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Autore: TheEldestCosmonaut    04/08/2015    2 recensioni
Una rielaborazione del mondo fantastico ideato da Leandro Consumi e Gianfranco Enrietto, e sviluppato da Giochi Preziosi ©.
In una un tempo sperduta e sconosciuta isola del Grande Golfo, situata alle porte dell’inesplorato Mare dei Serpenti, un anziano maestro nato e cresciuto qui, dal passato oscuro e dall’identità misteriosa, noto a tutti, fuorché la moglie, come semplicemente il Cronista, riunisce ogni mattina i giovani del suo Popolo di appartenenza, il Popolo della Foresta. Il Cronista insegna ai cuccioli della sua etnia la storia lunga della razza che domina l’Isola di Gorm: in particolare, è arrivato il momento per il Cronista di narrare le vicende degli ultimi cinquant’anni circa dei gormiti, i più intensi e sanguinari, quelli che maggiormente hanno sconvolto le usanze, la filosofia, la scienza, e in generale la realtà intera dell’isola, e che hanno aperto i suoi abitanti alle altre razze del Grande Golfo.
Mappe:
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Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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La grande capanna improvvisata, di paglia e canne, era affollata di gormiti verdi, bruni, e gialli, di corteccia e di carne insieme.
Non fosse per lo spazio che aveva i suoi limiti e l’impossibilità di controllarne un numero maggiore, ne sarebbero giunti numerosi altri.
Le azioni che stavano per svolgersi in quella capanna avrebbero presto richiesto che ogni gormita si distanziasse di una certa misura dagli altri, onde evitare danni involuti.
A ciò si aggiungeva il fatto che quei gormiti non erano gormiti qualunque: erano soldati, ricognitori, cavalieri, sentinelle, accaniti difensori della Foresta Silente e di Gorm. Nessuno si recava lì senza una buona dose di effetti personali, corazze, armamenti, pietre preziose. Non un guerriero degno di questo nome, in tempi di burrasca come quelli, osava vagare per casa sua senza almeno un’arma, e bisognava riconoscere che erano soldati tutti d’un pezzo, abili ed educati. Tuttavia, lì armi e armature non erano previste, erano inutili.
E dunque, tutto il metallo tagliente e più spesso di mezzo pollice veniva accatastato quanto più ordinatamente possibile in un’anticamera più improvvisata della capanna stessa, e lo spazio scarseggiava.
Non vi erano finestre in quella capanna, ogni cosa era illuminata da decine di pietre di luce, né porte adatte a simile nomenclatura.
In effetti, la capanna non era illuminata dalla luce del sole. Non perché fosse notte, e non è nemmeno un’esagerazione artistica dovuta, ad esempio, a una copertura naturale di grossi alberi o formazioni rocciose.
La capanna, delimitata da fili di paglia incollati e canne gialle legate tra loro, era stata scavata sotto terra ai limiti occidentali di Dalarlànd, vicino alla spiaggia, e l’unico collegamento con la superficie infiammata dalla vera luce e rinfrescata dalla brezza del vento e del mare era un piccolo pertugio ostruito da una botola di bastoni, mascherato, nel lato sulla superficie, come nient’altro che una zolla di terra erbosa. Un nascondiglio perfetto che, trovandosi in un luogo mai visitato dallo Stregone di Fuoco, non poteva essere scoperto da alcuna sfera veggente, sicuramente non dalla sua.
Oltre alle pietre di luce incastonate nel soffitto e tra una canna e l’altra, lo spazio si poteva dire quasi sgombro. Vi erano, di fronte alla masnada, disparati sgabelli a tre e quattro gambe, diversi vuoti, altri occupati da sacconi di tela scura, e a grossi chiodi fissati nei muri erano appesi altri sacchi e borse. Sul fondo – anche se si presupponeva la capanna continuasse per il lungo ancora per diversi piedi - una tendina acquamarina era stata distesa, appesa a pioli sul soffitto.
La botola fu infine chiusa: per quel giorno, in quella capanna, non sarebbero stati ammessi altri gormiti della Foresta.
Gli occhi di tutti i forestali erano fissi sul ka’nhili che era appena emerso dal suddetto mare sinuoso, sospeso. Ne avevano visti solo altri due di guardia all’entrata, e decine di operai venire ed andare dal loro accampamento nel cuore della Foresta Silente durante lo scavo, ma senza dubbio ve n’erano altri dall’altra parte della tenda.
Non aveva, coerente con l’esigenza dei due soldati a guardia della botola, armi o placche protettive con sé. Il suo corpo magro e dalle forme ben definite, del colore delle foglie secche, con macchie cremisi tondeggianti sul capo, era ricoperto per intero da una tuta attillata dorata, stretta alla vita da una cintura candida. Ricoperto per intero, ovviamente, con le solite eccezioni di testa, ali e mani.
I suoi quattro occhi d’ambra brillavano di una misteriosa luce nell’ombra della cava e sembravano squadrare uno per uno, con infinita attenzione, ognuno dei forestali presenti e, allo stesso tempo, erano fissi e immobili.
“Ben arrivati, sudditi di Grandalbero Signore della Foresta.” parlò solenne, con movimenti quasi impercettibili delle sue labbra e delle mandibole laterali. Statuario e freddo rimaneva, come bloccato in quella posizione eretta; le sue palpebre parevano non chiudersi mai.
“Se siete qui, sapete che cosa studierete e in cosa vi eserciterete, e a quale scopo: apprendere la via della luce ed adoperarla per sopraffare i vostri nemici, oscuri a questa arte.”
Prese a camminare lentamente, stringendo le mani dietro la schiena, sopra le ali, avanti e indietro, osservando i suoi alunni come un generale militare esamina le sue reclute prima di schierarle sul campo.
“Non perderò tempo: abbiamo poco tempo a disposizione. Il mio nome è Pri’sum, e sono il coordinatore di questa squadra. I vostri nomi verranno segnati al termine di questa lezione, e vi ripresenterete qui a cadenza tridecimanale, nei giorni di pracondie, asildie e fendrie, stesse ore di oggi. Grandalbero e i vostri superiori sono già stati informati di questo schema.”
“Incominciamo subito. Di norma, prima di passare all’esercizio vero e proprio, si è soliti studiare le origini dell’arte della via della luce. La situazione non ce lo concede.”
“Prestate bene attenzione a queste parole, poiché non le ripeterò. Vi è una forza che permea tutto ciò che esiste, tutto ciò che possiamo vedere e anche ciò che ai nostri occhi sfugge. E’ presente così come nei boschi, nei fiumi, così nel cielo, nelle stelle, nel sole Nejema. E’ una forza ordinatrice, ma anche distruttrice, che mantiene il carro del sole nel suo tragitto ma che è anche origine dei terremoti, delle eruzioni, delle tempeste.”
“Agli esseri superiori, coloro che per intelletto e abilità si distinguono dagli animali schiavi della fame e del sonno, è data la possibilità di piegare questa forza alle loro necessità. Essa si chiama forza magica. Con essa, possiamo strappare gli oggetti dall’attrazione che li fa cadere, e insieme distruggere i legami che tengono le loro parti più piccole unite tra loro.”
E, di fronte ai gormiti rigidi, muti e attenti, diede dimostrazione di questa capacità dell’essere superiore. Uno degli sgabelli fu sollevato da terra, senza che Pri’sum lo toccasse, e addirittura senza guardarlo, semplicemente sollevando uno tra le dita in direzione della sedia. Muovendo il dito, lo sgabello, a cinque piedi da terra, fu portato dal ka’nhili davanti al ka’nhili e, infine, con intricati movimenti di tre delle sette dita, le quattro gambe dello sgabello furono strappate dal sedile in pochi secondi. Le fece poi cadere rumorosamente.
“Ma nessuna mente nasce con la capacità di piegare questa forza: essa dev’essere stimolata. Se tra di voi vi è qualche stregone di livello intermedio, potrà capire se paragono questa stimolazione all’ingerimento di macinato di pipalia per sbloccare i poteri della mente o alla bevuta del succo di linfa viola per divenire capaci di trasmettere e prendere energia dai corpi e dalle pietre.”
“Per stimolare questa capacità, è necessario, una volta nella vita, raramente due, respirare il trito di erba incantata, seguendo una precisa ricetta.”
***
La cavalcatura il cui compito era potenziare le fila dell’esercito terricolo faceva nome di bisonte roccioso, e viveva nella Valle dei Canyon, il grande labirinto rossiccio ai confini nord - orientali dei domini di Thorg.
Più precisamente, faceva nome di Roscalion, ‘guardiano della Caverna di Roscamar’. Ma quello era solo un individuo della possente razza di bufali che aveva nei canyon la sua dimora.
C’era la convinzione che con quel Roscalion si avrebbe faticato ben poco per portarlo a lottare insieme ai Popoli alleati. Difficoltoso era sicuramente trovarlo, riconoscerlo.
Tuttavia, come ben aveva detto il Sommo, Roscalion da solo non era capace di fare dell’esercito della Terra un’inarrestabile macchina da guerra. Altri bisonti rocciosi dovevano essere persuasi a farsi cavalcare e caricare in battaglia.
La facilità prevista cominciò ben presto a sfocare, quando sorsero alcuni terribili interrogativi: era Roscalion ancora vivo? Aveva memoria di essere stato salvato dai terricoli? Bastava quella a convincerlo? E se si fosse dovuti passare alla costrizione?
La violenza contro gli animali era l’ultima cosa che la gente del deserto voleva attuare. Vi era un legame strettissimo tra loro e la terra, tra i suoi frutti e ogni suo abitante, un legame che avrebbe condotto a grandi ricchezze solo quando le necessità di ciascuna parte venivano rispettate.
Si tratti male un cane, ringhierà e morderà quando gli ci si avvicina; si carichi di troppo peso una salamandra, non vorrà più essere cavalcata; si maltratti e non si curi un orto o un albero di bacche, non offrirà più i suoi frutti.
Volevano credere, i terricoli, che con le buone maniere i bisonti potessero essere portati dalla loro parte e che la memoria di Roscalion fosse buona abbastanza, e che non fosse morto ovviamente. Quindi, dovevano mandare, almeno per cercare Roscalion, qualcuno che egli potesse riconoscere.
Kolossus, seppur non esiliato né chiuso in prigione, non era in condizione di poter essere inviato alla ricerca della bestia.
Il paesaggio che si stagliava di fronte a Mangiaterra e a Evera ‘Opale Nero’, sua compagna in quel viaggio, e alle loro salamandre, era dunque questo: un pericoloso groviglio di giganti rossi che si stagliavano per piedi e piedi sopra le loro teste, nello sconfinato blu del cielo privo di macchie bianche, su un suolo di sabbia rossa non avvezza alla vista di una grandiosa vegetazione; a tratti più che rari, l’instancabile opera della natura, del vento e dell’erosione aveva divorato la terra e la polvere di roccia, e scavato bui crepacci non meno profondi di quanto le rosse fiancate erano alte.
Dopo una lunga marcia avviata prima dell’alba e conclusa nella tarda mattinata nel Deserto di Roscamar, le due salamandre, una verde l’altra grigia, procedevano a passo più lento, rilassate dall’essere giunte alla loro destinazione, anche se del loro obiettivo non c’era traccia.
Ierir e Evera avevano con sé un buon carico di provviste, che portavano legate alla vita o in sacchi sulle spalle, o strette ai fianchi delle salamandre. Il viaggio in sé non era lunghissimo, ma richiedeva una certa dose di scorte d’acqua difficili da reperire nel deserto. Nondimeno le scorte di cibo dovevano essere cospicue, poiché la cattura dei bisonti avrebbe potuto dilungarsi parecchio. Oltretutto, si era pensato di usare cibo e altri sotterfugi per attirare i bisonti rocciosi, che si portavano sul dorso in gran quantità.
Evera scostò il cappuccio della sua veste bluastra, che le era servito per difendersi dal clima sfavorevole del deserto, mostrando le sue cornina e il suo lucido e levigato capo nero che rifletteva tutta la luce che riusciva a catturare. Nonostante il sole fosse ormai alto nel cielo, tra un canyon e l’altro il calore si faceva sentire di meno che nell’aperta distesa sabbiosa.
Mangiaterra rimaneva imbacuccato nella sua tunica verde oliva, con i curiosi e piccoli occhietti che guizzavano da lato a lato dall’apertura del cappuccio.
Opale Nero non era un soldato. Era ancora troppo giovane. In caso contrario, ella non avrebbe potuto accompagnare Ierir, impegnatissima a seguire le lezioni dei ka’nhili.
Lei, tuttavia, aveva già un’ampia esperienza in campo, sebbene non fosse in grado di manifestare la forza magica sotto forma di luce. La sua nomea di strega della Terra le sarebbe comunque valsa un’importante posizione nel conflitto che sarebbe scoppiato di lì a poco.
Il caldo umido della Valle era troppo per lei. Si tolse con uno scatto della mano l’intera veste e, con rapidi movimenti delle dita, la piegò e la ridusse a un quadrato di tessuto, che infilò nella sua cintura. Dopodiché, dalla stessa cintura estrasse la sua borraccia, la stappò e trasse un lungo sorso d’acqua. Si dissetò con un forte respiro, e si sistemò i guanti bianchi arzigogolati, gli stessi senza dita e con il foro nei palmi, prima di riporre la borraccia al suo posto.
Mangiaterra continuava a guardarsi intorno incuriosito e vivace, chiuso nella sua tuta, mormorando qualcosa di incomprensibile, che giungeva storpiato alle orecchie di Evera a causa del panno che copriva la larga bocca del minatore. Procedeva a rilento, ed era piuttosto indietro rispetto a Opale Nero, forse perché era più pesante o la sua salamandra più vecchia.
“Bene. - concluse (concluse?) Mangiaterra, come se stesse parlando da un’eternità - Siamo qui! Non sei contenta? Non sono mai stato nei canyon prima d’ora!” espresse con aria sognante, immaginando chissà che avventure in quel luogo.
Dopo la breve peripezia con lo spodestato Kolossus, Mangiaterra era ritornato a lavorare nelle miniere e nei cunicoli della Città Sotterranea con la stessa operosità e lo stesso lunatismo di prima.
Tutti tra i suoi colleghi gli chiedevano della sua avventura con il gigante cieco, ma lui non prestava grande attenzione a queste domande, a cui rispondeva con poche parole e dati spesso contrastanti.
Di una cosa non smetteva mai di parlare: del suo ritorno nella Città non con il carico di gemme del vigore, ma in groppa a Roscalion, il fosco bisonte roccioso persosi negli oscuri tunnel da lui salvato. Per lui, l’aver trovato e riportato tra i suoi simili quel povero animale era l’episodio più importante ed eroico della sua vita. Delle gemme di Muscor, o dell’intricata storia dello stesso fantasma, non gli importava granché.
Evera aveva avuto una vita piuttosto serena, come Ierir. Non perché lo volesse lei, al contrario di Mangiaterra. Vivere un pericolo, correre grossi rischi per la salvezza della patria insieme al proprio Signore era la sua massima ambizione, ma fin dal termine del Torneo dell’Eclissi era sempre stata impegnata ad aiutare con la magia nella ricostruzione ed insegnarla ai pochi che, sollecitati dal governo di Kolossus, ella riusciva a convincere a divenire suoi apprendisti.
Il tradimento del Popolo dell’Aria e la conseguente impossibilità di raggiungere Picco Aquila fu per lei un grosso colpo: non poteva più frequentare i suoi vecchi maestri –pochissimi suoi conoscenti avevano seguito Noctis -  né le ricche biblioteche e scuole di magia di Orsol o i colti eremiti della montagna.
Nonostante l’interesse per la magia dei terricoli ebbe un picco dopo che Gravitus prese il posto di Kolossus, Evera manteneva una certa posizione di rilievo e di rispetto.
I due procedevano sui loro destrieri nel silenzio del rosso deserto, disturbato solamente dal fischio dell’aria nelle fessure tra le rocce. Pareva non esserci davvero gormita vivo, né tantomeno animali.
Pochissimi gormiti solitari abitavano nella Valle dei Canyon, lontano da Garsomor, che infatti era molto distante dal luogo in cui erano arrivati Mangiaterra e Opale Nero.
Non vi erano tunnel sotterranei che connettevano quella zona meridionale della Valle con Roscamar e la Città Sotterranea. L’unica grande galleria con la sua unica apertura procedeva spedita per Garsomor. I contati gormiti che abitavano lì erano dei veri e propri eremiti, che avevano scelto una vita appartata e che non sempre erano al corrente di ciò che decideva il loro Signore, o chi fosse questi. Circolavano le voci più assurde su dove simili eremiti collocassero le proprie case.
L’atmosfera di silenzio tombale cominciava a farsi quasi lugubre, sebbene fosse pieno giorno e afoso. Pochi erano i grossi uccellacci che sorvolavano in cerchi il cielo sopra i canyon, belve odiose che si cibavano di carogne. Nessuno di quelli si posava sopra di una roccia o di uno degli alberi bassi, e forse era un bene. Ma ciò aumentava solamente la sensazione di disagio.
Noia e tensione incombevano su Opale Nero, mentre Mangiaterra, proprio come nel labirinto insieme a Kolossus, sembrava divertirsi in quella non confortevole situazione.
“Mangiaterra.” disse Evera, volendo porre fine a quel nervoso silenzio. Pensò un attimo a cosa dire, ma nessuna parola le fuoriuscì di bocca.
Invece un crepitio come di roccia che si sfrega ruppe il silenzio alla loro destra.
Il primo timore di Evera fu quello di un masso rotolante che sarebbe potuto venir loro addosso. Puntuale, fece fare uno scatto alla propria salamandra, che si trovò con lo sguardo fisso dove prima la sua coda puntava il suolo. Ierir, che si trovava indietro, si limitò a fermarsi.
Su di una fiancata, quella che sembrava una pietra rossa come tutte le altre rivelò una fessura verticale nel mezzo che la divideva in due. Si aprì: una porta! Una porta molto strana: non era perpendicolare al suolo né parallela al muro, ma obliqua.
Ne uscì un gormita, della Terra: lunghe braccia giallastre con mani inspessito di un grigio spento munite di quattro paia di artigli, una testa sottile dal lungo naso e lunghe orecchie, un’armatura di un grigio più scuro decorata a righe. I suoi occhi erano piccoli e neri, ed era piuttosto basso.
Appena uscito da quella sua tana si parò la faccia con le larghe, larghissime mani, quasi dovesse abituarsi alla luce del pieno giorno, troppo forte per lui che passava molto del suo tempo nella sua profonda e buia tana.
Abituatosi, uscì completamente dalla porta a braccia penzoloni. Il suo andamento curvo e gobbo non sembrava naturale, e i suoi artigli non avevano riflessi e parevano smussati e poco affilati.
Doveva essere abbastanza vecchio a giudicare da questi attributi.
“Compopolano!” lo chiamò a gran voce Evera che, pensando di chiedere indicazioni a lui, scese tosta dalla salamandra e, guidandola con la briglia, si pose davanti al gormita. Mangiaterra, poco lontano, li raggiunse presto ma senza scendere.
Questi parve alquanto sorpreso della presenza dei due sconosciuti, e diede il via a uno strano lavoro di naso, che sorprese non meno i due terricoli, anche se Mangiaterra ne era più divertito che stupito.
“Salve, noi…” cominciò Evera, ma il gormita innominato: “Chi siete?”
Opale Nero rispose prontamente: “Siamo Evera Dimetri e Ierir Alagari…”
“Evera? - riflettè lo sconosciuto, grattandosi il mento con gli artigli un tempo lame temute - Evera Opale Nero, la strega?”
“Proprio io.” rispose la maga.
“Sì, sì…si è sentito parlare di te.” continuava a riflettere l’altro facendo di sì col capo. Cosa piuttosto buffa. Non si riteneva così famosa da essere nota anche a quel vecchio isolato, che non pareva aver messo piede a Roscamar da parecchio tempo.
“Bene. Vogliamo sapere se - ” fu di nuovo interrotta.
“Venite dalla città, nevvero? - chiese, conoscendo tuttavia la risposta - Lo sento dal vostro odore.”
Questa affermazione stuzzicò l’interesse di Mangiaterra.
“Sì, veniamo dalla Città Sotterranea.” rispose Opale Nero.
“Ebbene, che posso fare per voi?”
“Vogliamo…” interrotta di nuovo.
“Non vengono molti dalla città qui. Anche se di recente ne ho visti diversi…si dice che vogliano costruire un tempio…non mi sembra una buona idea; dicevi?” 
“Vorremmo sapere se di recente hai visto una mandria di bisonti rocciosi passare qua vicino, e se sì sapere dove si è diretta.”
Il gormita rimase silenzioso per qualche attimo.
“Visto che siete del mio Popolo e che non ho niente da perdere ve lo dirò. - fu la risposta - Anche se sono lontano dal capire le vostre intenzioni. Se vi volete far ammazzare basta aspettare che un masso vi cada in testa.”
I due tralasciarono quest’ultima affermazione – che aumentò tuttavia la simpatia di Mangiaterra verso di lui - e divennero tutt’orecchi. Evera fu più confusa del suo compagno. Sapeva chi era lei, della sua abilità, ma non sapeva della caccia ai bisonti per la guerra?
“A vivere qui per anni si impara a capire come e dove si spostano le mandrie, e quando.” spiegò
Allargò il braccio puntando a destra. “Oltrepassate il canyon là in fondo e girate a sinistra. Ve li troverete davanti più o meno tra…meno di un’ora.”
“Grazie, compopolano.” disse Evera, annuendo e mettendosi subito in marcia, senza tornare in sella. “Andiamo, Mangiaterra.”
Ma Mangiaterra aveva tutt’altre intenzioni che partire, se non dopo aver posto la seguente domanda al loro anonimo aiutante:
“Chi sei tu?” che chiese con la sua solita espressione sognante, aspettandosi che quel gormita fosse un epico personaggio dei miti.
“Mangiaterra, muoviamoci!” ripetè Opale Nero, che si fermò tuttavia per ascoltare la risposta dell’aiutante.
Questo parve compiaciuto della domanda.
“Sono un vecchio gormita della Terra. - se avesse finito così li avrebbe lasciati interdetti - Un vecchio amico di Gheos, vecchio scavatore…Sono vecchio. Ho scavato, da solo o con aiuti, molti dei cunicoli che si dipartono dalla Città Sotterranea per tutta Gorm. Grazie a me è stato evitato un attacco sorpresa dei vulcanici durante la Grande Guerra. Mi chiamo Talps.”
Mangiaterra espresse un ‘oooh!’ di meraviglia mentre Opale Nero ne fu quasi sconvolta.
“Talps?” disse incerta, camminando barcollante verso di esso. “Talps? Sei…siete proprio voi?”
Talps annuì.
“Oh! - si piegò nell’inchino d’onore - Scusatemi, se…se vi ho mancato di rispetto…”
“Non farti, anzi, non fatevi troppi problemi. - rise Talps dandole pacche sulla spalla - Non ho certo scavato quei tunnel per essere osannato. Era la guerra, e…in un modo o nell’altro, i tunnel si ricorderanno di me, e con essi chiunque vi passerà.”
Opale Nero abbassò la testa. “Non merito il voi.”
“Oh, sono sicuro che farete parlare di voi quanto e più di me! - le diede altre pacche - Andate ora, qualunque sia la vostra missione.”
Così i due abbandonarono il vecchio Talps, procederono diritti per poi svoltare a destra, aspettando i bisonti davanti a loro.
Si appoggiarono alle rosse mura, nell’attesa delle bestie che non tardarono.
Uno scalpitio lontano di decine e decine di zoccoli, che reggevano un grande peso. Ben presto una rossiccia nube si alzò in lontananza, nella quale si scorgevano diverse imponenti ombre…
Le figure erano ormai ben visibili – e udibili - anche se ancora lontane nella loro stazza e potenza: grosse zampe giallastre dai grossi piedoni con grosse paia di zoccoli grigi che tamburellavano e scuotevano il suolo. Tozzi corpi muscolosi ricoperti di gialla e fine peluria, una coda spessa e  mediamente lunga munita di una pesante arma ossea all’estremità. Una dura e marrone corazza ossea sulla parte anteriore del dorso e sulla testa armata di due più o meno lunghi corni smussati.
Opale Nero provò timore di quella massa impetuosa e fu travolto con ferite minori diverse volte, mentre Mangiaterra schivava ogni bisonte con piccoli e agili movimenti e procedeva come guidato da qualche mistica visione o spirito. Opale Nero dovette ricorrere a uno scudo magico per poter camminare e assicurarsi della coscienza delle azioni di Mangiaterra. Questi lo trovò intento a ‘parlare’ con un bisonte roccioso che si era fermato e aveva lasciato la sua mandria.
Parlava e lo accarezzava, con gesti e versi dolci, che Opale Nero si sarebbe sconvolto se Roscalion avesse declinato la loro richiesta di aiuto. Ad un certo punto Roscalion emise un forte e prolungato grugnito e Mangiaterra gli balzò addosso. Si mise dunque in movimento e galoppò incontro a Opale Nero che ebbe un attimo di confusione nel vedere la bestia trottare contro di lui, ma il braccio di Mangiaterra che lo sollevò su Roscalion gli fece rendere conto del successo della missione.
Roscalion, guidato dalle parole –come i due si capivano, chissà - di Mangiaterra, procedeva il cammino che aveva portato i due terricoli sul luogo e che li avrebbe ricondotti a Roscamar. Con grande sorpresa di Evera, altri due bisonti rocciosi, di stazza più piccole, si separavano dalla mandria e seguivano i due terricoli in groppa a Roscalion.
Ma da dietro a un oscuro angolo si celava una orrida creatura dai cremisi riflessi, guidata da un’altra creatura ancora più orrida per essere riuscita a rendersi amico un tale mostro.
Si avventò su Roscalion con tutta la furia delle sue lunghe e appuntite zampe, disarcionando Mangiaterra e Opale Nero. Il bisonte roccioso, affiancato dai compari giovani, scosse di dosso la rossa creatura con un colpo di corni, pronto ad una lotta.
Per capire cosa fosse questa nuova mostruosa bestia e la sua guida è necessario fare un piccolo, molto piccolo balzo indietro…ma non subito.
***
“Continua così, così.” incitava freddo Pri’sum, osservando a braccia distese lungo i fianchi, una gamba piegata, il gormita della Foresta che, palmo aperto e braccio proteso, sollevava da terra il cubo di pietra grigia.
“Reprimi le tue emozioni. Controlla i tuoi istinti. Dai forza alla tua volontà.”
A tutti i forestali nel campo celato era stato somministrato il trito di erba incantata, preparato con l’uso di tutte e quattro le braccia da due ka’nhili emersi da dietro la tenda – e a dire il vero, non si aspettavano che facesse davvero effetto: non lo avevano mai provato su forme di vita vegetali, almeno non loro, che forse non erano soliti meditare insieme ai diversi rifugiati su Karmil.
I gormiti impegnati, di qualsiasi tipo fossero, sembravano faticare leggermente. C’era chi sudava, chi doveva prendersi delle pause –e dei severi ammonimenti da Pri’sum - , chi digrignava più o meno rumorosamente, ma nessuno che non riuscisse a tenere sollevato il blocchetto roccioso. Poteva reputarsi un successo.
“Tieni quella mano bene aperta. La chela, spalancala più che puoi. Ben disteso il braccio, o non serve a niente.” diceva rigido Pri’sum, passando tra i diversi iniziati che si allenavano, e mettendo le proprie mani e le proprie braccia per correggere gli eventuali errori, le ombreggiature scarlatte sul volto che rilucevano come macchie di sangue alla luce delle pietre magiche.
Si posizionò con sguardo truce davanti a un gormita, che pareva non aver voglia di fare il suo lavoro.
“Spiegami cosa pensi di star facendo.” lo rimproverò, guardandolo con i suoi occhi di fuoco.
“Avrei una domanda.” esclamò lui disinvolto.
“Anch’io ho molte domande, e pare che qualcuno non voglia rispondermi.” replicò Pri’sum autoritario.
“Avete parlato di macinato di pipalia per i poteri della mente. Io non l’ho mai mangiato, ma posso parlare e leggere la mente comunque. E come spiegate quello che accade con i marini?” proseguì lui senza paura.
La questione sembrò interessare il karmiliano, abbastanza da ignorare per un istante il fatto che quel gormita se ne stesse in panciolle.
“Errore mio. Ho considerato solo esperienze con ka’nhili, elfi e altre genti.” si scusò, ma per nulla imbarazzato
“Tuttavia, è una domanda consona ad un tuo simile, non a me. Per quanto sappia, la natura è stata generosa con la vostra razza. Vi ha fornito armi naturali in quantità, abilità innate prodigiose, poteri senza eguali. Tra questi, pare esserci una predisposizione naturale alla comunicazione mentale.”
“Hm. Grazie!” esclamò sorridente dopo aver meditato un attimo. Si alzò da terra e procedette anche lui, come gli altri, al suo addestramento, ancora agli inizi.
***
Il lungo corso del fiume Cornolmo procedeva a zig-zag per l’estremità sud - occidentale di Dalarlànd, arricchendo il suolo di acqua e minerali preziosi per la fiorente vegetazione, fonte del nome dell’isola, fornendo rinfresco per i gormiti e gli animali assetati di quella parte dell’isola, garantendo abitazione a innumerevoli pesci e altre piccole bestiole che si difendevano dalle intemperie e dai pericoli costruendo le proprie case mobili in conchiglie multiformi e variopinte.
Era un fiume di modeste dimensioni, comparato a molti altri, ma, come tutti, tranne i piccoli emissari del grande Lago Gemair in prossimità del Bazaar, erano originati dalle inestinguibili sorgenti ghiacciate di Picco Aquila.
Al contrario della vetta innevata, però, Cornolmo, e gli altri fiumi come lui, non avevano nulla che facesse pensare al freddo, alla neve, al gelo e alle poco sopportabili condizioni della casa dell’Aria.
Cornolmo tuttavia non era celebre per la sua lunghezza, per il suo percorso, per la ricchezza delle sue acque. Un tempo, agli anni della Grande Guerra di Gorm, lungo le sue rive si ergeva la magnifica, ricchissima, unica e inimitabile Biblioteca Silente. La più grande enciclopedia di ogni branca della cultura che esisteva sul suolo di Gorm.
E lì, ancora si ergeva. Quello che ne rimaneva: una confusa catasta di travi e pareti di legno nero e corroso dalle fiamme di un antico odio, acceso dall’iniquità dello Stregone di Fuoco e spento solo con l’intervento del Vecchio Saggio. Ma quest’ultima parte ai gormiti non era nota.
L’incendio provocato dal Popolo del Mare di Poivrons era stato perdonato, ma non si poteva dimenticare quanta cultura era andata inevitabilmente persa, nonostante numerosi volumi, più di quanti si potesse sperare, fossero stati salvati.
C’era chi poi vedeva l’incendio come una vendetta per la presa del Museo della Ricerca Storica, e si rasserenava nella convinzione che tutto fosse in armonia e, a quasi sette anni dall’episodio, definitivamente a posto.
Una nuova Biblioteca Silente, più grandiosa e più solida della precedente, era stata costruita in altra locazione, anche con l’aiuto dei marini; ma mai sarebbe stata la stessa della vera Biblioteca Silente.
Ed era vicino a questa che, sul finire del Tealse del 859, due gormiti della Foresta procedevano guardinghi, sondando con attenzione le sponde del fiume e il limitare del bosco immediatamente vicino.
“Perché camminiamo lungo il fiume?” chiese confuso uno dei due, il più corpulento.
“I cervi muschiati risiedono lungo il fiume.” rispose rapido l’altro, più smilzo e armato d’arco e frecce.
“Perché proprio Cornolmo?”
“E’ il fiume che ci è stato assegnato, Champius.”
“Chiamami Battiquercia. - lo corresse, senza mostrare però alcun fastidio - Perché proprio questo tratto?” continuò, pedante, a chiedere, non soddisfatto.
“E’ qui che è stato avvistato un cervo muschiato di recente.” rispose senza voltarsi l’altro, tradendo una leggera secchezza sotto il tono tranquillo e scattante.
“Hai idea di come trattarli dopo averli presi, Sporius?” domandò ulteriormente Battiquercia.
“Siamo qui per catturarli. L’addestramento spetta ad altri.” disse risoluto il cacciatore.
Champius era un gormita vegetale di una certa stazza, seppur non molto alto. Il suo corpo di un uniforme verde trifoglio era singolarmente triangolare, con increspature appuntite che diventavano via via più larghe fino ad arrivare alle spalle. Le ginocchia erano curiosamente sottili e lineari, e dalle ginocchia in giù spesse incrostazioni a forma di gemme rafforzavano le gambe con un verde smeraldo più cupo.
Menzione a parte meritano le sue nodose e massicce mani color del fango, cosa che hanno in comune solo con il volto. Grossi rastrelli bitorzoluti con quattro corposi denti, fuori proporzione se paragonati alle braccia o al resto del corpo.
Il volto era anch’esso dello stesso bruno, triangolare e appuntito, sebbene un po’ appiattito, come il torace e due voluminose pepite gialle gli facevano da occhi.
Non era un soldato né aveva particolari capacità combattive –se si escludono i macigni che aveva come mani - , era un semplice allevatore di bestiame, un lavoro molto raro presso i forestali più periti nel giardinaggio, nella cura delle piante, capaci di levare giardini fioriti o rigogliose colture in qualsiasi terreno e in breve tempo. Un individuo che in un modo o nell’altro ci sapeva fare con gli animali, e che Grandalbero aveva mandato alla ricerca e alla cattura dei cervi muschiati, forse tra le bestie più tipiche e più aggraziate di Dalarlànd.
Sporius, da quando abbatté il Grande Daicao del perfetto mimetismo sotto la guida del maggiore Dachiel, non era cambiato di molto. Aveva continuato a cacciare, a esplorare, nascondendo lo sguardo e le proprie emozioni sotto il suo ampio copricapo naturale, ammaliando chiunque riuscisse a scorgerlo tra i rami con la sua prodezza con l’arco. E anche lui, come Battiquercia, era un ottimo candidato per quella missione.
Per ore avevano proceduto seguendo un percorso irregolare, balzando diagonalmente dalla sponda del fiume a dove il bosco cominciava a infittirsi e divenire buio per la preponderanza di foglie affamate, senza trovare l’ombra della loro preda, né api o vespe solitarie, che spesso erano il segno di un cervo nelle vicinanze.
Champius Battiquercia ritenette fosse opportuno prendersi una pausa dopo tutto quel tempo trascorso a girovagare senza sosta e senza soddisfazioni.
Diede così voce ai propri pensieri: “Senti, cacciatore, io mi voglio prendere una pausa.” e tosto si sedette, incurante delle prossime obiezioni di Sporius, su di un masso scuro ricoperto di muschio.
“Non possiamo fermarci. - obiettò come prevedibile Sporius - Grandalbero si aspetta che ne prendiamo almeno uno, e non mi aspetto di trovarli stando seduto.”
Champius fu caparbio. “Non ti conosco, cacciatore, e tu non conosci me. - disse stringendo le dure sopracciglia - Non darmi ordini, e lasciami riposare un momento.”
“Non si tratta di conoscerci, Champius.” spiegò Sporius severo ma con tono pacato, chiamandolo di proposito con il vero nome, al che Battiquercia si accigliò.
“Siamo in missione per il nostro Signore. - affermò - Se non te la sentivi di andare, potevi non accettare.”
“Melis, quanto la fai pesante! - si alterò Battiquercia - Mi sono solo seduto un attimo. Ecco, guarda, ora mi alzo, contento?”
Sporius vide sì il suo compare alzarsi, ma non ne fu affatto contento. E quando anche Champius si accorse di ergersi insolitamente più alto sul terreno, si incupì anche lui.
La roccia su cui era posato un attimo prima si era essa stessa alzata, portando Battiquercia a tre piedi dal suolo, mentre un ronzio cominciava a fischiargli nelle orecchie.
Un attimo dopo, Battiquercia si ritrovò con il mento e tutto il resto per terra, imprecando ‘Uoh, Fendril!’.
Fu un lampo, uno scatto: in brevissimi istanti il cervo muschiato, perfettamente mimetizzato, si era levato dal suo nascondiglio, mal sopportando il peso di Battiquercia, e con ampi balzi, tanto fulminei che a malapena lo stesso Sporius riuscì a cogliere i movimenti, si gettò nel folto della selva retrostante.
Il cacciatore non si fece preda della sorpresa, e anche lui, benchè l’animale fosse già scomparso alla vista, si buttò nel bosco all’inseguimento.
“Non perdiamo tempo, Battiquercia!” lo incitava, correndo e aguzzando gli occhi alla ricerca di un movimento qualsiasi.
Ma Battiquercia aveva ben altro a cui pensare: correva in cerchio come un pazzo, agitando alla cieca i suoi enormi palmi che sferzavano l’aria generando paurosamente intensi fruscii.
“Ah, che cada il cielo e tutti i semidei! Levatemele di dosso!” strillava, invaso dallo sciame di vespe che il cervo muschiato ospitava su di sé. Che il corpo fosse fatto di carne od erba, le punture d’insetto fanno male a chiunque su Gorm, l’assicuro io.
Non gli davano tregua, e Sporius aveva smesso di curarsi di lui, scomparso tra le fronde.
“Che brucino nel Vulcano, dannate canaglie!” seguitava a inveire. Il volto e il collo erano già pieni di bozzi grossi come una nocca, e le sue mani erano sporche e unte dei resti di vespe travolte dalla mole di queste, ma gli insettacci gialli non cessavano di tormentarlo.
Con la vista un tantino offuscata, si diresse arrancando verso l’unica apparente via di salvezza da quell’inferno. Con un salto ridicolo per la sua stazza, si lanciò nelle acque per nulla impetuose del fiume Cornolmo.
Un potente spruzzo, e i suoni e le sensazioni di colpo si fecero confusi e indistinti attorno a lui. Tutti tranne il prurito del veleno delle vespe, che l’acqua fredda pareva non fare altro che rendere ancora più insopportabile.
Non era un grande nuotatore – chi lo era su Dalarlànd, tra tronchi parlanti e gormiti pennuti? - , e quindi per un certo periodo annaspò alla cieca sotto la superficie dell’acqua, cercando al contempo un appiglio per non essere trascinato troppo lontano dalla corrente, che era sì lenta, ma inarrestabile, e di non affiorare all’aperto troppo presto per ritrovarsi nuovamente con la faccia nel nugolo furioso.
Aprì gli occhi, quelle due lanterne dorate, e la cosa gli arrecò non poco fastidio. Fu capace di vedere alcune vespe morte nell’acqua, che avevano avuto il coraggio e la sprovvedutezza di inseguirlo fin lì. Osservò il fondale fangoso muoversi sotto di lui, pieno d’alghe e di tranquille chiocciole fluviali e altri molluschi, che procedevano flemmi per il loro cammino e non si curavano minimamente dei crucci dei grandi abitanti della terra.
Si aggrappò a una radice sporgente dalla parete del fiume, mentre volse lo sguardo sopra di lui. Lo sciamo lo vedeva e lo seguiva anche in quella situazione, ronzando in cerchio sovra il rifugio subacqueo di Battiquercia.
I gormiti vegetali possono resistere sott’acqua per tempi più lunghi degli animali, grazie al loro diverso modo di respirare, ma erano comunque limitati. Battiquercia non aveva le conoscenze magiche per prolungare il suo soggiorno sotto il fiume, né però aveva intenzione di riemergere prima che le vespe se ne fossero andate.
L’attesa fu lunga, e Battiquercia quasi si sentì scoppiare. Le vespe continuavano a osservarlo, predatori inflessibili che aspettavano che il loro bersaglio si rassegnasse o morisse nella sua tana. Con grande sollievo del forestale, infine il vago ammasso di puntini neri scomparve da sopra l’acqua, e Battiquercia repentinamente abbandonò la presa sulla radice, riaffiorando pesantemente e tra mille spruzzi come fosse un pallone, sputando l’acqua che aveva ingerito nella cavità orale.
Quell’esperienza, per quanto breve, sembrava averlo reso alquanto rabbioso e determinato a portare a termine la sua missione. Non tanto per responsabilità, quanto per vendicarsi delle vespe.
Fece delle scattanti bracciate, fatte però male, che lo facevano faticare come trasportasse un macigno e avanzare di poco nell’acqua. Raggiunse la riva e ritornò a camminare.
Si fece poi subito immobile e silenzioso. C’erano ancora vespe, di fronte a lui. Erano dirette verso la foresta, e parevano averlo fortunatamente dimenticato.
Battiquercia però non era dell’idea di verificare se lo davano davvero per morto o no, cosa che nella migliore delle ipotesi lo avrebbe riportato a pregare sott’acqua con lo sciame sopra di lui. E così, rimase fermo e muto come una statua. Cosa che trovò di una difficoltà indicibile, con le punture che ribollivano di pizzicore.
Studiò le vespe, che avevano cessato di spostarsi in folla, e ora volavano dentro il bosco quasi in fila. Battiquercia ebbe un’illuminazione.
Stanno tornando dal cervo muschiato! si disse, sgranando gli occhi e abbozzando un ghigno Se le seguo, mi porteranno da lui, e lo potrò catturare
La sua euforia si trasformò subito in dubbio Ma mi vedranno, e mi attaccheranno di nuovo. Come faccio? E dov’è quel dannato cacciatore?
Si ricordò all’improvviso di qualcosa. Qualcosa che gli era davvero accaduta molto di recente, ma di cui aveva usufruito talmente poco che era come se non la possedesse. Del resto, non la doveva possedere: non era un soldato lui. Ma suo cugino sì, e aveva optato per condividere con il proprio familiare il dente del daicao, contenente una minuscola goccia color del sole morente.
Non ci pensò più di una volta, e si concentrò, come gli era stato insegnato.
Lui era un modesto contadino, con una forza considerevole e un’amicizia per gli animali singolare, che sul grande piano contava davvero poco ma che, insieme a tante piccole altre cose, era ciò che manteneva saldo e fiorente il popolo di Grandalbero, che gli permetteva di mandarlo in guerra e di affidare ai suoi uomini incarichi anche pericolosi.
Lui, un semplice uomo di campagna –se di campagna si può parlare - , che di magia e forze della mente sapeva ben poco, che utilizzava i propri poteri solo per l’immediato e l’utile, trovò discretamente faticoso innescare il mimetismo perfetto.
Riuscì a rendersi invisibile agli occhi delle vespe, e di chiunque altro, ad ogni modo. E prese a seguire quanto più silenziosamente possibile le vespe disposte in fila, evitando di andare a sbattere contro qualcuna.
Le vespe procedevano a tratti lente, a tratti tanto veloci che Battiquercia dovette affrettare il passo per star loro dietro, e una volta imboccata la selva avanzare veloci implicava essere rumorosi, e mimetizzarsi aiutava ben poco.
Mentre pedinava il gruppo di insetti alati, si gongolava tra sé e sé per le sue idee geniali e per la sua grande fortuna, quasi dimenticando il pericolo delle vespe e del loro veleno.
Siamo in missione e non mi aspetto di trovarli stando seduto, ah! - canzonava Sporius - Voglio proprio sentire cos’avrai da dire, cacciatore! Se non mi avessi lasciato sedere, staremmo ancora camminando senza aver visto l’ombra d’un’ape o d’un corno di cervo! E seguire le vespe: che idea, che idea!
Dopo alcuni piedoni nella selva incontaminata, priva di qualsivoglia tipo di sentiero, naturale e gormitico, Battiquercia fu spronato a fermarsi, mentre le vespe ritornavano alla loro casa.
Zoccoli spessi e lucidi, quasi dorati; un manto sottile e setoso di un marrone tenue, tendente al grigio; ciuffi sparsi di un pelo che aveva colore e parvenza di vero e proprio muschio e anche licheni; gambe forti, solide, un po’ scarne come per ogni cervo ma giustamente muscolose; la coda corta e paffuta tipica della famiglia di animali; il muso curioso, con un naso sempre in movimento e attento ad ogni odore sospetto, che nulla aveva di diverso da quello di un comune cervo; corna oblique, levigate e lucenti, per nulla ramificate, che non ricordano altro presente in natura, se non quelle di un toro o bisonte. Bacca sul pasticcio dolce, un amalgama color della cera, nidi di vespe, sul collo e le spalle.
Tutto riunito in una possente ed elegante creatura, il vero Signore della Foresta.
Era insolitamente calmo e tranquillo, mentre gli insetti tornavano ronzando al sicuro del loro alveare e attorno al loro generoso sovrano.
Battiquercia decise di non attendere oltre: non poteva rischiare che lo sentisse, con le orecchie o con il naso. Programmò una mossa, per la quale in realtà c’era ben poco da programmare, che non era una chiara dimostrazione della sua facilità d’approccio con gli animali. Poco importava, lo doveva acciuffare.
Caricò il salto, e si avventò a braccia protese sulla bestia. Fallì, rovinando con il muso a terra. Il cervo muschiato lo udì gettarsi su di lui, e scattò in avanti.
La fuga dell’animale ebbe però vita breve: inciampò in qualcosa di invisibile, legato alla base di due tronchi, e una corda meticolosamente nascosta tra l’erba gli attanagliò le gambe. Infine, un ben architettato e rudimentale marchingegno tirò in alto la bestia, che si ritrovò sottosopra appesa ai rami.
Sporius comparve con un balzo da un cespuglio, puntando la freccia nell’arco teso verso Battiquercia che non vedeva.
Questo era enormemente colpito. In così poco tempo, quel cacciatore aveva avvistato il cervo muschiato, lo aveva tenuto sott’occhio e aveva messo in funzione quella elementare ma ingegnosa trappola. Talmente colpito che si dimenticò che Sporius gli stava puntando contro un’arma, sospettoso dell’invisibile presenza.
“Oh, oh, calma cacciatore!” cercò di rasserenarlo, ancora invisibile, sforzandosi di tornare normale.
La missione poteva reputarsi un successo, ma i due dovevano impegnarsi per catturare quanti più cervi possibili.
***
Il marino camminava frenetico e impaziente, scavando solchi e sollevando deboli nuvole di sabbia, grondando gocce anche a sei piedi di distanza dal suo ristretto percorso, tanta era la sua fretta.
Davanti a lui, si sviluppava con crescente dimensione e complessità, come un labirinto le cui vie si facevano più confuse mano a mano che si avanzava, l’immensa Foresta Silente. Un largo sentiero sgombro e livellato si scavava la sua strada nella boscaglia, sulla stessa linea del gormita, che conduceva alla città delle paludi del Bazaar.
Dietro di lui, si protendeva l’ampia spiaggia e l’infinita distesa del Mare di Gorm; la marea era bassa, e anche da quella distanza la sagoma cinerea di Poivrons il Protettore, l’imponente scultura all’apice di Poivronopoli, poteva essere scorta.
Il gormita in questione era piuttosto magro, ma le sue membra avevano un lucido riflesso scattante e resistente; una carne color del fiordaliso rivestiva ventre, petto, collo, viso.
Sulla schiena e sulla nuca e nella parte esterna dei suoi arti, il blu floreale della sua pelle sfumava in un più cupo acciaio. Strane, sottili sporgenze come cicatrici, curve a mezzaluna, del colore del corallo, gli cingevano gli stinchi, i fianchi e i dorsi della mano destra.
Il suo capo era del tutto simile a quello di uno squalo, completo di pinna, fine e poco alta, pur avendo perso la rozzezza e la bestialità dell’animale, che lo avrebbero altrimenti reso spettrale e spaventoso. I suoi occhi erano profondi e quasi neri.
Il braccio sinistro, poco oltre il gomito, si deformava e si induriva in ciò che, tra le altre cose che rievocava con la sua forma, più tra tutte rassomigliava a un martello blu scuro, ma non con la stessa forma di quello portato da Gheos.
L’ansia del marino si spense in sollievo quando dalle foglie dello stradone per il Bazaar comparve a passo spedito un secondo marino. Era più massiccio del paziente sulla spiaggia, seppur non di molto. Aveva una carnagione più accesa ma più chiara del suo compagno, azzurra. In più punti, sulle spalle, sugli stinchi e sul bacino, le squame si inspessivano in un arcobaleno verde mare e blu notte, sul quale crescevano bozzi irregolari e piccoli color Nejema al tramonto.
I suoi piedi erano gonfi, le cinque dita grosse ma affusolate.
Mentre il braccio destro terminava in tre dita corte, il sinistro si rigonfiava – esattamente come quello dell’altro marino - in una sorta di spuntone, solcato da righe come una spirale, scuro come il cielo notturno.
Dalla nuca e lungo tutto il setto nasale, correva una membrana arancione che ospitava, nel punto in cui si aprivano le narici, una punta cornea simile al corno del narvalo.
Non appena vide il suo compare agitare la mano per salutarlo dall’altra parte del sentiero, cominciò a correre con un ghigno sul volto.
Uno di fronte all’altro, si tesero le braccia a pugno chiuso. Dopo averlo battuto, aprirono i palmi, si diedero come uno schiaffo l’un l’altro sulle proprie mani; successivamente se le strinsero con forza, poi, liberata la stretta, fecero qualche passo indietro e cozzarono i propri petti l’uno contro l’altro.
“Era ora! - proruppe il gormita squalo - Dove stavi, Narvalion?”
“Volevo fare una visita a Patmut Iun prima di partire.” spiegò lui.
L’altro rise sonoramente: “Non ci credo! Tu al Museo?”
Narvalion poggiò la mano sul fianco, sogghignando.
“La cosa ti sorprende così tanto, Squalis?”
“Eh, un po’. - ammise - E che cosa sei andato a vedere?”
“Profezie circa questi…questi ka’nhili.”
“E che cos’hai scoperto? Anzi, no, non lo voglio sapere.” borbottò Squalis facendo un gesto con la mano.
“Partiamo subito?” chiese poi.
“Pronto quando sei pronto tu.”
“Allora andiamo.”
I due marini si avviarono verso il mare, senza fretta, immergendo prima i piedi, poi le ginocchia, e infine la vita. Quando l’acqua arrivò loro al collo, si immersero e cominciarono a nuotare, veloci ed eleganti, come solo chi è nato nel Mare di Gorm può fare: con semplici flessioni dei piedi e delle gambe, le braccia dritte lungo i fianchi.
Non mancò molto prima che il fondale sotto di loro sprofondasse, in un mostruoso dislivello che faceva saltare la profondità da due volte a dieci volte un gormita, e aumentava a vista d’occhio.
Una delle ragioni per cui le giornate in riva al mare e le abluzioni sono un passatempo poco praticato dai gormiti, mescolata alla scarsa considerazione del nuoto come attività sia dilettevole che utile.
Sfrecciando tra le acque tiepide, le prime rare case piramidali dei figli di Semal cominciarono ad affacciarsi nel fondale sotto di loro. Per la maggior parte erano grigie, pochissime dipinte, altre variopinte dei colori delle loro rocce di costruzione, rosse, blu e verdi.
Pochi gormiti solitari si affaccendavano fuori dalle proprie abitazioni isolate; ognuna era ben separata dalle altre da ampi spazi coltivati.
Le colture includevano numerose varietà di alghe, da mangiare, per nutrire i pesci e per essere lavorate e trasformate in creme per il corpo e le ferite; l’onnipresente trefoliea, il balsamo naturale dei fondali su cui poggiava gran parte dell’economia marina; distese di spugne per la pulizia personale e per la realizzazione di tessuti; campi di coralli per impreziosire i colli, i polsi e le dita di opulenti gormiti, e per forgiare per gli stessi fastose armature da collezione.
Alcuni marini, a diverse altezze, facevano pascolare grassi salmoni e corpose anguille, aiutandosi con animali pastore e bastoni dalle molte forme.
Lontano verso est, nei pressi della grande altura su cui si ergeva Poivronopoli, si potevano scorgere branchi di grossi animali, i quali altri non erano che i guerrieri di Nobilmantis che si esercitavano e facevano di guardia.
Di fronte a Squalis e Narvalion, ben visibile, un grande vuoto un tempo occupato, presso un largo, lungo e profondo solco in cui la sabbia aveva assunto un colore diverso, più povero.
Tu hai assistito al risveglio, vero? domandò Narvalion, benché sapesse già la risposta.
Squalis parve esitare, digrignando i denti come sciabole in un ringhio flebile che non giunse alle orecchie del suo amico.
Ero solo un ragazzo, allora. - spiegò per l’ennesima volta, e i ricordi lo turbarono - La mia casa, la mia campagna erano tutto quello che avevo. Quando ho visto la Grande Murena spazzare via gli anni di lavoro della mia famiglia, il luogo dove avevo passato tutti i miei giorni…mi sono sentito…molto, molto  male. Ero convinto di non avere più un futuro.
Non pensiamoci più. - disse poi scrollando la testa - Siamo in tempi più bui, adesso, e dobbiamo, noi due, ritenerci fortunati.
Già… Narvalion pensò di esporre un commento riguardo quanti avevano e avrebbero perso la vita e la fortuna nei tempi recenti e prossimi, ma preferì evitare, e concentrarsi sulla missione assegnata: scovare e catturare un nautilo gigante.
Dopo aver evitato un poco promettente branco di giovani squali, i due si appostarono di fronte a un picco roccioso con una profonda e buia spaccatura nel mezzo.
Come ci muoviamo? domandò Squalis, incerto sul da farsi.
Lo staniamo fu la proposta risoluta del compare.
Agitando l’acqua intorno con i suoi poteri, sollevò un ciottolo piatto dal fondale sabbioso. Di seguito, lo prese tra le dita e, facendo ancora leva sui propri poteri, lo gettò con notevole spinta all’interno della spaccatura, casa del nautilo gigante.
Il sasso ovale scomparve nell’apertura nera come il carbone, senza fare un suono. I minuti seguirono, minuti pieni di silenzio e privi di alcun rumore.
Riproviamo. diceva, non contento, e attirava verso di sé un'altra pietra, più grande, questa volta.
E se il mostrone non è qui? ipotizzò Squalis, dubbioso riguardo quella tattica.
Andrò lì dentro di persona a vedere se è davvero vuoto, o ci sta solo ignorando. ripromise Narvalion, preparando a scagliare il sasso. Ripensando a quanto detto, volette non aver proferito quei pensieri: la prospettiva di avventurarsi in quel buco nero era tutt’altro che fonte di tranquillità.
Squalis non colse i pensieri contrastanti del suo amico, né però cercò di distoglierlo dall’iniziativa: sapeva perfettamente quanto fosse testardo, esattamente come lui. Era questa la fonte della loro grandissima intesa, nonché dei loro per niente rari guai.
Il sasso ricadde nell’apertura come la notte senza rimbombare. Però, quando, così pensarono loro, toccò il fondo della buca, qualcosa da dentro la roccia emise un gorgoglio che ondeggiò fino alle loro orecchie.
Che ti dicevo, eh? disse divertito Narvalion, pronto al terzo lancio.
Questo non giunse a destinazione. Un tentacolo grigio - azzurro spesso e viscido emerse dalla fessura, assorbendo l’urto del masso, che quasi sprofondava nella pelle inconsistente dell’animale.
L’apice del tentacolo afferrò la pietra, e la riscagliò all’attaccante, troppo lentamente però perché quest’ultimo si curasse di spostarsi per evitarla.
Uno dopo l’altro, altre sette braccia gommose e scivolose della stessa dimensione del primo affiorarono dalla buca, agitate. Vennero presto alla luce, tra gli otto tentacoli maggiori, numerose altre mosce appendici, di dimensioni estremamente più piccole.
Dal taglio del guscio a spirale che riluceva di una vaga sfumatura dorata, comparvero, poc’anzi nascosti e protetti sotto la spessa corazza di calce, due enormi occhi laterali, opachi e ricoperti d’una patina che pareva renderli molli e fluidi, simili agli occhi di un cieco. L’iride dell’animale – non aveva cornea - erano di un giallo cupo e spento, come sabbia antichissima. Le pupille avevano una forma strana e singolare: due cerchi neri uniti tra loro da una breve ma spessa striscia, anch’essa scura.
L’avevano stanato, era uscito dalla sua casa. Ma Squalis e Narvalion non avevano idea di come procedere, e le sue dimensioni erano sufficientemente diverse dal previsto perché fossero un problema per i due.
La bestia marina, del resto, non aveva intenzione di aspettare che trovassero una soluzione, né di perdere tempo a scacciarli con manovre complicate. Fremendo i tentacoli più piccoli attorno a quella che doveva essere la bocca, fece schioccare un fiotto di liquido nero, penetrante e maleodorante, che annebbiò la vista dei due inattesi ospiti, lasciandoli ad agitarsi sopra la sua casa, con le braccia a coprire gli occhi.
Quando poterono infine riaprirli – e un po’ di inchiostro aleggiava ancora intorno a loro - , la bestia era ritornata nella sua cuccia.
Questo è un problema. si disse Narvalion, scacciando le ultime tracce di inchiostro dall’occhio sinistro con la punta delle dita.
Sapevamo che sarebbe successo. O no? Squalis era stato avvertito delle capacità del nautilo gigante, così come, credeva, anche Narvalion. Però, nessuno dei due si era preso la briga di pensare a come agire a seconda delle reazioni e delle situazioni. Erano, in tutti i modi, in mare aperto.
Narvalion si grattò il mento, pensieroso, gli occhi ridotti a fessure. Macchinò qualcosa di astuto, complicato e ardito nella sua mente, Squalis lo poteva sentire. Tuttavia, non riuscì a comprendere il piano per intero: forse era troppo confuso per lo stesso Narvalion. Dovette aspettare che quello glielo rivelasse.
Mi è venuta un’idea. ruppe infine il silenzio, ma non recò risposta ai dubbi di Squalis.
Estraendo il pugnale legato alla gamba, si limitò a dirgli: Seguimi.
Squalis non era dell’idea di abbandonare la tana del nautilo: poteva dileguarsi mentre loro erano lontani. Tuttavia, non avendo formulato un altro piano, qualunque fosse quello di Narvalion, non poteva che seguirlo. E così fece.
L’amico - narvalo procedeva in fretta, tenendo ben stretta la lama tra i denti; Squalis fece fatica a tenergli testa, benchè fosse più magro e leggiadro. Ripercorsero un tratto della stessa strada che avevano seguito per arrivare alla tana del nautilo. A un certo punto, Narvalion si fermò, si guardò attorno e subito dopo, il tempo che Squalis lo raggiungesse, deviò dal percorso originale per spostarsi altrove. E infine si fermò una seconda e ultima volta.
Squalis lo raggiunse trafelato, e la sua stanchezza aumentò a dismisura quando vide ciò che Narvalion stava contemplando. Il suo piano si fece più chiaro agli occhi di Squalis.
Non completamente, ma abbastanza perché fosse in grado di dirgli: Non mi piace per niente, Narvalion.
Prova a farmi cambiare idea. lo sfidò lui, ammiccando. Con il pugnale che aveva in mano, si creò un taglio sulla gamba sinistra. Il rivolo rosso di sangue uscì compatto e acceso, per poi dissiparsi nell’acqua di mare e diventare come fumo.
Non si disperse abbastanza, né smise di uscire dalla ferita, perché agli squali appostati in cerchio a pochi piedi da Narvalion sfuggisse il suo aroma, inconfondibile e appetitoso.
Gli occhi del branco affamato si fecero uno solo, bramoso della carne del gormita così impavido.
Presero presto ad andargli dietro.
Squalis gemette alla prospettiva di correre in mare ancora, non tanto per sé quanto per l’incolumità del compagno: la perdita di sangue, mista alla fatica del nuoto –che grazie agli squali affamati alle calcagna doveva essere più veloce di prima - , avrebbe potuto neutralizzarlo facilmente, e rendere la sua fuga dagli squali decisamente breve.
Non preoccuparti per me, ce la farò. - lo rassicurò Narvalion, avvertendo la sua preoccupazione, già in testa - Ricorda che sono Narvalion il Testardo!
Squalis sorrise dell’ottimismo del compagno, mostrando tutte le bianche zanne, senza però nascondere il suo turbamento, ora più rivoltò a se stesso che all’altro, dal momento che quello aveva già distanziato sia lui che gli squali.
I timori di Squalis si rivelarono infondati, una volta ritornati alla tana del nautilo: gli squali non riuscirono a toccare nemmeno con la punta del naso il corpo di Narvalion, che si mantenne in testa della corsa per tutta la durata della fuga, superato solo due volte dal compare. Gli squali erano piuttosto lontani dai due, ma non li avevano persi di vista.
Ora Squalis era davvero curioso di scoprire tutte le pieghe del piano di Narvalion. Questi, notando con grande sollievo la distanza che lo separava dagli squali, si curò con velocità degna di uno stregone provetto la ferita, per altro già parzialmente sanata dall’acqua marina.
Con egual velocità, sollevò altri due massi di discrete dimensioni dal fondale e li spinse insieme dentro la tana. Qualcosa rimbombò fortemente.
La fatica della corsa, la perdita di sangue, la magia curativa e i poteri utilizzati sulle pietre lo avevano quasi stremato. Squalis lo percepì, e seduta stante si precipitò ad aiutarlo, conducendolo al sicuro dietro la tana, prima che gli squali o il nautilo gigante sopraggiungessero.
Il gruppo di pesci cartilaginei non era certo tanto ingenuo da non notare i due gormiti ripararsi dietro il picco roccioso, ma quando di fronte a loro, eruttato dalla tana come vapori da un geyser, comparve il nautilo gigante si impietrirono e rimasero disorientati.
Lo stesso valeva per la grande bestia, infastidita dalle pietre lanciate contro di lei per ben due volte. Credeva di essersi liberata dai due bipedi di prima, e che ora fossero tornati per avere il colpo di grazia. Non si aspettava certo che a lanciare quelle ultime rocce fosse un branco di squali famelici.
Dopo l’iniziale stordimento, gli squali dimenticarono i due gormiti: erano in forze, erano veloci e, soprattutto, avevano tanta fame. Il nautilo gigante era una preda perfetta.
Subito si agitarono tutt’intorno ad esso, aggirandolo per impedirgli di ritornare nella tana. Presero a morderlo, o a tentare di morderlo, su più lati. Quello si destreggiava come poteva, agitando i tentacoli maggiori per scacciarli, scrollando il guscio e facendo addentare loro la dura e insapore calce. L’inchiostro sputato non fu d’aiuto in quell’occasione.
I suoi arti senz’ossa erano tutt’altro che mollicci e deboli: aveva infatti già strozzato due squali in rapida successione, e ne teneva stretto uno per la coda.
Se non sapesse nemmeno difendersi dai predatori, il Sommo non ci avrebbe chiesto di catturarlo. osservò Squalis, attendendo con impazienza il momento per intervenire.
Questo non mancò d’arrivare: le ferite subite dal nautilo erano ora in gran numero, e non potevano rischiare che si indebolisse troppo; gli squali erano calati in numero sufficiente perché i due marini potessero intromettersi senza correre troppi pericoli. E Narvalion si era ripreso. Dovevano solo sperare che la bestia fosse loro riconoscente.
Così, balzarono belluini da dietro la tana, e si immischiarono nella lotta.
Stettero ben attenti a ingaggiare uno squalo per volta e a tenersi lontani dalle bianche tenaglie delle loro fauci, adoperando più i poteri che la forza fisica o le poche armi che si erano portati dietro. In ugual modo tennero le loro distanze dalla parte inferiore dell’estremità dei tentacoli maggiori, che scoprirono essere urticante come i bracci acquosi della medusa.
La lotta durò meno del previsto: gli squali rimasti, quattro dalla dozzina che erano in precedenza, furono messi in fuga.
Con loro grande sollievo, quando gli squali scomparvero alla vista, il nautilo gigante non si ritrasse da loro, né riversò su di loro il soffocante inchiostro. Rimase fermo, a contemplarli. Squalis pensò in un primo momento che stesse considerando l’idea di cibarsi di loro.
Smise di pensarci e si mosse a cauta lentezza verso l’animale, che non dava nemmeno ora segni di paura – o di avversione - nei loro confronti.
Lascia fare a me. diceva a Narvalion. Non sapeva cosa aveva pensato di fare Narvalion una volta arrivati fin lì, ma sapeva cosa voleva e doveva fare: aveva numerose ferite lungo i tentacoli, e dovevano essere curate.
Facendo ricorso a quanto sapeva di magie curative, prese ad accarezzare le parti sicure dei tentacoli e a cantilenare nella sua testa le formule magiche appropriate. Mentre queste facevano effetto, immetteva qua e là testi di canzoni lente e rilassanti.
Il nautilo sicuramente non capiva, o meglio, carpiva, le parole, o meglio, i pensieri. Tuttavia al loro effetto su di lui sembrò acquietarsi ulteriormente, e cominciò a ondeggiare dolcemente il guscio e i tentacoli della bocca.
Chissà come avrebbe reagito quando avrebbe capito che doveva essere usato in guerra.
***
“Non voglio udire lamentele. Non crediate che questa meditazione sia inutile: essa è la base della manipolazione della forza” diceva rigido Pri’sum, con le mani dietro la schiena, mentre osservava i suoi eccezionali discepoli piegarsi, molti borbottando la propria obiezione, nella corretta posizione per la meditazione.”
“La meditazione è il primo passo che insegniamo a tutti coloro che ospitiamo nella nostra casa, Karmil. Tuttavia, per voi, che avete necessità diverse e tempi non generosi, abbiamo dovuto agire diversamente.”
“Ciò non toglie!” gridò poi, la prima volta che alzava la voce per imporsi sugli altri, facendo scattare la mano sinistra con l’indice teso di fronte alla bocca.
A quel tono tutti quanti, che avevano chiuso gli occhi come da manuale, gli fecero scattare aperti dalla sorpresa.
“Che per poter sperare di manifestare la vostra luce interiore, dovete imparare a meditare. Non c’è altra via.”
“Non dovete mai, mai bramare, struggervi all’interno nel desiderio di creare la luce della forza magica. Non dovete ardere nella passione per la lotta che state per intraprendere. E’ l’errore più colossale che possiate mai commettere in questa arte.” e ciò dicendo, sottolineando con forza la parola colossale, la sua voce diede segno di impazienza e di intolleranza, e Pri’sum se ne accorse; continuò poi con la solita calma.
“Sebbene voi dobbiate imparare, e in fretta, per poter vincere, dovete comprendere la verità nella manipolazione nella via della luce. Il segreto è essere in pace con la vostra mente e con ciò che vi circonda: entrare in uno stato di tranquillità con cui possiate analizzare ogni evento della vostra vita, anche il più improvviso, con assoluta calma e razionalità.”
“Il vostro desiderio dev’essere controllato. I vostri stimoli non devono compromettere le vostre azioni. Le emozioni non devono controllarvi: voi dovete controllare le emozioni. Capite questo, e avrete la strada spianata di fronte a voi.”
“Ora concentratevi.” terminò, tornando con entrambe le mani sotto le ali.
Con suo dispiacere, perfettamente celato sotto la sua maschera di indifferenza, vide un gormita alzare una mano a cinque dita per chiedere spiegazioni ulteriori, o così credeva.
Gli diede la parola con un cenno del viso.
“La via della luce è la via migliore? E’ la via giusta?” domandò.
Pri’sum chiuse gli occhi, e sospirò spalancando le mandibole laterali: si doveva aspettare una domanda simile.
“Io, che sono stato iniziato alla via della luce per tutta la vita sin da bambino per le regole della mia gente, ti dico che sì, è la via giusta.”
“Tuttavia, per le stesse regole, io non ho mai intrapreso la via delle tenebre, né potrò mai. Inoltre, ‘giusto’ e ‘migliore’ sono opinioni; quindi, non posso riempire i tuoi vuoti.”
“Tu, però, puoi. - osservò Pri’sum, aprendo gli occhi dopo alcuni minuti - Se ne avrai la possibilità, recati a Tato Yami, segui il loro percorso di addestramento. Una volta completato, potrai giudicare da te quale via è la più completa, la più giusta, la più confacente a te.”
“Credo…credo che un giorno proverò, se sarò ancora vivo.” gli rivelò il gormita, molto sicuro di sé.
“In tal caso, ti auguro buona fortuna.”
***
Picco Aquila è un mondo meraviglioso, colmo di attrazioni e di vita, sia gormitica che no.
Solo un occhio attento è però capace di scorgere ogni forma di vita che riempie l’ambiente montano nelle sue più impensate componenti: in buche nel terreno ruvido, in grotte naturali oscurate da rocce o fronde, nei tronchi e sui rami degli alberi, persino nei paesaggi più gelidi e perennemente innevati della grande vetta, fino ai Rifugi Parlanac dove Noctis nascose sé e i suoi durante la Grande Guerra, sotto il grande becco del dio Praconrem, scolpito nella roccia dalle abili mani dei terricoli e dall’esperienza magica degli aerei.
L’imponente monte nevoso non è tuttavia povero di luoghi più piacevoli e vivaci, meno aspri delle distese bianche e delle pareti pietrose, dove rare famiglie scavano la terra e la plasmano con l’arte della magia in abitazioni non meno maestose di quelle della grande capitale Orsol.
Ampi boschi selvaggi e lunghi fiumi dominano la montagna insieme al gelo e alla terra.
Fiumi come Tempesta, sulla fiancata settentrionale di Picco Aquila, che si disperde in una magnifica cascata presso l’omonimo collina, Colle Tempesta, dove sorge la chiesa in cui è custodito il cristallo Volvorot.
E come non parlare dei Fiumi Gemelli, lungo la parete sud - orientale, Elenfim ed Elenmis,
Dall’alto il loro corso, una volta separato dall’unica sorgente, sembra avanzare parallelamente, con le stesse increspature e le medesime inclinazioni, fin quasi ai piedi del monte, dove i fiumi prendono ognuno una strada differente, irrorando la casa di Asili e Fendril e dividendosi in innumerevoli rami.
Vedute spettacolari, sia da terra che dal cielo di Picco Aquila. Panorami che Alos non poteva più condividere da quasi tre anni.
Alos, il lottatore del primo Torneo di Astreg dal ritorno a Gorm, ridotto a nascondersi dalla vista dei suoi fratelli corrotti, compiere missioni segrete in una casa sempre più pericolosa, senza poter mettere piede nella dimora dei suoi padri, né solcare le sue nubi senza il pericolo di essere freddato da letali sentinelle nascoste fedeli al nuovo regime, più mortali dei forestali con il veleno del mimetismo, celati tra le fronde ai confini con il Picco Aquila, confini sondati in quel momento con estrema cautela da Alos e Galila, la Magica Vedetta.
Ella era all’aspetto grosso modo una possente e massiccia ape, con un petto gonfio e ricoperto di pelo azzurro, così come il bacino, rivestito di strisce di piume a intervalli nere e gialle. Due lunghe dita dorate ai piedi, tre bianche alle mani. Il suo volto era pieno e gli occhi violetto sottili e penetranti, ma capaci di vedere più lontano e più precisamente di molti altri di maggiori dimensioni, cosa che le garantì il suo soprannome.
Attorno alle orecchie, i padiglioni auricolari sottili, lunghi e triangolari erano messi in risalto da delle piume color del sole che le rendevano estremamente simili alle antenne delle api.
Le ali, però, trasparenti e luminose, erano più conciliabili per forma con quelle delle vespe.
Molte centinaia di volte Nejema aveva compiuto il suo percorso nella volta celeste attorno a Mitera da quell’infausto giorno, e Alos, così come tutti gli esiliati, non si erano mai dati pace.
La lunga agonia dell’esilio sembrava non essere destinata a concludersi presto, e sempre più tormenti si infilavano come coltelli in una ferita sempre più larga.
Alos non era nato per vivere nella Foresta Silente. Era buio e umido, troppo caldo sotto i rami frondosi. Non c’era lo spazio e le condizioni sufficienti per permettere il volo come Alos era abituato a farlo; un problema che i compagni alati sotto Grandalbero non sembravano condividere.
Il Bazaar, unico centro marino aperto a un soggiorno di gormiti di altri Popoli, era anch’esso umido, per non dire bagnato, l’aria salmastra e pesante che lo faceva continuamente tossire e gli arruffava le piume.
A Darth Kuun non c’era ambiente che Alos trovasse favorevole. La Valle dei Canyon era troppo spigolosa e irregolare, e Garsomor in essa era una città sovraffollata e piena di polvere; Roscamar era calda ed esageratamente pianeggiante, il volo non era piacevole su quella distesa lineare; infine, la Città Sotterranea era, appunto, sotterranea: mai un aereo avrebbe potuto abitare in un ambiente così chiuso e scuro.
No, Alos e i gormiti dell’Aria non potevano che vivere per natura su Picco Aquila. Ma le leggi della natura furono messe in secondo piano dalle idee e dai decreti di Elios, soppiantate dalle leggi dei gormiti.
Benchè in teoria l’esilio non costringesse gli interessati ad abbandonare la casa del proprio Popolo, di fatto, con Noctis e i suoi seguaci, quegli esiliati dovevano guardarsi con attenzione dal perfino guardare Picco Aquila. Del resto, essi non avevano intenzione di mettervi piede o ala finchè l’alleanza con il Vulcano non fosse terminata. Ma, per quanto Alos si sforzasse di nasconderlo, ne avevano bisogno. Quell’atto contro natura doveva essere corretto.
Come poteva essere successo? Non era possibile, pensava Alos, che l’intero Popolo dell’Aria, civili e guerrieri insieme, persino i politici, si fossero fatti abbindolare, che accettassero di buon grado di operare fianco a fianco con i gormiti del Vulcano, qualsiasi fossero le loro promesse.
Soprattutto, non poteva ritenere possibile che solo uno sparuto gruppo di aerei, poche dozzine, avesse avuto il coraggio di opporsi alla collaborazione con lo Stregone di Fuoco.
Non era possibile, non lo era affatto. Alos si ostinava a credere –e aveva ragione - che diversi furono guidati dalla paura dell’esilio e di perdere le proprie proprietà o i propri stessi familiari, o che semplicemente e forse più tragicamente non si curassero di chi comandava né di chi erano i suoi amici purché costui garantisse loro casa e beni.
Anche con questa indotta convinzione, però, Alos non poteva perdonare questi gormiti, impauriti o disinteressati che fossero. E di certo non poteva perdonare quelli che credevano davvero nelle promesse di Elios e dello Stregone di Fuoco. Fosse dipeso da lui, avrebbe marciato su Picco Aquila con un esercito dei Popoli alleati e punito tutti quelli che si mostravano favorevoli alle ideologie vulcaniche. Tuttavia, sapeva perfettamente che ciò non era possibile, e che, se lo fosse stato, avrebbe sicuramente arrecato più male che bene.
“Gli ultimi Tornei sono stati noiosi.” disse Galila tutt’un tratto, mentre camminava di fianco a lui nel bosco al limitare del dominio di Grandalbero con quello del nuovo Signore dell’Aria.
Alos non si aspettava parole da lei - era stata silenziosa da quando Noctis e il Vecchio Saggio li mandarono in quella missione - e sicuramente non qualcosa di apparentemente così futile come gli ultimi Tornei di Astreg. Alos apprezzò però quell’argomento: lo distoglieva dai problemi e dal futuro incerto dell’Isola, e certo anche per Magica Vedetta era così.
“Sì, proprio noiosi. - concordò dopo alcuni attimi di silenzio - Non c’è più lo stesso…entusiasmo.”
“Vorrei ben vedere. - si accigliò lei - I gormiti combattono ogni giorno, ormai. Farlo per divertimento sembra quasi…ingiusto”
Alos sperava di non dover tornare su quei dilemmi così presto.
“Sai cosa mancava, anche? - riprese parola Galila - Guerrieri dell’Aria. Sarebbe stato molto più avvincente, e molto più completo.”
Sospirò.
“I migliori sono rimasti a Picco Aquila, e si sono chiusi a noi come tutti gli altri.” spiegò Alos con rammarico.
“Forse se avessi partecipato tu sarebbe stato un Torneo migliore.” disse Galila poi, mostrandogli un sorriso.
Alos sorrise a sua volta, divertito. “Sono un po’ vecchio per il Torneo.”
“Però sei venuto in questa missione.” osservò la donna, incuriosita.
“Qui posso contare su di te.” e le prese la mano, stringendola nella sua.
Per fortuna, il tradimento di Elios e l’esilio da lui ordinato non lo aveva strappato dalla cosa più importante che aveva in quella vita, più vitale della casa: l’amata Galila.
Desiderò parlare del più e del meno con la sua compagna di vita, degli amici, della famiglia, del lavoro…ma la situazione non gli permise di potersi svagare a quel modo. Era qualcosa di ingiusto, pensò, non poter essere spontaneo con la propria amata per la situazione di crisi esterna.
Si ritrovò a parlare nuovamente della situazione del Popolo dell’Aria.
“I seguaci di Noctis non sono tutti guerrieri. - diceva - Non tutti possono aiutare nella lotta i nostri amici. Molti sono solo semplici contadini, contadini coraggiosi che hanno avuto il coraggio di ribellarsi. Ci sono anche vecchi, e bambini. Come possono vivere? Noctis non può farli combattere, e molti non possono riprendere il loro lavoro fuori da Picco Aquila…”
“Elios la pagherà per questo. - ringhiava Galila, piuttosto accanita - Non possiamo perdonarlo, anche se dovesse pentirsi e tornare in ginocchio dal Vecchio Saggio con le ali spezzate.”
All’improvviso Magica Vedetta si impietrì, e si abbassò, sciogliendo la stretta di mano: i suoi fini sensi avevano percepito qualcosa prima di Alos – e non aveva preso i veleni di alcun daicao.
Alos non impiegò molto per capire la causa di quella reazione.
Poche decine di piedi sopra le loro teste, si levava nel cielo con la sua mostruosa apertura alare la figura di un grifone dal piumaggio castagno e lavanda. L’obiettivo della loro missione.
Era un animale magnifico, e tremendamente potente.
Delle dimensioni di una salamandra, il corpo era longilineo e rigonfiato in corrispondenza del petto e le spalle, più stretto alla vita. Il capo d’aquila, con il suo acuminato becco rosso, torreggiava di alcuni piedi sul resto del corpo proprio come il collo di un dragone.
Due paia di arti esili e possenti al tempo stesso, glabri e rossi in egual misura al becco con aguzzi artigli, sorreggevano il suo peso quando al suolo.
In volo, grandiose ali di dodici piedi d’apertura, che si sviluppavano da sopra le spalle, lo portavano fin sopra le nuvole alla velocità del vento.
Alos era abituato alla vista dei grifoni, ma avvistarne uno era sempre un’esperienza mozzafiato. Erano creature nobili, uniche e straordinarie. Potenti quasi come un dragone, ma molto più eleganti e aggraziate. Ben pochi gormiti potevano vantarsi di averne catturato uno, ancora meno di averne ammaestrato alcuno. Alos era preparato, però, così come anche Magica Vedetta; se i loro metodi non avessero funzionato, i ka’nhili del mistico Sommo Luminescente III, che avevano proposto la caccia ai grifoni in primo luogo, avrebbero senza dubbio saputo come renderlo accondiscendente ai loro fini.
Il grifone non si allontanò molto dalla loro posizione; da dovunque fosse arrivato, sembrava non aver grande interesse a tornarci, e cominciò a volteggiare in cerchi concentrici alternati a spirali sopra le loro teste, probabilmente cercando qualche preda nel sottobosco.
Alos era pronto per entrare in azione secondo il programma. Dopo essersi acquattato insieme a Galila, si alzò e cominciò ad agitare le ali candide per sollevarsi in aria, e così fece anche Galila.
Non appena però i piedi della donna si alzarono dal suolo, ricadde immediatamente, con un’espressione preoccupata sul volto.
“Stai giù!” intimò all’amato, in un sussurro. I suoi sensi avevano captato qualcosa di nuovo.
Alos non questionò: si fidava ciecamente delle sue abilità, e obbedì.
Ancor prima di capire cosa stava succedendo, Galila evocò mormorando un incantesimo su di sé e Alos.
Celatus oculi.” disse, due volte. Prima rese invisibile se stessa, poi, sebbene Alos ne fosse capace –era uno degli incantesimi più elementari del mondo - anche sul compagno.
Per quanto elementare e semplice, e privo di controindicazioni, come ad esempio l’Hic et ibi del trasporto rapido, l’invisibilità della magia era sempre un po’ disorientante. Non trovarsi più le braccia, i piedi, niente, era qualcosa che lasciava Alos leggermente impacciato e insicuro.
Alternando gli occhi da Galila, o dove riteneva si trovasse, al grifone su nel cielo, Alos tentò di comprendere che tipo di pericolo avesse sentito Magica Vedetta.
Non appena vide due figure alate, più minute del grifone, sfrecciare verso l’animale smise di alternare lo sguardo, e si focalizzò sui due nuovi arrivati, sicuro fossero loro il pericolo.
Erano due gormiti dell’Aria, su questo Alos non aveva alcun dubbio. Due aerei del Popolo dell’Aria ‘ordinario’, quindi dei nemici.
Riconobbe uno di essi, mentre si appostavano intorno al grifone con intenzioni poco piacevoli.
Era Falcosilente, il fratello maggiore e più raffinato del traditore Elios.
Una figura controversa e combattuta dentro: troppo legato a suo fratello per opporglisi, troppo lontano dalle idee dello Stregone di Fuoco per assecondarle e abbandonare il Vecchio Saggio.
Più di una volta aveva sfidato la fortuna informando i Popoli alleati dei movimenti e dei piani di Elios, garantendo spesso la vittoria e annullando l’effetto sorpresa che gli aerei speravano di esercitare. Ora che il Signore era cambiato, che non era più consigliere, la sua libertà di movimento e il suo poter ottenere le informazioni prima di chiunque altro tra il suo Popolo erano diminuite, e con esse l’aiuto che poteva offrire al Vecchio Saggio e i suoi fedeli.
Ciò nonostante ardeva del bisogno di aiutare i vecchi e non abbandonati compagni, e quando poteva li incontrava sempre per portare loro tutte i dati che riteneva utili, anche se in realtà erano banali.
Alos, che era piuttosto vicino a Noctis, lo aveva incontrato spesso quando era con il suo Signore.
E non aveva letto altro che una profonda malinconia negli occhi di Falcosilente. Di tutti gli aerei che conosceva ancora al seguito dell’effettivo Signore dell’Aria, Falcosilente era quello che rispettava di più, e l’unico per cui provava compassione.
L’altro gli era del tutto nuovo. Massiccio, compatto, più di qualsiasi altro aereo avesse mai visto, più addirittura di se stesso, che nonostante le dimensioni ridotte era noto per la sua singolare forza e muscolatura.
Aveva la pelle azzurra con numerosi bozzi violacei sulle spalle e sulla lunga coda. Un paio di ali, di dimensioni a dirla tutta leggermente sproporzionate, rosse come il mattone e di fattura simile a quella dei dragoni sovrastavano il suo dorso. Vagamente rassomigliante a quello di un drago era anche il muso, allungato e con una strana corona di creste viola sopra gli occhi.
Senza tante riflessioni, mentre Falcosilente distraeva l’animale, il gormita non familiare si appostò dietro al grifone e lo picchiò senza mostrare pietà, almeno da quanto Alos riusciva a vedere.
Continuava a tempestarlo di pugni e calci, e gli parve di vedere anche morsi, senza dargli tregua.
Il grifone se ne accorgeva eccome e abbandonava Falcosilente, che pareva meno desideroso di battersi, e agguantava l’altro. O almeno ci provava. I movimenti del compagno di Falcosilente erano estremamente reattivi e rapidi, troppo per la sua massa. Alos ritenne che avesse preso il veleno del senso di colibrì.
Il pensiero lo disgustò. Era stato contrario all’idea di potenziarsi con dei veleni sin da quando Elios lo propose, e non gli piacque affatto che il Vecchio Saggio condividesse; Alos non ne aveva preso alcuno.
Gli pareva contro natura, contro il normale ordine delle cose farsi più potenti in un batter d’occhio, senza esercizio né fatica. Alos era diventato il lottatore per eccellenza dell’Aria con il sudore e le ferite, senza uso di sostanze. Niente poteva battere la sua potenza, perché era naturale, o così credeva.
Lo scontro tra il grifone e i due aerei proseguiva senza esclusione di colpi, e senza che Galila o Alos osassero intromettersi. L’aereo muscoloso sembrò usufruire anche della magia contro la bestia, come si poteva dedurre dalle luci multicolori, le mani protese in avanti o sopra la testa e dalle grida strazianti del grifone che riempivano l’aria, grida che non potevano essere generate da ferite normali. Falcosilente continuava ad agire da palo, estraneo alla lotta vera e propria.
Alos strinse i pugni. Voleva immischiarsi, salvare il grifone da quell’abominio. Non tanto nella speranza di facilitare la missione, ma perché quella violenza immoderata e il dolore del grifone gli facevano accapponare la pelle. Nessun gormita dell’Aria combatteva con tanta foga e tanta aggressività. Quell’aereo gli fece paura, e questa lo trattenne dall’intromettersi. Non sapeva cosa Galila provasse, perché invisibile, e non gli apriva le mente.
Il grifone aveva tentato più volte di sfuggire, ma Falcosilente e il suo socio non permettevano che scappasse. Ciò facendo, lo scontro si era portato più in basso, più vicino ai due aerei celati dalla magia, dove potevano osservare meglio.
Il gormita misterioso fece sprofondare il pugno sinistro, illuminato di una poco promettente luce rossastra, nel petto del grifone. Un urlo da spaccare i vetri proruppe dal becco rosato del grifone, tanto che Alos dovette tapparsi le orecchie e chiudere gli occhi per non assistere al successivo massacro.
L’urlo fu spezzato quasi subito: Falcosilente salì sul dorso del grifone, tra le grandi ali. Mormorò delle parole, sicuramente magia, alle quali il grifone parve calmarsi, e Alos giurò che gli stesse annebbiando il dolore e lo stesse costringendo ad obbedire loro. Ma a quale motivo? Alos si era dimenticato di chiederselo. Perché il nuovo Signore dell’Aria voleva il grifone? Che avessero scoperto le intenzioni dei Popoli alleati e stessero catturando grifoni per ostacolarli, o li volevano usare loro stessi in battaglia?
Qualunque fosse lo scopo, Alos comprese che il grifone era ormai caduto: guarito, probabilmente sì, ma ora pendeva dagli ordini di Falcosilente, che sedeva comodo e tranquillo sul suo dorso. Aveva smesso di agitarsi, l’animale, e l’altro gormita aveva cessato la lotta e sorrideva di gusto, sputando parole confuse al suo amico.
Ai comandi dell’aereo, il grifone virò e si diresse verso la montagna, con l’altro gormita al seguito.
Alos aveva visto e permesso fin troppo: doveva intervenire, un’occasione simile non si sarebbe ripetuta.
Ancora invisibile, si alzò in volo, per cogliere di sorpresa i due gormiti dell’Aria, e impedire che tornassero dal loro Signore con il prezioso bottino.
Nessuna sorpresa, non da parte loro. Bensì, da parte di Alos –e sicuramente anche Galila.
Mentre questi si avvicinava, il gormita corpulento arrestò il suo volo, lasciando che il grifone con Falcosilente in groppa andasse per la sua strada. Si voltò, guardando Alos dritto negli occhi con pupille infuocate. Non poteva vederlo, eppure era sicura lo stesse fissando. Cosa significava?
Perché stava avanzando verso di lui? Alos si gettò in basso, temendo per la propria vita.
Con suo terribile stupore, il gormita misterioso riversò su di lui e su Galila un mare di fuoco emesso dalle sue fauci.
Alos evitò di essere avvolto dalle fiamme per un soffio, ma non poteva dirsi lo stesso per gli alberi più vicini. Cercò in qualsiasi modo di mettersi in salvo, di trovare Galila e mettere in salvo anche lei.
Ma non aveva di che aver paura: il gormita si era limitato a minacciarli, ed ora proseguiva il suo volo diretto a casa.
Quando fu un punto azzurro stampato sul fianco di Picco Aquila, mentre le fiamme divoravano ancora legno intorno a loro, solo allora Galila si sentì sicura di annullare l’incantesimo e di dare voce alle proprie preoccupazioni.
“Alos, Alos! Stai bene?” domandò preoccupatissima, gettandosi su Alos, e abbracciandolo.
“Tutto bene, cara…tutto bene.” la rassicurò lui, anche lui spaventato.
Sciolse sbrigativo l’abbraccio.
“Ma la missione è stata un fallimento.” dichiarò, scontento.
“Chi diamine era quel brutto ceffo? Perché volevano il grifone? E noi dove ne troviamo un altro?” lo tempestò di domande Magica Vedetta.
“Non lo so…non lo so.” fu tutto ciò che Alos potè dire.
Aveva, in verità, un’idea in mente, ma era riluttante a rivelarla. Quel brutto ceffo, quell’aereo così violento e forzuto…era forse il frutto di un folle accoppiamento.
Un ibrido, un mezzosangue di Aria e Vulcano: avrebbe spiegato il suo modo di combattere così aggressivo e la sua capacità di controllare il fuoco.
Quell’idea era però ripugnante oltre ogni limite di sopportazione.
Non poteva concepire che qualcuno del suo Popolo potesse innamorarsi ed avere un figlio insieme a quei mostri che abitano la parte nord di Darth Kuun. Doveva per forza essere stato costretto, ma la cosa non lo rassicurava molto. Non era tuttavia concepibile, ai suoi occhi, nemmeno che gli immondi gormiti del Vulcano fossero capaci di amare un gormita fuori dal loro Popolo, o di amare in primo luogo.
La cosa che più lo turbava, però, era la certezza che quel mostro era stato generato molto prima del tradimento di Elios: un cucciolo di tre anni non poteva essere così grosso e così brutale.
“Noctis ci aveva avvisato che sarebbe stato pericoloso. - ricordò poi, cercando di dimenticarsi quello spiacevole incontro - Spegniamo questo fuoco, e poi ce ne andiamo. Non possiamo rischiare una seconda volta.”
Galila corrugò la fronte e fece una smorfia: non sembrava essere molto d’accordo. Se aveva un difetto, era di essere testarda.
Se al posto di Alos, e lui lo sapeva bene, ci fosse stato qualsiasi altro gormita, anche lo stesso Noctis, avrebbe insistito fino allo sfinimento per portare a termine ciò che avevano intrapreso.
Ma la presenza dell’amato Alos faceva prevalere la ragione sull’orgoglio, e quindi Galila non protestò, limitandosi a bofonchiare qualcosa mentre spegneva le fiamme con rapidi guizzi di magia.
Improvvisamente Galila si fece tesa e spalancò gli occhi, guardandosi attorno con veloci scatti della testa. Alos si aspettò il peggio. Con una giravolta si volse dalla parte opposta, coi pugni pronti a dare dei buoni cazzotti.
“Eccovi qua!” disse entusiasta il nuovo arrivato, emerso dal fogliame, trafelato nel tono della voce.
“Ehi, ma cos’è successo?” domandò subito dopo, notando gli alberi corrosi dal calore e il terreno annerito.
“Te lo spiegheremo un’altra volta, Livaz” liquidò in fretta l’argomento Alos, guardando sgomento e incuriosito Livaz Aquila Solitaria, il figlio di Noctis, e il suo insolito e corposo ‘bagaglio’.
“Che cosa ci fai qui, piuttosto? E dove hai preso quello?” gli chiese Galila, trasmettendo la stessa curiosità e incredulità di Alos.
Con il dito sottile e allungato indicava tremante l’animale tenuto al guinzaglio da Livaz. Un animale che non si erano aspettati di vedere, non nelle mani del loro compare esiliato; nelle mani di nessuno, effettivamente.
Era un grifone bianco e grigio fumo che, disinvolto, si puliva le penne dell’ala sinistra, agitando il collo e il becco giallo.
“E’ una lunga storia. - spiegò Livaz, sorridendo al ricordo dell’episodio - Era solo un uovo quando l’ho salvato con…alcuni miei amici, un po’ di anni fa. Ora è cresciuto, e l’ho allevato io. Anche se è giovane e non tanto grande, è pronto a mettere a rischio le penne per la nostra causa, ve lo posso assicurare.”
Disse il tutto orgogliosamente, sottolineando le parole ‘l’ho allevato io’, e accarezzando come un padre fa con il figlio il capo pennuto dell’animale alato.
“Be’… - iniziò Alos, strofinandosi le mani tutto soddisfatto - Queste…queste sono ottime notizie! Ma perché non ce ne hai parlato prima?”
Livaz non rispose.>>
   
 
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