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Autore: _sonder    15/07/2015    2 recensioni
Voglio raccontarti una storia, vecchio.
Gray narra il proprio passato al suo secondino.
| Terza classificata al Fairy Tail Crack Contest indetto da rhys89 sul forum di EFP. |
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gray Fullbuster, Lyon Bastia
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Nickname: _sonder
Titolo della storia: Quindici anni
Coppia: Adult!Gray x Adult!Lyon
POV: Adult!Gray
Pacchetto Eris: olio per motori, strada sterrata
Bonus pacchetto: immagine
Bonus citazione: Ci sono molti tipi di ferite [...] ma la più profonda ferita è il tradimento.
Rating: Giallo
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico
Avvertimenti: What if
AU o fandom!AU (solo se presente): Modern!AU
Intro: Voglio raccontarti una storia, vecchio.
Gray narra il proprio passato al suo secondino.
(Partecipa al Fairy Tail Crack Contest indetto da rhys89 sul forum di EFP)
Note: Per i dialoghi ho utilizzato le direttive della casa Einaudi.
La storia prende il via in medias res, con relazione pregressa, Ur come madre biologica di Gray.







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In estate, quando le maglie si appesantiscono di sudore e diventano muta della pelle, alzo gli occhi al cielo. Sfido lo sguardo del sole, finché le palpebre non crollano. All’inizio, è come essere risucchiati dal fuoco; poi, subentra il bianco. Non è quello candido del ghiaccio, no; questo avanza sino a toglierti ogni colore e dalle iridi fugge un nugolo di moscerini tremolanti verso il cielo.
Stiro il braccio e lo poggio sulla fronte per offrire sollievo alla vista. Ed ecco che scendono le prime lacrime: le asciugo con un gesto deciso, mi limito a sentirle rotolare sulla pelle del viso per un breve momento.
Il corpo s’illude di tornare ai giorni torridi di quindici anni fa. È la brezza calda a ingannare entrambi: solletica le caviglie e risale su per le gambe, portandosi dietro il brivido del tuo ricordo.
Le mani, che muovevi sulla mia pelle, sembrano ancora gentili, perché la memoria delle notti trascorse assieme è allentata. Persino il tuo viso, è un bozzetto sbiadito su carta, di cui restano pochi tratti decisi.
Da quindici anni, cerco il sole durante la mia unica ora d’aria. Quando sgobbo e piego la schiena fino a rovistare le zolle con la vanga fra le pietre, la pelle diventa il letto di un torrente e la fatica mi contrae i muscoli.
Un manganello contro le sbarre mi chiama.
Sollevo il busto. Potrei sentire il lamento della barba sotto la lama del rasoio; invece, ascolto il prurito guidare le dita tra i peli ispidi e il mento secco, disidratato, che si divide in tante piccole squame. Le unghie lacerano la pelle, mentre la porta cigola. Almeno due volte al giorno, smetto di essere spettatore di un mondo a righe.
Eagle è il mio secondino. Qui si mangia tutti in cella, da soli, come bestie che faticano a dividere il rancio. Eagle mi allunga un paio di mestoli di brodaglia in più e fa segno di restare zitto. Accende una sigaretta e, di tanto in tanto, mi offre il mozzicone, prima di calpestarlo. Lo pesta come farebbe un vecchio di fronte a uno scarafaggio.
Lo studio: ha le guance molli e i solchi delle rughe aumentano i crateri sulle guance. Da giovane deve essere stato pieno di foruncoli. Un ghigno scopre i miei denti.
Tiro su la zuppa con i versi di un affamato, affondo i denti nel pane raffermo. Sono questi i giorni che mi attendono e non sono diversi dalla pioggia di terra che ho ingoiato nel sud. Fotografie di un paese immobile. Anch’io sono congelato e il tempo trascorre. Ho messo i primi capelli bianchi lungo le basette e penso che fra poco potrei assomigliarti.
Cosa proverò guardandomi allo specchio? Mi sentirò simile a te?
Sputo il rancio con un ruggito d’ira. Eagle mi squadra. Mormora qualche frase da anziano e punta verso di me con le sue palpebre cadenti. Ha un paio di occhi che non mi piacciono. Forse, neanche a te piacerebbero, Lyon.
Eagle apre bocca: sciorina parole e volgarità come se dovessi berle tutte. Senza tante cerimonie, mi stendo sulla brandina e conto le gocce d’acqua sul soffitto.
La muffa si diffonde come un morbo e sono costretto a respirare questa merda, tutte le volte che inspiro, mentre Eagle conta la ninnananna delle balle.
Si sofferma sempre sulle stesse storie. Aggiunge particolari e sottolinea le sue imprese; parla del tir che ha guidato su due ruote o delle femmine che gli ronzavano attorno. Parla con un’arroganza che mi dà ai nervi. Gli dico di chiudere il becco e di risparmiarmi le sue stronzate.
Mi gratto una gamba con un piede. Le zanzare vanno a nozze col mio sangue; non sono diverse da tutti quelli che mi hanno voltato le spalle. Hanno succhiato in nome dell’amicizia e in nome del mio bene; gli ero così caro che hanno finito col vendermi. Questo lo sai meglio di me, Lyon.
Ed è patetico, rannicchiarsi come un babbeo per nascondere il tremito delle ginocchia. È patetico aggrapparsi al buio perché Eagle non capisca cosa mi sta passando per la testa.
Mi giro su un fianco per non ascoltarlo. Non puoi capire, Lyon. Tutto quello che mi resta del mondo fuori da queste mura, sono i racconti di un matusalemme dalle ciglia folte. Mi avanzano i ricordi che mi hai lasciato.
A volte, la voce di Eagle rimbomba nei pochi metri quadri in cui soffoco e penso al passato. È una voce nasale e appiccicosa, come lo sono le gengive di chi ha troppi anni per conservare denti buoni. Biascica e ha l’alito impastato di alcol. Potresti pensare che sia facile fregarlo, in quello stato. Stai certo che qualcuno ti riempirebbe di piombo.
Dico: — Vecchio, ti racconto una storia.


La strada che stai percorrendo è una lingua d’asfalto e polvere, seccata da nubi di sabbia. L’oro della terra non fa gola; luccica e distrae, mentre i condor se ne stanno appollaiati sui crestoni di roccia. Altri avvoltoi ti vorticano sul capo e le alture fissano la tua piccolezza coi loro volti da pellerossa.
Segui il lento cordone dei tornanti. Il paesaggio si tinge di rosso e ti domandi se non sia la terra, in quell’angolo di mondo, a tramontare e a disperdersi sotto la morsa del caldo.
Da giorni, prosegui con lo sguardo diritto. I canyon fanno da paraocchi. Ti credi un cowboy su un vecchio ronzino stanco, su lande senza nome. Stai cavalcando verso ovest e non c’è uomo a ricordarti che anche tu sei una persona e non pietra, non il letto di un geco.
In sella al tuo trabiccolo, il panorama ha una nota sporca, filtrata da un vetro ingiallito. La natura si mostra povera e non hai dove rifugiarti. Neanche l’ombra offre riparo.
È in una giornata come queste, in cui il tuo cuore è gonfio e pensi alle palle di neve lanciate da tua madre, che l’aria deforma la via sterrata. Sali verso colline dorate, dove i sassi giocano a indispettirti e le lucertole si acquattano sulla schiena dei massi.
Immagini la birra fresca che hai rubato a Ur in una notte d’estate e lei svelta a tirarti una sberla, per rimproverarti di aver allungato le mani su cose non tue. Hai ruttato un mamma stranito, che odorava di luppolo e rimbalzava nel salotto. Ur ammutoliva, con una mano sulla bocca: ti conciava per le feste il minuto seguente, fra stoviglie ribaltate e tacos immersi in un dito di salsa sul pavimento.
Poi l’hai sentita urlare contro un manuale per genitori single e ti sei chiesto quando ti avrebbe parlato del tuo papà.
Il caldo, sulla salita ripida, diventa insopportabile e ti torna alla mente il giorno in cui è morta. La sua mano è scivolata dalla tua; non era più forte come la ricordavi. Era magra, come le piante bruciate dal sole, che pregano per lo scroscio della pioggia. Per lei, hai versato una pioggia di granelli dal pugno; per lei, hai chiuso gli occhi e pianto, mentre l’ultima pala di terra copriva la sua bara.
Piangi anche ora e menti: è solo il sudore a bagnarti le guance. Mordi le labbra e i denti si stringono sulla carne; non devi ridurti così.
Sei in pendenza, quando l’auto comincia a tossire e sputare fumo denso dalla marmitta. Ti fermi e scendi dalla vettura, convinto di risolvere in breve. Intanto ti vola dalla bocca qualche bastardo in direzione di Lyon, perché il cuore va per fatti suoi e tu, intanto, sei rimasto dietro a spingere la vettura dal tettino e dal fianco della portiera.
Lyon è il tuo vicino di casa. Lo hai conosciuto durante l’ora di punizione della professoressa Erza, la lady di ferro, come la chiamava il suo fanclub di secchioni.
Lyon è uno di quei damerini che si danno tante arie, ma tremano come una foglia, quando le cose non vanno per il verso giusto. Stai viaggiando per incontrarlo, dopo sette anni in cui non sei neanche riuscito a inviargli un misero messaggio da centocinquanta caratteri su twitter.
Lyon è stato quel tipo di bacio contro un armadietto di metallo e vernice a basso costo: una scommessa, un azzardo nato per sfogarti contro quel presente che si traduceva in passato. Mentre tua madre sfioriva, ti sei rifugiato sulla sua spalla, mordendogli le carni, come per entrargli dentro. Hai taciuto il dolore e tirato pugni, provocato dalle domande impertinenti di Lyon, dal suo sorriso furbo.
Quando l’hai lasciato, era chino a sedere su un muricciolo. Ti ha guardato con gli occhi semichiusi e tanto risentimento a riempirli. Ti ha guardato con le labbra serrate e, infine, ha urlato qualcosa. Non ricordi più chi dei due se ne sia andato per primo. Hai di fronte a te l’immagine del suo pianto e della rabbia che lo accompagnava.
Lo hai cercato spingendo una mano a darti piacere, tra la vergogna di una notte solitaria e il rimpianto di una piazza vuota. Nel fruscio delle coperte, ti sei illuso che a toccarti fossero ancora le sue dita. Hai scoperto una parte di te che credevi non esistesse. Lyon era già lontano; soffocavi l’ennesimo urlo sul cuscino e lottavi per arrivare al domani. A cazzotti, hai percorso il cammino degli ultimi anni: lavori saltuari, amicizie sbagliate e strette quanto i vestiti che preferivi togliere, persino in strada, con le vecchiette a tirarti le borse contro e le ragazze più giovani a civettare sui tuoi muscoli.
E questa chiamata dal passato, proprio adesso, ti costringe su un veicolo sgangherato, noleggiato per pochi pezzi da cento. Ti attrae verso un fantasma che hai cancellato tu stesso.

Il sentiero muta in una distesa bianca e sassosa, che le ruote non faticano ad attraversare. Dallo specchietto retrovisore osservi il gas di scarico nelle sue boccate; un liquido accompagna il tuo tragitto. Digrigni i denti e continui ad avanzare. Devi vedere Lyon. È solo la volontà a spingerti avanti, proprio come quei sassi che guardi rotolare su se stessi.
Dei ciuffi argentei tremano nel miraggio dell’afa. Si scuotono, liquidi, dove il percorso è molle per le temperature. Si aggiungono le lacrime di felicità: stai per raggiungerlo.
Lyon alza il pollice, come chi ha il vizio di servirsi dell’autostop. È solo un miscuglio di colori, da cui spuntano ciocche sparate in aria.
— La puntualità non è mai stata il tuo forte, Gray.
— Posso farti camminare per ore sotto il sole.
— Farei la spia con tua madre nell’aldilà. Vedrai che fulmini!
Lo prendi a bordo e non vedi già l’ora di spingerlo in un fosso e rotolare sopra di lui fino a dargliele di santa ragione, fino a sfidarlo come un tempo, quando chi arrivava ultimo nella corsa doveva pagare la cena dell’altro. E ti chiedi cosa sia cambiato da allora e perché i tuoi occhi lo vedano con un’espressione differente. Ti domandi come sia possibile che, a distanza di tempo, lui sia seduto accanto a te con l’aria di chi la sa lunga.
— Perdi olio, Gray. Ti hanno rifilato un rottame. Devi vivere bene da stupido.
Perché è sempre avanti a te di un passo? Uno… ma sembra così lontano. Gli ringhi contro.
— Lo so, cosa credi? Ma non potevo fermarmi o sua maestà sarebbe morto a due passi dalla stazione di servizio.
— Fammi dare un’occhiata, autista dei miei stivali.
Lo senti fischiare un motivo della vostra adolescenza, mentre armeggia con il motore. Controlla il cambio. Riemerge con le mani sporche di olio e una pezzuola lorda di grasso. Ti guarda con la solita spocchia.
— Conducente, mi apra la portiera.
— Al diavolo. Avrei saputo sistemare anch’io.
— Non cambi mai. Sempre a piagnucolare?
— L’ultima volta eri tu quello ridotto in lacrime.
Ti dà una spallata e sporge con il gomito dal finestrino. Scorrono diversi minuti prima che apra di nuovo la bocca. Tu guidi verso la stazione di servizio e il motel in cui alloggia. Il silenzio ti confida tanti errori, a partire da quello che hai commesso il giorno in cui hai deciso di rompere con lui. Lyon sembra non fare caso a te, al modo in cui tieni il volante con entrambe le mani. Lui saprebbe farlo con una soltanto… ricordi anche questo.
Lo spazio è piccolo per essere diviso in due; si tratta del silenzio che ti schiacciava quando Ur non aveva più vita per discorrere con te, per raccontarti delle sue sbornie o degli appuntamenti disastrosi. Non sai neanche adesso chi sia tuo padre e quando dai del bastardo a Lyon pensi, in fondo, che il vero bastardo sia tu. Tu che lasci e non ti leghi per timore di perdere; tu che vorresti rischiare e osi farlo solo in battaglie individuali. E se fosse più semplice averlo al tuo fianco?
Il motel è circondato da fichi d’india. Opantia, ti corregge Lyon, sventolando un dito per compatire la tua ignoranza. Ribatti di non essere un giardiniere.
Erborista o botanico, replica lui e ti dà una pacca sulla schiena. Tossisci e cerchi di inspirare più aria possibile; con quel colpo Lyon ti ha tolto il fiato.
Ti domandi perché ora, perché si sia fatto vivo dopo sette anni di mutismo. Tra le mani reggi la speranza che non ci debba essere un fine per averlo di nuovo intorno e cacci la sicurezza nelle tasche, per tenerla come scorta nei momenti di sconforto.
Partirete l’indomani. Lo ha già deciso senza possibilità d’appello.
Prima d’entrare nella vostra stanza, lo guardi appallottolare un foglio di carta. Ti corichi sul materasso basso. Le molle sono vecchie e in alcuni punti la lana di rivestimento è affossata. Con un sorriso, pensi a Ur e ai letti che aveva comprato a buon mercato per la vostra roulotte.
La stanchezza ti coglie. È notte fonda, quando avverti il tepore di un abbraccio.
— Sta’ zitto.
La voce di Lyon è roca. Sbadiglia e continua a parlare. Strascica ogni termine e lo prolunga allungando ogni respiro. Devi fare silenzio, ripete. Ti spinge contro il suo petto. Scopre il tuo tatuaggio e passa la lingua sul profilo dell’orecchio. Dal piacere nasce nuovo dolore, quando la morsa s’intensifica.
Senti le sue mani questa notte. Sono quelle che hai cercato di sostituire da solo, mentre lo immaginavi a occhi chiusi. Li tieni aperti, questa notte; devi accertarti di non essere vittima di un’illusione.

All’alba sei in piedi. Senti l’acqua della doccia. Rotoli sul letto e ridi. Avevi dimenticato che senso avesse uno scoppio di risa. I muscoli sono indolenziti e sai già che Lyon irromperà nella camera prendendoti in giro. Prepari un broncio e chiudi il pugno: sei pronto per i suoi rimbrotti, ma li pagherà cari! Chiudi le palpebre, ma quando le riapri l’acqua ti accoglie di nuovo. Ti alzi e apri la porta del bagno. Fra i vapori, non scorgi il profilo di Lyon.
Esci in mutande e il corridoio è calmo. Le voci non smorzano il silenzio. C’è solo il ticchettio di una tapparella che batte contro la finestra della reception.
Ai tuoi piedi c’è un foglio accartocciato. Non lo raccogli e fissi l’uscio socchiuso di un’altra stanza. Ti avvicini e con un calcio ti fai largo nella centotredici. Due corpi sono supini sul letto, sgozzati e il loro sangue decora la moquette.
Fai un passo indietro e raccogli il foglio. Corri per l’intero piano in cerca di aiuto e ti risponde una quiete sinistra. Apri la palla di carta e scorri i nomi che vi sono scritti; non li riconosci. Gridi il nome di Lyon, disperato. Pensi che sarà il prossimo che troverai in una pozza scura.

Le sirene giungono come la salvezza. Non capisci perché i fucili siano spianati contro di te, che fremi e non hai mai visto un cadavere oltre quello di tua madre. Non capisci nemmeno l’ufficiale che assicura le manette ai polsi dietro la schiena. Non comprendi il poliziotto che ti spinge a capo basso nella volante della polizia locale, blaterando qualcosa sui tuoi diritti. Tutto quello che sai dire è Lyon, mentre lo intravedi salutare da un’ambulanza, vestito da paramedico.
Ti spingi verso i sedili anteriori e urli nella sua direzione; quando il muso dell’automobile punta verso la città, schiacci il viso contro il vetro e lo prendi a testate.

Trascorri quindici anni in gattabuia. Sei stato condannato. Avevi con te le armi del delitto; le tue impronte tappezzavano le stanze e le lame; la stanza era a tuo nome. Non c’è nessun Lyon, ti ha detto la Corte.
Oramai hai cucito la bocca. Mastichi ciò che ti è capitato ogni sera e fissi le posate come tue nuove nemiche. Sono di plastica e non potresti piantarle in un occhio della guardia, per aprirti un varco e urlare la tua innocenza.
Ci sono molti tipi di ferite, ma il tradimento è la ferita più profonda di tutte. Lo ripeti prima di andare a dormire; lo ripeti aprendo gli occhi al mattino e quando passa il cappellano, che ti invita a perdonare. Lo ripeti quando Eagle ti porta la porzione di sbobba che ti spetta e comincia a snocciolare aneddoti.

— Gray… frigni ancora?

Allargo gli occhi.
Riconosco questa voce. Abbaio e schiumo dalla rabbia, avventandomi contro la gabbia in cui mi hanno rinchiuso a causa tua. Scuoto le sbarre, mentre sputi l’ovatta che ti gonfiava le guance e abbandoni la maschera di silicone. Per tutto questo tempo mi hai avvelenato con le tue bugie. Rantolo e urlo fino a non sentirmi. E rivedo i tuoi capelli, il viso che riempivo di baci.
— Perché?
Chi grida non sono nemmeno più io. Lanci qualcosa, in silenzio, mentre mi fissi con le labbra curvate all’insù. Cado in ginocchio e afferro il mazzo di chiavi. I minuti scorrono.
Apro la porta della cella.
Stringo l’ovatta che masticavi per fingerti un altro.
Non sei più qui.


Dopo quindici anni vedo il sole. Anche lui è solo un pallido cencio.
  
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