occhi.
E
aveva quasi creduto che il suo desiderio potesse avverarsi. Ma quella
notte, di
fronte
all’orrore che riempiva il suo sguardo, aveva capito che lui
non sarebbe
mai stato altro che
un animale che un tempo era la brutta controfigura di un
uomo. Il suo cuore, che così
timidamente e sorprendentemente aveva ripreso a
battere, nutrito da un sentimento che
credeva gli sarebbe stato per sempre
estraneo, si era infranto definitivamente, finché non ne
era rimasto altro che
un muscolo avvizzito di cenere molle. Lo sentiva ancora
sanguinare
copiosamente, strappato all’anima che lui aveva rinchiuso in
una teca
impolverata,
nascondendola, preda del ricordo di un’altra anima affine,
ora
troppo lontana.
E
avrebbe voluto rincorrerla, fermarla, costringerla a tornare da lui,
quell’anima, perché il primo
istinto di chi non trova aria è spalancare la
bocca e respirare, e perché se il suo cuore non
fosse tornato a battere, lui
sarebbe morto.
Ma
non aveva potuto. Per la prima volta in tutta la sua vita, aveva
sentito il
bisogno di
mettere la felicità di qualcun altro prima della propria.
Così,
aveva perso l’aria per i suoi polmoni, la benda che gli
teneva in vita il cuore
e né le
urla né la furia con cui aveva distrutto ogni cosa nel
castello, nella
serra, avevano potuto
lenire quella mancanza.
Si
era rinchiuso in una stanza, a fissare il vuoto con lo sguardo perso,
sopraffatto da un
dolore che non conosceva e che era molto più forte di lui,
tenendo lontano il pensiero della
rosa e dell’ultimo sogno che gli era rimasto.
sua porta, come ormai
faceva sempre. Insomma, urlavo il tuo
nome al vento e ho pensato,
ecco, ora quella bestia mi sente e mi riduce a
polpette, ma non sapevo se fossi ancora nel
castello e magari, se mi avessi
sentito.. non ho riflettuto molto.
Oh,
Christian,
non era riuscita a
non rispondere, non è una bestia.
Suo
fratello l’aveva guardata, aspettando che continuasse, ma lei
era rimasta in
silenzio,
restituendogli lo sguardo.
L’importante
ora è
che tu sia qui,
aveva sussurrato alla fine e, dopo averle sorriso,
l’aveva
lasciata sola.
Già.
Lei era lì, a casa, quello era l’importante. O no?
Sospirò,
esasperata, rigirandosi ancora una volta nel letto. Non avrebbe mai
detto che i
suoi
sogni le sarebbero mancati, ma la sua mente la stava torturando con
quel
silenzio ad oltranza.
Scalciò via le coperte, si alzò e
avanzò scalza fino alla
cucina. Si raggomitolò sul divano,
avvolgendosi con una coperta e accese la tv.
Poco a poco, mentre attori e telecronisti si
susseguivano sullo schermo, gli
occhi le si fecero pesanti e fu avvolta dall’oblio.
Sbatté le palpebre
più volte, guardandosi intorno e non poté fare a
meno di sorridere.
Stava
sognando. Portava l’abito verde e bianco che aveva indossato
per andare alle
serre
con Adam, prima che scoprisse la verità su Rosaline e su
Leon. Si scostò
i capelli dal viso,
cercando di capire dove fosse. Di fronte a lei si allungava
una scalinata di marmo bianco
spezzata in più rampe, i cui tasselli erano
bianchi scalini rovinati dal tempo, costellati di
crepe. Ad ogni curva, una
finestra rettangolare lasciava intravedere un prato secco,
circondato da un
alto cancello di ferro e più su, la notte. Alle sue spalle
occhieggiava una
porta, anch’essa totalmente bianca, socchiusa.
Soppesò l’idea di continuare a
salire, ma
alla fine optò per la porta, ritrovandosi in un ampio
androne dalle
pareti bianche e le grandi
finestre, arredato solo con due tavoli rotondi e
qualche sedia sparsa qua e là, molte delle
quali rotte o con i piedi spaccati.
L’edificio doveva essere stato abbandonato anni prima, il
pavimento era
ricoperto da uno spesso strato di polvere, i vetri erano sporchi e in
molti
angoli
i ragni tessevano silenziosi le loro ragnatele. Aprì
l’unico altro uscio
della stanza e attraversò
il corridoio costellato di soglie chiuse, finché non
arrivò ad un’ altra porta, più grande,
provò
ad aprirla, ma doveva essere
chiusa a chiave. Sembrava una specie di ospedale o ricovero.
Chissà perché
avevano smesso di utilizzarlo.
Si avvicinò ad una
delle tante porte, spingendola delicatamente, e guardò
dentro. C’erano
solo due
letti e un piccolo armadio, la solita finestra rettangolare e poi una
figura.
Un uomo.
Sembrava guardarsi intorno, confuso.
Trattenne il fiato,
lasciando la presa sulla maniglia.
-Adam?- si voltò di
scatto, non appena udì la sua voce. Fece un passo verso di
lei, ma poi
si
bloccò, sovrappensiero.
Gli era mancata
terribilmente. E rivederla non faceva altro che ricordargli quanto
quella
mancanza gli facesse male. Avrebbe dovuto rimanere nel suo dolore
solitario,
oscuro,
lontano da quella rosa, spoglia dopo quella notte, e lasciare che lei
lo dimenticasse.
Ma l’istinto era
stato più forte, lo aveva condotto fino alla teca,
tentandolo e lui aveva
ceduto.
-Io.. volevo solo
assicurarmi che tu stessi bene-
-Sto bene- si
avvicinò appena. -E
così, questo è il
tuo vero aspetto-
Nel suo ultimo sogno,
era stata così presa da ciò che Rosaline le aveva
mostrato, che non
si era
presa il tempo per guardarlo e studiarne ogni dettaglio. Si
avvicinò ancora,
sollevando
la mano, e lui rimase immobile, scrutandola con attenzione, mentre
faceva scivolare le dita
sulla fronte ampia, il naso appuntito, le guancie. Se
non l’avesse più rivisto, voleva almeno
imprimersi a fuoco nella mente ogni
particolare. Lasciò cadere la mano.
-Mio fratello ha
rotto lo specchio- sussurrò, senza neanche sapere
perché.
-Io.. credevo che non
volessi tornare al castello-
-È così, ma..-
Arretrò, portandosi
le mani sul volto, mentre il suo respiro accelerava. Ma? Aveva detto ma?
Dio,
era così confusa. Quando era tornata a casa si era sentita
così sollevata e non
voleva
tornare al castello, non voleva tornare da una bestia che
l’aveva
ingannata. Adam, però, le
mancava ogni giorno di più, le mancava la
felicità
che aveva provato con lui e, sebbene le
avesse mentito, l’aveva fatto per
poterle stare accanto, lui l’aveva sempre ascoltata,
l’aveva
salvata più di una
volta, le aveva donato la biblioteca e la serra, anche se in un modo
tutto
suo.
Non voleva lasciare la sua famiglia e non voleva perdere Adam.
-Io non posso farlo.
C’è la mia famiglia e.. non posso-
Lui annuì, abbassando
lo sguardo, quella lieve speranza svanita dai suoi occhi.
-Adam, la maledizione
può essere spezzata solo da qualcuno che ti ami sopra ogni
altra
cosa.. tu..
pensavi che fossi io?-
No, non l’aveva mai
pensato, ma l’aveva desiderato ardentemente.
-Non ha importanza.
Se anche non fossi tu e un giorno arrivasse qualcuno, non avrebbe
importanza.
La maledizione più grande non era non essere amato, ma non
amare
nessuno, ma
ora.. ora tutto è cambiato-
Cosa? Tutto è
cambiato? Si accigliò, lasciando che lui si avvicinasse.
-Che vuoi dire?-
Le afferrò il
braccio, attirandola a sé e poggiò le labbra
sulle sue, stringendola con la
foga
di chi respira di nuovo dopo tanto tempo.
Si staccò da quel
contatto di malavoglia e, in realtà, anche stupito non solo
che lei glielo
avesse lasciato fare, ma che avesse risposto con lo stesso impeto.
Voleva che
lei capisse.
-Belle, al diavolo la
maledizione, non mi importa di essere un mostro, perché tu
non vedi la
bestia,
tu vedi..-
Indicò se
stesso. -.. questo.
Quello che voglio
dire è che non mi importa più ciò che
io vedo
allo specchio, ma ciò che vedi
tu-
Le prese il volto tra
le mani, costringendola ad alzare lo sguardo. –Belle?-
Cosa avrebbe dovuto
dire? La confusione che aveva provato prima non era nulla in
confronto al
vortice con cui mille pensieri la stavano torturando.
Aprì la bocca per
rispondere, ma non uscì alcun suono. Un movimento oltre le
spalle di
Adam
attirò la sua attenzione. Ma che..? Quando erano finiti in
quel bosco? Sbatté
le
palpebre insistentemente, sicura di vedere male, anche se una brutta
sensazione le aveva
attanagliato lo stomaco. Il movimento che aveva attirato la
sua attenzione era la corsa di un
cerbiatto in fuga da qualcosa. Si sporse
oltre Adam, cercando di capire cosa stesse
succedendo.
-Belle?- lo ignorò,
scrutando la vegetazione.
Il cerbiatto
riapparve nel suo campo visivo, sfrecciandole accanto. Seguì
la sua corsa,
prima
di tornare a voltarsi. A poca distanza da loro, una figura
d’uomo avvolta
dall’ombra, si era
appena fermata. Sollevò il fucile, puntò,
premette il
grilletto.
Belle sgranò gli
occhi, trattenendo il fiato. No, no, no.
Era solo un sogno,
solo un sogno..
Non poteva lasciare
che colpisse Adam. Non poteva permettere che gli accedesse qualcosa.
Al diavolo
la maledizione, al diavolo ciò che aveva fatto in passato,
il suo aspetto, ciò
che le
aveva rivelato Rosaline, al diavolo i suoi sogni, il fatto che non
l’avrebbe rivisto mai più.
Lo scostò, sentendo il
proiettile perforarle la carne, ferirle l’addome. Trattenne
il fiato, il
cacciatore svanì poco a poco, Adam urlò il suo
nome, la sorresse, stendendola
delicatamente a terra.
Guardò l’espressione
di dolore e stupore che gli scolpì il volto.
Lei lo amava, più di
ogni altra cosa.
Le accarezzò i
capelli, il volto, mentre una lacrima silenziosa gli solcava il viso.
-Andrà tutto bene,
okay? È solo un sogno, solamente un orrendo incubo. Deve essere
solo un sogno-
-Lo
è- sussurrò, le
palpebre sempre più pesanti.
Lo era, solo che
prima o poi si sarebbe avverato.
Un’oscurità immobile che la circondava, senza
lasciarle fiato. Non poteva
muoversi,
parlare, sollevare le dita e non poteva piangere, come avrebbe
voluto. Era in un limbo
silenzioso e scuro dal quale voleva risvegliarsi a
tutti i costi, così, presa dal panico del
sogno e dell’insolito risveglio,
urlò.
Una
luce pallida l’accecò e delle braccia la scossero,
finché non mise a fuoco il
volto teso
di sua madre.
L’abbracciò
d’istinto e lasciò che le accarezzasse i capelli e
la schiena, sussurrandole
parole dolci e rincuoranti.
-Oh,
mamma- piagnucolò, nascondendo il volto sulla sua spalla. –Ero in un posto
buio e
non potevo muovermi o
parlare-
Si
strinse di più a lei, tenendo gli occhi sbarrati in cerca
della luce.
-Tesoro,
calmati, era solo un sogno-
Smise
di tremare e lasciò la presa, tornando a stendersi.
Guardò sua madre come se
fosse una figura troppo distante per poterla toccare ancora.
-Sei
più tranquilla ora?-
Annuì,
la mente lontana.
-Lascio
la luce accesa?-
Scosse
la testa. Non era l’oscurità a spaventarla, ma
quelle parole. Era solo un
sogno..
L’ultima
volta che sua madre aveva detto così, delle persone erano
morte.