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Autore: IoNarrante    30/07/2015    3 recensioni
Ven, aspirante avvocato, ragazza determinata, ligia al dovere, trasferitasi a Londra con un unico obiettivo: diventare socia di uno dei più grandi studi legali della capitale.
Il sogno per cui ha lasciato la sua famiglia a Tivoli, salutato tutti i suoi amici, riducendosi a vivere in un piccolo monolocale vicino a Regent Park.
La fortuna però gira dalla parte di Ven, perché le verrà affidato un caso importante e allo stesso tempo spinoso, che la costringerà a collaborare con un avvocato brillante e terribilmente sexy ma che allo stesso tempo rispolvererà alcune sue vecchie conoscenze.
Non è necessario aver letto Come in un Sogno
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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Capitolo 28
 
Il monolocale di Regent Park somigliava più ad una scatola che a un vero e proprio posto in cui poter vivere. L’attico di Simone avrebbe comodamente ospitato cinque di quelli che vendevano come appartamenti, eppure mi sentii stranamente a casa. Erano ormai quattro mesi che non vi mettevo piede, saltuariamente mi era capitato di passarci, per prendere a mano a mano un po’ della mia roba, ma ciò avveniva sempre più di rado.
Adesso dovrai fare l’abitudine a stare sola.
Ci ero stata tutta una vita, non sarebbe cambiato molto. Sin da piccola, le compagnie dei miei amici si limitavano soltanto alle uscite del sabato sera e a qualche eccezione, ma adoravo stare nella mia stanza, organizzare gli studi, programmare la mia settimana. Mi era capitato di farlo anche nel monolocale, quando mi ero trasferita a Londra per il tirocinio, ma poi era arrivato Simone.
Il calciatore aveva sconvolto completamente la mia vita, facendomi cadere in un vortice da cui era impossibile uscire. Viveva sempre alla giornata, decidendo minuto dopo minuto ciò che aveva intenzione di fare e non aveva la minima organizzazione nemmeno nel gestire la sua carriera. La verità era che tutto ciò cominciava già a mancarmi.
«Forza Ven,» mi dissi sospirando. «Diamo una parvenza di ordine a questo posto.»
Decisi di rivoluzionare il piccolo appartamento facendo sì che trasmettesse un po’ di calore e conforto, che non fosse sterile come l’ufficio della Abbott&Abbott. Volevo che sapesse un po’ di casa.
Non mi ero portata via molte cose dall’appartamento di Simone, anche perché la maggior parte dei miei completi da lavoro si trovavano ancora nell’armadio del piccolo monolocale. Avrei avuto tempo per farci un salto, prima o poi. Magari anche accompagnata da James. Rifeci il letto ad una piazza e mezza, mettendo lenzuola e coperte pulite che sapevano di bucato, poi decisi di riordinare la piccola cucina e di organizzare meglio la scrivania piena di post-it.
Quando venne il turno dell’armadio, notai con rammarico che la maggior parte delle scarpe che avevo lasciato nel mio vecchio appartamento fossero dannatamente scomode. Sospirai sonoramente, cercando di non farmi abbattere dallo sconforto. Rimescolai i vari tailleur, accoppiandoli alle rispettive gonne o pantaloni e tentai di dare un senso logico agli abbinamenti. Frugando proprio in fondo all’armadio, qualcosa di rosso e bianco spuntò dall’angolo di una mia vecchia borsa dimenticata.
«E questo che cavolo è?» mi chiesi, tirando il pezzo di stoffa incriminato.
Il dolore più grande che non potevo affrontare in quel  momento sarebbe stato trovare qualsiasi cosa mi ricordasse Simone, il suo essere così dannatamente irritante, il suo profumo e qualunque oggetto si riferisse a lui. Trovare la maglia dell’Arsenal in fondo all’armadio, quella della prima partita che ero andata a vedere invitata da lui, mi fece male al cuore. Ebbi come una fitta.
L’infarto è vicino.
Purtroppo non si trattava nemmeno di quello. Era soltanto senso di colpa perché sapevo di aver fatto un errore a lasciarlo là da solo, senza nessuna spiegazione plausibile. Afferrai la stoffa rossa e la stesi sul letto, a faccia in giù, in modo che si leggesse bene il nome “Sogno” dietro le spalle. E arrivò il momento in cui finalmente elaborai tutto e mi lasciai andare in un pianto quasi a dirotto. Le lacrime mi offuscavano la vista, non riuscivo nemmeno a muovermi o a continuare il riordino. Mi lasciai cadere sul letto, avvolta da quella stupida maglia e dal suo profumo che ancora vi era rimasto intrappolato dentro, come una cicatrice che non sarebbe mai andata via dalla mia mente.
Avevo sacrificato Simone per il mio lavoro, per ottenere quello per cui in tutti quegli anni avevo faticato, e alla prima difficoltà ero riuscita a scaricare quel “problema” che per me era il meno grave.
Mi sbagliavo di grosso.
Portai le mani agli occhi, stropicciandoli e probabilmente spalmando tutto il mascara e l’ombretto lungo il viso.
«Non ce la posso fare,» dissi a me stessa. La mia voce parve rimbombare in quella stanza vuota mettendomi ancora di più la depressione addosso.
Rimasi tutta la sera accoccolata nella maglietta di Simone, mi addormentai stringendola al petto senza mai lasciarne un lembo. Era una sorta di coperta di Linus, anche se sapevo che prima mi fossi staccata da quei ricordi, più facile sarebbe stato affrontare la separazione.
 
La sveglia suonò esattamente alle 7.00. Il trillo risuonò nella mia testa con lo stesso effetto di migliaia di aghi che pungevano ogni parte del mio corpo. Avevo mal di testa, la bocca secca e impastata dalle lacrime e il viso completamente stravolto. Per non parlare dei capelli.
Tra un’ora devi essere in ufficio, mi ricordò il mio caro Cervello.
Ebbi numerosi flash della notte appena trascorsa e mi dissi di non ripetere più lo stesso errore. Ormai la decisione era stata presa, per quanto stupida potesse essere, lo avevo fatto unicamente per il bene di Simone. Finché la questione della Cloverfield non fosse stata risolta, dovevo agire in quel modo e tenere le distanze.
Non avevo neppure avuto il tempo di chiamare James e avvertirlo di ciò che ero riuscita ad ottenere da Mr. Wright, così mi buttai sotto la doccia e tentai di prepararmi nel minor tempo possibile. Dovevo presentarmi in ufficio subito, in modo da preparare una linea di difesa adatta per il processo che sarebbe dovuto svolgersi tra qualche giorno.
Prima di uscire diedi un’occhiata alle e-mail, aprendo al volo il PC.
Una valanga di pubblicità venne accuratamente spostata nella casella Cestino, ma notai subito l’indirizzo di posta elettronica della clinica St. Charles.
Il mio cuore mancò di un battito.
Feci doppio click sul link e mi si aprì un documento in .PDF dove venivano elencati i valori delle analisi del sangue. Notai una miriade di sigle senza alcun significato ma quella che cercavo in primis era il Beta-HCG.
Alla fine della seconda pagina lo trovai.
Positive.
Il mondo parve iniziare a girare velocemente, senza che avessi l’opportunità di aggrapparmi a qualcosa per non vomitare. Corsi in bagno e rigettai tutto ciò che avevo ingerito per colazione, ma quando rialzai la testa dalla tazza del wc, mi accorsi che quella era solo una conferma del mio stato.
Ero incinta.
Volevo mettermi a piangere un’altra volta ma non c’era tempo. Per quanto fossi sconvolta dalla notizia, ebbi la forza di chiudere il computer, afferrare la valigetta e le chiavi di casa, per poi recarmi in strada e raggiungere la fermata di Lancaster. Volente o nolente, con tutti i problemi e i pensieri che affliggevano la mia vita, avrei portato avanti il mio lavoro. Ero determinata a tirare Simone fuori dai guai, soprattutto dopo aver saputo che i miei sospetti sulla Cloverfield erano più che confermati.
La Tube era stracolma quella mattina. Ormai ero abituata a recarmi a lavoro praticamente a piedi, visto che l’attico di Simo si trovava in centro.
Forse è più salutare se la smetti di associare ogni tua azione a lui.
Aveva ragione Cervello. Se il mio obiettivo era concentrarmi unicamente sul caso, senza ulteriori distrazioni, avrei dovuto relegare in un angolo della mia mente il calciatore e tutti i problemi che ne seguivano. Dovevo soltanto  pensare a me stessa, a dare una conclusione a questa causa senza possibilmente dare un motivo in più a Yuki per umiliarmi.
Scesi alla fermata tra Regent Street e Oxford Street, imboccando immediatamente la grande e famosa via londinese dello shopping. Avrei voluto concedermi un po’ di sano relax quei giorni, magari facendo una passeggiata per qualche grande centro commerciale, ma quel periodo era troppo delicato. Con la testimonianza di Mr. Wright si aprivano una miriade di possibilità, e non ci dovevamo far trovare impreparati. Finalmente eravamo riusciti a sbrogliare un caso che sembrava irrisolvibile, soprattutto dopo la conferma da parte del St. Charles delle analisi di Elizabeth.
Come ha fatto a falsificarle?
Per tutta la strada che mi divideva dalla fermata di Piccadilly fino a Great Castle Street, mi domandai come la Cloverfield avesse fatto ad ottenere delle analisi così cristalline senza essere incinta.
Erano due le cose: o portava davvero in grembo il figlio di Simone, quindi si era fatta mettere incinta per evitare di perdere la causa come cinque anni prima, oppure aveva delle conoscenze anche all’interno dell’ospedale.
Arrivai alla Abbott&Abbott che James mi aspettava fuori dalla porta d’ingresso.
I suoi occhi azzurri mi avvolsero metaforicamente, scaldandomi poi con quel sorriso che soltanto un uomo di altri tempi sembrava possedere.
«Ven!» trillò entusiasta. «Sei sparita ieri, ho provato a chiamarti ma avevi sempre il telefono spento e anche quello di casa era staccato.»
Non mi ero nemmeno ricordata di mettere sotto carica il Blackberry.
«Mi dispiace,» dissi, abbassando lo sguardo e portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio in segno di nervosismo. «Ieri sono successe un po’ di cose, ti dico solo che sono tornata nel mio vecchio appartamento quindi puoi cercarmi lì.»
Non ci furono parole per far capire a James in che stato penoso mi trovassi.
Si vedeva lontano un miglio che mi avrebbe voluta abbracciare, confortare, dirmi che, alla fine, tutto si sarebbe risolto ma non poteva. Già Yuki insinuava che ci fosse qualcosa di tenero tra di noi, non potevamo dare spago ad altri pettegolezzi.
«Hai fatto la cosa giusta,» mormorò solamente, posandomi una mano sulla spalla.
Quel gesto mi infuse un calore e una sicurezza che sembravo aver perso durante la notte, dopo essermi lasciata completamente andare allo sconforto. «Ora andiamo a lavorare.»
Salimmo le piccole scalette dell’ufficio e non mi trattenni dal dirgli che avevo delle importanti novità su Mr. Wright.
James sorrise. «Anche io, vieni.»
Mi accompagnò fin dentro lo studio, salutando gli altri colleghi e i tirocinanti con un cenno del capo. Yuki si trovava affiancata da Thomas, a mio parere uno dei membri meno brillanti della Abbott&Abbott e lei lo sapeva. La sorte a volte girava per il verso giusto. La vidi in fondo al corridoio, con un plico di fotocopie in mano, senza parvenza di avere un compito davvero importante.
Il giovane Abbott mi fece spazio all’interno del suo studio.
Mi premurai io stessa di chiudere la porta, in modo che la giapponesina vedesse per filo e per segno chi delle due avrebbe avuto più chances di entrare come socio all’interno della compagnia.
James era già seduto alla scrivania, intento a sistemare meglio dei fogli.
«Inizio io!» dissi spumeggiante. Per un attimo dimenticai tutta la depressione accumulata la notte appena trascorsa. Era proprio vero che buttarsi a capofitto sul lavoro avrebbe aiutato molto. Tirai fuori dalla cartella la deposizione di Mr. Wright firmata e siglata dalla sottoscritta, in modo da autenticare il documento. «Ora puoi anche dire a tuo zio che può preparare la mia targhetta!» scherzai.
James mi fissò come se fossi del tutto impazzita.
Si prese il tempo necessario ad esaminare il documento, foglio per foglio, immergendosi nella lettura. Parola dopo parola, vidi i suoi occhi aprirsi lentamente e acquistare la stessa luce radiosa e sicura che io avevo perso la sera appena passata. Quella in cui avevo detto temporaneamente addio ad una parte fondamentale della mia vita.
«Non posso crederci,» disse, fissandomi serio. «Come ci sei riuscita?»
Sorrisi soddisfatta di quella sua reazione. Mi ero preposta un obiettivo e a costo di essere rimasta tutto il giorno appostata di fronte a casa dell’attore, ero riuscita ad ottenere una sua collaborazione.
«Ho rischiato di tornarmene a casa a mani vuote,» ammisi, raccontandogli della riluttanza di Mr. Wright a venire nuovamente coinvolto in quella storia. «Alla fine l’ho convinto, gli ho parlato di Simone e di tutta la storia che c’era dietro. Credo si sia immedesimato un po’.»
James era al settimo cielo, non riusciva a stare fermo sulla sedia. «Il processo è stato fissato per dopodomani, forse riusciremo ad organizzare bene tutto quanto e, se necessario, a richiedere anche una testimonianza a Mr. Wright di persona.»
«Forse non oserei troppo,» dissi, ricordando le reazioni spropositate che l’attore aveva avuto. Di certo, tutta quella storia aveva incasinato le poche rotelle che si trovava in testa, non potevo biasimarlo.
Per un attimo mi venne in mente Simone. Un Simone “futuro”, molto simile a George Wright con tutti i problemi che ne sarebbero derivati. Potrebbe aver anche smesso di giocare a calcio…
Era impossibile immaginarlo lontano da un pallone.
Sarebbe stato come separare lo Ying dallo Yang, il pane dalla nutella, oppure le fave dal pecorino, una cosa inimmaginabile!
Okay, ora mi è venuta fame.
«Comunque, dopodomani c’è il processo? Come mai non ho ricevuto alcuna comunicazione?»
L’avvocato nemmeno alzò gli occhi dalla deposizione, era troppo contento di ciò che ero riuscita ad ottenere. «Ho provato a cercarti, ma hai sempre il telefono spento. Adesso che sei tornata nel tuo monolocale posso lasciarti un messaggio in segreteria,» disse, poi si sentì in dovere di aggiungere altro. «Davvero Ven, hai fatto la cosa giusta. Vedrai che le cose alla fine si aggiusteranno.»
Feci un sorriso stiracchiato, ma nonostante tutti mi continuassero a ripetere quelle cose, sapevo che con Simone non sarebbe stato facile. Entrambi eravamo molto orgogliosi, nessuno dei due avrebbe ceduto per primo. Alla fine lo avevo lasciato soltanto perché, come al solito, aveva avuto una delle sue reazioni esagerate da prima donna. Non sapeva che in realtà era nato tutto dal bisogno che avevo di questo lavoro.
«Grazie.»
James sorrise, stavolta guardandomi. «Bene, ci aspettano due notti molto intense. Dobbiamo preparare una difesa infallibile
Pronti alle dosi di caffeina oltre la norma che avrei dovuto assumere, mi tolsi le decolté per stare più comoda e trovai il mio posto accanto a James. Dopo tutto ciò che avevo sacrificato, quel processo valeva più della mia stessa vita. Mi sarei impegnata fino all’ultimo minuto disponibile per salvare Simone da tutta quella situazione.
Il resto sarebbe venuto dopo.
Mi domandai per un attimo se fosse giusto dire a James che le analisi avevano dato esito positivo, ma decisi di tenermi quel segreto ancora per qualche giorno. Almeno in quel momento mi sembrava una decisione corretta.
«Al lavoro!»
 
***
 
Quella stessa notte tornai a casa alle tre del mattino.
Decidemmo di prenderci qualche ora di sonno ma l’ufficio di James non era proprio il luogo adatto dove riposare. Aveva dei mobili troppo scomodi, magari lo zio li aveva comprati proprio con lo scopo di non far sonnecchiare i suoi soci.
Aprii la porta del mio monolocale, completamente distrutta.
Nemmeno la più piccola fibra del mio corpo si sarebbe ulteriormente mossa oltre la soglia, non riuscivo nemmeno a spogliarmi.
Almeno sei già pronta per domani.
Giustamente Cervello faceva delle ottime osservazioni quando era quasi completamente rincoglionito. Feci un paio di passi, strusciando i talloni nudi sul pavimento. Mi ero tolta le scarpe sulla moquette delle scale e la palazzina, essendo sprovvista di ascensore, mi aveva dato il colpo di grazia.
«Morirò in quello studio,» mi lagnai.
Massaggiai il collo con la mano, provando un po’ di sollievo e decisi mentalmente se fosse il caso di farmi una doccia oppure di svenire direttamente sul letto. Prima di perdere completamente conoscenza a causa della stanchezza, vidi dei segni rossi sul telefono segno che c’erano dei messaggi in segreteria.
Ne ascoltai il primo.
Primo messaggio, disse la voce registrata.
 
Dobbiamo parlare.
 
Riconobbi immediatamente la voce, senza alcun dubbio. Simone aveva immaginato che fossi tornata al mio appartamento ma non mi aveva trovata. Tremai. La stanchezza se ne andò tutta insieme e tornò quell’enorme senso di malessere che a stento riuscivo a ricordare di aver mai provato prima. Cosa significava “Dobbiamo parlare?”. Non avevo alcuna idea di ciò che mi avrebbe potuto dire, ma mi ero ripromessa di limitare i nostri incontri ad un contesto puramente professionale.
Secondo messaggio.
 
Ovviamente non ci sei mai.
Come al solito starai lavorando, tanto conta soltanto quello per te, me lo hai detto un milione di volte all’inizio. Sono stata troppo stupido a credere che contassi qualcosa per te. Per una volta che mi sono esposto, ho pagato. Adesso capisco cosa si prova a stare anche dall’altra parte, dal lato di quelli rifiutati.
Grazie per avermelo fatto capire prima che fosse troppo tar-…
 
Alzai la cornetta urlando un enorme «No!» credendo che Simone fosse ancora dall’altra parte della linea. Quando udii soltanto il classico tu-tu-tu del telefono, mi prese lo sconforto. Rimasi completamente rigida. Sembrò quasi che la stanchezza che avevo accumulato in quella giornata appena trascorsa, fosse volata via. Di sicuro avrei passato l’ennesima notte in bianco, scossa dai pensieri.
Puoi davvero biasimarlo? Te ne sei andata senza dargli alcuna spiegazione.
Da quando sei dalla sua parte?
Finii di ascoltare i messaggi in segreteria, che erano tre in tutto.
Terzo messaggio.
 
Mi manchi.
 
Lasciai cadere il telefono sul tavolo, trattenendo a stento l’impulso di prendere le chiavi di casa, correre di notte a piedi fino a raggiungere Soho. Volevo tornare da Simone, ogni fibra del mio corpo me lo stava suggerendo. Ormai lui era necessario per il mio fisico, quasi come respirare l’aria oppure fare la fotosintesi, un processo naturale.
Corri da lui.
Quella notte il mio Cervello remava contro di me.
«Sai che non posso, proprio adesso che sono così vicina.»
Mancava soltanto un giorno e poi ci sarebbe stato il processo. Molto probabilmente il giudice sarebbe arrivato anche al verdetto finale, ma non ne ero totalmente certa. Ormai non si poteva più rimandare oltre, tra ventiquattro ore o poco più ognuno avrebbe rivelato la propria mano.
Posai le mani sul tavolino, aggrappandomi al legno come fosse l’ultimo appiglio che mi avrebbe sostenuta. Mi forzai di spogliarmi, infilarmi il pigiama e almeno chiudere gli occhi per qualche minuto. Pensai al processo, al giorno che avrei rivisto Simone dopo quello che era successo, senza dargli alcuna spiegazione.
Senza dirgli nemmeno che sarebbe diventato padre.
O meglio, che c’era la possibilità che lo diventasse.
Scacciai quella realtà che avrebbe solo contribuito a impedirmi di dormire. Ancora non avevo deciso cosa fare, non avevo parlato a nessuno di quella gravidanza, giusto un accenno a James. Nessuno sapeva, avrei potuto tranquillamente recarmi ad un centro apposito e concludere tutto.
Non avrei mai avuto la forza di farlo.
E se lui non lo accettasse?
Mi assumerei comunque la mia parte di responsabilità, a costo di rimanere da sola. Non ero contraria all’aborto, anche perché c’erano molte ragazze con problemi – sia economici che psicologici – a cui avrebbe peggiorato la vita avere anche un bambino di cui occuparsi. Io per fortuna me l’ero sempre cavata bene da sola, non avrebbe fatto alcuna differenza.
Accarezzai inconsciamente la pancia, come se il feto non ancora del tutto formato potesse davvero avvertire la mia presenza. «Tu non hai colpe,» gli dissi, poi cominciai a fantasticare se fosse diventata una Lei.
Ricordai di mettere sotto carica il cellulare e visto che ormai quella notte era quasi completamente andata a farsi benedire, girai anche l’e-mail del laboratorio analisi del St. Charles al dottor Ross.
Magari nemmeno avrei avuto bisogno della sua conferma.
Era come se lo sentissi, come se lo avessi sempre saputo ma il mio cervello si era rifiutato di elaborare quella possibilità. Non ero mai stata così negligente, anzi, avevo sempre etichettato quelle persone poco attente come gente che un po’ se l’era “cercata”.
E ora ci sei tu da questo lato, invece. Ti senti stupida?
Abbastanza.
Era difficile per me ammettere una cosa del genere, soprattutto perché ero sempre stata abituata ad avere tutto sotto controllo. Sin dalle elementari sapevo che sarei diventata avvocato, mi ero posta un obiettivo da raggiungere. Avevo contato gli anni delle medie, quelli del liceo, poi mi ero trasferita a Londra per frequentare l’Università e conseguire i master necessari a farmi fare il tirocinio alla Abbot&Abbott.
C’era stata solamente una piccola deviazione che prendeva il nome di Simone Sogno.
 
Non mi accorsi nemmeno di essermi addormentata, la sveglia suonò puntuale alle 7.00 del mattino per avvertirmi di andare a lavoro. Avevo tutto il tempo necessario per farmi una doccia, vestirmi, truccarmi e dare una qualche sistemata a quei capelli che cominciavano a diventare un po’ troppo ribelli per i miei gusti. Quando finii di farmi la doccia, la macchinetta del caffè borbottava allegramente sul fornello così mi concessi quei cinque minuti di relax sufficienti ad assaporare bene la bevanda.
La pausa caffè, per un italiano soprattutto, era sacra. Per quanto avessi tentato di allontanarmi il più possibile dalle “etichette” che gli stranieri ci appiccicavano addosso nemmeno fossimo degli emarginati, al caffè Espresso non avrei mai potuto rinunciare.
Rimasi imbambolata a fissare il pavimento, pensando mentalmente a ciò che avrei dovuto fare in quella giornata. Innanzitutto, io e James avremmo dovuto rivedere tutti i documenti relativi al processo e rileggere le azioni da svolgere in tribunale. Avevamo pianificato tutto, ogni possibile contrattacco di St. James e ad ogni sua azione avevamo corrisposto una contromossa adeguata. Non ci sarebbero dovuti essere margini d’errore.
Notai che la segreteria telefonica brillava ancora.
Presa dall’angoscia della sera prima, avevo dimenticato di cancellare i messaggi di Simone, o non ne avevo avuto il coraggio. Posai la tazzina del caffè vuota nel lavello e andai a lavarmi i denti e a finirmi di preparare.
Quella mattina il cielo sembrava più limpido del solito. Sapevo che il meteo Londinese era piuttosto standard, sia nei mesi invernali che in quelli estivi, ma quando si avvicinava il mese di Aprile, si poteva quasi parlare di Primavera. Inspirai a pieni polmoni l’aria fresca e frizzante della città, dirigendomi verso la fermata di Lancaster Gate per poi scendere a Piccadilly. Avevo dimenticato come fosse prendere i mezzi pubblici per andare a lavoro, abituata da mesi a recarmici a piedi. Attesi il dlin dlon meccanico e la voce robotica che annunciava tutte le fermate che la Red Line avrebbe dovuto toccare e fissai la mia attenzione sulle luci che si alternavano veloci nel buio dei tunnel sotterranei.
Ricordi il primo giorno?
E come potevo dimenticarlo? Mi ritrovavo a percorrere gli stessi passi e gli stessi tempi d’attesa, solo che non avevo James al mio fianco. Era stato un caso conoscerlo proprio il primo giorno di tirocinio, visto e considerato che anche per lui era la prima volta nello studio dello zio. Si era trattato di destino.
Così come Simo.
Anche quella di Simone era stata una bella sorpresa. Non mi sarei mai aspettata una cosa del genere, che il mio primo caso riguardasse proprio una persona del mio passato, e che adesso aveva cominciato a fare parte anche del mio futuro.
«Prossima fermata, Piccadilly Circus,» disse la voce meccanica di una donna.
Mi apprestai a scendere, sostando davanti alle porte scorrevoli di uscita. Ripercorsi cosa fosse successo da quando avevo iniziato quel tirocinio fino ad ora, alternando i momenti più bui a quelli più felici della mia vita e provai anche una punta di nostalgia. Quando avevo preso la decisione di lasciare l’appartamento di Simone, senza dargli alcun tipo di spiegazione, non avevo pensato a questo. Era stata una scelta presa di fretta, dettata soprattutto dalle parole di James che mi avevano messo paura. Come avrei potuto sacrificare tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento per un uomo? La Venera del liceo, la ragazza determinata e convinta a tutti i costi di realizzare il suo sogno non avrebbe mai permesso ad un ragazzo di infrangerlo.
Spesso i sogni cambiano…
Quella mattina Cervello era più poetico del solito. Riflettei su ciò che aveva detto, ma tentai di non farmi tentare da quella proposta. Nella vita potevano accadere tante cose, questo lo avevo sempre messo in conto, ma addirittura stravolgere completamente i propri piani per un’altra persona, mi pareva esagerato. Provai a immaginare la mia vita da un’altra prospettiva, quella che prevedeva un minor avanzo di carriera finalizzato alla cura della famiglia di cui avrei fatto parte.
Mentre camminavo verso l’uscita, inserendo la Oyster Card e passando il tornello, mi resi conto che quello era il futuro che anche mia madre aveva scelto. Si era dedicata più alla famiglia che a sé stessa, magari rinunciando ai suoi sogni di diventare pasticcera.
Ha preferito fare le sue torte a casa, per la famiglia, piuttosto che seguire un corso in Francia e lasciare da solo te e tuo padre.
Era una delle cose che da piccola avevo giurato di non fare, sacrificarmi per gli altri. Avevo fatto una sorta di patto con me stessa, che non sarei diventata come mia madre e avrei rinunciato a ciò che volevo diventare nella vita soltanto per paura di non saper gestire due cose insieme. E l’occasione mi si presentava davanti agli occhi in quel momento.
«Ehi spaghetti-girl, pronta per oggi?» la voce di James mi riscosse dai miei pensieri. Lo avevo incontrato a metà strada, quella per recarmi verso l’ufficio, ma nemmeno mi ero accorta della sua presenza, troppo concentrata sui miei pensieri.
«Certo collega!» ironizzai, ma mi risultò un po’ difficile essere troppo allegra.
I messaggi che ieri Simo aveva lasciato nella mia segreteria telefonica mi avevano completamente destabilizzata e non riuscivo a scollarmi di dosso il pensiero che quando lo avrei rivisto per il processo, non avrei potuto farcela.
James si accorse del mio umore. «Problemi con la casa?» mi domandò, pensando avessi riscontrato qualche difficoltà a riottenere il contratto di affitto con Mr. Cabret, il proprietario della palazzina.
Scossi la testa, indecisa se parlargli o meno di quello che mi stava succedendo. Se gli avessi raccontato di Simone, avrei dovuto anche aggiungere le analisi che avevo ritirato dal St. Charles. Forse sarebbe stato anche troppo per lui, ma come quando gli avevo parlato della mia storia con il calciatore, avvertii lo stesso bisogno di sfogarmi con qualcuno.
Celeste non era lì con me, non potevo nemmeno coinvolgerla troppo oppure avrebbe preso il primo aereo pur di aiutarmi e magari lasciare tutta la sua vita a Roma. Avrei dovuto trovare una soluzione alternativa e in quel momento James sembrava il candidato più opinabile.
«Non si tratta della casa,» sospirai, cercando di stare al passo con l’avvocato. «Diciamo che è un insieme di cose che mi stanno mandando ai matti.»
James sgranò gli occhi. «Lo sai che domani siamo in aula, vero? Non possiamo farci distrarre dalla nostra vita privata.»
Non seppi identificare se si trattasse di una ramanzina, raccomandazione oppure semplicemente un consiglio. Annuii senza saper cosa dire. «Mi sono arrivati i risultati delle analisi che ho fatto giorni fa, le ho già inoltrate al dottor Ross, ma penso di sapere quale sia la diagnosi,» sputai fuori, tutto insieme.
Pensai che in fondo, se lo avessi detto tutto in una volta, sarebbe risultato meno doloroso. Mi sbagliai di grosso. Dire a voce alta quello a cui la vita mi stava sottoponendo rendeva il tutto ancora più reale e spaventoso.
«Cosa stai cercando di dirmi Venera?» chiese sbigottito.
Sbuffai. «Quello che temevo di più.»
James si fermò in mezzo a Regent Street, tirando fuori le mani dalle tasche del Montgomery e tirandosi su il bavero in un gesto nervoso. «Calma,» sospirò, posandomi le mani sulle spalle. Era quasi come se quello in dolce attesa fosse stato lui a momenti. Non lo avevo mai visto così preoccupato.
«Il nostro cliente lo sa?»
Quella fu la prima domanda. Era ovvio che fosse così, anche perché a meno di ventiquattro ore ci sarebbe stato il processo e bisognava anche prevedere le reazioni che avrebbe avuto Simone di fronte al giudice e a quella serpe di St. James.
Scossi la testa. «Non lo sa nessuno. A dire la verità credo che soltanto tu conosci questo segreto, anche la storia che c’era tra me e Mr. Sogno.»
Lo dissi quasi fosse una vergogna e James lo capì.
«Risolveremo tutto, tranquilla. Per prima cosa dobbiamo vincere la causa di domani, spaccare in aula e tornare in ufficio a testa alta,» spiegò, dandomi la carica. «Il resto lo affronteremo insieme una volta finita questa odissea interminabile.»
Sorrisi. «Hai ragione.»
E proprio lì, in mezzo ad una strada che lentamente si stava riempiendo di gente – un po’ che si recava a lavoro, un po’ che attendeva l’apertura dei diversi negozi in centro – James Percival Abbott mi abbracciò.
Ritrovai un calore e un profumo persi da tempo, quasi mi commossi.
Avevo provato troppo dolore in quei giorni e finalmente qualcuno si era offerto di darmi quel conforto che mi mancava. «E poi, Ven,» continuò, scostandomi e guardandomi negli occhi. «Anche se sarà difficile, hai preso la decisione giusta ed è comunque una bellissima notizia. Per cui, congratulazioni e tieni duro!»
Era innegabile che James c’era sempre stato, sin dall’inizio. Era stato l’unico e il primo che aveva creduto nelle mie potenzialità, che mi aveva dato un’occasione anche se aveva inevitabilmente contribuito a far avvicinare me e Simone.
È colpa sua se ti trovi in questo casino.
Scacciai via quel pensiero, perché nonostante fosse vero che la convivenza forzata tra me e il calciatore aveva dato via a quel susseguirsi infinito di eventi, James si era sempre offerto di supportarmi e darmi una mano qualora ne avessi avuto bisogno.
«Grazie,» dissi sorridendo, poi insieme ci dirigemmo verso l’ingresso della Abbott&Abbott.
 

 
Eccomi!!
Scusate per questo ritardo nell'aggiornamento ma sono un po' incasinata con l'organizzazione delle mie ferie e quelle della mia famiglia (LOL). Dunque, questo capitolo è un po' di passaggio - lo ammetto - ma serviva un punto di congiunzione che legasse ciò che era successo nel 27 e ciò che Ven sta affrontando. Per ora, al primo posto, c'è il processo imminente e poi verrà tutto il resto.
Che ne pensate?
Come si evolverà secondo voi la situazione?

Fatemi sapere, un bacione e buone vacanze a tutte.
PS. Spero di essere precisa con i capitoli, comunque non disperate al massimo ritarderanno o anticiperanno qualche giorno per via delle partenze XD

Baci, Marty.
   
 
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