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Autore: Izayoi_1    31/07/2015    2 recensioni
Da Eva ci si aspetta molto ma quando le aspettative di chi la circonda non coincidono più con le sue lei vuole solo una cosa,un anno della sua vita per ritrovare se stessa e rinascere,prima di tornare ai doveri quotidiani. Vuole l'imprevisto e la novità e la cercherà nella city britannica,Londra.Sarà proprio qui che inizierà la sua nuova vita e quando il destino ci si mette ti fa incontrare due occhi color del ghiaccio che lasciano la mente senza pensieri o parole al solo guardarli,un incontro così inatteso per entrambi,una scintilla improvvisa tanto forte da lasciarli incantati.
Salve,questa storia è dedicata a Richard Armitage,mi immagino come sarebbe conoscerlo per caso e cercare di iniziare una storia tra diverse difficoltà.Leggete e saprete :)
Genere: Comico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Richard Armitage
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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~~“Certo che ti farò del male. Certo che me ne farai. Certo
che ce ne faremo. Ma questa è la condizione stessa dell’esistenza.
 Farsi primavera, significa accettare il rischio
dell'inverno. Farsi presenza ,significa accettare il rischio
dell'assenza.”
Cit. Il piccolo principe

 


Aprì gli occhi, le bruciavano, la stanza era buia, eccezion fatta per la spia rossa della televisione. Non sapeva che ora fosse, non sapeva se fosse mattina, pomeriggio o sera. Era sotto il piumone in posizione fetale, rannicchiata su se stessa, come a volersi nascondere. Le girava la testa e si era svegliata perché i crampi della fame erano tornati a farsi sentire, sempre più forti, portando quel fastidioso senso di nausea dato dallo stare troppo tempo digiuna. Ma lei non aveva le forze, le aveva perse, non le aveva nemmeno per parlare e pensare le faceva battere forte le tempie. Chiuse gli occhi, combattendo un altro giramento di testa. Non sapeva bene quando, Miriam era andata a svegliarla per vedere le sue condizioni ma lei era troppo stanca ,i suoi occhi si erano socchiusi solo per una frazione di secondo, lasciando l'immagine dell'amica in quel limbo tra il sogno e la realtà, sentendo il suono della sua voce ovattato, distante; l'aveva realmente vista, oppure se l'era solamente immaginata? Non lo sapeva, tutto era così confuso ora, tutto girava così velocemente. Aveva sonno, tanto sonno, il suo corpo stanco le chiedeva di dormire, ma poi perché era in quelle condizioni, cosa era accaduto? Per un momento non riuscì a capirlo, frugò nella mente ma era vuota ma poi l'immagine di un uomo alto e in maniche di camicia che si allontanava le venne davanti agli occhi, Richard. Solamente pensare quel nome fece ripiombare Eva in quel Tartaro che la tormentava. Solo quel nome la fece sentire ancora più stanca, se avesse potuto avrebbe persino smesso di respirare. Sfregò fiaccamente il viso sul cuscino e senza accorgersene ripiombò in un  sonno senza sogni, che non le dava riposo, anzi le toglieva sempre più le forze.

Guardava la porta chiusa dal divano, nessun rumore proveniva dal suo interno, nessun suono o sussurro, lei se ne sarebbe accorta, sarebbe subito corsa. Ma Miriam non sentiva niente, erano trascorsi tre giorni da quando Eva era chiusa li dentro e per quanto lei avesse cercato di svegliarla, parlarle, gli occhi dell'amica si chiudevano come fossero stati quelli di una bambola e il suo corpo sembrava quello di un burattino senza fili. Ripensò un momento a quel corpo così abbandonato a se stesso, come privo di ossa e rabbrividì. Per non parlare poi del colorito insane del suo viso e delle mani, pallido e quasi livido intorno agli occhi. L'aveva trovata così quando tre giorni prima la chiamarono dalla redazione, era svenuta improvvisamente, senza nessun sintomo. I suoi colleghi se l'erano vista crollare davanti, mentre stavano parlando durante la pausa caffè. Il motivo sapeva benissimo quale fosse, la lite e la menzogna detta a Richard erano state gravi e la situazione era sfuggita di mano all'amica che non aveva pensato bene a tutte le probabilità che le si potevano prospettare con il continuo e la crescita della relazione. Lo aveva chiamato, tante e tante volte, per dirgli dello stato di salute di Eva ma mai in quei giorni lui le aveva risposto.

Guardò il cellulare infastidito, facendo una smorfia quasi venata di rabbia. Il display era illuminato e il cellulare vibrava con forza sul tavolo dell'ingresso.  “Miriam”, era così patetica da chiamare dal telefono dell'amica, pensò mentre chiuse l'apparecchio in un cassetto per non vederlo. Era furente, ogni pensiero per Eva era di rabbia ma non solo nei riguardi della ragazza ma anche nei suoi, era stato un idiota a essere così cieco, a fidarsi in quella maniera.
“Sei innamorato”, disse una piccola vocina nella sua mente ma non appena lo pensò chiuse con forza la porta dietro di sé e maledisse il giorno che s'incontrarono. Camminava  velocemente, doveva  sfogarsi ma nulla riusciva a farlo scaricare, LEI, sempre lei era nella sua testa e l'odiava, l'odiava così tanto da lasciarlo spiazzato.
“La odi così tanto da sfiorare il limite dell'amore”. Ancora quella maledetta voce era a parlare. Allungò ancora di più il passo, sperava di stancarsi ma in quei giorni trascorsi non c'era stata notte che  era riuscito a dormire, l'adrenalina gli scorreva troppo velocemente nelle vene e il suono della voce di lei gli risuonava nelle orecchie senza sosta.

Era vaga ma improvvisamente la sua camera era illuminata, si era forse fatta mattina? Poi qualcuno le tolse il piumone da dosso, gli occhi le fecero male, non erano abituati a tutta quella luce, li serrò forte per ripararsi. Suoni, voci, ecco cosa sentiva ma non capiva, era tutto così confuso che non riusciva a distingue cosa si dicessero e chi fossero. Qualcuno la stava toccando, avrebbe voluto spostarsi ma non ci riusciva, non riusciva a muoversi, il suo cervello non ce la faceva a mandare il comando necessario al braccio per farlo muovere. Poi la sentì, Miriam, non capiva cosa dicesse ma riconobbe il suo timbrò di voce leggermente squillante, il tono che aveva solo quando era in ansia. Improvvisamente la luce l'accecò, una mano le aveva aperto prima l'occhio destro, poi era passato a quello sinistro, erano mani forti, sicure di ciò che stavano facendo.
“Mi sento sollevare, cosa sta accadendo, dove sono? Piano-penso-mi fa male tutto. Scrosciare, sento il rumore dell'acqua e poi profumo di bagnoschiuma, come è buono, voglio respirare  questo profumo ancora un pò, mi fa sentire meglio. Delle mani delicate mi stanno togliendo i vestiti, non sono le stesse di prima.”

Miriam si ritrovò improvvisamente senza forze, il cuore le batteva veloce e le guance le andavano a fuoco. Aveva chiamato un medico ,era preoccupata e doveva aiutare la sua amica. Ciò di cui si era raccomandato il dottore era non perderla mai d'occhio e farla mangiare, anche  per forza ma doveva riempire lo stomaco. Così Miriam si era trovata a fare da sorella maggiore a quella sua amica che ora, seduta vicino la finestra intenta a guardare fuori, le sembrava veramente un piccolo cucchiaino indifeso. Aveva perso molto peso, il viso era segnato e intorno alla bocca si erano formate due linee che davano l'idea di un viso smunto e  sofferente.

Non usciva di casa da quindici giorni, il traffico, i suoni, le persone che camminavano veloce con il loro parlottare le facevano girare la testa, la confondevano e le facevano sentire la testa vuota. Ma doveva, sapeva che quella era una violenza su se stessa ma doveva farla ,doveva riabituarsi alla vita reale, doveva combattere la perenne stanchezza che la pervadeva e il sonno che le faceva sentire le palpebre pesanti. Sarebbe tornata a lavoro di li a due giorni e doveva riprendere a tutti i costi i contatti con la realtà. Una pioggerella leggera e improvvisa aveva cominciato a scendere ma non la disturbò, anzi le fece quasi piacere. Così in quelle condizioni e con le mani fredde e bagnate si trovava su quel ponte sotto il Big Ben a guardare le luci blu della London Eye. Scosse la testa biasimando se stessa, la colpa era sua e di nessun altro, lei lo aveva ingannato e per quanto volesse prendersela con suo padre per ciò che era accaduto, non riusciva ad odiarlo come sperava ,non riusciva a scaricare quell'errore sulle spalle di Ettore. Perché se lei avesse riposto la sua fiducia completamente nelle mani di Richard adesso non si troverebbe con l'anima rotta e gli occhi gonfi di pianto.
“E tu Richard, cosa starai facendo ora?”
pose quella domanda al vento, sperando forse che qualcuno le sussurrasse nell'orecchio “Sta pensando a te”. Quella sciocca speranza le fece chiudere gli occhi e sorridere amaramente. Guardò il cellulare per l'ennesima volta ma ancora nessun contatto da parte dell'uomo,
“mi ha già dimenticata?”.
Quel pensiero le fece chiudere lo stomaco, sentire il cuore batterle all'impazzata e  contemporaneamente fermarsi bruscamente. Avrebbe voluto rannicchiarsi su se stessa e piangere, le sentiva quelle canaglie agli angoli degli occhi ma combattè con tutta se stessa per rimandarle dentro e ergersi in tutta la sua minuta statura.

In quei giorni passati il suo cellulare aveva squillato regolarmente,  squillava al suono della suoneria preimpostata del suo iphone, mostrando sul display il nome di Lei, oppure di Miriam e questo in qualche modo gli dava forza, la forza di fare l’arrabbiato e anche l’orgoglioso ma erano passati tre giorni e il suo cellulare, se non per le chiamate di lavoro o di amici e parenti, era muto, Lei era sparita. Quei tre giorni senza aver nemmeno un minimo contatto da parte sua e del suo mondo gli erano sembrati interminabili, teneva il cellulare sempre attaccato a sé e puntualmente ogni due minuti controllava se Lei lo avesse cercato. Improvvisamente tutta quell’adrenalina che lo animava e quella rabbia lo rendeva così energico si erano esaurite con troppa velocità, consumandosi in fretta nel suo corpo. Richard si ritrovava in quella casa che mai come in quel momento gli sembrava vuota e triste, si era portata via tutto e quel non avere nemmeno una piccola traccia di Eva gli faceva venire un nodo in gola. Si mise seduto al centro del divano di palle nero e mosse la testa cercando di capire come poteva ritrovarsi senza di lei. Nei giorni passati, preso dal fuoco e dall’orgoglio, aveva persino gettato quei piccoli post_it che lei gli lasciava per la casa. Un angolo del labro si incurvò al ricordo di quando li trovava sfusi sui mobili e si maledì per averli gettati. Prese il telefono andando sulla rubrica, sfiorò il suo nome sperando che il suo pollice premesse per “errore” il tasto della chiamata ma non riuscì ad essere così maldestro. Non aveva più dormito nel “loro” letto, per quanto avesse voluto fare il forte non ci era riuscito, temeva quel suo profumo. Eppure quella giornata era stata interminabile e aveva bisogno di sentirla in qualche modo “vicina”, anche se vicina non era. Con estrema delicatezza, come non volesse far male a nessuno con il suo corpo si infilò sotto le coperte e rimase a fissare quella parte destra del letto dove fino a poco tempo prima dormiva rannicchiata una piccola testolina dai lunghi capelli neri e dalle labbra carnose, quel corpo che lui amava tanto stringere, con il quale amava fare l’amore e vedere l’eccitazione di quel momento riflessa nei suoi occhi scuri. Accarezzò quel cuscino vuoto e cercò d’immaginarsi il suono della sua voce al mattino, un po’ roco, sorrise teneramente ai gesti che la fidanzata faceva appena aperti gli occhi, quel suo modo un po’ infantili che aveva di stropicciarli, a quel suo modo di rannicchiarsi al centro del loro letto e lo guardava mentre lui si preparava. Sospirò rumorosamente e dovette allentare con i ricordi, qualcosa agli angoli degli occhi minacciava di uscire. Scosse la testa e cacciò  via quel viso ma tra il sonno e l’incoscienza il suo volto si spostò inconsapevolmente sul guanciale di lei e nel sonno il profumo di lei lo fece rilassare.

Nonostante le aspettative tornare a lavoro aiutò molto Eva e le premure dei suoi colleghi la lasciarono piacevolmente sorpresa, facendole fare un sorriso sincero dopo tanto tempo. Si gettò a precipizio su interviste e articoli, facendo più attenzione del solito a ciò che scriveva e rimanendo davanti la scrivania anche oltre l’orario di chiusura della redazione. L’aiutava, la rilassava scrivere al computer, stare in mezzo ad altre persone che non la guardavano in continuazione preoccupate, nessuno che sapesse di ciò che era accaduto fuori quel locale tra lei e Richard, nessuno che sapesse il casino che lei aveva combinato e di che bugiarda patentata fosse. Non poteva negarlo, anche se si dedicava anima e corpo nel suo lavoro il pensiero di Lui era sempre dietro l’angolo, le capitava di scrivere al computer e dal nulla quel sorriso timido faceva capolino nella sua mente, così quando accadeva era più forte di lei, entrava in quel suo mondo, si estraniava dalla realtà, lasciando ciò che stava facendo e richiamando alla memoria quell’espressione e quei gesti che lui faceva e che aveva sempre osservato, non perdendosene mai uno. Chiuse gli occhi e se lo ritrovò già lì ad attenderla, indossava jeans scuri, un maglione di lana fina e un giubbotto di pelle nera, le era sempre piaciuto come gli stava quell’indumento. E poi lo vide, osservò con estrema attenzione quel sorrisetto timido nascergli sulle labbra, mentre gli occhi si precipitavano a guardare le punte delle scarpe, aveva sempre amato quel suo sorriso fin dal primo giorno, senza smettere mai. Tornare alla realtà ed uscire da quella bolle era ogni volta un trauma, dentro si sentiva il desiderio di urlare, di rannicchiarsi su se stessa impaurita, poi arrivava il senso di vuoto e alla fine la rassegnazione.

Come da copione, Eva rimase più a lungo in ufficio e quando uscì in strada i lampioni erano accesi già da molto tempo. Febbraio era arrivato e il freddo di quella sera la fece stringere ancora di più nel suo cappotto. La strada era quasi del tutto deserta e solo in lontananza sentì il passare di un auto e l’abbaiare di un cane.
“Lui si sarebbe preoccupato nel sapermi sola in strada a quest’ora”. Sorrise un po’ tristemente a quel pensiero che fino a poco tempo prima sapeva essere certo ma che in quel momento, dopo gli eventi accaduti,  non sapeva più se fosse ancora vero o meno.

Si trovava nella metro ad aspettare l’arrivo del treno, la stanchezza accumulata cominciò a farsi sentire ed Eva si mise seduta su di una panchina guardando il binario pazientemente. Si trovava così, completamente catapultata nella realtà, con i sensi in allerta nel sentire l’arrivo del vagone, del vociare intorno a lei. Non seppe nemmeno lei da dove ma un profumo che conosceva benissimo, un profumo peculiare, fatto di dopobarba e pelle le arrivò alle narici, un odore così forte ma che non nauseava. Si guardò intorno, cercando il colpevole di quel furto di profumo, volendogli quasi urlare che quella fragranza era di Richard, a lui spettava, a lui stava bene, a lui e nessun altro. Girò la testa a destra e sinistra, annusò con insistenza l’aria ma con la stessa velocità con cui era arrivato quel profumo, con altrettanto era sparita. Una frase si fece largo nella sua memoria,
“Se senti il profumo di qualcuno che non ti è vicino, allora quel profumo è nell’anima”.
Una strana determinazione prese forma in lei, una strana frenesia che la ritrovò a maledire la lentezza di quel mezzo pubblico.

Era da pazzi, lei questo lo sapeva ma doveva farlo. Era uscita dal vagone quasi spintonando la gente, ricevendo qualche sano e non poco velato insulto ma con le gambe che correvano veloci, la ventiquattro ore stretta in mano, il respiro che cominciava ad essere affannato e un sorriso d’eccitazione si stava dirigendo a casa di Richard e in quel momento poco le interessava se non sapeva cosa dirgli o come lui avrebbe reagito, al diavolo la sua convinzione che sia nel giusto o nello sbagliato doveva essere l’uomo a fare il primo passo,
 “abbiamo voluto la parità dei sessi- pensò- e quindi è bene cominciare a cancellare la vecchia cavalleria da film in bianco e nero e  indossare i pantaloni”.  Il quartiere, quelle case che lo componevano e che l’avevano vista passare lì giornate bellissime, cominciò a prendere corpo ad ogni suo passo, le gambe andarono più veloci individuando la porta di nero lucida sopra i tre scalini in marmo bianchi. Varcò la soglia di quel vialetto con un sorriso che faceva paura, quasi saltò a piedi pari quelle scale e senza pensarci su, forse con un po’ troppa forza, bussò alla porta. Il cuore le batteva forte nelle orecchie, cercava di controllare il respiro affannato ma con pessimi risultati e ringraziò tutte le divinità del mondo perché la sua mente non era stata presa dal panico del “e adesso cosa gli dico”, perché era proprio quella paura subdola che rovinava tutti i migliori discorsi improvvisati.
Gli attimi passavano, le guance rosse per la corsa cominciarono pian piano a freddarsi e quel sorriso euforico a perdere i suoi battiti. Alzò di nuovo la mano verso la porta ma questa si fermò a mezz’aria, “forse mi ha vista e non vuole aprirmi”. Aspettò come un cane infreddolito lì davanti ma nulla, nessun rumore proveniva dalla casa, lui non c’era. Eva abbassò gli occhi dandosi della stupida da sola e sentendosi abbattuta, la sua mente aveva cominciato a galoppare a briglia sciolte e già si immaginava il fidanzato tra le spire di altre donne. Si mise seduta sullo scalino più alto cercando di elaborare quell’opzione. Ormai il calore di quello sforzo fisico era scomparso e il freddo si vece sentire più forte, lei si sentiva stanca e avrebbe pagato pur di riavere la speranza di poco prima. Nonostante, però, il freddo e la cocente delusione, nonostante la paura che aveva che lui l’avesse già rimossa dalla sua vita, Eva aspettò che tornasse a casa.

Anche quella sera si trovava in un pub, con il solito boccale di birra che non avrebbe finito, circondato dai suoi colleghi di teatro che parlavano animatamente. Lui quelle sere accettava sempre ogni loro invito ad uscire dopo le prove, non gli importava quale potesse essere il programma della serata, lui accettava e basta, non riusciva a rimanere in quella casa. Ma anche se accettava di uscire, anche se si sedeva su quelle poltrone di pelle rosse con loro, la sua mente era del tutto distante, non ascoltava ciò che i suoi amici dicevano, non gli andava di parlare e non gli interessava fare la parte dell’asociale, per lui in quel momento iniziava una sorta di limbo, si trovava diviso tra il malessere nel trovarsi lì e la paura di varcare la soglia di quella casa. Perciò era salito a patti con se stesso e aveva deciso di rimanere in quel locale, con stoica pazienza, fino a che i suoi amici e colleghi avrebbero voluto, che non si dicesse che non fosse di compagnia.

Lei aspettava e aspettava ancora, il freddo era pungente e più di qualche volta l’idea di andarsene l’aveva sfiorata. Aveva mentito a Miriam, le aveva detto di trovarsi a cena con delle amiche del giornale, precisamente non sapeva nemmeno lei il perché lo avesse fatto, o forse si, non voleva sentire quella voce sospirante preoccupata che le elargiva le sue perle di saggezza, sapeva che l’amica lo faceva a fin di bene ma di quel bene lei, proprio in quel momento, non sapeva cosa farsene.

Certamente il momento più emozionante della serata era stata una semplice frase,
 “Sarà meglio andare”, un concetto semplice, coinciso, per nulla elaborato e che non ammetteva obiezioni. Quelle tre parole lo avevano riportato  alla realtà all’istante, come se dall’inizio della serata non avesse fatto altro che aspettare quel momento. Li aveva salutati frettolosamente, sentendo la necessità di uscire da quel locale troppo caldo e chiassoso, desideroso di non sentire più tutti i commenti e le battutine “maschie” che i suoi compagni di bevuta elargivano ad ogni indifesa e ignara passante. E finalmente quel momento era arrivato, quel momento che sei da solo, mentre cammini a sera inoltrata per tornare a casa. Il freddo per le strade si stava rivelando un tocca sana per il suo malumore e lo sgranchirsi le gambe dopo tante ore seduto lo fece rilassare per un attimo. Nonostante fossero appena le 23,00 di sera i locali si stavano già svuotando, colpevole il giorno infrasettimanale e il lavoro del giorno successivo che avrebbe richiamato tutti all’ordine. Respirava aria fredda con avidità e guardava intorno a sé i pochi passanti per le strade, i vetri delle finestre della  maggior parte delle case erano bui, solo da alcuni proveniva una tenue luce di qualche televisione lasciata accesa. Si infilò le mani nelle tasche ed accarezzò il cellulare, sperando quasi di sentirlo prendere vita magicamente grazie al suo tocco ma anche per quella sera aveva taciuto. Non riusciva a pensare a nulla, sapeva che quel senso di vuoto era dato dall’assenza di lei, ma erano ormai giorni che la sua mente era vuota, priva di ogni idea, pensiero, sentimento, si aggirava per la casa e per le vie della città quasi fosse un’anima in pena, non trovando pace da nessuna parte, con quel malessere come unica testimonianza del fatto che lei c’era stata e che l’aveva perduta, come unica testimonianza che l’aveva veramente vissuta quella vita con lei. Arricciò il naso, nauseato quasi da quegli stessi identici pensieri che ogni volta gli salivano alla mente, si riproponevano seguendo sempre lo stesso ordine, come fosse un copione già scritto. Serrò gli occhi mentre scrollava la testa nel tentativo di scacciare ciò che gli albergava dentro, serrò le mani a pugno nelle tasche provando un sentimento di puro e autentico fastidio per se stesso e facendosi compassione, ma intanto, mentre queste semplici azioni si svolgevano nell’arco di pochi secondi, i suoi piedi avevano appena varcato la soglia del vialetto bianco.

Inutile fingere che uno dei due vide l’altro per primo, si erano fissati contemporaneamente. Nello stesso preciso istante gli occhi di uno si erano alzati dal pavimento e quelli dell’altro si erano aperti cercando di non badare al fastidio che provava. Così si ritrovarono, inermi e paralizzati, guardandosi con gli occhi spalancati, spalancati per la sorpresa, spalancati per l’ansia ma soprattutto per la paura di quell’incontro che da quasi un mese rimandavano, per quelle cose non dette che da quasi un mese non volevano sentirsi dire, preferendo, si, rimanere nell’incertezza, piuttosto che incassare la notizia della fine definitiva della loro storia.

Entrambi si ritrovarono immensamente stanchi, quasi facevano profondi respiri per riacquistare forze. I minuti passavano e loro rimanevano lì.

“Ti ho mentito e hai ragione ad avercela con me- fu Eva a parlare per prima, mentre i suoi occhi vagavano sulla strada- ma devi credermi quando ti dico che l’ho fatto per noi”. Mandò giù un boccone amaro cercando di reprimere il capogiro dato dall’eccessiva tensione che provava in quel momento. “Capisco che tu sia deluso e amareggiato ma non ti ho TRADITO, ho solo pensato a tutelare la nostra storia dagli attacchi gratuiti e ingiusti dei miei familiari”. Nel dire ciò Eva si era alzata in piedi, la veridicità di ciò che diceva le aveva fatto tornare le forze e nel vederla muoversi Richard aveva finalmente sbattuto le palpebre, come se avesse finalmente elaborato l’idea di trovarsela davanti.

“TU non eri nei Miei piani, mi hai detto questo- il significato di quella frase si ripercosse in lui facendogli male- tu dici di non avermi tradito,  allora come posso definire il tuo comportamento? Tu mi hai pugnalato alle spalle, mi hai trattato come un idiota da usare e gettare come se niente fosse, hai mai pensato alle conseguenze, a come io avessi potuto sentirmi? No, certo, credevi di essere così furba da riuscire a nascondere tutto, oppure, forse nella tua mente contorta ti eri fatta l’idea che io ci avrei riso sopra come fossi un ragazzino. C’ERA UNA CONVIVENZA EVA COME PENSAVI CHE IO CI AVREI POTUTO RIDERE SU CON TANTA SUPERFICIALITà?”, urlava come nemmeno quella sera fuori al pub aveva fatto. Urlava perché finalmente si stava sfogando, perché finalmente stava buttando fuori tutta quella rabbia che provava, urlava perché forse anche lui voleva farle un po’ male, un poco, come lei aveva fatto a lui.

Eva si passò le mani tra i capelli, si tappò le orecchie e cercò di respingere tutte quelle parole, non  voleva sentirle. Quando si era diretta a casa sua non aveva nemmeno lontanamente immaginato in quella reazione, forse la sua mente era ancora un po’ troppo inesperta, forse in quel momento la loro differenza d’età si stava facendo sentire. Se lei si fosse trovata al posto di Richard sarebbe stata furiosa si, ma non sarebbe mai riuscita a respingerlo così, lui, invece, stava tenendo il punto, quasi volesse dirle, “è così che si comportano le persone adulte, rimanendo sui propri passi, non facendosi smuovere dai sentimenti”.

Ma Eva non era adulta, lei era una ragazza, fresca di laurea, d’età e spinta da quell’ingenuità e, chissà, anche dalla disperazione. Spinta, forse, da quel mix letale di emozioni si ritrovò pericolosamente vicino a lui, le sue gambe l’avevano guidata ancora prima che la sua mente se ne accorgesse. Si ritrovò con la fronte poggiata sul petto di lui, le lacrime, che non sapeva nemmeno lei quando avevano cominciato ad uscirle, le rigavano calde il viso e finalmente sentiva di averlo vicino a sé, sentiva quel profumo così forte avvolgerla, così buono che quello sentito in metro non poteva minimamente paragonarglisi.

Abbassò le spalle che fino a un attimo prima erano mosse dalla rabbia, quel piccolo corpicino ora era vicino a lui. Alzò il viso verso il cielo, sentendo dentro di sé il combattimento tra il desiderio almeno solo di sfiorarla e quello di non credere alle sue parole.

Ma una cosa sentirono entrambi, un sentimento che copriva sia la rabbia che il dolore, un qualcosa che da quasi un mese non provavano, pace.

Chiunque fosse passato li davanti avrebbe visto davanti a sé un uomo e una donna, l’uno di fronte all’altro immobili, forse sembrando strani, oppure banali, ma nessuno avrebbe potuto sapere che quella era la più autentica forma d’amore. Si, quando ci si fa così tanto male insieme è per l’eccesso d’amore che si prova.

Eva calmò i suoi singhiozzi e con mani tremanti accarezzò quel petto, cercando di sistemare un’invisibile piega sul maglione di lui, facendo serrare gli occhi  a Richard.
“Il mio problema è che tu sei la soluzione- pausa, rimanendo stupita di quella grande realtà che stava dicendo- la cosa che più mi atterrisce è che per ogni mia incazzatura, per ogni mia delusione o amarezza, TU e solo TU, sei la cura a tutto. Ho sbagliato a non essere sincera fin da subito, sono stata cattiva ad urlarti quella frase, è vero non mi aspettavo di conoscerti, non lo avevo pensato questo ma di tutte le cose più inaspettate sei quella migliore”.

Non poteva negarlo, le credeva e sentire quelle parole così vere lo stava facendo sentire bene ma c’era un problema, le credeva fino al 99%, quel semplice 1%, però, lo stava già minando, stava già incendiando il fuoco del dubbio e del sospetto di non potersi fidare,
“Chi agisce così una volta può rifarlo, forse in maniera diversa, anche nascondendo altri uomini. Chi si sente così furbo penserà sempre di poter fregare il prossimo”. 

La giovane aveva il corpo rilassato, in posizione di riposo, sentendosi sicura.

Richard li sentì, i suoi muscoli stavano tornando in tensione, quell’espressione di rabbia mista a delusione tornò sul suo volto. La spinse, spinse via da se con forza, vedendole sugli occhi un’espressione di sorpresa e smarrimento. A grandi falcate si diresse verso la porta, senza girarsi.
“Credo che non ci sia altro da dirci, è stato un piacere averti conosciuto ma ora non vorrei più essere disturbato da te”, la sua voce era ferma, fredda, distaccata, nel pronunciare quelle parole non si era curato minimamente delle macerie che si sarebbero portate dietro e con tutta la calma del mondo aprì la porta di casa per poi sparirvi dietro. Fece i soliti gesti che faceva appena rientrato, accese la luce nel corridoio, posò le chiavi sul tavolo dell’ingresso, appese il pesante cappotto all’appendiabiti, si diresse in soggiorno accendendo la televisione e mettendosi comodamente sul divano. In quei minuti il suo cervello aveva rimosso la presenza che fino a poco fa si trovava in quel cortile, si girò con lentezza, non sapendo se augurarsi di trovarla ancora lì o meno.

Non riusciva a respirare, da dentro la casa sentiva il vociare di un programma alla televisione .
“Respira, respira, va tutto bene”. La sua coscienza era corsa prontamente a soccorrerla come una madre preoccupata. Fece quello che le diceva, respirò, respirò a fondo, dando sempre le spalle a quella casa.
“Hai fatto quello che ti sentivi di fare Eva, sei stata brava ma ora basta. Ha preso una decisione, devi lasciarlo andare”.

“Esci, prendila di peso e riportala qui, non fare l’idiota Richard, non fare l’orgoglioso, la ragazza era sincera”. Il suo grillo parlante quasi si stava strappando i capelli nel tentativo di buttare giù quel muro d’orgoglio, pensando al vero bene per l’uomo. Sentiva, sentiva che voleva farlo, che voleva correre da lei, inginocchiarsi davanti quel piccolo corpicino, stringerle le braccia intorno alla vita e poggiarle il viso all’altezza del ventre, stringendola con avidità, pregandola di perdonarlo per tutta quella cattiveria eccessiva e sperando di sentire su quelle labbra che tanto amava, l’ombra di un sorriso un po’ misto alla stanchezza, alla rilassatezza e alla gioia. Si immaginò persino quelle manine ben curate tra i suoi capelli, mentre cercavano di cullarlo. Lo immaginò, lo immaginò nitidamente, chiudendo gli occhi per gustarla meglio. Il grillo parlante stava quasi per fare le capriole per la gioia, forse qualche mattone di quel muro stava crollando ma aveva esultato con troppa facilità. Richard era immobile, non riusciva a muovere un solo corpo, come se una forza invisibile lo tenesse paralizzato, trovandosi a guardare quella scena, che lo vedeva il protagonista principale, come se invece fosse uno spettatore pagante.

Anche quella mattina l’aria era fredda e il cielo era nero, avrebbe piovuto si vedeva e nell’aria quell’odore di terra umida era già forte. Eva si trovava sul vagone della metro diretta a lavoro, gli occhi un po’ annoiati all’idea di dover affrontare una nuova giornata frenetica e sospirò rassegnandosi alle sue incombenze e sperando, come ormai era solita fare negli ultimi giorni, che quelle ore passassero alla svelta. Il vagone a mano a mano che si fermava nelle varie stazioni si svuotava sempre di più e ciò le permise di potersi sedere. Guardava fuori dal vetro le persone che con passo frenetico salivano le scale per non fare tardi, mentre lei si trovava immersa in un limbo che da tre giorni prima l’aveva assalita. Non si ricordava troppo bene le emozioni che provò quando andò via da casa di Richard, sapeva solo che la mattina seguente si era svegliata da un sonno privo di sogni e che quel senso di “nulla” era già sbocciato in lei. Non sapeva bene come poter definire quel “nulla” ma improvvisamente tutto le scivolava addosso, tutto non le interessava più, non la coinvolgeva, se ne stava nel suo angolo ad aspettare placidamente che il tempo scorresse. Non provava più nulla, nemmeno quel grande dolore e quei sensi di colpa che da un mese l’avevano assalita, nulla. Si comportava come un’operosa formichina, si alzava la mattina, si presentava a lavoro puntuale e alla fine della giornata tornava a casa, non trattenendosi oltre l’orario d’ufficio.

Era rimasto a casa quel giorno, non riusciva a concentrarsi né sulle battute, né su altro. L’unica mimica espressiva del suo volto erano le labbra che avevano preso una piega che andava verso il basso, gli occhi gli pizzicavano per la mancanza di sonno e braccia e gambe erano dei tronchi che non sapeva come utilizzare, perciò aveva deciso di inventarsi la scusa di un malanno ed evitare l’ennesima vergogna per non riuscire a fare il suo lavoro. Guardò ancora una volta quel vialetto che ora era vuoto, cercando di cancellare dalla sua memoria quell’ultimo sguardo che lei gli aveva concesso. Il suo gioco era durato troppo, la sua intenzione di fare il bambino offeso e desideroso d’attenzioni gli si era ritorta contro, perché era come se lei in quello sguardo gli avesse urlato che in quel momento era lui che stava gettando tutto alle ortiche.
“Essere adulti non vuol dire solo tenere il punto ma anche capire quando smetterla e cambiare la situazione”.
Ancora quella voce che ormai da giorni lo accompagnava ma aveva ragione, tutti avevano ragione tranne lui, si era comportato come un isterico punto sull’orgoglio.
“Gradirei non essere più disturbato”, la spinta data in malo modo per allontanarla da lui, quelle immagini gli si accavallavano davanti agli occhi facendolo rannicchiare su se stesso. Lui voleva ripagarla con la stessa moneta ma aveva era in debito di molte e molte cattive frasi sferzate gratuitamente.

La camera era buia, l’unica luce proveniva dal suo iphone che aveva appena iniziato una chiamata. Richard se ne stava disteso immobile al centro del letto con il cellulare incollato all’orecchio, ogni suo senso era rivolto a quel telefono che squillava libero.

Qualcosa di fastidioso l’aveva svegliata, Eva ci impiegò qualche secondo ad aprire gli occhi e capire cosa stesse accadendo. Erano le 2,40 della notte e il suo cellulare squillava febbrilmente. Mugugnò lamentosamente e con gesti goffi allungò la sua mano verso l’apparecchio. Rimase immobile nel vedere quel nome sul display, la stava chiamando. Il cellulare squillò e squillò ancora per poi tacere. Poi, però, ricominciò e ricominciò a strillare, perché quel suono proprio in quel momento non lo sopportava. Eppure guardava quel nome rimanendo ferma, solo per un attimo il desiderio di sentire quella voce l’aveva sfiorata ma il “nulla” era arrivato con spade e bastoni e lo aveva cacciato prontamente. Il telefono smise di suonare e prima che avesse potuto ricominciare lo spense. Lo spense senza troppe cerimonie, senza troppe preoccupazioni, lasciando l’oggetto scivolare sul comodino e sprofondando il viso sul cuscino, improvvisamente stanca.

Il locale di sabato sera era stracolmo di gente, Eva schizzava per i tavoli e il bancone come una scheggia. Il lavoro al giornale era buono e lo stipendio le bastava ma aveva deciso di tenersi quel lavoro solo part-time e non per la paga ma per l’aria divertente che si respirava lì insieme ai suoi colleghi e anche un po’ perché era lì che Richard l’aveva accompagnata la prima volta usciti dalla metro, così premuroso e li era stato teatro di altri bei ricordi.

La serata terminò a notte fonda, ma Eva a causa del troppo lavoro non aveva minimamente dato uno sguardo all’orologio. Mentre asciugava e sistemava i boccali di birra però il sonno e la stanchezza cominciarono a farsi sentire e l’idea di doversi fare il tragitto con i mezzi le face alzare gli occhi al cielo. Le piaceva l’atmosfera che si creava in quel luogo dopo che le persone se ne erano andate via, dopo tanta frenesia e tanto chiasso finalmente la tranquillità. In sottofondo la voce inconfondibile di Freddie Mercury intonava le note della sua Scandal, ed Eva si fece un po’ cullare da quelle note, a completare quel quadro perfetto il c’era il calore piacevole dei riscaldamenti ormai spente e le luci soffuse che si mischiavano con il marrone scuro delle pareti e del bancone.

Era rimasto fuori come un ladro, spiava, aspettava e poi ad ogni porta aperta si ritirava. Aveva cercato tante volte di entrare ma ogni qual volta qualcuno entrava o usciva dalla locanda lui si ritirava, evitando di farsi persino vedere. La vedeva muoversi veloce, portando vassoi che erano più grandi di lei e sorridendo cordialmente ai clienti e, doveva ammetterlo, per ogni sorriso cordiale era geloso, a maggior ragione perché poteva solamente immaginare i commenti che potevano fare su di lei, la SUA fidanzata e questo lo faceva ribollire. Alla fine aveva deciso di mettersi in piedi, sotto un lampione, a braccia conserte ad aspettare che uscisse. Nulla, nemmeno il freddo pungente, la noia, le ore che passavano o gli sguardi perplessi dei passanti.

“Bene ragazzi, ci vediamo domani “. Richard drizzò le orecchie come un cane che con pazienza aspetta il padrone. L’aveva sentita dire quella frase mentre si trovava sulla porta e poi la vide uscire. Il suo muoversi sotto la luce fioca del lampione la misero per un attimo in allarme ma quando lo riconobbe indietreggiò di qualche passo e leggermente una parte dell’angolo della sua bocca si alzò, come fosse infastidito.

Il silenzio, la pausa e la sorpresa erano durati poco, Eva aveva elaborato velocemente quella presenza, si era stretta di più nel suo cappotto e abbassando la testa aveva puntato avanti. L’aveva cacciata in malo modo pochi giorni prima, trattata come se si fosse macchiata del peggiore dei reati, umiliata e lasciata fuori quella caso senza alcuna preoccupazione alcuna.

La vedeva camminare veloce allontanandosi sempre più velocemente.
“Eva aspetta, non andare via, non andare sola è pericoloso. Aspetta che ti accompagni, almeno potremmo parlare”.
Lì sentì i denti dentro la bocca digrignare e lo stomaco attorcigliarsi dentro per il fastidio e l’ipocrisia di quella parole. Tentò, tentò di ignorarlo, di non rispondergli rimanendo a testa bassa ma tutta quella falsità non riusciva a mandarla giù.
“è pericoloso? So benissimo che potrebbe essere pericoloso ma non mi sembra che nell’ultimo mese tu ti sia preoccupata per questi pericoli, non mi sembra che l’altra sera dopo che mi hai chiuso la porta in faccia, dopo avermi vista disperata e chissà forse pronta a qualsiasi gesto (menzogna), tu ti sia preoccupato”. Si era girata verso l’uomo come fosse stato un orso appena uscito dal letargo, era così minacciosa che Richard aveva fatto qualche passo indietro. Ma non gli aveva nemmeno dato il tempo di elaborare una frase di senso compiuta che sempre a testa bassa la ragazza aveva ripreso a camminare.
“Ah fa male, fa male sentirsi trattati così, fa male sentirsi dire quelle parole? Bene, almeno capirai cosa ho provato io”.
“Non tentare di rigirare la storia, io ho sbagliato ma l’ho fatto per tutelare la nostra storia, tu hai avuto il tatto di un carrarmato con me per il semplice gusto di ripagarmi con la mia stessa moneta ma ti dirò una differenza, la tua cattiveria è stata intenzionale”.
Aveva detto quelle parole come un treno in corsa, a perdifiato e ora respirava velocemente per riprenderlo.
Si guardavano, l’uno difronte all’altro a qualche passo di distanza.
“Si, è stato intenzionale, volevo farti provare ciò che provavo io”.
“Perché l’espressione che mi hai visto sul viso tre giorni fa era di pura gioia, è questo che hai capito?”.
Richard si guardò la punta delle scarpe capendo quanto fosse stato immaturo quel suo atteggiamento ma doveva farle capire ciò che anche lei gli aveva fatto.
Assunse un’espressione seria, non più colpevole da cane bastonato, le sue spalle erano dritte e la sua posizione eretta, quella calma sorprese Eva.
“Entrambi abbiamo le nostre colpe, tu mi hai mentito dicendomi che la tua famiglia sapeva del nostro fidanzamento e della nostra convivenza- serrò forte il pugno cercando di mitigare il fastidio dato da quel pensiero- e io ho sbagliato nel cacciarti senza nemmeno sentire e cercare di capire il perché di quel comportamento. Io dovrei capire te, hai ragione ma tu hai capito me?”.
La domanda lasciò spiazzata Eva che, nonostante le mille domande e idee di quella non si era molto curata. Abbassò gli occhi, non sentendosi più tanto sicura come un attimo prima.
“Tutto ciò che dicevi per me era oro colato, verità pura che non avrei mai messo in discussione. Ti ho difeso dai dubbi dei miei genitori, perché anche loro ne avevano- sentire questo ad Eva fece male, sentirsi dire quella grande verità, ossia come si sarebbe dovuta comportare, le fece male- mi sono gettato in questa storia anima e corpo, non pensando a nulla che non fosse il tuo bene principalmente. Me ne sono fregato dell’età, del fatto che forse era troppo presto per presentarti alla mia famiglia o, ancor più presto, una convivenza, eppure da quando ti ho conosciuta non riesco a fare più le cose come gli altri si aspettano che vengano fatte, penso a te ed è fatto bene. Perciò, ci pensi che tradimento è stato per me sapere che tu non riponevi quella stessa fiducia che io avevo in te? Che dolore è stato pensare che con tutte queste menzogne la storia difficilmente sarebbe potuta andare avanti?”
Eva si sentì punta sul vivo, quell’ultima frase, specialmente, le aveva fatto abbassare gli occhi un pò imbronciata.
Richard attese, attese qualcosa che nemmeno lui sapeva cosa fosse ma preferiva attendere qualche attimo. Senza rendersene conto nel parlare i loro corpi si erano avvicinati ma non abbastanza, l’uomo fece un solo passo avanti, un unico, quel tanto che bastava affinché lei potesse prendere la sua mano tesa.
Prese fiato, stava per dirle la cosa più importante e decisiva per la loro storia, cercando di mettere a tacere, anche se non era affatto semplice, quel piccolo senso di sospetto che, nonostante tutto ciò che provava, lo martellava.
“Dimentica le tue paure, dimentica tua madre e tuo padre, dimentica la tua vita in Italia e vieni via con me”.
Alle orecchie colpevoli di Eva quella splendida frase suonava come un rimprovero, come se volesse dirle: “So che c’è altro che mi nascondi ma per adesso non voglio pensarci, voglio fare finta di nulla”.
Eva guardava quella mano tesa, pensando a quel secondo atto del suo soggiorno londinese che stava tenendo nascosto, chiedendosi se avesse dovuto afferrare o meno quella mano.

 

ANGOLETTO DELLO SCRITTORE
Salve miei cari, lo so, lo so, sono in ritardissimo, chiedo perdono ma ho avuto veramente molte cose da fare:
-Salvare l’universo
-Combattere la Morte Nera al fianco di Ian Solo
-Usare i miei super poteri alla scuola per giovani dotati di Xavier
-Cavalcare insieme a Frodo e io resto della compagnia dell’Anello
-Comprare un bastone per non vedenti ad Arya Stark
-Vincere la Coppa del Mondo al torneo Tre Maghi
Ehh come vedete sono stata molto impegnata ahahahah. Parlando seriamente, la nostra storia si sta evolvendo, i nostri protagonisti sono esseri umani ed ovviamente sono mossi anche loro da gioia, dolore, delusione ecc..quindi avranno quei pro e quei contro che in ogni coppia che attraversa una forte lite potremmo incontrare, non pensiamoli privi di difetti e pieni di virtù. Si amano, questo ve lo posso giurare ma quando veniamo traditi dalle persone a noi più care tendiamo ad essere sempre un po più cattivucci di quanto saremmo con altri. Eva nasconde qualcosa e Richard, vuoi che ora è più in allarme o perché inconsciamente ha percepito qualcosa, cambierà un po’ il suo solito atteggiamento.
Ringrazio infinitamente chi ha letto e chi è passato a lasciare un commento, spero continui perché lo adoro 
Ringrazio di cuore FollediScrittura, ergo la mia gemini perché con pazienza ascolta tutte le mie idee e con ancora più pazienza le asseconda, thank’s baby (immaginatela detta alla Fassbender…addio mondo ahaahahahha)
Al prossimo capitolo,
baci.

~~“Certo che ti farò del male. Certo che me ne farai. Certo
che ce ne faremo. Ma questa è la condizione stessa dell’esistenza.
 Farsi primavera, significa accettare il rischio
dell'inverno. Farsi presenza ,significa accettare il rischio
dell'assenza.”
Cit. Il piccolo principe

 


Aprì gli occhi, le bruciavano, la stanza era buia, eccezion fatta per la spia rossa della televisione. Non sapeva che ora fosse, non sapeva se fosse mattina, pomeriggio o sera. Era sotto il piumone in posizione fetale, rannicchiata su se stessa, come a volersi nascondere. Le girava la testa e si era svegliata perché i crampi della fame erano tornati a farsi sentire, sempre più forti, portando quel fastidioso senso di nausea dato dallo stare troppo tempo digiuna. Ma lei non aveva le forze, le aveva perse, non le aveva nemmeno per parlare e pensare le faceva battere forte le tempie. Chiuse gli occhi, combattendo un altro giramento di testa. Non sapeva bene quando, Miriam era andata a svegliarla per vedere le sue condizioni ma lei era troppo stanca ,i suoi occhi si erano socchiusi solo per una frazione di secondo, lasciando l'immagine dell'amica in quel limbo tra il sogno e la realtà, sentendo il suono della sua voce ovattato, distante; l'aveva realmente vista, oppure se l'era solamente immaginata? Non lo sapeva, tutto era così confuso ora, tutto girava così velocemente. Aveva sonno, tanto sonno, il suo corpo stanco le chiedeva di dormire, ma poi perché era in quelle condizioni, cosa era accaduto? Per un momento non riuscì a capirlo, frugò nella mente ma era vuota ma poi l'immagine di un uomo alto e in maniche di camicia che si allontanava le venne davanti agli occhi, Richard. Solamente pensare quel nome fece ripiombare Eva in quel Tartaro che la tormentava. Solo quel nome la fece sentire ancora più stanca, se avesse potuto avrebbe persino smesso di respirare. Sfregò fiaccamente il viso sul cuscino e senza accorgersene ripiombò in un  sonno senza sogni, che non le dava riposo, anzi le toglieva sempre più le forze.

Guardava la porta chiusa dal divano, nessun rumore proveniva dal suo interno, nessun suono o sussurro, lei se ne sarebbe accorta, sarebbe subito corsa. Ma Miriam non sentiva niente, erano trascorsi tre giorni da quando Eva era chiusa li dentro e per quanto lei avesse cercato di svegliarla, parlarle, gli occhi dell'amica si chiudevano come fossero stati quelli di una bambola e il suo corpo sembrava quello di un burattino senza fili. Ripensò un momento a quel corpo così abbandonato a se stesso, come privo di ossa e rabbrividì. Per non parlare poi del colorito insane del suo viso e delle mani, pallido e quasi livido intorno agli occhi. L'aveva trovata così quando tre giorni prima la chiamarono dalla redazione, era svenuta improvvisamente, senza nessun sintomo. I suoi colleghi se l'erano vista crollare davanti, mentre stavano parlando durante la pausa caffè. Il motivo sapeva benissimo quale fosse, la lite e la menzogna detta a Richard erano state gravi e la situazione era sfuggita di mano all'amica che non aveva pensato bene a tutte le probabilità che le si potevano prospettare con il continuo e la crescita della relazione. Lo aveva chiamato, tante e tante volte, per dirgli dello stato di salute di Eva ma mai in quei giorni lui le aveva risposto.

Guardò il cellulare infastidito, facendo una smorfia quasi venata di rabbia. Il display era illuminato e il cellulare vibrava con forza sul tavolo dell'ingresso.  “Miriam”, era così patetica da chiamare dal telefono dell'amica, pensò mentre chiuse l'apparecchio in un cassetto per non vederlo. Era furente, ogni pensiero per Eva era di rabbia ma non solo nei riguardi della ragazza ma anche nei suoi, era stato un idiota a essere così cieco, a fidarsi in quella maniera.
“Sei innamorato”, disse una piccola vocina nella sua mente ma non appena lo pensò chiuse con forza la porta dietro di sé e maledisse il giorno che s'incontrarono. Camminava  velocemente, doveva  sfogarsi ma nulla riusciva a farlo scaricare, LEI, sempre lei era nella sua testa e l'odiava, l'odiava così tanto da lasciarlo spiazzato.
“La odi così tanto da sfiorare il limite dell'amore”. Ancora quella maledetta voce era a parlare. Allungò ancora di più il passo, sperava di stancarsi ma in quei giorni trascorsi non c'era stata notte che  era riuscito a dormire, l'adrenalina gli scorreva troppo velocemente nelle vene e il suono della voce di lei gli risuonava nelle orecchie senza sosta.

Era vaga ma improvvisamente la sua camera era illuminata, si era forse fatta mattina? Poi qualcuno le tolse il piumone da dosso, gli occhi le fecero male, non erano abituati a tutta quella luce, li serrò forte per ripararsi. Suoni, voci, ecco cosa sentiva ma non capiva, era tutto così confuso che non riusciva a distingue cosa si dicessero e chi fossero. Qualcuno la stava toccando, avrebbe voluto spostarsi ma non ci riusciva, non riusciva a muoversi, il suo cervello non ce la faceva a mandare il comando necessario al braccio per farlo muovere. Poi la sentì, Miriam, non capiva cosa dicesse ma riconobbe il suo timbrò di voce leggermente squillante, il tono che aveva solo quando era in ansia. Improvvisamente la luce l'accecò, una mano le aveva aperto prima l'occhio destro, poi era passato a quello sinistro, erano mani forti, sicure di ciò che stavano facendo.
“Mi sento sollevare, cosa sta accadendo, dove sono? Piano-penso-mi fa male tutto. Scrosciare, sento il rumore dell'acqua e poi profumo di bagnoschiuma, come è buono, voglio respirare  questo profumo ancora un pò, mi fa sentire meglio. Delle mani delicate mi stanno togliendo i vestiti, non sono le stesse di prima.”

Miriam si ritrovò improvvisamente senza forze, il cuore le batteva veloce e le guance le andavano a fuoco. Aveva chiamato un medico ,era preoccupata e doveva aiutare la sua amica. Ciò di cui si era raccomandato il dottore era non perderla mai d'occhio e farla mangiare, anche  per forza ma doveva riempire lo stomaco. Così Miriam si era trovata a fare da sorella maggiore a quella sua amica che ora, seduta vicino la finestra intenta a guardare fuori, le sembrava veramente un piccolo cucchiaino indifeso. Aveva perso molto peso, il viso era segnato e intorno alla bocca si erano formate due linee che davano l'idea di un viso smunto e  sofferente.

Non usciva di casa da quindici giorni, il traffico, i suoni, le persone che camminavano veloce con il loro parlottare le facevano girare la testa, la confondevano e le facevano sentire la testa vuota. Ma doveva, sapeva che quella era una violenza su se stessa ma doveva farla ,doveva riabituarsi alla vita reale, doveva combattere la perenne stanchezza che la pervadeva e il sonno che le faceva sentire le palpebre pesanti. Sarebbe tornata a lavoro di li a due giorni e doveva riprendere a tutti i costi i contatti con la realtà. Una pioggerella leggera e improvvisa aveva cominciato a scendere ma non la disturbò, anzi le fece quasi piacere. Così in quelle condizioni e con le mani fredde e bagnate si trovava su quel ponte sotto il Big Ben a guardare le luci blu della London Eye. Scosse la testa biasimando se stessa, la colpa era sua e di nessun altro, lei lo aveva ingannato e per quanto volesse prendersela con suo padre per ciò che era accaduto, non riusciva ad odiarlo come sperava ,non riusciva a scaricare quell'errore sulle spalle di Ettore. Perché se lei avesse riposto la sua fiducia completamente nelle mani di Richard adesso non si troverebbe con l'anima rotta e gli occhi gonfi di pianto.
“E tu Richard, cosa starai facendo ora?”
pose quella domanda al vento, sperando forse che qualcuno le sussurrasse nell'orecchio “Sta pensando a te”. Quella sciocca speranza le fece chiudere gli occhi e sorridere amaramente. Guardò il cellulare per l'ennesima volta ma ancora nessun contatto da parte dell'uomo,
“mi ha già dimenticata?”.
Quel pensiero le fece chiudere lo stomaco, sentire il cuore batterle all'impazzata e  contemporaneamente fermarsi bruscamente. Avrebbe voluto rannicchiarsi su se stessa e piangere, le sentiva quelle canaglie agli angoli degli occhi ma combattè con tutta se stessa per rimandarle dentro e ergersi in tutta la sua minuta statura.

In quei giorni passati il suo cellulare aveva squillato regolarmente,  squillava al suono della suoneria preimpostata del suo iphone, mostrando sul display il nome di Lei, oppure di Miriam e questo in qualche modo gli dava forza, la forza di fare l’arrabbiato e anche l’orgoglioso ma erano passati tre giorni e il suo cellulare, se non per le chiamate di lavoro o di amici e parenti, era muto, Lei era sparita. Quei tre giorni senza aver nemmeno un minimo contatto da parte sua e del suo mondo gli erano sembrati interminabili, teneva il cellulare sempre attaccato a sé e puntualmente ogni due minuti controllava se Lei lo avesse cercato. Improvvisamente tutta quell’adrenalina che lo animava e quella rabbia lo rendeva così energico si erano esaurite con troppa velocità, consumandosi in fretta nel suo corpo. Richard si ritrovava in quella casa che mai come in quel momento gli sembrava vuota e triste, si era portata via tutto e quel non avere nemmeno una piccola traccia di Eva gli faceva venire un nodo in gola. Si mise seduto al centro del divano di palle nero e mosse la testa cercando di capire come poteva ritrovarsi senza di lei. Nei giorni passati, preso dal fuoco e dall’orgoglio, aveva persino gettato quei piccoli post_it che lei gli lasciava per la casa. Un angolo del labro si incurvò al ricordo di quando li trovava sfusi sui mobili e si maledì per averli gettati. Prese il telefono andando sulla rubrica, sfiorò il suo nome sperando che il suo pollice premesse per “errore” il tasto della chiamata ma non riuscì ad essere così maldestro. Non aveva più dormito nel “loro” letto, per quanto avesse voluto fare il forte non ci era riuscito, temeva quel suo profumo. Eppure quella giornata era stata interminabile e aveva bisogno di sentirla in qualche modo “vicina”, anche se vicina non era. Con estrema delicatezza, come non volesse far male a nessuno con il suo corpo si infilò sotto le coperte e rimase a fissare quella parte destra del letto dove fino a poco tempo prima dormiva rannicchiata una piccola testolina dai lunghi capelli neri e dalle labbra carnose, quel corpo che lui amava tanto stringere, con il quale amava fare l’amore e vedere l’eccitazione di quel momento riflessa nei suoi occhi scuri. Accarezzò quel cuscino vuoto e cercò d’immaginarsi il suono della sua voce al mattino, un po’ roco, sorrise teneramente ai gesti che la fidanzata faceva appena aperti gli occhi, quel suo modo un po’ infantili che aveva di stropicciarli, a quel suo modo di rannicchiarsi al centro del loro letto e lo guardava mentre lui si preparava. Sospirò rumorosamente e dovette allentare con i ricordi, qualcosa agli angoli degli occhi minacciava di uscire. Scosse la testa e cacciò  via quel viso ma tra il sonno e l’incoscienza il suo volto si spostò inconsapevolmente sul guanciale di lei e nel sonno il profumo di lei lo fece rilassare.

Nonostante le aspettative tornare a lavoro aiutò molto Eva e le premure dei suoi colleghi la lasciarono piacevolmente sorpresa, facendole fare un sorriso sincero dopo tanto tempo. Si gettò a precipizio su interviste e articoli, facendo più attenzione del solito a ciò che scriveva e rimanendo davanti la scrivania anche oltre l’orario di chiusura della redazione. L’aiutava, la rilassava scrivere al computer, stare in mezzo ad altre persone che non la guardavano in continuazione preoccupate, nessuno che sapesse di ciò che era accaduto fuori quel locale tra lei e Richard, nessuno che sapesse il casino che lei aveva combinato e di che bugiarda patentata fosse. Non poteva negarlo, anche se si dedicava anima e corpo nel suo lavoro il pensiero di Lui era sempre dietro l’angolo, le capitava di scrivere al computer e dal nulla quel sorriso timido faceva capolino nella sua mente, così quando accadeva era più forte di lei, entrava in quel suo mondo, si estraniava dalla realtà, lasciando ciò che stava facendo e richiamando alla memoria quell’espressione e quei gesti che lui faceva e che aveva sempre osservato, non perdendosene mai uno. Chiuse gli occhi e se lo ritrovò già lì ad attenderla, indossava jeans scuri, un maglione di lana fina e un giubbotto di pelle nera, le era sempre piaciuto come gli stava quell’indumento. E poi lo vide, osservò con estrema attenzione quel sorrisetto timido nascergli sulle labbra, mentre gli occhi si precipitavano a guardare le punte delle scarpe, aveva sempre amato quel suo sorriso fin dal primo giorno, senza smettere mai. Tornare alla realtà ed uscire da quella bolle era ogni volta un trauma, dentro si sentiva il desiderio di urlare, di rannicchiarsi su se stessa impaurita, poi arrivava il senso di vuoto e alla fine la rassegnazione.

Come da copione, Eva rimase più a lungo in ufficio e quando uscì in strada i lampioni erano accesi già da molto tempo. Febbraio era arrivato e il freddo di quella sera la fece stringere ancora di più nel suo cappotto. La strada era quasi del tutto deserta e solo in lontananza sentì il passare di un auto e l’abbaiare di un cane.
“Lui si sarebbe preoccupato nel sapermi sola in strada a quest’ora”. Sorrise un po’ tristemente a quel pensiero che fino a poco tempo prima sapeva essere certo ma che in quel momento, dopo gli eventi accaduti,  non sapeva più se fosse ancora vero o meno.

Si trovava nella metro ad aspettare l’arrivo del treno, la stanchezza accumulata cominciò a farsi sentire ed Eva si mise seduta su di una panchina guardando il binario pazientemente. Si trovava così, completamente catapultata nella realtà, con i sensi in allerta nel sentire l’arrivo del vagone, del vociare intorno a lei. Non seppe nemmeno lei da dove ma un profumo che conosceva benissimo, un profumo peculiare, fatto di dopobarba e pelle le arrivò alle narici, un odore così forte ma che non nauseava. Si guardò intorno, cercando il colpevole di quel furto di profumo, volendogli quasi urlare che quella fragranza era di Richard, a lui spettava, a lui stava bene, a lui e nessun altro. Girò la testa a destra e sinistra, annusò con insistenza l’aria ma con la stessa velocità con cui era arrivato quel profumo, con altrettanto era sparita. Una frase si fece largo nella sua memoria,
“Se senti il profumo di qualcuno che non ti è vicino, allora quel profumo è nell’anima”.
Una strana determinazione prese forma in lei, una strana frenesia che la ritrovò a maledire la lentezza di quel mezzo pubblico.

Era da pazzi, lei questo lo sapeva ma doveva farlo. Era uscita dal vagone quasi spintonando la gente, ricevendo qualche sano e non poco velato insulto ma con le gambe che correvano veloci, la ventiquattro ore stretta in mano, il respiro che cominciava ad essere affannato e un sorriso d’eccitazione si stava dirigendo a casa di Richard e in quel momento poco le interessava se non sapeva cosa dirgli o come lui avrebbe reagito, al diavolo la sua convinzione che sia nel giusto o nello sbagliato doveva essere l’uomo a fare il primo passo,
 “abbiamo voluto la parità dei sessi- pensò- e quindi è bene cominciare a cancellare la vecchia cavalleria da film in bianco e nero e  indossare i pantaloni”.  Il quartiere, quelle case che lo componevano e che l’avevano vista passare lì giornate bellissime, cominciò a prendere corpo ad ogni suo passo, le gambe andarono più veloci individuando la porta di nero lucida sopra i tre scalini in marmo bianchi. Varcò la soglia di quel vialetto con un sorriso che faceva paura, quasi saltò a piedi pari quelle scale e senza pensarci su, forse con un po’ troppa forza, bussò alla porta. Il cuore le batteva forte nelle orecchie, cercava di controllare il respiro affannato ma con pessimi risultati e ringraziò tutte le divinità del mondo perché la sua mente non era stata presa dal panico del “e adesso cosa gli dico”, perché era proprio quella paura subdola che rovinava tutti i migliori discorsi improvvisati.
Gli attimi passavano, le guance rosse per la corsa cominciarono pian piano a freddarsi e quel sorriso euforico a perdere i suoi battiti. Alzò di nuovo la mano verso la porta ma questa si fermò a mezz’aria, “forse mi ha vista e non vuole aprirmi”. Aspettò come un cane infreddolito lì davanti ma nulla, nessun rumore proveniva dalla casa, lui non c’era. Eva abbassò gli occhi dandosi della stupida da sola e sentendosi abbattuta, la sua mente aveva cominciato a galoppare a briglia sciolte e già si immaginava il fidanzato tra le spire di altre donne. Si mise seduta sullo scalino più alto cercando di elaborare quell’opzione. Ormai il calore di quello sforzo fisico era scomparso e il freddo si vece sentire più forte, lei si sentiva stanca e avrebbe pagato pur di riavere la speranza di poco prima. Nonostante, però, il freddo e la cocente delusione, nonostante la paura che aveva che lui l’avesse già rimossa dalla sua vita, Eva aspettò che tornasse a casa.

Anche quella sera si trovava in un pub, con il solito boccale di birra che non avrebbe finito, circondato dai suoi colleghi di teatro che parlavano animatamente. Lui quelle sere accettava sempre ogni loro invito ad uscire dopo le prove, non gli importava quale potesse essere il programma della serata, lui accettava e basta, non riusciva a rimanere in quella casa. Ma anche se accettava di uscire, anche se si sedeva su quelle poltrone di pelle rosse con loro, la sua mente era del tutto distante, non ascoltava ciò che i suoi amici dicevano, non gli andava di parlare e non gli interessava fare la parte dell’asociale, per lui in quel momento iniziava una sorta di limbo, si trovava diviso tra il malessere nel trovarsi lì e la paura di varcare la soglia di quella casa. Perciò era salito a patti con se stesso e aveva deciso di rimanere in quel locale, con stoica pazienza, fino a che i suoi amici e colleghi avrebbero voluto, che non si dicesse che non fosse di compagnia.

Lei aspettava e aspettava ancora, il freddo era pungente e più di qualche volta l’idea di andarsene l’aveva sfiorata. Aveva mentito a Miriam, le aveva detto di trovarsi a cena con delle amiche del giornale, precisamente non sapeva nemmeno lei il perché lo avesse fatto, o forse si, non voleva sentire quella voce sospirante preoccupata che le elargiva le sue perle di saggezza, sapeva che l’amica lo faceva a fin di bene ma di quel bene lei, proprio in quel momento, non sapeva cosa farsene.

Certamente il momento più emozionante della serata era stata una semplice frase,
 “Sarà meglio andare”, un concetto semplice, coinciso, per nulla elaborato e che non ammetteva obiezioni. Quelle tre parole lo avevano riportato  alla realtà all’istante, come se dall’inizio della serata non avesse fatto altro che aspettare quel momento. Li aveva salutati frettolosamente, sentendo la necessità di uscire da quel locale troppo caldo e chiassoso, desideroso di non sentire più tutti i commenti e le battutine “maschie” che i suoi compagni di bevuta elargivano ad ogni indifesa e ignara passante. E finalmente quel momento era arrivato, quel momento che sei da solo, mentre cammini a sera inoltrata per tornare a casa. Il freddo per le strade si stava rivelando un tocca sana per il suo malumore e lo sgranchirsi le gambe dopo tante ore seduto lo fece rilassare per un attimo. Nonostante fossero appena le 23,00 di sera i locali si stavano già svuotando, colpevole il giorno infrasettimanale e il lavoro del giorno successivo che avrebbe richiamato tutti all’ordine. Respirava aria fredda con avidità e guardava intorno a sé i pochi passanti per le strade, i vetri delle finestre della  maggior parte delle case erano bui, solo da alcuni proveniva una tenue luce di qualche televisione lasciata accesa. Si infilò le mani nelle tasche ed accarezzò il cellulare, sperando quasi di sentirlo prendere vita magicamente grazie al suo tocco ma anche per quella sera aveva taciuto. Non riusciva a pensare a nulla, sapeva che quel senso di vuoto era dato dall’assenza di lei, ma erano ormai giorni che la sua mente era vuota, priva di ogni idea, pensiero, sentimento, si aggirava per la casa e per le vie della città quasi fosse un’anima in pena, non trovando pace da nessuna parte, con quel malessere come unica testimonianza del fatto che lei c’era stata e che l’aveva perduta, come unica testimonianza che l’aveva veramente vissuta quella vita con lei. Arricciò il naso, nauseato quasi da quegli stessi identici pensieri che ogni volta gli salivano alla mente, si riproponevano seguendo sempre lo stesso ordine, come fosse un copione già scritto. Serrò gli occhi mentre scrollava la testa nel tentativo di scacciare ciò che gli albergava dentro, serrò le mani a pugno nelle tasche provando un sentimento di puro e autentico fastidio per se stesso e facendosi compassione, ma intanto, mentre queste semplici azioni si svolgevano nell’arco di pochi secondi, i suoi piedi avevano appena varcato la soglia del vialetto bianco.

Inutile fingere che uno dei due vide l’altro per primo, si erano fissati contemporaneamente. Nello stesso preciso istante gli occhi di uno si erano alzati dal pavimento e quelli dell’altro si erano aperti cercando di non badare al fastidio che provava. Così si ritrovarono, inermi e paralizzati, guardandosi con gli occhi spalancati, spalancati per la sorpresa, spalancati per l’ansia ma soprattutto per la paura di quell’incontro che da quasi un mese rimandavano, per quelle cose non dette che da quasi un mese non volevano sentirsi dire, preferendo, si, rimanere nell’incertezza, piuttosto che incassare la notizia della fine definitiva della loro storia.

Entrambi si ritrovarono immensamente stanchi, quasi facevano profondi respiri per riacquistare forze. I minuti passavano e loro rimanevano lì.

“Ti ho mentito e hai ragione ad avercela con me- fu Eva a parlare per prima, mentre i suoi occhi vagavano sulla strada- ma devi credermi quando ti dico che l’ho fatto per noi”. Mandò giù un boccone amaro cercando di reprimere il capogiro dato dall’eccessiva tensione che provava in quel momento. “Capisco che tu sia deluso e amareggiato ma non ti ho TRADITO, ho solo pensato a tutelare la nostra storia dagli attacchi gratuiti e ingiusti dei miei familiari”. Nel dire ciò Eva si era alzata in piedi, la veridicità di ciò che diceva le aveva fatto tornare le forze e nel vederla muoversi Richard aveva finalmente sbattuto le palpebre, come se avesse finalmente elaborato l’idea di trovarsela davanti.

“TU non eri nei Miei piani, mi hai detto questo- il significato di quella frase si ripercosse in lui facendogli male- tu dici di non avermi tradito,  allora come posso definire il tuo comportamento? Tu mi hai pugnalato alle spalle, mi hai trattato come un idiota da usare e gettare come se niente fosse, hai mai pensato alle conseguenze, a come io avessi potuto sentirmi? No, certo, credevi di essere così furba da riuscire a nascondere tutto, oppure, forse nella tua mente contorta ti eri fatta l’idea che io ci avrei riso sopra come fossi un ragazzino. C’ERA UNA CONVIVENZA EVA COME PENSAVI CHE IO CI AVREI POTUTO RIDERE SU CON TANTA SUPERFICIALITà?”, urlava come nemmeno quella sera fuori al pub aveva fatto. Urlava perché finalmente si stava sfogando, perché finalmente stava buttando fuori tutta quella rabbia che provava, urlava perché forse anche lui voleva farle un po’ male, un poco, come lei aveva fatto a lui.

Eva si passò le mani tra i capelli, si tappò le orecchie e cercò di respingere tutte quelle parole, non  voleva sentirle. Quando si era diretta a casa sua non aveva nemmeno lontanamente immaginato in quella reazione, forse la sua mente era ancora un po’ troppo inesperta, forse in quel momento la loro differenza d’età si stava facendo sentire. Se lei si fosse trovata al posto di Richard sarebbe stata furiosa si, ma non sarebbe mai riuscita a respingerlo così, lui, invece, stava tenendo il punto, quasi volesse dirle, “è così che si comportano le persone adulte, rimanendo sui propri passi, non facendosi smuovere dai sentimenti”.

Ma Eva non era adulta, lei era una ragazza, fresca di laurea, d’età e spinta da quell’ingenuità e, chissà, anche dalla disperazione. Spinta, forse, da quel mix letale di emozioni si ritrovò pericolosamente vicino a lui, le sue gambe l’avevano guidata ancora prima che la sua mente se ne accorgesse. Si ritrovò con la fronte poggiata sul petto di lui, le lacrime, che non sapeva nemmeno lei quando avevano cominciato ad uscirle, le rigavano calde il viso e finalmente sentiva di averlo vicino a sé, sentiva quel profumo così forte avvolgerla, così buono che quello sentito in metro non poteva minimamente paragonarglisi.

Abbassò le spalle che fino a un attimo prima erano mosse dalla rabbia, quel piccolo corpicino ora era vicino a lui. Alzò il viso verso il cielo, sentendo dentro di sé il combattimento tra il desiderio almeno solo di sfiorarla e quello di non credere alle sue parole.

Ma una cosa sentirono entrambi, un sentimento che copriva sia la rabbia che il dolore, un qualcosa che da quasi un mese non provavano, pace.

Chiunque fosse passato li davanti avrebbe visto davanti a sé un uomo e una donna, l’uno di fronte all’altro immobili, forse sembrando strani, oppure banali, ma nessuno avrebbe potuto sapere che quella era la più autentica forma d’amore. Si, quando ci si fa così tanto male insieme è per l’eccesso d’amore che si prova.

Eva calmò i suoi singhiozzi e con mani tremanti accarezzò quel petto, cercando di sistemare un’invisibile piega sul maglione di lui, facendo serrare gli occhi  a Richard.
“Il mio problema è che tu sei la soluzione- pausa, rimanendo stupita di quella grande realtà che stava dicendo- la cosa che più mi atterrisce è che per ogni mia incazzatura, per ogni mia delusione o amarezza, TU e solo TU, sei la cura a tutto. Ho sbagliato a non essere sincera fin da subito, sono stata cattiva ad urlarti quella frase, è vero non mi aspettavo di conoscerti, non lo avevo pensato questo ma di tutte le cose più inaspettate sei quella migliore”.

Non poteva negarlo, le credeva e sentire quelle parole così vere lo stava facendo sentire bene ma c’era un problema, le credeva fino al 99%, quel semplice 1%, però, lo stava già minando, stava già incendiando il fuoco del dubbio e del sospetto di non potersi fidare,
“Chi agisce così una volta può rifarlo, forse in maniera diversa, anche nascondendo altri uomini. Chi si sente così furbo penserà sempre di poter fregare il prossimo”. 

La giovane aveva il corpo rilassato, in posizione di riposo, sentendosi sicura.

Richard li sentì, i suoi muscoli stavano tornando in tensione, quell’espressione di rabbia mista a delusione tornò sul suo volto. La spinse, spinse via da se con forza, vedendole sugli occhi un’espressione di sorpresa e smarrimento. A grandi falcate si diresse verso la porta, senza girarsi.
“Credo che non ci sia altro da dirci, è stato un piacere averti conosciuto ma ora non vorrei più essere disturbato da te”, la sua voce era ferma, fredda, distaccata, nel pronunciare quelle parole non si era curato minimamente delle macerie che si sarebbero portate dietro e con tutta la calma del mondo aprì la porta di casa per poi sparirvi dietro. Fece i soliti gesti che faceva appena rientrato, accese la luce nel corridoio, posò le chiavi sul tavolo dell’ingresso, appese il pesante cappotto all’appendiabiti, si diresse in soggiorno accendendo la televisione e mettendosi comodamente sul divano. In quei minuti il suo cervello aveva rimosso la presenza che fino a poco fa si trovava in quel cortile, si girò con lentezza, non sapendo se augurarsi di trovarla ancora lì o meno.

Non riusciva a respirare, da dentro la casa sentiva il vociare di un programma alla televisione .
“Respira, respira, va tutto bene”. La sua coscienza era corsa prontamente a soccorrerla come una madre preoccupata. Fece quello che le diceva, respirò, respirò a fondo, dando sempre le spalle a quella casa.
“Hai fatto quello che ti sentivi di fare Eva, sei stata brava ma ora basta. Ha preso una decisione, devi lasciarlo andare”.

“Esci, prendila di peso e riportala qui, non fare l’idiota Richard, non fare l’orgoglioso, la ragazza era sincera”. Il suo grillo parlante quasi si stava strappando i capelli nel tentativo di buttare giù quel muro d’orgoglio, pensando al vero bene per l’uomo. Sentiva, sentiva che voleva farlo, che voleva correre da lei, inginocchiarsi davanti quel piccolo corpicino, stringerle le braccia intorno alla vita e poggiarle il viso all’altezza del ventre, stringendola con avidità, pregandola di perdonarlo per tutta quella cattiveria eccessiva e sperando di sentire su quelle labbra che tanto amava, l’ombra di un sorriso un po’ misto alla stanchezza, alla rilassatezza e alla gioia. Si immaginò persino quelle manine ben curate tra i suoi capelli, mentre cercavano di cullarlo. Lo immaginò, lo immaginò nitidamente, chiudendo gli occhi per gustarla meglio. Il grillo parlante stava quasi per fare le capriole per la gioia, forse qualche mattone di quel muro stava crollando ma aveva esultato con troppa facilità. Richard era immobile, non riusciva a muovere un solo corpo, come se una forza invisibile lo tenesse paralizzato, trovandosi a guardare quella scena, che lo vedeva il protagonista principale, come se invece fosse uno spettatore pagante.

Anche quella mattina l’aria era fredda e il cielo era nero, avrebbe piovuto si vedeva e nell’aria quell’odore di terra umida era già forte. Eva si trovava sul vagone della metro diretta a lavoro, gli occhi un po’ annoiati all’idea di dover affrontare una nuova giornata frenetica e sospirò rassegnandosi alle sue incombenze e sperando, come ormai era solita fare negli ultimi giorni, che quelle ore passassero alla svelta. Il vagone a mano a mano che si fermava nelle varie stazioni si svuotava sempre di più e ciò le permise di potersi sedere. Guardava fuori dal vetro le persone che con passo frenetico salivano le scale per non fare tardi, mentre lei si trovava immersa in un limbo che da tre giorni prima l’aveva assalita. Non si ricordava troppo bene le emozioni che provò quando andò via da casa di Richard, sapeva solo che la mattina seguente si era svegliata da un sonno privo di sogni e che quel senso di “nulla” era già sbocciato in lei. Non sapeva bene come poter definire quel “nulla” ma improvvisamente tutto le scivolava addosso, tutto non le interessava più, non la coinvolgeva, se ne stava nel suo angolo ad aspettare placidamente che il tempo scorresse. Non provava più nulla, nemmeno quel grande dolore e quei sensi di colpa che da un mese l’avevano assalita, nulla. Si comportava come un’operosa formichina, si alzava la mattina, si presentava a lavoro puntuale e alla fine della giornata tornava a casa, non trattenendosi oltre l’orario d’ufficio.

Era rimasto a casa quel giorno, non riusciva a concentrarsi né sulle battute, né su altro. L’unica mimica espressiva del suo volto erano le labbra che avevano preso una piega che andava verso il basso, gli occhi gli pizzicavano per la mancanza di sonno e braccia e gambe erano dei tronchi che non sapeva come utilizzare, perciò aveva deciso di inventarsi la scusa di un malanno ed evitare l’ennesima vergogna per non riuscire a fare il suo lavoro. Guardò ancora una volta quel vialetto che ora era vuoto, cercando di cancellare dalla sua memoria quell’ultimo sguardo che lei gli aveva concesso. Il suo gioco era durato troppo, la sua intenzione di fare il bambino offeso e desideroso d’attenzioni gli si era ritorta contro, perché era come se lei in quello sguardo gli avesse urlato che in quel momento era lui che stava gettando tutto alle ortiche.
“Essere adulti non vuol dire solo tenere il punto ma anche capire quando smetterla e cambiare la situazione”.
Ancora quella voce che ormai da giorni lo accompagnava ma aveva ragione, tutti avevano ragione tranne lui, si era comportato come un isterico punto sull’orgoglio.
“Gradirei non essere più disturbato”, la spinta data in malo modo per allontanarla da lui, quelle immagini gli si accavallavano davanti agli occhi facendolo rannicchiare su se stesso. Lui voleva ripagarla con la stessa moneta ma aveva era in debito di molte e molte cattive frasi sferzate gratuitamente.

La camera era buia, l’unica luce proveniva dal suo iphone che aveva appena iniziato una chiamata. Richard se ne stava disteso immobile al centro del letto con il cellulare incollato all’orecchio, ogni suo senso era rivolto a quel telefono che squillava libero.

Qualcosa di fastidioso l’aveva svegliata, Eva ci impiegò qualche secondo ad aprire gli occhi e capire cosa stesse accadendo. Erano le 2,40 della notte e il suo cellulare squillava febbrilmente. Mugugnò lamentosamente e con gesti goffi allungò la sua mano verso l’apparecchio. Rimase immobile nel vedere quel nome sul display, la stava chiamando. Il cellulare squillò e squillò ancora per poi tacere. Poi, però, ricominciò e ricominciò a strillare, perché quel suono proprio in quel momento non lo sopportava. Eppure guardava quel nome rimanendo ferma, solo per un attimo il desiderio di sentire quella voce l’aveva sfiorata ma il “nulla” era arrivato con spade e bastoni e lo aveva cacciato prontamente. Il telefono smise di suonare e prima che avesse potuto ricominciare lo spense. Lo spense senza troppe cerimonie, senza troppe preoccupazioni, lasciando l’oggetto scivolare sul comodino e sprofondando il viso sul cuscino, improvvisamente stanca.

Il locale di sabato sera era stracolmo di gente, Eva schizzava per i tavoli e il bancone come una scheggia. Il lavoro al giornale era buono e lo stipendio le bastava ma aveva deciso di tenersi quel lavoro solo part-time e non per la paga ma per l’aria divertente che si respirava lì insieme ai suoi colleghi e anche un po’ perché era lì che Richard l’aveva accompagnata la prima volta usciti dalla metro, così premuroso e li era stato teatro di altri bei ricordi.

La serata terminò a notte fonda, ma Eva a causa del troppo lavoro non aveva minimamente dato uno sguardo all’orologio. Mentre asciugava e sistemava i boccali di birra però il sonno e la stanchezza cominciarono a farsi sentire e l’idea di doversi fare il tragitto con i mezzi le face alzare gli occhi al cielo. Le piaceva l’atmosfera che si creava in quel luogo dopo che le persone se ne erano andate via, dopo tanta frenesia e tanto chiasso finalmente la tranquillità. In sottofondo la voce inconfondibile di Freddie Mercury intonava le note della sua Scandal, ed Eva si fece un po’ cullare da quelle note, a completare quel quadro perfetto il c’era il calore piacevole dei riscaldamenti ormai spente e le luci soffuse che si mischiavano con il marrone scuro delle pareti e del bancone.

Era rimasto fuori come un ladro, spiava, aspettava e poi ad ogni porta aperta si ritirava. Aveva cercato tante volte di entrare ma ogni qual volta qualcuno entrava o usciva dalla locanda lui si ritirava, evitando di farsi persino vedere. La vedeva muoversi veloce, portando vassoi che erano più grandi di lei e sorridendo cordialmente ai clienti e, doveva ammetterlo, per ogni sorriso cordiale era geloso, a maggior ragione perché poteva solamente immaginare i commenti che potevano fare su di lei, la SUA fidanzata e questo lo faceva ribollire. Alla fine aveva deciso di mettersi in piedi, sotto un lampione, a braccia conserte ad aspettare che uscisse. Nulla, nemmeno il freddo pungente, la noia, le ore che passavano o gli sguardi perplessi dei passanti.

“Bene ragazzi, ci vediamo domani “. Richard drizzò le orecchie come un cane che con pazienza aspetta il padrone. L’aveva sentita dire quella frase mentre si trovava sulla porta e poi la vide uscire. Il suo muoversi sotto la luce fioca del lampione la misero per un attimo in allarme ma quando lo riconobbe indietreggiò di qualche passo e leggermente una parte dell’angolo della sua bocca si alzò, come fosse infastidito.

Il silenzio, la pausa e la sorpresa erano durati poco, Eva aveva elaborato velocemente quella presenza, si era stretta di più nel suo cappotto e abbassando la testa aveva puntato avanti. L’aveva cacciata in malo modo pochi giorni prima, trattata come se si fosse macchiata del peggiore dei reati, umiliata e lasciata fuori quella caso senza alcuna preoccupazione alcuna.

La vedeva camminare veloce allontanandosi sempre più velocemente.
“Eva aspetta, non andare via, non andare sola è pericoloso. Aspetta che ti accompagni, almeno potremmo parlare”.
Lì sentì i denti dentro la bocca digrignare e lo stomaco attorcigliarsi dentro per il fastidio e l’ipocrisia di quella parole. Tentò, tentò di ignorarlo, di non rispondergli rimanendo a testa bassa ma tutta quella falsità non riusciva a mandarla giù.
“è pericoloso? So benissimo che potrebbe essere pericoloso ma non mi sembra che nell’ultimo mese tu ti sia preoccupata per questi pericoli, non mi sembra che l’altra sera dopo che mi hai chiuso la porta in faccia, dopo avermi vista disperata e chissà forse pronta a qualsiasi gesto (menzogna), tu ti sia preoccupato”. Si era girata verso l’uomo come fosse stato un orso appena uscito dal letargo, era così minacciosa che Richard aveva fatto qualche passo indietro. Ma non gli aveva nemmeno dato il tempo di elaborare una frase di senso compiuta che sempre a testa bassa la ragazza aveva ripreso a camminare.
“Ah fa male, fa male sentirsi trattati così, fa male sentirsi dire quelle parole? Bene, almeno capirai cosa ho provato io”.
“Non tentare di rigirare la storia, io ho sbagliato ma l’ho fatto per tutelare la nostra storia, tu hai avuto il tatto di un carrarmato con me per il semplice gusto di ripagarmi con la mia stessa moneta ma ti dirò una differenza, la tua cattiveria è stata intenzionale”.
Aveva detto quelle parole come un treno in corsa, a perdifiato e ora respirava velocemente per riprenderlo.
Si guardavano, l’uno difronte all’altro a qualche passo di distanza.
“Si, è stato intenzionale, volevo farti provare ciò che provavo io”.
“Perché l’espressione che mi hai visto sul viso tre giorni fa era di pura gioia, è questo che hai capito?”.
Richard si guardò la punta delle scarpe capendo quanto fosse stato immaturo quel suo atteggiamento ma doveva farle capire ciò che anche lei gli aveva fatto.
Assunse un’espressione seria, non più colpevole da cane bastonato, le sue spalle erano dritte e la sua posizione eretta, quella calma sorprese Eva.
“Entrambi abbiamo le nostre colpe, tu mi hai mentito dicendomi che la tua famiglia sapeva del nostro fidanzamento e della nostra convivenza- serrò forte il pugno cercando di mitigare il fastidio dato da quel pensiero- e io ho sbagliato nel cacciarti senza nemmeno sentire e cercare di capire il perché di quel comportamento. Io dovrei capire te, hai ragione ma tu hai capito me?”.
La domanda lasciò spiazzata Eva che, nonostante le mille domande e idee di quella non si era molto curata. Abbassò gli occhi, non sentendosi più tanto sicura come un attimo prima.
“Tutto ciò che dicevi per me era oro colato, verità pura che non avrei mai messo in discussione. Ti ho difeso dai dubbi dei miei genitori, perché anche loro ne avevano- sentire questo ad Eva fece male, sentirsi dire quella grande verità, ossia come si sarebbe dovuta comportare, le fece male- mi sono gettato in questa storia anima e corpo, non pensando a nulla che non fosse il tuo bene principalmente. Me ne sono fregato dell’età, del fatto che forse era troppo presto per presentarti alla mia famiglia o, ancor più presto, una convivenza, eppure da quando ti ho conosciuta non riesco a fare più le cose come gli altri si aspettano che vengano fatte, penso a te ed è fatto bene. Perciò, ci pensi che tradimento è stato per me sapere che tu non riponevi quella stessa fiducia che io avevo in te? Che dolore è stato pensare che con tutte queste menzogne la storia difficilmente sarebbe potuta andare avanti?”
Eva si sentì punta sul vivo, quell’ultima frase, specialmente, le aveva fatto abbassare gli occhi un pò imbronciata.
Richard attese, attese qualcosa che nemmeno lui sapeva cosa fosse ma preferiva attendere qualche attimo. Senza rendersene conto nel parlare i loro corpi si erano avvicinati ma non abbastanza, l’uomo fece un solo passo avanti, un unico, quel tanto che bastava affinché lei potesse prendere la sua mano tesa.
Prese fiato, stava per dirle la cosa più importante e decisiva per la loro storia, cercando di mettere a tacere, anche se non era affatto semplice, quel piccolo senso di sospetto che, nonostante tutto ciò che provava, lo martellava.
“Dimentica le tue paure, dimentica tua madre e tuo padre, dimentica la tua vita in Italia e vieni via con me”.
Alle orecchie colpevoli di Eva quella splendida frase suonava come un rimprovero, come se volesse dirle: “So che c’è altro che mi nascondi ma per adesso non voglio pensarci, voglio fare finta di nulla”.
Eva guardava quella mano tesa, pensando a quel secondo atto del suo soggiorno londinese che stava tenendo nascosto, chiedendosi se avesse dovuto afferrare o meno quella mano.

 

ANGOLETTO DELLO SCRITTORE
Salve miei cari, lo so, lo so, sono in ritardissimo, chiedo perdono ma ho avuto veramente molte cose da fare:
-Salvare l’universo
-Combattere la Morte Nera al fianco di Ian Solo
-Usare i miei super poteri alla scuola per giovani dotati di Xavier
-Cavalcare insieme a Frodo e io resto della compagnia dell’Anello
-Comprare un bastone per non vedenti ad Arya Stark
-Vincere la Coppa del Mondo al torneo Tre Maghi
Ehh come vedete sono stata molto impegnata ahahahah. Parlando seriamente, la nostra storia si sta evolvendo, i nostri protagonisti sono esseri umani ed ovviamente sono mossi anche loro da gioia, dolore, delusione ecc..quindi avranno quei pro e quei contro che in ogni coppia che attraversa una forte lite potremmo incontrare, non pensiamoli privi di difetti e pieni di virtù. Si amano, questo ve lo posso giurare ma quando veniamo traditi dalle persone a noi più care tendiamo ad essere sempre un po più cattivucci di quanto saremmo con altri. Eva nasconde qualcosa e Richard, vuoi che ora è più in allarme o perché inconsciamente ha percepito qualcosa, cambierà un po’ il suo solito atteggiamento.
Ringrazio infinitamente chi ha letto e chi è passato a lasciare un commento, spero continui perché lo adoro 
Ringrazio di cuore FollediScrittura, ergo la mia gemini perché con pazienza ascolta tutte le mie idee e con ancora più pazienza le asseconda, thank’s baby (immaginatela detta alla Fassbender…addio mondo ahaahahahha)
Al prossimo capitolo,
baci.

   
 
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