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Autore: Lusivia    12/07/2015    2 recensioni
[STORIA IN VIA DI REVISIONE: primi SETTE capitoli aggiornati.]
Un tempo credevo che quelle piccole sferette bianche fossero la sola cosa che mi impedisse di impazzire, quel filo stretto attorno alle rovine della mia mente, e tutto ciò che dovevo fare per evitare il collasso era chiudere gli occhi e buttarle giù.
Per diciotto anni avevo vissuto nella convinzione che fosse giusto così, che non poteva esserci via d'uscita da quella villa nascosta tra le colline, ma spiriti antichi avevano cominciato a sussurrare le loro verità.
Un giorno, da un debole atto di ribellione scoprii che ciò che vi era dentro di me era molto più che il riflesso della malattia; era qualcosa di più antico, l'eco del sangue versato in nome di quell'eterna battaglia che continuava ad emettere i suoi clangori, ma l'umanità era ormai troppo giovane per ricordarne il suono.
Ho dovuto vivere le favole narrate dalle antiche voci nella mia testa per scoprire la verità su di me, sul mondo, sull'autentica faccia dell’umanità, e ancora non sono sicura che sia davvero tutto.
Ma ora dimmi, Laura: quanto indietro vuoi tornare per scoprire che la tua vita è, ed è sempre stata, una bugia?
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Kadar Al-Sayf, Malik Al-Sayf, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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                                                                                             Capitolo 15

                                                               Questione di fiducia.

                                                               




La gente gridava, fuggiva via come il fumo, sbatteva i piedi e piangeva mentre cercava di sfuggire a quel massacro, che, tuttavia, non la toccò minimamente, perché il leone aveva già catturato la sua incauta preda.
Non appena la lama di Tamir aveva strisciato contro il mio braccio, lacerandone il tessuto della manica e la carne tenera, il sangue cominciò a cadere a fiotti, denso e caldo, inibendo la mia lucidità mentale abbastanza da gettarmi nel panico.
Con la bocca spalancata in una smorfia di dolore, strinsi la mano sul braccio sanguinante e gettai il corpo indietro, ma i piedi non furono abbastanza svelti nel reggere la mia fuga e mi mandarono a gambe all’aria.
Tamir rise di gusto nel vedermi a terra e con un gesto imperioso si asciugò il sudore dalla faccia, tirandosi la barba fino a deformare il suo volto, eccitato e ansioso di sbrigare la mia esecuzione prima che l’altro Assassino si liberasse della guardia.
Così, lasciata cadere la mano in basso, impugnò meglio la spada e con quattro falcate mi fu di nuovo davanti, dunque calciò lontano la mia spada prima che potessi tendermi a recuperarla.
Alzò la gamba con decisione, tirò il ginocchio al petto e, proprio quando intuii cosa sarebbe accaduto da lì a pochi istanti, mi lanciò un calcio sulla mandibola, ribaltandola in un rumore davvero preoccupante.
Il colpo mi mandò subito a terra, la bocca prese a sanguinare e le lacrime esplosero oltre la diga senza che potessi bloccarle.
La mano di Tamir mi agguantò per la spalla e mi ribaltò a pancia all’aria, obbligandomi a guardarlo dal basso mentre preparava la lama per l’esecuzione finale.
Avevo il fiato spezzato, sentivo che il dolore alla mandibola aveva superato di gran lunga la ferita al braccio, ciononostante riuscii a non piangere, mantenendo fino alla fine un orgoglio inflessibile anche quando Tamir alzò la lama al cielo.
Il Templare mi guardò per pochi istanti, inespressivo.
La lama era contro il sole, ma non si mosse.
Poi, la sua analisi distaccata si prolungò ancora, diventando sempre più oscura, più incerta, finché qualcosa non lo portò ad abbassare il braccio armato lungo il fianco.
Mi scrutò con espressione indecisa, poi infilò la punta della lama sotto il mio cappuccio e lo tirò indietro, scoprendomi il viso sudato e i capelli attaccati sul collo.
E i suoi occhi si sbarrarono in un impeto d’incredulità.
Le gambe del Templare balzarono indietro, come trafitte da una scarica elettrica proveniente dalla terra, e indietreggiarono fino a quando la mia intera sagoma non rientrò nella superficie dei suoi occhi sbarrati, dunque rimase immobile, a fissarmi.
Qualcosa era improvvisamente cambiato, qualcosa lo aveva spaventato.  
Ma l’istinto di sopravvivenza mi scagliò di nuovo nel presente ; colto il momento, arrancai sulla sabbia per rimettermi in piedi, mi gettai a recuperare la spada senza badare al dolore della ferita, ma per l’ennesima volta mi ritrovai ad essere allontanata dall’unica possibilità di salvezza.
La guardia che Altaïr aveva stordito poco prima si era risvegliata, con un grosso bernoccolo in testa e tutta l’intenzione di farla pagare a qualcuno; sfortuna volle che agguantasse proprio il mio polso.
Mi voltai di scatto verso l’uomo e intravidi sott’occhio il bagliore del suo pugnale da macellaio.
Piantai i piedi nel tentativo di resistergli, lui mi storse il polso e allungò l’arma verso di me, ma fu bloccato dalla punta metallica che aveva appena fatto capolino dal suo stomaco, lucida del sangue dei suoi intestini.
Poi, prima che potesse reagire, il suo ventre venne aperto in due dalla lama, facendo ricadere le viscere lucenti sulla sabbia e schizzando sangue ovunque, perfino sui miei piedi.
Le urla della guardia seguirono il movimento delle sue mani, che corsero a contenere gli organi nel ventre lacerato, lasciandomi così la possibilità di fuggire, ma non ci riuscii, perché qualcosa di estremamente perverso mi impediva di distogliere lo sguardo da quel luccichio rossastro tra le sue dita.
In pochi istanti, la guardia perì difronte a me, crollando al suolo in un gran polverone, mentre la figura del suo macellaio si erigeva diritta dietro di lui.
Seguii la lama macchiata di sangue fino all’elsa, risalii il braccio muscoloso che teneva l’arma e incrociai il volto scuro di Tamir, con il suo turbante e i baffi pronunciati.
Ma, adesso, qualcosa di incredibilmente grande era mutato in lui.
Improvvisamente, si trovò pentito di ciò che mi aveva fatto.
Improvvisamente, il suo volto non faceva più paura.
Provai a capire cosa fosse cambiato, cosa lo avesse indotto ad acquietare la sua ira sproporzionata, quando fui colta di sorpresa dalla sua mano che lasciò cadere l’arma a terra, e, aperti i palmi in segno di resa, alzò le dita al cielo.
Ma poi cappi che, la sua, non era resa.
No, il suo, era un tentativo di dialogo.
Per qualche assurda ragione, quel feroce Templare era diventato improvvisamente innocuo, un lenone addomesticato, ed io mi ero ritrovata con la frusta a portata di mano.
Ma non ebbi il tempo di usarla, né di fare altro, perché una mano guantata giunse dalle sue spalle e lo prese per i capelli, strattonandolo con volenza sufficiente da far cadere a terra un uomo adulto di quasi ottanta chili.
Altaïr aveva lo sguardo feroce e i denti digrignati mentre trascinava di peso Tamir, che si dimenava e continuava a strillare cose senza alcun senso, scalciando e alzando un gran polverone finché non avvertì delle braccia possenti bloccargli il collo, dunque cominciò a boccheggiare con il volto blu. Altaïr lo tenne incastrato tra i bicipiti e l’avambraccio, avvolgendogli la testa come uno schiaccianoci, fino a quando il suo nemico si mosse sotto di lui.
Poi, lentamente, cominciò a percepire la vita abbandonare il corpo di Tamir.
Il Templare agitò le gambe per poco, poi vidi il suo volto scolorirsi, le braccia cadere e i capelli tremare negli ultimi spasmi dei polmoni, ormai al limite.
Eppure, ebbe il tempo di guardarmi e di alzare la mano nella mia direzione.
Tamir morì poco dopo e, con lui, quel gesto.
Quando avvertì la sua preda spirare, il giovane Assassino slegò le braccia dal collo del Templare e lo lasciò cadere in avanti, verso la sabbia bollente di quel tardo pomeriggio di fuoco.
Non sapevo se per il trauma celebrale o per lo strano ronzio che aveva preso a fischiarmi nelle orecchie, ma non riuscii a staccare lo sguardo dal cadavere del Templare fino a quando un suono profondo spaccò il mercato in due.
Le campane della chiesa a due isolati da lì.
– Laura, dobbiamo andare. – era la voce di Altaïr, tuttavia mi sembrò troppo lontana perché provenisse da lui, che era proprio difronte a me.
E le campane diventavano sempre più prepotenti.
O erano le grida dell’Assassino?
– Sì, lascia solo…. – sussurrai, piegandomi sulle ginocchia – … lascia solo che mi sdrai un momento… la testa mi gira….
– Laura?

*   *   *

L’acqua sotto i miei piedi si smosse lentamente, allargandosi in cerchi irregolari dal punto in cui le mie caviglie affondavano, ma non proiettarono alcun riflesso, nessun’immagine.
Sapevo che stavo sognando.
Aprii i palmi per analizzarli meglio e vidi che erano marchiati a fuoco con due segni, ma per qualche ragione non riuscii a distinguerli, dunque strinsi le dita indentro e tornai a guardare avanti.
Tamir era di fronte a me, senza il turbante, armato solo della sua fonte stempiata e di un’espressione serena, straordinariamente pacifica, che quasi non lo riconobbi.
– Sai chi sono? – chiese a quel punto lo spirito del Templare.
Io esitai, poi scossi la testa.
– Ovvio che no. – sorrise – Tu non mi conoscevi, io non ti conoscevo, ma lei sì. Lei ci ha detto del tuo arrivo.
– Lei chi?
Tamir scosse la testa come un adulto davanti alle domande inopportune di un bambino, dopo di che m’indicò l’alto.
Stirai il collo all’insù, dove una luce accecante annegava il cielo bianco: lì, tra le nubi di saette e il bagliore, vidi un serpente che rincorreva con le fauci la sua coda.
Un rombo cupo e qualcosa si staccò dai vapori in cui il mastodontico rettile piroettava, qualcosa di lucente; capii trasalendo che stava precipitando verso di me.
Mi chinai in basso, provando a ripararmi sotto le mie braccia, ma non fui schiacciata, anzi, quel pezzo di cielo si posò sulla mia fronte e la pervase di frescura, facendomi stare un po’ meglio.
Realizzai allora che si trattava di una mano e, pochi istanti dopo, che quel luogo di luci e vapori bianchi era, in verità, una stanza buia e racchiusa in piccole mura bianche.
Sebbene il mio corpo fosse assopito dal peso schiacciante della febbre, riuscii a muovere un poco la punta dei piedi e sentii che si sfregarono contro delle lenzuola, dunque ebbi la conferma di essere ancora in un letto.
Gli occhi mi bruciavano, così come gli arti e l’intero corpo, per questo faticai a scrutare qualcosa oltre la coltre di ciglia senza avvertire un gran dolore e, subito dopo, il bisogno di vomitare.
Solo la luna, che si proiettava a scacchi sulla porta infondo attraverso le grate, riusciva a dare una dimensione a quel posto inghiottito dalle tenebre, rischiarendo, per quanto poteva, la figura di un uomo accanto al mio letto.
Era ricurvo verso di me nell’atto di misurarmi la temperatura con la mano, la fronte aggrottata e la bocca storta in una smorfia di concentrazione, ma non riuscii a distinguere altro se non i lineamenti imprecisi della sua mandibola e dei capelli corti.
Dopo pochi secondi di analisi, egli ritrasse la mano e la fece tornare sulla sua coscia, ricascando nella contemplazione di una lontana lucerna nascosta nel buio, a scoppiettare sola, dandomi così la possibilità di guardare anche la sua schiena.
Non sapevo dove fossi, ma sentivo freddo, tanto freddo, e quell’unica anima, viva o morta, era ancora da vedere, era l’unica fonte di calore presente.
Sfilai con parecchi dolori la mano da sotto le lenzuola e la tesi verso la sua bianca schiena, mi aggrappai a peso morto al cappuccio sulle spalle e, immediatamente, lui si girò.
– Kadar… sei tu? – gracidai a stento.
Ci fu un momento di silenzio, poi intravidi i suoi occhi, chiari e contornati da un alone scuro, quasi livido, che mi ricordò vagamente le occhiaie soffici sul volto di Kadar, quella sera in cui venne a cercarmi in stanza, perché non riusciva a chiudere occhio.
Provai a sollevarmi con i gomiti, lottando contro la pressione cocente che spingeva sulla fronte, ma fui vinta dalla stanchezza fisica e mentale, e così dovetti tornare sdraiata.
– Non devi sforzarti, Laura. – sentii la sua voce un po’ distorta, ma abbastanza pulita da non confondere le parole. – Sei svenuta questa mattina, al mercato, e da allora non hai ripreso conoscenza, quindi ti sentirai stordita, all’inizio…
– È questo che sei venuto a dirmi? – mormorai, tendendo la mano in avanti – È per questo…. che sei tornato dal mondo dei morti? Per dirmi che … sono una sconsiderata? – sorrisi piano – Ah, se vuoi, va bene così. L’importante è che sei venuto a trovarmi.
Poi, con molta lentezza, provai a tirare il suo volto verso il mio aggrappandomi alle sue braccia.
– Kadar, perché non torni da me? – sussurrai a occhi chiusi – Mi manca, la tua bocca…Kadar, mi manca…
Avvertii i muscoli del suo corpo irrigidirsi, ritrarsi, finché la mia debole presa non fu più sufficiente a tenerlo e scivolò via dalle mie dita.
– Ma guardati, hai la febbre davvero alta. Stai delirando. – lo disse con una nota di asprezza, poi si alzò dal materasso e andò verso un angolo della camera.
– N…no, non è vero, Kadar, per favore…! – provai a chiamarlo, scuotendo i capelli sul cuscino, mentre una sensazione di vertigine sembrava quasi muovere il materasso come una nave.
Capii poi che quel movimento era reale, perché il peso del suo corpo, che era tornato ad appollaiarsi accanto a me, piegò leggermente il letto a sinistra.
– Se ti agiti ancora, vomiterai. – mi riprese a gambe incavalcate.
La freddezza con cui mi trattava scatenò una reazione incontrollabile nel mio corpo, che prese a versare lacrime a secchiate dalle mie ciglia, raffreddando le guance e colando sul collo, i capelli, finendo con l’essere assorbiti dallo scollo del vestito leggero in cui ero stata infilata.
– Senti, ora me ne devo andare. –cercò di calmarmi con la voce più rassicurante che poteva – Tu prova a riposare, per favore.
Avvertii le sue gambe spingere contro il pavimento per sollevarlo dal letto, un bisogno invisibile di andargli dietro mi diede la forza sufficiente per spingermi a sedere e provai ad alzarmi sui palmi, ma la debolezza fece cedere le braccia e andai a scontrarmi contro di lui.
Colpito in pieno dalla mia testa tra le scapole, lui rimase paralizzato dal dolore, ed io, decisa a non lasciare andare il suo fantasma così facilmente, mi allungai sulle sue gambe e riuscii a farmi accogliere dalle sue braccia come una bambina sulle ginocchia del padre, scoprendomi nel movimento le gambe e le cosce sotto la camicia da notte.
Sentii il suo petto accelerare, ma fu un attimo, perché, non appena lui avvertì le mie braccia cingergli il collo, il cuore parve, più che altro, sul punto di esplodergli.
– Almeno, se proprio te ne vuoi andare…salutami. – mormorai e tentai di trovare la sua bocca con la mia.
La sua mano si frappose svelta tra i nostri petti, scostandomi via in tempo, prima che qualcosa in lui cominciasse a ingrossarsi e spingere con un po’ troppa insistenza.
– Fermati, prima che tu te ne penta. – mi riprese severo e, tenendomi tra le braccia come un vero cavaliere, mi adagiò di nuovo sotto le coperte, preoccupandosi perfino di ricoprire le mie gambe scomposte.
– Sei una persona cattiva, Kadar Al-Sayf! – strillai a quel punto, coprendomi gli occhi umidi con il polso – Sei una brutta, brutta persona, Kadar Al- Sayf, mi hai capito?
Sentii che rise – Sono cattivo, dici? Onestamente, l’unica crudele qui sei tu, che mi mostri così impudente le tue gambe e mi solletichi l’immaginazione.
Mentre singhiozzavo e sobbalzavo in preda alla rabbia, lui si allontanò verso una luce distorta nel fondo della stanza e cominciò a rovesciare qualcosa in un contenitore concavo.
Poco dopo, proprio quando i miei singulti cominciarono a diminuire e gli occhi, seppur ancora arrabbiati, fecero capolino da dietro il polso, rividi la sua sagoma accanto al mio letto.
Cercò di sollevarmi facendo scivolare dietro la mia schiena un braccio, dunque mi spinse contro la sua spalla e, una volta che io mi fui ritratta, poggiò il bordo di un contenitore in argilla contro la mia bocca.
Capii che si trattava di un medicinale, dunque feci qualche capriccio spingendolo via e versandone un po’ sui suoi pantaloni, finché, spazientito, mi aprì di violenza la bocca spingendo le dita contro le guance.
– Smettila e bevi, forza. – mi ammonì e incrinò il recipiente, costringendomi a ingoiare la medicina se non volevo che mi finisse tutta in faccia.
Vittorioso, lui si ritrasse con la ciotola ed io mi ritirai con la bocca che sapeva d’amaro e le dita che cercavano ancora di asciugare le lacrime, fredde e pungenti nei miei occhi infiammati, quando avvertii di nuovo che quell’uomo stava per andare via e ,così, tornai a ghermirlo per le spalle.  
Lo presi per entrambe le braccia e lo tirai di peso verso il basso, mentre il suo volto, ancora poco chiaro, mi fissava paralizzato da ciò che stavo facendo, poi poggiai la fronte contro la sua clavicola, sporgente e calda, e subito la tensione si tramutò in un incerta quiete.
– Aspetta…– mormorai.
– Devo andare, Laura, ti prego…
– Non mi sento bene.
– Per questo hai appena preso la medicina. Rilassati, e vedrai che farà effetto.
Annuii fioca – D’accordo…
– Ora devo andare.
– Aspetta! – lo strattonai di nuovo in basso – Prima, devi salutarmi.
– L’ho fatto… – mi fece notare esasperato.
– No… no, Kadar. L’ultima volta che sei andato via, sei morto. E so che, se andari via di nuovo, non potrò rivederti mai più, quindi voglio che tu mi saluti. Ho bisogno di salutarti, affinché non ti veda mai più, affinché possa cacciare via il tuo fantasma. Lo capisci, vero?
Lo immaginai fare una faccia strana, perché le mie erano parole folli, eppure non mi negò questo piccolo desiderio. – Va bene, cosa vorresti che faccia? – chiese a quel punto.
Sorrisi vaga, disegnando un cerchio con il dito sul suo petto. – Salutiamoci, come sapevamo fare noi, Kadar.
La lascività della mia voce lo lasciò spiazzato, un po’ a disagio, così cominciò distrattamente a percorrere la linea della mia spina vertebrale con il pollice, disegnando il suo percorso fino a dove il pudore lo lasciò scendere, poi tornò su e mi prese i capelli tra le dita.
Spinse la mia testa in avanti, pigiando la bocca contro la mia fronte, dunque rimase in quella posizione per un po’, finché l’avventatezza glielo permise, finché la sterilità delle sue emozioni non lo ripresero all’amo, costringendolo a tornare lo stesso uomo imperturbabile di sempre.
– Se fossi lucida, non mi chiederesti mai una cosa del genere.–sussurrò, tenendo la bocca schiacciata contro la mia fronte.
– Lo so… – strinsi la presa sulle sue vesti, come se provassi dolore, e ammisi – Ma ne ho bisogno.
Sentii il suo respiro diventarmi leggermente teso tra i capelli, poi la sua mano scattò decisa a sollevarmi il mento, inondandomi il volto con il suo respiro nervoso, giù pentito.
Mi sforzai di esser lucida in quel momento e aprii gli occhi come due fessure, individuando, tra la nebbia della febbre e l’oscurità del luogo, le sue labbra.
Erano carnose, un po’ rovinate, ma allo stesso tempo tanto, tanto invitanti.
– Mi dispiace di averti ridotta così. – lo disse piano e, allo stesso tempo, cominciò ad abbassare la bocca all’altezza della mia. – Vorrei…tornare indietro, per riparare a questo macello.
Dischiusi la bocca, la punta della lingua si bagnò del suo respiro, sempre più vicino, sempre più deciso, centimetro dopo centimetro, ma esitò quando sarebbe bastato tendersi per venirsi addosso.
– Io ti perdono. – sussurrai.
Le sue dita tremarono un po’, immaginai che avesse chiuso gli occhi per incapacità di guardarmi in faccia, non lo so, e lo sentii arrivare, rigido, impacciato.
Aveva le labbra un po’ secche, come mangiate dal sole e dalle polveri del deserto, ma erano accoglienti, molto più di quanto serbassi del ricordo di Kadar, e questo accese un piccolo lumino nel fondo della mia testa.
Lo ignorai.
Sentii che si allontanò per un minuto, forse per riprendere fiato, forse per scrutare i sentimenti sul mio volto, poi tornò a riempirmi la bocca di quel suo strano sapore che stava tra il delicato e l’amaro di una vita che aveva il gusto di ferro e stanchezza.
Cercai, pertanto, di metterlo a suo agio, infilando le mani tra i suoi capelli, ma lui le ricacciò subito con un gesto secco e mi bloccò i fianchi con un braccio.
– Sta’ ferma. – sussurrò e notai una nota di eccitamento colorirgli la voce, dunque mi coprì gli occhi con il palmo della mano e iniziò a riempirmi la bocca di baci.
Poi, fece una leggera pressione contro il mio ventre e, subito dopo, infilò un ginocchio tra le mie gambe nude.
Ricaddi sul materasso con un sussulto e subito lui venne a tapparmi la bocca con la sua, obbligandomi a sottostare ancora una volta all’onda dei suoi respiri e dei baci, che divenivano sempre più secchi, più decisi e violenti, nulla a che fare con i tocchi timidi di Kadar.
Provò a entrare con la lingua di violenza, ma io gli negai qualsiasi spiraglio e, anzi, la morsi.
Lui guaì sottovoce e assaporò dolorante il suo stesso sangue, poi si pulì la bocca con il polso e tornò su di me con più prepotenza di prima.
– Ho detto, sta’ ferma! – ribadì severo e mi bloccò i polsi con una mano, dunque affondò di nuovo la bocca nella mia, riuscendo per un momento ad arrivare con la punta della lingua fino al palato.
– N…no, basta! – cominciai ad ansimare e lui ricambiò il favore di prima, mordendomi il labbro inferiore.
Stese la mano sulla mia coscia, la fece risalire prepotente, cominciò a cercare il bordo del vestito per sollevarlo oltre il mio stomaco, e fu allora che il mio cervello, assopito dal vago piacere di quel momento, si risvegliò in parte.
Irrigidii tutto il mio corpo, che fino a quel momento era stato confortevole giaciglio per il suo, riuscii a liberare le braccia e, a quel punto, gli colpii la guancia con il gomito, facendolo subito retrocedere.
– Ho detto di no, cazzo! – strillai in lacrime e mi precipitai a coprire le gambe con le lenzuola, tutte arrotolate ai piedi del letto – Sei cattivo, lo sapevo, sei cattivo! Tu non mi vuoi bene, vuoi solo tormentarmi!
Lui mi guardò esterrefatto, con le fauci improvvisamente secche e la guancia che pulsava di dolore.– Non so cosa mi…sia preso, davvero. Laura!
– No! Non ti perdono, mi hai sentito? Non ti perdono! – gridai, e quello fu in assoluto il colpo più doloroso sulla sua faccia.
Non disse nulla, solo chinò lo sguardo colpevole in basso, mentre io mi rintanavo sotto le coperte, nella calura della febbre e del pianto che mi strozzava la gola, i pensieri, i sentimenti, fino a farmi mancare l’aria.
Passarono i minuti prima che riuscissi a calmare il respiro e, dopo il groviglio insensato di pensieri, riuscii a trovare il coraggio per riemergere.
Il fantasma di Kadar se n’era andato, aveva lasciato la stanza secondo sua natura, ovvero come un brutto ricordo, portando con se una piccola parte del mio malessere, e del mio cuore.  
Sulla bocca, però, sentivo ancora quel sapore di sabbia.
E lo odiavo.

*   *    *
 
Quando mi svegliai, le campane avevano da poco diviso la giornata in due parti uguali, accompagnando l’alzata del sole al suo zenit proprio quando lo stomaco dei lavoratori e dei mercanti cominciava a fare i capricci e a pretendere il meritato pasto.
Mi alzai nella stanza del rafiq, confusa e con un gran mal di testa, ma ignoravo quale giorno fosse, quanto tempo avessi dormito lì e, soprattutto, come ci fossi finita.
Se provavo a ricordare, tutto ciò che mi tornava alla memoria erano brevi contatti di realtà e delirio febbrile in cui il fantasma di Kadar era venuto a farmi visita, nient’alto.
Sospirai, tirando un sorriso tra l’amaro e il distratto.
Però, era stato bello sentire di nuovo quella sensazione sulla bocca, quella delle labbra di uomo contro le mie, e poco importava se il finale non era stato felice.
Era stato reale, in qualche modo, e aveva appagato quel senso di vuoto che ultimamente mi faceva sentire la mancanza della carne e della passione di un giovane, qual era Kadar, e questo bastava.
Tirai indietro le coperte per poggiare i piedi sul pavimento e notai che ero stata alleggerita di tutti gli strati inutili dei miei abiti, ad eccezione della tunica, che ricadeva vuota sul mio corpo, forse perché ero deperita un po’ a forza di digiunare.
Presi un ciuffo della mia chioma, disperandomi un po’ nel vedere quanto fosse annodata e sporca, e desiderai non aver deciso a quindici anni di non tagliarmi mai più i capelli; cominciavano ad essere un po’ fastidiosi.
Sospirai, facendo cadere la mano sulla coscia, dopo di che mi alzai e presi a raccattare la mia roba sparsa qua e là nella stanza.
Avevo appena rimesso i pantaloni quando arrivò il rafiq, che entrò nella stanza con una ciotola di intruglio fumante e una brocca d’acqua appena attinta dalla fontana, e mi salutò cordiale.
– Vedo che ti sei svegliata, finalmente. – disse, poggiando tutto su un mobile basso in fondo alla stanza.
Mi stropicciai un occhio con il palmo –Quanto ho dormito?
– Due giorni. Stavi covando una bella febbre, eh, ma la medicina che ti ha somministrato Altaïr prima di arrivare qui deve averti aiutato a sopportare più a lungo i sintomi. A proposito, come ti senti, ora?
– Un po’ stordita e dolorante.
– Beh, diciamo solo che l’esser pestata da Tamir non ti ha di certo giovato alla salute. – poi indicò il mio braccio, aggiungendo – La febbre è stata aggravata dall’infezione di quel taglio per colpa della sabbia, ma adesso è tutto apposto, non dovrai preoccupartene. Ho provveduto io, a prendermi cura di te durante i tuoi deliri notturni.
La schiena s’irrigidì mentre ero ricurva sulle mie scarpe, dunque lanciai un’occhiata ansiosa al rafiq attraverso la coltre dei miei fastidiosi capelli.
C’era forse la possibilità remota che, quella notte… ?
Rabbrividii appena; no, certo che no!
– Dov’è Altaïr?  – tagliai corto e mi alzai per recuperare la spada sulla sedia.
– Ti rivesti di già? Non mangi?
– Prima, ho bisogno di parlare con lui. Non mi dirà che quel disgraziato mi ha mollato qui mentre ero svenuta, vero?
Il rafiq fece spallucce con aria disinteressata – Affatto. In verità, è rimasto qui nei dintorni per tutto il tempo della tua immobilità e tornava al tramonto per vedere come stavi. Ora è sul tetto, se t’interessa, ma, ehi, quindi non mangi?
– Magari dopo, rafiq, ma grazie per la gentilezza !– mostrai il diastema con un sorriso e uscii dalla stanza mentre mi riallacciavo i guanti su entrambi i polsi.  
Quando provai a risalire sul tetto incontrai qualche difficoltà per colpa dagli anti dolorifici che avevo ancora in corpo e, soprattutto, dai punti ancora freschi sulla ferita al braccio, ma questi ostacoli non fecero altro che darmi una maggior soddisfazione una volta in cima.
Quella mattina, trovai Altaïr mentre era sul bordo del tetto, impegnato nella consumazione di un pasto con le gambe divaricate e i piedi penzoloni nel vuoto mentre, con sguardo lontano, osservava il cielo e, poi, le persone per strada.
Mi annunciai rischiarendo la gola e, solo a quel punto, lui si accorse di me.
Si voltò e per un istante incredibilmente lungo sembrò freddato in quella posizione, con gli occhi spalancati e la bocca serrata tra la rada barbetta, ma poi qualcosa nel profondo lo riscosse con severità e si affrettò a indossare la sua maschera di diffidenza.
– Finalmente cammini. Quasi non ci speravo più di rivederti in piedi. – mi salutò così e, presa una manciata di datteri dal mucchio, me li tirò.
Io ne presi tre al volo, mentre due caddero per strada. – Il rafiq ha detto che ho dormito per due giorni, dopo l’uccisione di Tamir. – cominciai, accomodandomi a un metro di distanza da lui sul bordo del tetto.
Notai che aveva uno zigomo livido, oltre che lo sguardo basso e nervoso.
– Sì, è così. – brontolò.
– Scusa se ho creato inutili allarmismi, di sicuro devo averti fatto stare in pena.
Lui rifletté per qualche istante, poi addentò un dattero con fare distratto. – Tranquilla, non mi hai fatto preoccupare.
Io lo guardai con la coda dell’occhio, rimuginando. – Senti un po’. – cominciai.
– Mh?
– Cosa ti è successo alla guancia?
Altaïr affondò inavvertitamente l’unghia nel corpo del piccolo frutto che teneva tra le dita, dunque si schiarì la gola con un colpo di tosse. – Ho sbattuto mentre mi arrampicavo sulla cima di un campanile. Capita. – si giustificò e inghiottì il dattero tutto intero.
Lo guardai di sottecchi mentre un pensiero impreciso pungolò il mio cuore, facendolo sobbalzare di dolore, poi la ragione lo rimise subito a tacere e sul mio volto fiorì un sorriso imperfetto.
– Oh, bene. Cioè, mi dispiace.
Ripresi a mangiare in silenzio e lui fece altrettanto.
– Sai, mi sono appena ricordato una cosa, Laura.
– Cosa?
– Una volta, quando ero ancora in apprendistato, mi fu affidata la missione di aiutare un nostro collaboratore, che barava nel gioco e, con le scommesse, riusciva ad estrapolare informazioni sulle attività dei Templari. Venne scoperto a barare da un tizio in piazza e subito i loro animi si scaldarono, dunque intervenni e uccisi quell’uomo. Non notai, però, che, in verità, quei due si conoscessero già, e che il loro era un gioco per confondermi. Infatti, il nostro informatore era un doppiogiochista che lavorava per i Templari.
Mi fermai un momento per assimilare il suo discorso, poi riposi il dattero tra il mucchio sulle mie gambe e fronteggiai il suo sguardo esaminatore a braccia incrociate sul petto. – D’accordo, sai che ti dico? Proverò a capire il vero significato di questa tua storiella. – finsi di rimuginare per pochi istanti, poi dissi con aria sarcastica – Non sarà mica che, quest’informatore, ti ha ricordato in qualche modo me?
– Più che altro, ho pensato a una tua vecchia conoscenza di Tamir. – disse sprezzante e intuii al volo l’allusione nella sua voce.
– Credi che io fossi la sua “amica”?
– Se per amica intendi compagna di letto, ebbene, per un momento l’idea mi ha sfiorato la mente.
Sbarrai gli occhi, incredula. – Questa, poi! Ascoltami bene, Assassino, non so che cosa tu abbia in quella testolina, ma posso assicurarti che nella mia vita ci sono stati davvero pochi, pochissimi uomini, e, di certo, Tamir non rientrava in questi. In oltre, non era assolutamente un uomo da prendere in considerazione.
– Troppo vecchio? – mi schernì con sottile divertimento.
– Troppo psicopatico! Non è l’uomo maturo, ciò che mi spaventa. L’età è un dato irrilevante, per me.
– Ah, quindi ti andrebbe bene anche un vecchio Assassino rognoso come me, giusto,ragazzina?
Il cuore accelerò un po’ nel mio petto, strinsi inconsapevolmente le ginocchia tra di loro e con le dita cominciai a spellare un dattero.
Che razza di domanda era, quella?
– Cosa c’entriamo adesso noi due? – obbiettai impacciata – E poi, si può sapere quanti anni hai? Trenta?
Lui ghignò, negandomi lo sguardo con fare schivo – Parliamo di te o di me?
– Parliamo di me. Una volta per tutte, Altaïr, mettiamo le cose in chiaro, prima di andare avanti con le missioni e rischiare di incappare in fraintendimenti. Non conoscevo l’esistenza degli Assassini fino all’inizio di Aprile, figurarsi dei Templari. Se sono rimasta a Masyaf, era perché non avevo alcun posto dove andare ed ero spaventata, quindi ho pensato di accettare la gentile offerta di Kadar di rimanere nascosta con voi, finché non avessi trovato un modo per tornare a casa. Ma poi, è accaduto ciò che è accaduto.
– Che ti sei innamorata di tuo fratello?  
Assimilai il colpo con inaspettata velocità, ma assorbirlo, quello mi richiese qualche minuto di riflessione. – Ora stai esagerando. – lo ripresi cupa.
– Davvero? Tu credi di non aver esagerato?
– Altaïr. – lo interruppi con voce aspra – Se sei venuto a chiedermi di Tamir, ebbene ti risponderò con sincerità. Ma se vuoi fare congetture sulla mia vita privata, allora ti prego di abbandonare ogni idea di collaborazione da parte mia. Non conoscevo quel Templare, e il giorno in cui incontrai te e Kadar fu in assoluto la prima volta che vidi Damasco. Questo è tutto ciò che ho da dirti.
– Non basta. – obbiettò secco.
– E allora dovrai fidarti di nuovo di me.
Guardai l’ombra dorata nei suoi occhi, scoperti come poche volte alla luce del sole, senza la protezione del cappuccio, e capii che gli riusciva difficile credermi, perché lui era fatto così: sempre alla ricerca del nemico cremisi negli occhi delle persone, degli alleati, di tutti.
Mi c’era voluto un po’, ma alla fine avevo capito quella metafora.
Altaïr non si fidava di nessuno, neanche dei suoi amici, forse perché la morte di suo padre per colpa di un traditore lo aveva traumatizzato, o forse, più semplicemente, perché aveva un brutto carattere.
In ogni caso, aveva messo a punto con gli anni un efficiente sistema di protezione che gli ricordava costantemente di guardare più di una volta la persona che aveva davanti e, possibilmente, di catalogarla.
In certe circostanze, la sua mente era davvero semplice, come quella di un bambino; blu, amico.
Rosso, nemico.
Io ero stato un omino bianco per un po’, non catalogabile in nessuno dei due Ordini.
– Siamo già in ritardo. Il Gran Maestro ha inviato un messaggio, è preoccupato e vuole che torniamo a Masyaf in fretta. Forza. – detto ciò, Altaïr se ne andò, ed io, come sempre, rimasi ammirata dalla facilità con cui fuggiva da una discussione, anche da una così delicata.

*     *     *

Malik era partito, e anche da un po’, secondo le parole di Rauf.
Quando tornammo a Masyaf, fu proprio lui a scortarci verso la fortezza degli Assassini, facendoci passare per il campo d’allenamento, che, a quell’ora, era già popolato da ragazzini alle prese con i primi addestramenti.
Io e Altaïr ci trascinammo a stento dieto di lui, che nel frattempo ci ragguagliò sulle nuove della casa e, non senza un certo orgoglio, che era stato promosso come nuovo allenatore delle reclute, per la sua “ innata capacità di empatia verso i novellini e le sue conoscenze tecniche”.
Ero sinceramente felice per lui, ma la stanchezza del viaggio era evidente e per questo fui ben felice di incontrare subito il Gran Maestro, così da poter far visita a Malik e poi, finalmente, correre a letto.
Fu allora che, tra imbarazzo e fretta, Rauf mi riferì della sua partenza per Gerusalemme all’inizio del mese scorso, mentre ero in viaggio.
Altaïr non parve molto sorpreso e non si lasciò andare a commenti mentre salivamo le scale, ma io, io ero ammutolita, completamente fuori di me, e anche un po’ triste.
Allora, era vero che per Malik non avevo nessuna rilevanza, tanto da lasciarmi senza degnarmi neanche di una spiegazione, di un saluto, di nulla.
Come se non esistessi.
Arrabbiata com’ero, quasi non badai alle parole del Gran Maestro, che sembrava cercare la mia testimonianza più che quella di Altaïr, il quale maturò, parola dopo parola, la strana sensazione d’esser stato messo da parte nella sua stessa missione.
– Cos’è quella faccia buia, Altaïr? – aveva allora detto Al Mualim, mentre gli allungava il bracciale con la lama celata – Sei appena stato elevato al rango di Iniziato e hai riavuto la tua arma, dunque perché non sorridi?
Il giovane trattene un’occhiata glaciale al suo Maestro, poi prese il bracciale a testa bassa e lo indossò, trovando subito un certo conforto nel suo famigliare scricchiolio all’azionamento del meccanismo.
Il vecchio canuto osservò la lama uscire dal bracciale del suo adepto con una certa inquietudine, poi guardò me e sul volto tornò la calma.
– Ora che Altaïr è di nuovo un Iniziato, figliola mia, potrà darti ordini sul campo di ricerca, ma, ovviamente, non verrà meno il tuo ruolo di supervisore. È importante che tu lo tenga sulla retta via, mi raccomando.
Ricordai che annuii quasi meccanicamente a quell’ordine e che, in qualche modo, mi sentii un po’ sottomessa, come se non dovessi pensare; fu una sensazione davvero sgradevole.
Il tintinnio degli anelli dell’uomo che stavo pedinando mi proiettò di nuovo sulle mie mani, sudate e tese verso i suoi fianchi grassocci, da cui pendeva un astuccio con la pergamena, proprio mentre quello si grattava una natica con le unghie.
Fu allora, che mi ricordai d’esser in piena missione di ricerca ad Acri, e che Altaïr attendeva il mio ritorno per iniziare la caccia al nostro secondo bersaglio nella lista.
Feci una smorfia di disgusto, poi, senza alzarmi dalla posizione acquattata, allungai la mano verso i fianchi opulenti dell’uomo e sfilai l’astuccio con destrezza davvero ammirevole, come mi aveva insegnato Malik.
Una volta che ebbi guadagnato il bottino, sgattaiolai via dall’angolo della bottega prima che l’uomo si rendesse conto di esser appena stato derubato, e sparii nella strada.
Acri era una città piegata su se stessa, cenacolo di guerre intestine, intrighi e contese tra mussulmani e cristiani, baccello gravido di pestilenze che avevano spazzato via metà della popolazione e continuava a mietere vittime.
La presenza di un morbo mi preoccupò parecchio, ma Altaïr mi assicurò che non c’era pericolo d’infezione se non si veniva a contatto con le acque contaminate dei canali e, soprattutto, se si evitavano i pazzi del lazzaretto.
Dopo qualche tentativo a vuoto, ritrovai il vicolo del covo e mi calai nel bureau silenziosamente, dirigendomi a capo coperto verso la stanzetta da cui evadeva il profumo amabile di libri e vecchi volumi di medicina.
Quando entrai nell’ufficio, Jabal, il rafiq che avevo conosciuto quella mattina, mi salutò con un sorriso sdentato.
– Salute e Pace, Laura. – disse – Hai trovato qualcosa d’interessante, in città?
Annuii con un sorrisino, porgendogli la pergamena nell’astuccio – Ho origliato la conversazione di un uomo con uno delle guardie di Naplusa, che gli ha dato questa. – spiegai.
Il rafiq annuì pensieroso e prese l’astuccio tra le dita consunte dall’inchiostro e dalle pagine dei suoi libri, dunque cominciò a leggere silenziosamente, dandomi così qualche minuto per rilassarmi con un braccio poggiato sul bancone.
Giunti ad Acri, Altaïr mi aveva portato da Jabal, che, come tutti, mi aveva accolto con riserbo e leggera sfiducia, tuttavia era bastato che parlassi un po’ per incantarlo; alquanto pareva, aveva un debole per le donne che sapevano leggere, ed io, che avevo riconosciuto uno dei libri di Galeno, “De naturalibus facultatibus”, presente nella raccolta di mia madre, riuscii ad accattivarmi la sua parlantina.
Jabal era un uomo di mirabile intelligenza, colto e di larghe vedute, ma, per quanto avrei voluto parlare con lui della sua collezione sugli scaffali, gli sbuffi e le occhiate al soffitto di Altaïr mi ricordarono che eravamo in missione.
Il rafiq ci ragguagliò sul nostro bersaglio, Garniero di Naplusa, Gran Maestro degli Ospitalieri, che aveva cominciato a condurre strani esperimenti sui suoi pazienti, soprattutto quelli mentalmente malati.
Non fui molto entusiasta all’idea di dare la caccia a un uomo del genere, che riusciva a evocare nel mio immaginario scene orribili, che avrebbero fatto accapponare la pelle di chiunque, ma non potevo fare altrimenti.
– Bene. – Jabal richiuse la lettera quand’ebbe finito di scorrerla con gli occhi, dunque la ripose su una catasta di libri e mi disse – Può bastare così, Laura. Raggiungi Altaïr e digli che potete cominciare la missione. Il bersaglio è all’Ospedale di Acri, dove si è rinchiuso da giorni, oramai, a fare il cielo sa che cosa.
– Perfetto. Salute e pace, rafiq.
– Buona fortuna, Novizia, e torna intera, vorrei mostrarti dei libri che potrebbero interessarti. Ah, che fortuna ho avuto nell’incontrare qualcuno con cui poter ragionare su argomenti così sublimi, in mezzo a questo branco di capre!
Sorrisi a quella affermazione e risalii sul tetto, dove vidi il sole cominciare a calare tra le case; così, intrapresi una gara contro il disco rosso, sfidandolo a raggiungere l’orizzonte prima del mio arrivo all’Ospedale.
Il sole aveva tinto di scarlatto il profilo dei tetti quando arrivai vittoriosa sulla cima di una casa antistante al luogo dove si nascondeva Naplusa.
Passai in rassegna la zona: l’Ospedale era un edificio scarno, fatiscente, racchiuso da mura vecchie quanto la città stessa, circondata da un numero notevole di persone, che supplicavano di ricevere le cure per i loro malanni, ma l’accesso era negato da alcune guardie all’entrata.
Perché non potevano passare?
– Ganriero è protetto dalle mura e da un gruppo di guardie scelte. – Altaïr giunse alle mie spalle senza far alcun rumore, affiancandomi sul bordo del tetto.
Io rimasi nella mia posizione acquattata, scrutandolo dal basso come un felino in allerta.
– Perché Garniero non fa entrare quelle persone? – domandai allora io.
– Non mi preoccuperei di questo, adesso. Piuttosto, le guardie avrebbero dovuto fare il cambio al tramonto, e invece sono in ritardo. Rischiamo di perdere Garniero, se non troviamo un modo per entrare.
Aggrottai la fronte mentre tornavo a fissare l’edificio, aperto al centro in un giardino che lasciava intravedere l’interno, poi tornai alla piazza e notai che le guardie lasciavano entrare, o meglio schivavano disgustati, solo i pazzi che vagavano come mosche intorno alle mura puzzolenti del lazzaretto.
Rabbrividii per la mia stessa idea, ma, al momento, mi parve la cosa più ovvia da fare.
– Senti, forse ho un piano. – cominciai.
– Prima devo parlarti. – m’interruppe lui.
Alzai lo sguardo confuso e lo trovai mentre si massaggiava gli occhi con le dita, dunque sospirò e tornò a guardarmi con i bulbi dorati un po’ rossi. – Io mi fido di te, Laura. – disse – Mi sono sempre fidato di te, anche quando la coscienza mi diceva che era sbagliato. Qualcosa in me, qualcosa di estremamente stupido, mi ha spinto a fidarmi. Quindi, ti credo se mi dici che non conoscevi Tamir. Ti credo, e ci tenevo a dirtelo.
Per un momento rimanemmo a fissarci l’uno negli occhi dell’altro, silenziosi, impacciati, un po’ sorpresi di scorgere una persona completamente nuova, diversa da quella con cui avevamo cominciato il nostro viaggio due mesi fa.
Perché, per qualche strano motivo, ultimamente diventava sempre più facile parlare senza dover necessariamente nascondere i nostri reali pensieri, senza dover temere il giudizio dell’altro, perché eravamo compagni d’armi.
Del resto, doveva capitare, dopo un anno, no?
In quei mesi di missioni, tra le traversate di terre a me sconosciute e distese di polvere, Altaïr era diventato il perno della mia giornata, l’unica persona con cui parlare, una persona, scoprii, più umana di quando lo avevo conosciuto per la prima volta.
Guardando meglio l’uomo che avevo davanti, mi ero resa conto che ciò che da prima era solo una timida intenzione si era tramutata, col tempo, in una vera e propria metamorfosi; Altaïr stava cambiando, anzi, voleva cambiare, ma era ancora difficile per lui.
Ci stava provando, però.
E ,alla fine, finimmo con il perdonarci tutto.
Io, finii con il perdonarlo.
– Grazie, fratello. – sorrisi piano, di cuore, e lui sentì subito l’animo alleggerirsi un po’.
– Allora, Laura: qual è il piano?
– Ancora non lo so, ma ho bisogno che tu mi procuri degli abiti popolani. E speriamo nella buona sorte.
– La buona sorte non c’entra nulla. – obbiettò e, con un balzo leggero, sparì oltre l’orlo rossastro dell’edificio, verso la piazza.






Angolo autrice: Salve a tutti i miei cari lettori! Dunque, diciamo che questo capitolo si è incentrato un po’ di più su Laura e Altaïr e sul loro rapporto che, a distanza di quasi un anno, comincia a maturare in qualcosa di completamente diverso. Ho tralasciato l’episodio di Tamir per inserire il piccolo scorcio di delirio notturno della nostra cara protagonista, che, diciamocelo, forse tanto incosciente quella notte non lo era…
Comunque, nel prossimo capitolo riprenderemo l’episodio di Tamir e il sogno del serprente;  finalmente, Laura avrà una rivelazione…
Come sempre, la mia gratitudine per il vostro sostegno cresce giorno dopo giorno, e vi ringrazio dedicandovi questa storia. :)
Baci, Lusivia.  



   
 
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