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Autore: Eibhlin Rei    08/07/2015    3 recensioni
La C.A.T.T.I.V.O. non si è limitata a seguire gli esprimenti dei gruppi A e B, ma ne ha anche condotto un altro, parallelo ai primi due. Stavolta però, le Variabili sono diverse e si tratta di un unico soggetto.
Lei deve solo osservare...
"Nonostante la sua giovane età credeva di aver smesso di avere paura, ma in quel momento la barriera che si era costruita intorno si incrinò e la realtà le arrivò addosso come una valanga: non provò più solo dolore per tutto ciò che stava abbandonando, ma anche un terrore cieco. Le avevano soltanto detto che avrebbe avuto un ruolo chiave nella cura dell’Eruzione e che avrebbe salvato la razza umana. Ma a quale prezzo? Cosa sarebbe successo a lei?"
Spoiler fino a "La rivelazione" e riferimenti a "La Mutazione".
Genere: Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Minho, Newt, Nuovo personaggio, Teresa, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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17.
 
Erin si sedette sul lettino in silenzio, quasi non fosse lei quella a cui stava per essere ficcato un marchingegno nel cervello. Attaccata alla testiera del letto e posizionata esattamente al di sopra del punto in cui si sarebbe trovato il suo viso subito dopo essersi sdraiata, c’era un’inquietante maschera di metallo luccicante da cui partivano diversi tubicini di plastica.
Teresa aspettava immobile in un angolo, i grandi occhi azzurri velati di una lieve inquietudine. Aveva insistito un bel po’ per accompagnarla. «Sarai la prima a cui verrà inserito quest’impianto, voglio solo essere sicura che nulla vada storto», le aveva detto.
Lei aveva scrollato le spalle. «In tal caso, potresti farci qualcosa?»
Teresa era stata costretta ad ammettere che no, non avrebbe potuto fare nulla, ma aveva aggiunto che al responsabile dell’errore sarebbe sempre potuto capitare qualcosa, magari durante la notte…
Erin si era concessa una piccola risata, che era riuscita a sciogliere almeno un po’ il nodo ingarbugliato in cui  si era tramutato il suo stomaco.
Inspirò profondamente, scambiando con quella che ormai era diventata la sua migliore amica un’occhiata d’intesa. Inizialmente era stata categorica nell’affermare di non volere che nessuno assistesse all’operazione, ma adesso era grata che Teresa avesse insistito e fosse lì con lei.
«Sei preoccupata?»
«Meno di quanto mi aspettassi», le rispose con tranquillità. «Ho un po’ di strizza, sì, ma non così tanta… alla fine è solo una piccola operazione.»
La mora sollevò un sopracciglio. «Sembra quasi che non te ne importi nulla.»
«Cerco di essere obbiettiva… voglio dire, non stravedo per queste persone, ma devo ammettere che il loro… chiamiamolo lavoro lo fanno piuttosto bene, quindi perché dovrebbe andare storto qualcosa?»
Teresa parve essere rimasta positivamente impressionata da quella risposta. «Non c’è che dire, sei sempre stata tosta e non ti stai smentendo affatto», commentò, andandosi a sedere accanto a lei. Lasciò passare qualche attimo, poi parlò di nuovo, ma con un tono di voce molto più sommesso. «Hai già visto Newt, oggi?»
Tecnicamente sì, l’aveva visto eccome, dato che da quando era tornata in camera – alle cinque passate – non erano trascorse neanche tre ore. Teresa era l’unica persona, oltre ad Alice, a sapere dei suoi incontri con Liam, ma non era esattamente il caso di mettersi a parlarne lì come se niente fosse.
«No», rispose con un sospiro. «Tu e Tommy non eravate gli unici assenti a colazione… e subito dopo l’Uomo Ratto mi ha portata qui.»
«E Lizzie?»
«No, non ho visto nemmeno lei. Credo sia con Newt per stare un po’ assieme a lui prima…» Esitò: non le piaceva affatto quello che stava per dire, specie in quel momento, visto che di lì a poche ore e sarebbe diventato reale. «… di separarsi.»
«Capisco…», mormorò Teresa, ma poi alzò gli occhi verso il soffitto un paio di volte e lei capì che le stava chiedendo se quella notte si fossero visti sul tetto. Glielo chiedeva sempre così quando quell’argomento saltava fuori in posti in cui avrebbero potuto essere osservate o ascoltate. Quasi sempre, in pratica.
Lei sbatté ripetutamente le palpebre. E quello era il suo modo di risponderle: un sospiro per dire no e dei rapidi battiti di ciglia per dire sì.
Non ebbero il tempo di “dirsi” altro perché un attimo dopo la porta si aprì per lasciar entrare la signorina McVoy, accompagnata da un uomo con indosso un lungo camice bianco. Era molto alto, con la carnagione olivastra, gli occhi grigio-verdi e le labbra sottili incurvate in un sorriso.
E Erin quell’odioso sorriso non se l’era mai scordato, nonostante non l’avesse più visto dal giorno del suo arrivo al Quartier Generale.
«Jack?», domandò, non riuscendo a mascherare il suo tono sorpreso.
«In persona», confermò lui, senza smettere di sorridere. «È un po’ che non ci si vede, Johanna.»
Non sarà mai troppo.
«Che cosa ci fai qui?»
Prima che Jack potesse risponderle, la signorina McVoy si schiarì la gola. «Johanna, ti sarei grata se ti rivolgessi al mio collega con più educazione», la riprese, lanciandole un’occhiata severa.
Erin rimase in silenzio, guardandola fissa negli occhi, come a volerle far intendere di non essere stata affatto intimorita dal suo rimbrotto.
Se ti aspetti delle scuse possiamo anche stare qui per l’eternità.
Gli occhi della donna si assottigliarono, riducendosi a due fessure. «E per rispondere alla tua domanda, il dottor Fowler è qui perché è il creatore del dispositivo che sarà inserito nella tua zona della violenza. L’ha ideato appositamente per te e per il Progetto di Osservazione.»
Erin spostò di nuovo lo sguardo su Jack e all’improvviso non riuscì più a sentirsi così tranquilla. Le tornò in mente cos’aveva pensato quando, sette anni prima, aveva avuto a che fare con l’uomo per la prima volta: se lui era entusiasta di qualcosa, lei non doveva esserlo affatto.
E in quel momento, l’uomo le sembrava fin troppo entusiasta.
«Ora sdraiati sul lettino, per favore», disse la signorina McVoy.
Lei deglutì, avvertendo un brivido scorrerle lungo la schiena. Se fino a pochi istanti prima quell’operazione non le era sembrata nulla di che, adesso l’unica cosa che voleva era scappare a gambe levate in modo da allontanarsi il più possibile da quella stanza. Jack non le piaceva per niente e l’idea di doversi affidare a lui le faceva gelare il sangue nelle vene.
La leggera stretta che Teresa diede al suo braccio la riscosse, facendole ricordare che in quella stanza non c’erano solo la McVoy e Jack, ma anche una persona di cui potersi fidare. Si voltò a guardare per un attimo la sua migliore amica e questa le fece un breve cenno d’incoraggiamento. «Ci vediamo dall’altra parte», le sussurrò prima di alzarsi e di tornare nell’angolo.
Erin le sorrise per ringraziarla e, dopo aver inspirato profondamente, si distese. Mantenne lo sguardo fisso davanti a sé, concentrandosi su quella maschera che di lì a poco sarebbe calata sul suo viso. Sentì un leggero fastidio, come un pinzo, sul braccio destro e, mentre scivolava rapidamente nell’incoscienza dell’anestesia, cercò di concentrarsi su un unico pensiero.
Non sono sola.
 
Dopo essersi staccata da suo fratello, Alice le si avvicinò e le si strinse contro, mordendosi un labbro nel vano tentativo di fermare le lacrime che le scendevano copiose lungo le guance.
Erin si limitò a passarle un braccio attorno alle spalle. Non disse nulla, temendo che il groppo che le si stava formando in gola potesse farle tremare la voce.
«Han…»
Capì che era il suo turno. Era l’unica a non averlo ancora salutato.
Alzò lo sguardo, ritrovandosi davanti Liam. In quel momento, nonostante si trovasse solo a pochi passi da lei, le sembrò più lontano che mai. Era lì, le sarebbe semplicemente bastato allungare un braccio per toccarlo, ma era come se, di punto in bianco, quello fosse diventato il gesto più difficile del mondo.
«Non mi saluti?», le chiese lui, mentre un sorriso triste gli si disegnava sulle labbra. Quelle stesse labbra che, una manciata di ore prima, avevano sfiorato le sue.
Quel ricordo sembrò quasi spezzarla a metà. Avrebbe dovuto essere felice per ciò che era successo, e una parte di lei lo era… ma l’altra era in preda al dolore e alla rabbia. Ma, soprattutto, c’era la paura.
Erin voleva gridargli contro che no, non l’avrebbe salutato perché non avrebbe lasciato che la C.A.T.T.I.V.O. la separasse di nuovo da qualcuno a cui teneva e che quindi lui in quel dannato Labirinto non ci avrebbe proprio messo piede, al diavolo le Prove, le Variabili e tutto il resto… ma, ancora una volta, non disse neanche una parola, facendo del suo meglio per non tremare.
Di fronte al suo silenzio, il debole sorriso di Liam si spense definitivamente, lasciando che la malinconia prendesse possesso del suo viso.
Strinse i pugni, sentendo il foglietto stretto nella mano destra, infilata in tasca, accartocciarsi ancora di più. Aveva voglia di prendersi a schiaffi. Proprio lei, che aveva cercato di infondergli coraggio, ora faceva scena muta, negandogli il suo appoggio e rendendo stupide e futili tutte le sue parole. Ci aveva creduto quando gliele aveva dette e ci credeva ancora.
Ma era come bloccata dal dolore. Perché le separazioni dovevano fare sempre così male?
«Han», la chiamò di nuovo lui con un sussurro. «Posso almeno chiederti un abbraccio?»
Dovette fare uno sforzo a dir poco sovrumano per non scoppiare a piangere e aggrapparsi al suo collo per non lasciarlo più. Annuì e basta ed Alice si staccò da lei per permetterle di abbracciare il fratello.
Lui le si avvicinò quasi con cautela, circondandola con le braccia e stringendola a sé.
In quell’abbraccio, che le sembrava talmente caldo da farle dimenticare le dita gelide dell’Alaska che in qualche modo riuscivano sempre a raggiungerla, finalmente Erin riuscì a ritrovare il coraggio che sembrava averla abbandonata. Era incredibile: un attimo prima si era sentita quasi sprofondare, ma le era bastato avere Liam vicino per riprendersi. Per ricordare che ce l’avrebbero fatta.
Ricambiò l’abbraccio, ritrovandosi a stringerlo quasi avesse voluto togliergli il respiro… ma la cosa era reciproca: il ragazzo la teneva tra le braccia come se avesse avuto un bisogno disperato di lei.
Le vennero in mente una marea di cose da dire, dalle più banali e scontate alle più strappalacrime e sentimentali, ma alla fine decise di non dire nulla. Forse in futuro l’avrebbe rimpianto e si sarebbe odiata per non avergli detto che le sarebbe mancato da morire, o per non aver espresso a parole il sentimento che la sera prima li aveva portati a scambiarsi quel bacio… ma adesso le sembrava solamente che quell’abbraccio fosse più che eloquente.
Quei momenti sembrarono volare, ma a quanto pareva, secondo l’Uomo Ratto dovevano essere stati troppi perché tossicchiò un paio di volte per farsi notare e i due ragazzi dovettero staccarsi.
Minho, ovviamente, non si fece sfuggire l’occasione di commentare l’accaduto con un “Bentornati alla realtà, miei piccoli raggi di sole. Magari la prossima volta prendetevi una stanza o rischiate di accecarci tutti!” ed Erin approfittò dell’occhiataccia che Janson e la McVoy gli rivolsero per far scivolare nella tasca di Liam quel piccolo foglietto accartocciato. Il ragazzo non parve neanche accorgersene.
«Bene, ragazzi! Il tempo dei saluti è finito, è ora di andare», annunciò l’Uomo Ratto con un odioso entusiasmo. «Seguitemi.»
Liam la guardò un’ultima volta, sussurrando semplicemente, «Ci vediamo, Han».
«Ciao, Newt.»
Ci vediamo. Ciao.
Avrebbero dovuto suonare meglio di “addio”, ma invece furono delle vere e proprie stilettate.
Erin lo seguì con lo sguardo finché le fu possibile, poi, quando la porta da cui lui, Janson e tutti gli altri ragazzi erano passati si fu chiusa, strinse i pugni ed inspirò profondamente, sentendo che qualcosa, dentro al petto, sembrava farsi intollerabilmente pesante.
Nella stanza, che all’improvviso le pareva essere diventata molto più fredda e scura, erano rimasti solo lei, Alice, Teresa, Minho, Thomas e la McVoy.
«Se n’è andato…», mormorò Alice dopo qualche attimo di silenzio quasi surreale. A sentirla, sembrava quasi più incredula che addolorata.
Deglutì, tentando di ignorare il gusto dolorosamente amaro delle lacrime. «Tornerà», le disse.
«Ci puoi giurare che tornerà: abbiamo una scommessa aperta io e il signorino», rincarò Minho.
Thomas si lasciò sfuggire un sospiro, scambiando una veloce occhiata con Teresa. «Perché la cosa non mi sorprende?»
«Voi non potete capire…», ribatté Minho con una certa enfasi – Erin fu quasi sicura di aver sentito Teresa rispondere a bassissima voce che avrebbe cercato di farsene una ragione –, «… abbiamo scommesso che…».
La McVoy batté ripetutamente le mani, interrompendolo. «Basta. Come ha detto il signor Janson, il tempo dei saluti è finito. Thomas, Teresa, raggiungete subito le vostre postazioni, non possiamo perdere tempo. Minho ed Elizabeth, voi tornate alla sala delle esercitazioni. Johanna, tu invece vieni subito con me.» Le posò una mano sulla spalla, dandole un piccolo strattone per rafforzare il concetto dell’ultima frase.
Minho sbuffò infastidito, ma poi allungò ad Erin una piccola pacca sulla spalla e si avviò con Thomas fuori dalla stanza. Teresa li seguì subito dopo, ma prima le indirizzò un ultimo silenzioso sguardo d’incoraggiamento di cui Erin non poté fare altro che esserle riconoscente.
Alice fu l’unica a non fare nemmeno un passo. Non si mosse nemmeno quando la McVoy le ripeté – con un certo fastidio – l’ordine. I suoi occhi erano fissi sulla porta e le tremavano le mani.
Prima che la donna finisse per arrabbiarsi, Erin raggiunse la ragazzina e le prese la mano, riuscendo finalmente a catturare la sua attenzione.
Guardarla dritta in faccia le fece quasi male: era sempre stata molto simile al fratello, ma adesso quella somiglianza le sembrava rafforzata. I lineamenti del viso, il taglio degli occhi, la piega malinconica assunta dalla bocca… per un attimo fu come se il volto della persona di fronte a lei non fosse più quello di Alice, ma quello di Liam.
«Oggi Lizzie potrebbe venire con me?», domandò piano alla McVoy, mascherando a stento il tremolio che le incrinava la voce.
 
Quando l’ascensore si fermò bruscamente, anche le urla si interruppero di colpo. Il “viaggio” era durato solo un paio di minuti, ma tutti quei ragazzi sembravano essersi ridotti all’ombra di loro stessi. Pallidi, spaesati e in preda al terrore, la maggior parte di loro non riusciva nemmeno a reggersi in piedi. Qualcuno aveva rigettato, qualcun altro era scoppiato a piangere, altri ancora avevano cercato inutilmente di aggrapparsi a qualcosa, ripiegando poi sui propri “compagni”.
Nella Scatola, adesso risuonavano solo sussurri e singhiozzi, ma Erin non poté fare a meno di pensare che se la paura avesse avuto un rumore, si sarebbe trattato proprio di quello.
Non aveva staccato lo sguardo dallo schermo nemmeno una volta, troppo sconvolta da ciò che stava vedendo per pensare anche soltanto di poterlo fare.
Si accorse di stare sudando freddo e di avere la gola secca e i pugni serrati. Se stava così al solo assistere ad una cosa del genere, non osava immaginare come si sarebbe sentita se al posto di uno di quei ragazzi ci fosse stata lei.
«D-dove siamo?», balbettò Nick dopo che nessuno sembrava voler spiccicare parola. Stava cercando di rimettersi in piedi, dopo essere rovinosamente caduto quando il folle movimento della Scatola si era arrestato, ma le gambe non lo sostenevano e dovette farsi aiutare da un altro ragazzo.
Fu Alby a rispondergli. «Non lo so…», disse, passandosi una mano sulla fronte imperlata di sudore. «Non… mi ricordo nulla…»
A quell’affermazione ne seguirono tante altre se non uguali, per lo meno simili: nessuno sapeva dove si trovassero e nemmeno il perché, nessuno ricordava niente di antecedente al brusco e traumatico risveglio in quella stanza. E nessuno aveva idea di chi fossero gli altri.
L’unica cosa certa era solo il proprio nome.
In tutta quella confusione, Liam fu l’unico a non dire nulla. Fin da quando la Scatola si era fermata, era rimasto immobile, schiacciato in un angolo con gli occhi sbarrati ed una mano premuta sul petto come a voler imporre un ritmo regolare al suo respiro. Tremava come una foglia e sembrava sul punto di crollare in pezzi da un momento all’altro.
Al vederlo così, Erin si sentì come se degli artigli metallici le si stessero conficcando al centro dello stomaco per poi salire, con una lentezza straziante, verso il cuore.
Alla sua destra, Alice singhiozzava sommessamente, gli occhi fissi sullo schermo a cercare il volto del fratello e, per un attimo, Erin rimpianse amaramente di aver chiesto che la ragazzina venisse con lei.
Ma il rimpianto non durò che per pochi istanti. Aveva voluto che Alice la accompagnasse per un motivo ben preciso. Le prese la mano e la strinse. Le sue dita erano gelide. «È tutto ok, tranquilla», sussurrò, forse più a se stessa che alla sua amica.
Alby stava cercando invano di ristabilire la calma, ma non era affatto facile e la situazione non migliorò affatto quando le porte sopra le teste dei ragazzi iniziarono ad aprirsi. Fino a pochi attimi prima quello di scappare da quella gabbia era stato il desiderio più ambito, ma adesso, paradossalmente, sembrava che tutti avessero paura di cosa li potesse aspettare all’esterno.
«Fate silenzio!»
Con tutta quella confusione, Erin non riuscì a spiegarsi come la voce di Liam fosse riuscita a sovrastare le altre.
Il ragazzo squadrò dal primo all’ultimo i suoi compagni, che adesso lo osservavano muti. «Ascoltatemi: qualsiasi cosa ci sia lassù, di sicuro sarà meglio che stare qui dentro tutti pressati come delle dannate sardine. Io direi di uscire fuori per dare un’occhiata.» Aveva parlato con un tono fermo e sicuro, ma per tutto il tempo non aveva smesso di passarsi le dita sul mento.
Ed Erin ricordava bene quel gesto: faceva quasi sempre così quando qualcosa lo innervosiva o lo preoccupava. Eppure era riuscito a controllarsi e a non farsi prendere dal panico.
Sapevo che ce l’avresti fatta, Liam.
«Tuo fratello è forte, Lizzie», mormorò.
Alby e Nick furono subito d’accordo con lui.
«Usciamo da questa cacchio di… scatola, ascensore o qualsiasi cosa sia», sentenziò il ragazzo di colore.
Si arrampicarono fuori, mettendo ufficialmente piede nella Radura. Piano piano, li seguirono anche tutti gli altri.
La Radura era un gigantesco cortile squadrato, con dei grossi blocchi di pietra che in alcuni punti ne costituivano la pavimentazione. In un angolo, parecchi alberi erano come ammassati a formare un boschetto. In un primo momento, tutto ciò non sembrò destare impressioni troppo negative – oggettivamente, non era brutto come posto –, ma a questo “rimediarono” subito le Mura.
Gigantesche, fatte di pietra e ricoperte di edera, circondavano tutto il perimetro della Radura gettando ombra su tutto ciò che vi si trovava all’interno. Ognuna di esse aveva un’apertura verticale al centro, alta quanto le Mura stesse. Le entrate del Labirinto.
«E ora che cosa facciamo?», domandò Nick dopo un lungo attimo di stupore.
Alby scosse la testa, confuso. «Non lo so… magari diamo un po’ un’occhiata in giro e… e cerchiamo di capire cosa cacchio è questo posto…»
 
Erin osservava Liam rigirarsi nervosamente in uno dei sacchi a pelo che i ragazzi – ormai Radurai – avevano trovato all’interno della Scatola, oltre a delle provviste sufficienti per circa una settimana. Le sembrava che fosse apparso sugli schermi molto più spesso degli altri, forse perché ad assistere c’era anche Alice, che per tutto il tempo non aveva accennato a lasciarle la mano.
Era stato per tutta la giornata ad esplorare in lungo e in largo la Radura assieme ai suoi compagni, tranne un piccolo gruppo che si era addentrato nel Labirinto… e che, una volta giunta l’ora del tramonto, vi era rimasto intrappolato dentro a causa della chiusura delle Porte. Erano dodici ragazzi e nessuno di loro avrebbe rimesso piede nella Radura l’indomani. I Dolenti avevano provveduto al riguardo con fin troppo zelo… ed Erin e Alice avevano dovuto assistere ad ogni singolo attimo di ogni singola uccisione.
Aveva visto molti progetti riguardanti i Dolenti e, sebbene non l’avesse chiesto, Janson la aggiornava ogni qualvolta veniva aggiunto anche il minimo particolare o la più piccola modifica. In pratica, aveva seguito per filo e per segno la creazione di quei cosi e più di una volta li aveva visti nella loro forma definitiva.
Poteva dire di conoscerne a memoria ogni dettaglio: erano delle sorte di lumaconi grosse quasi quanto dei cavalli, forse anche di più, e tutto il corpo era ricoperto di peli e punte di metallo retrattili. La cosa più inquietante erano però le numerose braccia metalliche, ognuna con una diversa terminazione: tenaglie, aghi, artigli. Il loro scopo era tristemente ovvio.
 Ma non li aveva mai visti in azione contro delle persone vere e, sebbene si fosse fatta un’idea e avesse cercato di prepararsi psicologicamente ad assistere a scene del genere, il ritrovarsene non una, ma una dozzina davanti agli occhi era stato a dir poco devastante.
Alice aveva pianto e probabilmente era stata l’unica ragione che l’aveva trattenuta dallo scoppiare in lacrime anche lei. Se avesse ceduto, la ragazzina non avrebbe avuto più nessuno a cui aggrapparsi lì dentro.
Avrebbe pianto, sapeva benissimo che non sarebbe riuscita a trattenere quelle lacrime per sempre. Ma l’avrebbe fatto più tardi, nella sua camera. Da sola, al riparo dagli sguardi di tutti. Lontana da Alice.
Liam si liberò bruscamente dal sacco a pelo e si alzò di scatto, risvegliandola dai suoi pensieri con quel movimento improvviso. Si stava sfregando il mento con le dita con talmente tanta forza che sembrava volesse staccarsi la pelle. Imprecò tra i denti, lo sguardo che si stava piano piano appannando di un terrore tenuto nascosto a tutti i suoi compagni per l’intera giornata. Iniziò a camminare freneticamente avanti e indietro, passandosi di tanto le mani tra i capelli e mormorando tra se e se altre imprecazioni.
Liam…
«Ehi, tu! Newt, giusto?», la voce di Alby lo riscosse, facendolo irrigidire.
Cercò immediatamente di ricomporsi e si schiarì la voce. «Sì… sì è il mio nome», rispose poco convinto. «E tu sei Alby, vero?»
«Così sembra… qualcosa non va?»
Il biondo sospirò, allargando le braccia e guardandosi attorno con aria stanca. «Sono qui da solo un giorno e già odio questo posto. Con quelle dannate mura mi sembra di stare in una gabbia.»
Alby lo guardò comprensivo e gli posò una mano sulla spalla. Erin gli fu grata di quel gesto. Se c’era qualcuno che tra tutti quei ragazzi poteva stare vicino a Liam e sostenerlo, quello era proprio Alby.
«Newt non è solo, Lizzie…»
«Non sei l’unico…», disse il ragazzo di colore. «Ma vedrai che ne usciremo: prima o poi quelle cacchio di… aperture, o qualsiasi altra cosa siano, si riapriranno. Non erano chiuse stamattina, no? Magari è una cosa temporanea…»
Liam si passò una mano sul viso. «Mi piacerebbe riuscire ad essere così ottimista… ma ho una fottutissima paura.»
«Beh, è normale avere paura, cacchio!», ribatté Alby. «Se non hai paura non sei umano! Anch’io… ehi, cos’è quello?»
«Quello cosa?»
«Ti è caduto qualcosa dalla tasca… sembra una pallina di carta…»
Quell’affermazione generò una strana confusione all’interno della stanza, ma Erin sorrise e non smise di farlo nemmeno quando la McVoy si voltò verso di lei.
«Di qualunque cosa si tratti, ci metto la mano sul fuoco che questa è opera tua», sibilò la donna, indirizzandole uno sguardo al vetriolo.
Alice aveva smesso di singhiozzare e adesso guardava con attenzione lo schermo. Doveva aver avvertito la strana agitazione che adesso regnava sovrana nella stanza.
La telecamera rimase fissa su Liam mentre quest’ultimo si chinava e raccoglieva la pallina di carta con aria interrogativa. Non appena l’ebbe aperta, uno degli schermi mostrò un’inquadratura ravvicinata di ciò che c’era scritto.
 
Sarai signore di questa terra solo se supererai le prove che ti darò.
 
Era per questo che aveva voluto che Alice l’accompagnasse: voleva che assistesse alla scoperta di quel biglietto. Quella frase poteva sembrare priva di significato, ma Erin l’aveva scelta per un motivo ben preciso.
In qualche modo, voleva dare a Liam una sorta di indizio sulla sua situazione, ma spiegargli tutto quanto in un piccolo pezzo di carta sarebbe stato alquanto impossibile. Voleva fargli capire che c’era qualcosa dietro, che non erano capitati lì per caso e che avrebbe dovuto farsi forza per superare quella situazione. Forse era stato sciocco scrivere quella frase per fargli capire tutte quelle cose, ma Erin si fidava di Liam.
E poi… voleva che avesse con se un suo ricordo, anche se lui sicuramente non l’avrebbe interpretato in quel modo.
I due ragazzi rilessero più e più volte quella frase. Alby si grattò la nuca. «Ma che caspio significa?»
Liam scosse la testa. «Non lo so…», mormorò. «Ma sono… credo di essere abbastanza sicuro che questa non sia la mia scrittura. Cioè, non… non credo di scrivere così… mi sembra troppo precisino per essere mio.»
Erin sorrise a quelle parole, ricordando ciò che Liam le diceva ogni volta che vedeva la sua scrittura.
“Cacchio, Han, ma non ti stanchi mai di essere sempre così dannatamente precisina? Mi fai quasi vergognare di scrivere come una persona normale!”
«Ricordi qualcosa?», domandò Alby, speranzoso.
Liam rilesse di nuovo la frase e sospirò. «No, non mi ricordo nulla», fu costretto ad ammettere. «Ma se questo non l’ho scritto io – e sono sicuro di non averlo fatto – deve avermelo lasciato qualcuno.»
«E quindi?»
Il biondo si prese qualche attimo per rimuginare prima di rispondere. «E quindi… credo che ci sia qualcosa dietro a tutto questo… qui dentro… qui dentro non ci siamo finiti per caso.»
Alby si passò una mano sul viso, rivolgendogli uno sguardo piuttosto scettico. «Amico, non starai esagerando? È solo una frase, cosa ti fa pensare che possa voler dire proprio questo? Solo perché parla di prove da superare?»
Liam strinse il foglietto nel pugno, gli occhi improvvisamente illuminati da un piccolo barlume di speranza. «Non lo so… ma qualsiasi cosa siano queste prove, io ho intenzione di superarle. Non importa cosa dovrò fare.» Si interruppe un attimo, guardando Alby come a voler cercare il suo appoggio. «Ci sarà da rimboccarsi le maniche.»
In quel momento, fu come se un grosso blocco di cemento le fosse stato tolto dal petto. Le lacrime che adesso premevano per uscire dai suoi occhi non erano più di dolore ma di gioia. Ce l’aveva fatta. Liam aveva capito.
La McVoy continuava a fissarla con odio per aver osato intromettersi, ma ad Erin non importava nulla. Il suo sguardo si spostò dallo schermo al viso di Alice, che si era voltata verso di lei. Nei suoi occhi c’era la stessa scintilla di speranza presente in quelli del fratello. E c’era gratitudine. Tanta gratitudine.
Erin le strinse di più la mano e la guardò con fare incoraggiante.
Ce la faremo. Ce la faremo tutti.

 
Eeehm… saaalve Pive!
Sono viva, sono tornata! (Ma chi ti volevaaa…) Scusatemi se sono sparita, sono una cattiva persona, lo so :(
Cooomunque… spero che questo capitolo/inizio della seconda parte della storia vi sia piaciuto/ non vi abbia disgustato.
Avete visto che bella la copertina nuova? Io la adoro *^* e ringrazio in ginocchio l'autrice Stillintoyou (perché, ovviamente, non l’ho fatta io… voglio dire, ve lo ricordate quell’obbrobrio che si trova all’inizio? Ecco, quello è stato fatto da me e non aggiungo altro xD).
E niente (lo dico spesso, lo so), oltre a questo sproloquio, volevo solo dirvi grazie. Un grazie grande quanto tutto il Labirinto (che brutto paragone…)! Grazie di seguire/recensire/leggere questa storia. Grazie mille davvero <3
Alla prossimaaa~ (cercherò di non sparire di nuovo…)



 
 
 
 
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