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Autore: TheEldestCosmonaut    06/08/2015    2 recensioni
Una rielaborazione del mondo fantastico ideato da Leandro Consumi e Gianfranco Enrietto, e sviluppato da Giochi Preziosi ©.
In una un tempo sperduta e sconosciuta isola del Grande Golfo, situata alle porte dell’inesplorato Mare dei Serpenti, un anziano maestro nato e cresciuto qui, dal passato oscuro e dall’identità misteriosa, noto a tutti, fuorché la moglie, come semplicemente il Cronista, riunisce ogni mattina i giovani del suo Popolo di appartenenza, il Popolo della Foresta. Il Cronista insegna ai cuccioli della sua etnia la storia lunga della razza che domina l’Isola di Gorm: in particolare, è arrivato il momento per il Cronista di narrare le vicende degli ultimi cinquant’anni circa dei gormiti, i più intensi e sanguinari, quelli che maggiormente hanno sconvolto le usanze, la filosofia, la scienza, e in generale la realtà intera dell’isola, e che hanno aperto i suoi abitanti alle altre razze del Grande Golfo.
Mappe:
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Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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“Mmm…la visione dell’esercito di centomila, centomila uomini mi ha davvero messo i brividi…papà, sei imbattibile.”
Esclamò divertito Osmaniu, battendo piano i piedi per terra.
“Non dovrebbe divertirti, Osmaniu. – reiterò Lafivias d’opinione contraria – Dovrebbe terrorizzarti, al massimo. Quelli sono guerrieri, che portano, hanno portato, paura e morte.”
“Lo…lo so. Ma…ragiona, anche i ‘buoni’ di questa occasione hanno portato paura e morte per i ‘cattivi’. Che è anche la mia gente.”
Il Cronista tacque e li fissò apatico, dopo l’iniziale appagamento per i complimenti del figliolo. Incrociò le braccia, trovando vivo interesse nella conversazione dai toni molto maturi che i due stavano intraprendendo. Si stupiva particolarmente per Osmaniu, che in genere, quando la sua compagna, dotata di innegabile migliore eloquenza del trovatello vulcanico, era abbastanza arrendevole e non riusciva a costruire un buon impianto argomentativo per esprimere e difendere le sue opinioni.
Questo me lo scordavo con i bimbetti, alla mia vecchia radura. Osservò compiaciuto – ma in apparenza sempre inespressivo – il Cronista, entusiasmandosi una volta in più dei vantaggi che il sofferto trasferimento a Garsomor gli aveva recato.
“Capisco, sì, che è la tua gente. Ma c’è qualcosa di sbagliato nel, nell’esaltarsi, entusiasmarsi alla vista o all’immaginazione della lotta, e della guerra. La guerra è sofferenza.” Si notava chiaramente, nel come giocava con la penna e si mordeva il labbro, che Lafivias trovava difficoltà nel mantenere salda la propria posizione, forse anche lei sorpresa della buona inattesa oratoria del fidanzato.
“Be’…forse dico balle, ma la letteratura, queste lezioni di storia raccontate, hanno proprio lo scopo di far imparare attraverso le emozioni. Se non provassimo qualcosa, tanto vale fare soltanto le lezioni normali.”
“Sì, hai ragione. Ma esaltarsi per la guerra? Sento che c’è qualcosa di sbagliato in questo.”
“Non so che dire…è naturale, soprattutto per noi gormiti. E poi anche tu ti esaltavi quando c’erano le lotte, lo so.”
“Lo so anch’io, cosa credi? Ma non lo faccio senza pensarci.”
La discussione a quel punto non sembrava dover proseguire oltre, e il Cronista si intromise per introdurre nuovi argomenti di chiacchiera: “Sì, devo ammettere, modestamente, che un po’ di paura come anche di esaltazione l’ho provata anch’io, immaginandomi quella parte. Forse, anzi, quasi sicuramente c’è ancora qualcuno in vita che potrebbe dirvi cosa ha provato lui, o lei, che l’ha vissuta. Anche se probabilmente non vorrebbe rievocarlo, temo. Altro?”
“Devilfenix è un grande stronzo.” Se ne uscì Osmaniu, invero, quel giorno particolarmente loquace. Si vergognò per un attimo dell’uso improvviso e indesiderato della parolaccia, e scese in un vergognoso silenzio. Lafivias lo tirò fuori da quella situazione.
“Lo credo anch’io, e per ora abbiamo solo ‘letto’ i suoi pensieri, non ha ancora fatto nulla. Ma era davvero così?”
“Come fosse davvero non lo può sapere nessuno fuorché lui stesso. Come narratore, devo saper creare personaggi che il lettore, voglio dire, l’ascoltatore possa odiare, oltre che amare. Ma non lo faccio mai per capriccio, a caso. Di certo Devilfenix era, o forse è ancora, una personalità ambigua, da due e più facce, con una notevole abilità di persuasione.”
“Armageddon è quasi più…lo si può apprezzare più di Devilfenix, ecco. – sostenne poi Osmaniu; poi guardò storto Lafivias, e fece una piccola smorfia – Anche se, come vulcanico, il mio, ehm giudizio, sì?, è influenzato.”
“Armageddon era un ottimo Signore, fedele e con il suo Popolo nel cuore, lontano dalla brama di potere e di lusso di Devilfenix. – lo supportò il padre – Direi che tutti i Signori possono dirsi migliori di Devilfenix, forse persino Elios. Ma è meglio non portare questa discussione oltre, o la situazione potrebbe farsi bollente. Comunque, Armageddon era bravo, molto umano e cordiale, anche se è durato poco. Con i suoi sudditi, s’intende. Forse si sarebbe dimostrato anche aperto al dialogo, ma i tempi erano quelli che erano.”
“Quindi…la bestia che ha fatto l’imboscata a Opale Nero e Mangiaterra era quel…quel ragno gigante, l’aracnorosso, con Skorpios alla guida.” rifletté Lafivias.
“Ebbene sì. Che ne dici, è valsa l’attesa?”
“Insomma. – proruppe l’altro, sbuffando a braccia conserte – Si è solo capito che era lui e che li avrebbe attaccati, ma non si è vista la lotta.”
“Non volevo dilungarmi. – si giustificò con spallucce il maestro – E poi, in certi casi è meglio lasciare spazio all’immaginazione, non trovi? Basta sapere che tutti e tre, nonché le bestie ritrovate, sono tornati sani e salvi alle rispettive case. La loro lotta è stata interrotta dall’arrivo della mandria di bisonti rocciosi. Ma poi scusa, Osmaniu, tu non c’eri l’altra volta. Come fai a sapere del loro scontro?”
Imitando il padre, quello fece spallucce: “Lafivias mi ha fatto un riassunto.” E le accarezzò il capo in prossimità dell’orecchio, sorridendo.
“Oh be’, mi fa piacere.”
“E con i dragoni com’è finita?” domandò il figlio.
“Navus è riuscito nella sua missione, come anche molti altri che erano stati mandati ad Aumatot Darn. Non tutti, però. Diversi non sono affatto ritornati.”
Lafivias si raccolse le spalle tra le mani: “Non riesco proprio ad immaginare un gormita, uno qualsiasi, riuscire a vincere un dragone, neanche con tutti gli incantesimi dell’universo. Sono così grandi e feroci…”
“Noi gormiti siamo molto potenti. Troppo potenti. – disse Osmaniu seguendo la scia del discorso, per poi accompagnarlo verso un’altra direzione – Pensiamo anche a Skorpios, e al suo veleno, e alla cura per il veleno, che ha entrambi dentro di sé. Siamo così strani, diversi e…pericolosi. Le altre razze non ci temono?”
“Non esiste nessuno che non ci teme. – disse drammatico, quasi glorioso, il Cronista – Abbiamo mostrato al nuovo mondo il nostro profilo migliore: un popolo industrioso e capace, sincero e ricco, e il mondo ci ha accettato come tale. Tuttavia, non credo siamo davvero pericolosi come credi, Osmaniu, non come una volta, se non altro. Se dovessimo diventare un vero pericolo per il mondo, toglierci di mezzo non sarebbe un grande problema. Siamo in pochi, anche se potenti, in confronto agli imperi degli elfi, dei vici e degli zoari.”
 
Un gong risuonò per i corridoi vuoti delle stanze sotterranee. Risuonò nel vuoto stadio sabbioso mentre la grata metallica veniva issata al richiamo del suo nome per il combattimento. Risuonò tra le migliaia di gormiti che, non appena i due sfidanti varcarono i rispettivi cancelli e le grate furono chiuse dietro di loro, si animavano, gridavano, esultavano tra gli spalti rocciosi della secolare costruzione nei pressi della costa sud-orientale di Dalarlànd, dove gli alberi altrettanto secolari si specchiavano nelle limpide, temperate e poco profonde acqua dello Stretto di Gorm.
Alla definitiva chiusura delle grate e al rimbombo del secondo gong, che sancì la discesa del silenzio tra il pubblico, non esistevano null’altro che loro due, adesso. Lui e il suo sfidante vulcanico. Vulcanico. Era singolare ritrovare dopo circa un secolo dei gormiti del Vulcano partecipare, come sfidanti o semplice pubblico, al Torneo di Astreg. Specie considerando che, ancora una volta, nonostante le mancanze, il Popolo del Vulcano aveva chiuso tutti i ponti con le altre tribù e la minaccia di guerra era, ancora una volta, imminente. Tuttavia questa volta diversi vulcanici, in virtù di ciò che era accaduto, ciò che era cambiato per sempre nel 860, avevano avuto l’accortezza e il coraggio di dire no e mettersi da parte. E gli alti dirigenti del loro Popolo li misero da parte, costringendoli a rifugiarsi presso gli altri Popoli.
Era un miracolo che quel Torneo si fosse tenuto, e ancora più sorprendente era il fatto che, con un Vulcano rabbioso e frustrato alle porte, politici e civili insieme ritenevano possibile e anche divertente allestire l’annuale tradizionale gara di lotta. A cui fu reso possibile agli stessi vulcanici rifugiati partecipare.
Si trattava del suo primo Torneo, e non tutto il male – se di male si può parlare – vien per nuocere. Era la notte del 64 Greemeralse. La luna primaria era come un sole verde nel nero cielo stellato, tanto che le torce e le pietre di luce che illuminavano l’arena erano ben poche. Lui era appena adulto, aveva appena 19 anni, ma adesso si stava giocando la finale, e il titolo di Campione del Torneo di Astreg del 873 dalla nascita della civiltà. Contro nientemeno che un vulcanico. Ne aveva già affrontati – e sconfitti – alcuni, ma se costui era giunto a contendersi il titolo, doveva essere ben più preparato degli altri e molto più difficile da battere. Se gli era stato concesso arrivare fin lì a una così giovane età lo doveva unicamente a suo padre, al suo insegnamento sin dall’infanzia a numerosi stili di lotta, alle vie sia della luce che delle tenebre, e, principalmente, all’allenamento, sotto incitamento del padre, del particolare potere innato della Foresta che lui aveva e molti altri no, o che semplicemente ignoravano di avere o preferivano non usufruirne.
Doveva tutto a suo padre, se fino ad ora era riuscito a vivere in serenità, lontano dalle terribili vicissitudini che avevano sconvolto Gorm – e che tenevano il genitore lontano da casa metà del tempo – ed era stato capace di maturare la sua tecnica di lotta che l’avrebbe portato lontano. Lottava per suo padre, in fondo, passato a miglior vita due anni prima, prima di poter vedere il figlio combattere – e vincere – il prestigioso Torneo. Suo padre aveva allenato molti guerrieri, sia semplici ambiziosi della gloria di Astreg come anche soldati dell’esercito, pure se per quasi l’interezza della sua vita era stato un Saggio della Foresta. E non a caso: le ultime parole che disse rivelarono verità nascoste ai gormiti da molto tempo.
L’energumeno del Vulcano, un bestione rosso che non sembrava avere altri talenti se non quello di un’imponente forza fisica, avanzò la prima mossa, saettando contro di lui fasci di fiamme e fuoco nello stile del Respiro del drago. Egli tentò come gli fu possibile di evitare quei flussi ardenti, ma il loro principale obiettivo fu comunque raggiunto: impedirgli di vedere l’avversario che, offuscato dalle fiamme, stava caricando contro di lui e, con le lingue di fuoco che gli danzavano intorno, assestò una poderosa spallata al leggero forestale, scaraventandolo a terra con la faccia nella sabbia.
Non significava nulla, per lui. Il dolore era sopportabile, e aveva una perfetta conoscenza dello spazio intorno a sé – dopo più di venti combattimenti in quell’arena, il tempo lo aveva avuto eccome! Senza togliersi subito da quella situazione svantaggiosa, spalancò le lunghe braccia, più gonfie e muscolose negli avambracci che nei bicipiti, e allargò le fila di sette dita, chiamando a sé i tronchi conservati al limitare dell’arena per uso nei combattimenti da parte dei gormiti come lui – sì, perché privati del potere di creare gli elementi, utilizzare materiale preesistente era l’unica alternativa per garantire a tutti l’equità, anche in virtù del fatto che, per la ricchezza dei materiali necessari per infiammare l’aria nell’aria stessa, i vulcanici non necessitavano del fuoco vivo per generarne di proprio. Non vide quanti ne andarono a segno, ancora infossato, ma udì i botti del legno contro la carne morbida, per quanto muscolosa, del suo avversario, nonché il crepitio del legno che va a fuoco. Quando infine si rialzò con una mossa acrobatica, non badò alla situazione del suo assalto sorpresa, se fosse andata a buon fine e quanto a buon fine: si mise scattante saldo con i piedi sulla sabbia e con eleganti e decisi movimenti delle braccia evocò un ultimo tronco, da dietro di sé, proiettandolo veloce come il vento contro il nemico. L’allungato pezzo di legno schizzò come un fulmine e affondò nel ventre del vulcanico, affondando quest’ultimo nella sabbia.
Poi schizzò egli stesso contro di lui, rapido e feroce come il tuono, e non appena quello si rialzò, gli sferrò un calcio dritto nella mascella, e poi un altro, e un altro e un altro ancora, sollevandosi in aria nel farlo. La tecnica del Katring sparke eseguita in modo perfetto. Quando furono entrambi nuovamente a terra, il forestale si appiattì, piegando all’estremo un ginocchio e estendendo l’altra gamba. Utilizzando il piede a terra come perno, ruotò su se stesso, slanciando la gamba estesa contro le due tozze dell’avversario, rimandandolo a baciare la sabbia. Eccezionale, la tecnica del Skeringtoppen, eseguita per di più su un terreno non stabile come quello dell’arena! Il pubblico non mancò di notare con uno scroscio di schiamazzi.
Il forestali gli s’avventò sopra, e prese a tempestarlo di pugni, tenendolo fermo con una larga mano stretta al collo. Quello parve non dover avvertire nulla, nemmeno quando il sangue cominciò a gocciolargli dal naso, e il forestale dovette fermarsi quando gli occhi del vulcanico si fecero luminosi come Redrubin e il proprio petto prese fuoco sotto i colpi dello Sguardo del Sole.
Sollevò un po’ di sabbia e le pericolose fiamme furono spente, ma il gormita del Vulcano era ancora acceso. Corse e lo picchiò duro con un pugno in pieno petto, esattamente laddove le fiamme erano state appena fermate, e poi un altro. Ma il forestale rimaneva saldo, non indietreggiava. Parò il terzo pugno…ma non deviandolo fisicamente. Sfruttò il potere della Foresta sulla materia organica, e, come un floscio ramo mosso dal vento, il braccio del vulcanico fu sospinto lateralmente, lasciandogli spazio libero per attaccare. Non era la prima volta che utilizzava il suo potere durante il torneo, e da alcuni era stato malvisto inizialmente. Fu anche motivo, la prima volta che lo fece, di disguidi e diatribe per i patrocinatori e gli arbitri del Torneo. Tuttavia, poiché era un potere elementale come un altro, verificato, e non uso della forza magica, non c’erano problemi.
Disorientato il vulcanico, benché sicuramente questi sospettasse avrebbe usato quel ‘trucco’ presto o tardi, il forestale lo assalì con rapidissimi e scattanti pugni al petto, all’addome, al mento, calci rotanti in pancia e in faccia, e quand’anche il vulcanico aveva opportunità di contrattaccare, sempre il gormita della Foresta esercitava il proprio dominio sui suoi pugni per bloccarli o deviarli, e così seguitava a massacrarlo.
Durò un’infinità di tempo e il vulcanico sembrava instancabile, insensibili alla fatica o al dolore. Arrivò dunque un istante in cui il periodo tra un attacco del forestale e il secondo fu più lungo e il vulcanico poté caricare un colpo più intenso…che il forestale non riuscì a fermare al solito modo. Fece uso del proprio potere, sì, ma semplicemente il pugno non si fermò né fu spostato. Rallentò solamente: a quanto pareva non solo il corpo del vulcanico era potente, anche la sua mente, capace di resistere al dominio organico del forestale, tanto da far perdere la concentrazione a quest’ultimo che fu abbattuto da quell’ennesimo pugno. Il gigante del Vulcano lo sollevò in aria e lo sbatté a terra come un rifiuto. Lo prese per le braccia, lo strizzò ben bene e rigurgitò un’intensa fiammata sulla sua faccia. Quello reagì scalciando violentemente la faccia avversaria, e anche quando il respiro infuocato cessò, la stretta del vulcanico non seguì, e seguirono invece le piedate dritte sul muso, terminate, dopo essersi liberato, da un calcio in aria sullo sterno che fece cadere il vulcanico indietro. Ritentò il dominio organico per una mossa definitiva, ma quello riuscì ancora una volta a resistere, e con la mano non mantenuta in stallo tra il potere del forestale e la potente mente del proprietario scagliò una raffica di sfere infuocate. La situazione proseguì in tal modo per lunghi minuti, finché il forestale non diede apparente segno di stanchezza. Sicuro di vincere, ormai, il vulcanico gli corse in contro furente, se non che quella debolezza dimostrata dall’avversario non era che un inganno: nel bel mezzo della corsa le ossa delle sue gambe furono piegate fino a fargli eseguire una perfetta spaccata, per la quale ululò di dolore. Con calma, dunque, il forestale gli si avvicinò e gli sferrò due ultimi calci. Dopodiché, il vulcanico era allo stremo – e il forestale pure.
Si arrese. Il gong risuonò per l’ultima volta.
“E il vincitore è….”
 
Il Cronista si svegliò di soprassalto all’udire il suo nome, da tanto, da tutti mai più pronunciato, in sogno. Si ritrovò a ridere. Non si sarebbe mai aspettato di rivivere il ricordo della sua prima ed unica volta come lottatore – e come vincitore – del Torneo di Astreg, l’evento che per primo lo rese famoso  in tutta l’Isola, più per il come della vittoria che per la vittoria in sé. Di quello se non altro poteva andare fiero. Del secondo fatto che fu la causa della sua notorietà, del titolo di ‘eroe’ seguito al suo nome, non lo era per niente. Ma il Cronista non era famoso per nessuna di quelle due cose. La vittoria al Torneo e il suo atto di eroismo non avevano spazio nella sua identità come Cronista.
Lavandosi e preparando la colazione, gettò via questi pensieri su se stesso per riflettere, visto che l’argomento del suo flusso di coscienza era quello, sul Torneo di Astreg.
Cambiato radicalmente, a partire dagli eventi del 860 che misero la parola fine a diversi di quelli che per la società gormitica erano ormai dei punti fermi, e che impedirono per sempre la creazione degli elementi. Questo fatto incideva intensamente sulle modalità di combattimento del Torneo: eccezion fatta per Vulcano, per i motivi detti prima, e per Aria, che aveva disponibilità quasi infinita del proprio elemento, creazione o meno, per Foresta, Terra e Mare i problemi erano palesi. Si optò inizialmente per ospitare nell’Arena ‘magazzini’ di acqua, legna e vari tipi di rocce da utilizzare nella lotta, ma ben presto si rivelò scomodo nonché costoso. I gormiti del Mare erano senz’altro i più indisposti: non avendo acqua gratuita e sempre disponibile con cui costantemente mantenere umido il proprio corpo, la loro situazione di debolezza nei confronti degli altri Popoli era evidente e irrecuperabile, cosa che portò al loro crescente abbandono del Torneo…e della comunità gormitica in generale.
Da qualche decina di anni, ormai, il Torneo di Astreg vedeva unicamente la lotta corpo a corpo senza poteri di genere, e solo gormiti di Aria, Vulcano e Terra partecipavano. Anche i gormiti della Foresta, sia animali che vegetali, progressivamente diventavano latenti in quelle occasioni, per motivi che il Cronista non riusciva a capire.
 
<<92 Redrubise 859.
Il Deserto di Roscamar non è solamente un’immensa distesa di sabbia. Sicuramente più di metà della sua sterminata espansione, che copre gran parte di Darth Kuun, dalle pianure relativamente fertili e miti e le spiagge frastagliate del meridione fino alla prossimità della Valle dei Canyon, dove cominciano a spuntare le eponime rocce nere, esso non è altro che un arido oceano di polvere dorata.
Al suo interno, tuttavia, pur mantenendo ognuno un clima ostile, si presentano paesaggi, grandi e piccoli, anche molto diversi tra loro.
La Valle della Disperazione è un esempio: una profonda conca rocciosa, rada di vegetazione fuorché licheni e felci che penetrano il ruvido suolo, delimitata da enormi pareti pietrose scoscese e impraticabili – eccetto alcune strette entrate in discesa - , riempita all’interno da formazioni di roccia basse e tozze. Il grigio domina l’intera valle. Deve il suo nome al terribile e insopportabile riverbero delle voci che rimbalzano tra le mura indistruttibili, scavate dal vento e da piogge che in un’epoca lontana avevano irrorato quel deserto di pietra e sabbia. Un’iperbole, senza dubbio.
Senza dubbio, se fosse vero, nessuno avrebbe badato all’eco in mezzo al frastuono della guerra, il marciare impetuoso dei piedi sulla nuda terra, il tintinnare e il cozzare del metallo e delle armi, i lamenti delle bestie e degli uomini, fiaccati dall’avanzata militare e dal sole, tesi per l’imminente collisione.
Una lunga e forzata marcia, una volta riuniti i Popoli alleati a nord di Roscamar, la Foresta e i ka’nhili di Karmil da Dalarlànd con navi, il Mare dallo stretto e la Terra dalla sua capitale, alleggerita da una speciale pozione corroborante di fattura karmiliana, aveva condotto l’esercito del Vecchio Saggio – nome simbolico, il Vecchio Saggio non era presente né ebbe mai il controllo sulle truppe – nella Valle della Disperazione, discretamente più a nord della Valle di Teunor dove l’esercito nemico si riteneva essere stanziato al momento dell’avvistamento.
I loro numeri non erano largamente diseguali, né si poteva definire di quanto differissero; era chiaro però che l’esercito di Magor aveva il vantaggio aereo, che nessuno credeva potesse mai essere pareggiato o recuperato nel vicino futuro. Ancora una volta, per quanto ormai radicata sembrasse la nuova idea - guida del Popolo dell’Aria, le due fazioni in lotta su Gorm vedevano visi un tempo amici dichiararsi morte a vicenda.
Oltre all’ovvia composizione di gormiti – diversissimi tra loro, allora come sempre – di Popoli diversi, i due eserciti differivano per un diverso tipo e un diverso numero di nuove cavalcature.
La fazione dello Stregone di Fuoco presentava un pericoloso contingente di dragoni, circa cinque, un paio di grifoni e una creatura mostruosa dai riflessi infuocati che i gormiti alleati con il Sommo Signore non avevano mai avuto il dispiacere di incontrare fino a quel momento, talmente orribile a vedersi che persino coloro che l’adoperavano parevano da essa disgustati. Il peggio e il meglio dell’aracnorosso, però, dovevano ancora conoscerli.
E naturalmente, i nuovi arrivi su Gorm, abitanti di terre così vicine e così inesplorate, in realtà originari di lande di cui i gormiti non avevano mai immaginato l’esistenza, la quale gli stessi Stregone di Fuoco e Vecchio Saggio ignoravano.
Così diversi, così sconosciuti, così opposti.
I gargoyle furono sempre una conoscenza esclusiva ai gormiti del Vulcano, e probabilmente, da qualche anno, a quelli dell’Aria: le conoscenze segrete per raggiungere la loro isola, Tato Yami, furono da sempre note solo ai più alti gerarchi del Popolo del Vulcano.
Più bassi di un comune gormita si alzavano da terra, più, anche se di poco, del Vecchio Saggio, ma si vedeva nei loro sguardi felini dalle venature rosse, verdi o brune, nei loro muscoli tonici tinti di blu la forza ammirabile di cui disponevano e la ferocia che potevano scatenare nella lotta.
Trattenevano a stento la loro sete per l’adrenalina del combattimento, fremendo tutti insieme come un campo di grano mosso dal vento. Indossavano elmi ovali rinforzati e con apposite fessure in cui alloggiare le corna, inesistenti per alcuni, grandiose per altri. La loro armatura, forata sul retro per permettere il passaggio delle ali, anch’esse di dimensioni variabili, si componeva di schinieri, stivali, guanti, pettorali e addominali bronzei separati, che non parevano in realtà molto resistenti, o utili. Molto interesse catturò nei gormiti la particolare gonnella di tessuto rinforzato che copriva i loro bacini e la parte superiore delle cosce.
Il loro corredo da combattimento si componeva di una batteria di armi fissa e nel contempo varia: una spada corda ricurva, appesa alla cintola se non stretta in mano, una lunga lancia, impugnata o legata a un appiglio sulla schiena, che non era il solito giavellotto di legno con la punta metallica appuntita, bensì una vera e propria barra di metallo, ricoperta di cuoio per nullificare il riverbero degli urti, assottigliata e affilata all’estremità, estremità forgiata non unicamente nella tradizionale punta triangolare o romboidale, ma modellata in una varietà indefinibile di lame seghettate e ricurve; alcuni portavano un arco, e tutti avevano con sé larghi scudi circolari, di struttura interna lignea, rivestita di pelle nella parte dell’impugnatura e di un disco di metallo dalla porta opposta. Inoltre, questa stessa porzione di scudo era dipinta, anch’essa senza schemi fissi, ma di temi ricorrenti: dragoni, serpenti, squali, calamari giganti, bisonti, e bestie forse mitologiche che i gormiti non riconoscevano.
Dall’altra parte, i ka’nhili, come un sol uomo, silenziosi, rigidi, freddi. Tutti completamente nascosti sotto le loro intricate armature, una uguale all’altra, di tessuto flessibile e tessere di metallo, dipinte d’oro e d’argento e recanti a più riprese svariati ideogrammi il cui significato sfuggiva alla comprensione gormitica.
Non portavano elmi, mostrando ai propri amici e nemici l’interezza dei loro crani coriacei, completi delle loro macchie caratteristiche e i quattro occhi allineati a due a due. Le uniche loro armi erano le lunghe spade ricurve all’estremità e i loro grandi scudi rettangoli e tesserati, anch’essi decorati da un ideogramma, più vistoso e ampio di quelli sulle spalle e sul petto, l’unica fonte di varietà nel loro equipaggiamento. I gormiti ritenevano simboleggiasse la famiglia di appartenenza.
Mi è difficile descrivere a parole le sensazioni di quei momenti, sebbene non sia certo la prima battaglia di tempi andati che mi accingo a narrare, e purtroppo nemmeno l’ultima.
Le parole, tramandate di figlio in figlio, di coloro che sopravvissero e che io raccolsi non possono essere immesse in questo racconto, non renderebbero. Le parole da sole, uscite dalle bocche di quelle persone, mancano del tono e della gestualità con cui esse furono dette, rievocando i ricordi dei propri genitori. Toni e gestualità che non posso inserire qui dentro a caso. E comunque non è mia intenzione ricopiare le parole di chi ricorda questi eventi. Quei verbi cambiano, mutano, oserei dire si contraddicono, di racconto in racconto. Io invece voglio che queste parole rimangano ferme, fisse, che non mutino mai e ricostruiscano nel modo migliore ciò che è davvero successo.
Si respirava un’aria satura di tensione, di paura, quasi, nelle pareti grigie e sterili della conca.
Si fronteggiava un nuovo nemico, da entrambe le parti, ed entrambe le parti non sapevano del tutto cosa aspettarsi.
La voglia di scoprire, anche a costo della propria salute, i modi e le mosse del nuovo avversario era un sentimento condiviso dai più dal lato dello Stregone di Fuoco, forse non sempre genuino e sostenuto da un desiderio di mascherare la propria ansia.
La mancanza di comprensione dei veri motivi di quella guerra turbava i cuori di molti gormiti.
Gli alleati di Sommo Luminescente III sapevano perfettamente che lottavano per la difesa del pericoloso Occhio della Vita, oltre che per impedire l’alba di un regno dominato dai vulcanici, idea che terrorizzava parecchi. Tuttavia, sapevano ben poco dei ka’nhili. Cosa li spingeva davvero a combattere fianco a fianco con quella razza che forse da secoli era vissuta poche miglia dalle loro spiagge, ma di cui ancora sapevano ben poco? Cosa nascondevano nei loro accampamenti portatili?
Era noto che tra gargoyle e ka’nhili non corresse buon sangue, e che usarono in un tempo non troppo lontano Gorm come campo di battaglia. Negli impassibili sguardi dei soldati ka’nhili non si vedeva rabbia, odio sfrenato; alcuni karmiliani meno ortodossi alle regole mostravano in verità un briciolo di emozione, ma nella maggior parte di loro si scopriva solamente una spassionata volontà di vincere il proprio nemico, senza piacere per la lotta, senza diletto per la competizione, un lavoro, un compito da assolvere e da cui trarre nessuna soddisfazione.
Tutto il contrario, per quello che ancora erano in grado di vedere i gormiti alleati, dalla parte opposta, nei gargoyle, che parevano scoppiare nell’attesa dell’inizio dello scontro.
Anche per il loro caso, e non solo per i gargoyle, i dubbi erano sovrani. Volendo pure da mettere da parte la misteriosa via con cui le truppe degli yamensi erano giunte su Gorm – era impraticabile spostare un esercito attraverso un varco, così come percorrere la distanza in volo e anche il viaggio per mare: come avevano eluso la Grande Piovra? Certo, era già successo in passato che qualcuno sfuggisse, ma per far approdare quegli uomini e le loro vettovaglie si necessitava di parecchie navi, e grosse, che la Grande Piovra non poteva non vedere – rimaneva da scoprire perché si erano messi in marcia. Il nuovo rifugio dell’Occhio della Vita era un segreto noto a ben pochi ufficiali dei tre Popoli, era improbabile che i nemici l’avessero scoperto. Era però sicuro che Garsomor era stata invasa e occupata. Che lo Stregone di Fuoco avesse messo da parte, temporaneamente, la ricerca dell’Occhio della Vita per iniziare la conquista dell’Isola? Tutto era possibile.
La Valle della Disperazione presentava, come già detto, delle entrate in discesa, nessuna molto larga. Una verso nord e due verso sud. Entrare nella Valle aveva completamente rivoltato le fila, con i ka’nhili ai lati, assunte dai gormiti del Vecchio Saggio, che ebbero ben poco tempo per riorganizzare le posizioni. I gormiti dello Stregone di Fuoco, al contrario, che avevano posto gli accampamenti in prossimità, una volta avvistati i nemici ebbero tutto il tempo per impostare le truppe secondo i piani; anche se la Valle della Disperazione lasciava per entrambi gli eserciti poco spazio di manovra, ed ambedue si videro costretti a non miseri cambiamenti (di cui per altro i gormiti non si preoccupavano parecchio, come era loro solito, vista la loro potente natura che rende diverse strategie militari piuttosto futili). Se non altro, il perimetro della Valle offriva un buon nascondiglio per legioni nascoste, preferibilmente di arcieri scelti; ciò non era un vero e proprio vantaggio, dal momento che ne potevano usufruire sia un esercito che l’altro.
L’avvio della battaglia prese tutti di sprovvista. Nessun messo inviato a trattare, nessun suono di corni, nulla. Solo uno scatenato grido di furore e i gargoyle blu che avanzavano correndo come scalmanati, seguiti poco dopo da soldati rossi e azzurri/bianchi.
La carica dei gargoyle di Tato Yami era uno spettacolo magnifico e terribile insieme.
Come scatenati da una lunga, insopportabile prigionia, si dimenavano e scalpitavano quasi impazziti, accompagnando la corsa ed ogni singolo colpo percosso con bestiali urla di sfogo, liberati all’improvviso da un peso opprimente.
I ranghi degli yamensi furono rotti immediatamente, da loro stessi, con le loro movenze elastiche, snodate, sregolate e per nulla virtuose, si buttavano nella mischia contraendo ogni singolo muscolo del loro corpo, con denti digrignati all’inverosimile e con un’apparente mancanza di preoccupazione per la propria sicurezza. Un ardore e una gioia indescrivibili muovevano il loro animo, sostenevano la loro carica ed accrescevano ad ogni ferita subita e inferta. Una passione per la lotta, per la competizione che li rendeva irrequieti ed esplosivi; paura, ansia, terrore, desiderio ardente di vedere il sangue e gli sconfitti, ira, tutto si mescolava nel loro spirito e diveniva il vero e proprio motore del loro corpo, guidandolo verso la vittoria e bruciandolo negli oscuri artifizi della via delle tenebre.
Assalivano il nemico con la foga di lepri nel periodo dell’accoppiamento, si battevano con la decisione di uno sciame di vespe che difende il proprio nido violato.
Paragonare, dall’altra parte, i karmiliani a un qualsiasi animale sarebbe completamente indegno, elevati com’erano questi ka’nhili separati dalla loro patria di fronte a tutte le forme di vita senzienti e non senzienti, superiori ai comuni struggimenti per sentimenti ed emozioni, che appresero a reprimere e rendere succubi al loro volere. Uno, tuttavia, è quantomeno azzeccato: formiche. Formiche soldato, forti e corazzate, ognuna valida come l’altra, maestre delle proprie abilità, senza alcun risentimento né rimorso a ostacolare il loro cammino, ligie al loro inoppugnabile dovere di difendere il formicaio e la regina.
I loro attacchi erano rapidi e impercettibili, netti come la ghigliottina, dotati della precisione di chi programma da mesi la prossima mossa, freddi e rigidi, statue in un involucro di metallo dipinto.
E poi arrivavano i gormiti. Forti di nuove dosi di veleni mythos e delle preziose tecniche di entrambe le vie della forza magica, non erano forse eleganti e inflessibili come i ka’nhili o spericolati come i gargoyle, ma in guerra nessuna vista era migliore di quella offerta da loro.
Fidatevi di me, ho osservato numerose specie impegnate in battaglia e in allenamenti o scontri agonistici, chi possente come una roccia chi agile come un pesce nel suo elemento, chi con un’insuperabile conoscenza della magia chi fornito di una tecnologia tale da portare con sé armi di morte assicurata, chi adoperando le più spettacolari strategie belliche chi facendo leva unicamente sul numero e la potenza di fuoco.
Eppure, nulla di ciò che visto e di ciò che vedrò può mai raggiungere in magnificenza un manipolo di gormiti indaffarati nel loro impegno prediletto per natura: la lotta.
 
“Coraggio! Non abbiate paura della morte! L’immortalità sarà di ogni caduto!”
Queste le urla galvanizzanti del Signore della Terra, Thorg. Nessuno sotto il suo comando, nessuno che combattesse di fianco a lui impietriva di fronte al nemico, i visi furenti di guerrieri del fuoco e i volti un tempo amici dei soldati alati non indebolivano il valore dei terricoli e degli altri uomini che, alzando lo sguardo, trovavano il capo cornuto e barbuto del Signore della Terra a sovrastarli.
Glorioso e abbagliante nella sua nuova armatura nera lucida, argentata e dipinta in più parti di uno sfolgorante arancione, armatura che metteva in risalto ed ingigantiva grazie al metallo modellato con precisione i muscoli più prorompenti del suo corpo e quelli che sembravano quasi corni sul suo dorso, che ora erano delle vere e proprie letali punte di giavellotto di freddo acciaio.
Thorg riteneva di non combattere solo per la salvezza della propria gente e per la missione dell’Occhio della Vita: come i grandi condottieri di anni lontani, come la tradizione gormitica insegnava a chiunque, lottava per la gloria, per il ricordo che lui e le sue azioni avrebbero lasciato nella storia, l’unica libertà dalla prigionia che era l’ineluttabile ciclo della vita.
Desiderava che tutti, dal più umile dei contadini al più ricco Signore, agognassero a questo sublime obiettivo, che fossero da esso mossi ad agire nel più esemplare ed eroico dei modi.
Ma non lo pretendeva. Sapeva che i suoi uomini combattevano per la maggior parte per mero senso del dovere e che la foga con cui lo seguivano e lo imitavano in battaglia era dovuta alla sua grande forza e alla sua imponente altezza, ispiratrici di sicurezza e fiducia.
A Thorg ciò era sufficiente.
Un bisonte roccioso gli passò di fianco, travolgendo due vulcanici e un gargoyle, mentre lui spezzava il collo a uno yamense con un colpo secco alla nuca con una roccia.
Paragonati ai gormiti e ai ka’nhili con cui ebbe l’opportunità di allenarsi trovo i gargoyle piuttosto…soffici.
Certo, prima era necessario evitare gli assalti di forza magica oscura e poi acchiapparli, cosa non affatto facile visti i loro movimenti,
Il nemico che Thorg si apprestava ad affrontare non era affatto soffice.
Librandosi sopra le lance dei gargoyle e gli elmi dei gormiti del Vulcano, generando forti correnti d’aria con il battito lento e ritmico delle grandi ali, un dragone vermiglio e il suo cavaliere, a pochi piedoni da Thorg, avanzavano riversando torrenti infuocati ai loro lati…diretti proprio verso Thorg!
“Mettetevi al riparo! Al riparo!” urlò a quelli più vicini a lui, mentre il dragone sferzava l’aria sempre più velocemente.
Spruzzi di fuoco, schegge di pietra, clangore metallico e gormiti che saltava e si buttavano alla cieca per sfuggire alla furia del dragone che anneriva il suolo grigio e arido con il suo soffio infernale.
Thorg si salvò per un pelo, aderendo con la pancia a terra e coprendosi il capo con un sasso: il dragone gli era passato proprio sopra, senza ferirlo!
Il Signore della Terra aveva già ideato una tattica per impedire al nemico di rappresentare una così robusta minaccia alle forze amiche, rifacendosi a una cronaca della prima guerra di Gorm.
Non era una strategia vera e propria: la sua riuscita dipendeva più che per metà dalla fortuna.
Ma Thorg aveva fiducia nei miti del passato, e non esitò a metterla in atto.
Si gettò alla carica del dragone in una corsa sfrenata, una corsa anche a ostacoli, saltando sui nemici e sugli amici, per evitare di far del male a loro o di inciampare e distruggersi a terra, rovinando tutto.
Il rettile alato era avanzato di circa un piedone e si accingeva in quell’istante a fare dietrofront per un’altra pioggia di fuoco, di sicuro più torrenziale ed efficace della precedente.
Thorg fu più rapido di lui: con un balzo che gli tolse il respiro, nonostante il vapore delle gemme del vigore, si aggrappò alla coda dell’animale con entrambe le mani.
Il dragone non mancò di accorgersene, e subito frustò la coda nel tentativo di scacciare l’intruso,
Thorg rimase aggrappato con estrema fatica, e quando il dragone, che tra l’altro stava planando verso l’alto aumentando il rischio nel piano del Signore della Terra, faceva delle pause, Thorg si arrampicava per la coda verso il cavaliere, apparentemente ignaro di lui.
Apparentemente,
A intermittenza, quello a un certo puntò inizio a voltarsi e a scagliare una pioggia di lapilli infuocati – e di bestemmie – di cui Thorg ne schivò quasi nessuna, uscendone con numerose ustioni sul viso e sulle mani,
Non poteva lasciare la presa o si sarebbe schiantato di netto: poteva solo andare avanti.
Gli fu impossibile in un certo momento continuare la scalata delle scaglie nel modo tradizionale. Dovette ricorrere a quel poco di conoscenza magica di cui disponeva.
“Hic et ibi!” gridò, e in un istante si ritrovò aggrappato al bordo della sella.
Ma Thorg pendeva da un lato, ed era in equilibrio profondamente precario.
Il suo enorme peso trascinò la sella da una parte. Tutte le cinghie e le corde dell’attrezzatura furono strattonate, stringendo la pelle del petto del dragone, che urlò di dolore.
Il cavaliere, un gormita di una certa stazza, protetto da una corazza nera dai riflessi sanguigni e decorazioni di un verde inquietante, non riuscì a rimanere ancora a lungo a dorso del dragone. Insieme a tutta la sella, su cui Thorg non avrebbe lasciato la presa per nulla al mondo, fu scaraventato da un lato per la perdita di equilibrio. Nella caduta pestò il viso di Thorg, che schiamazzò per il naso rotto.
Prima di essere spacciato definitivamente, il cavaliere del Vulcano si assicurò al piede del Signore della Terra.
Il volo del dragone era ora completamente compromesso.
Quella mole tutta concentrata su un solo fianco non gli permise più di volare diritto…o di volare affatto.
Disperatamente sbilanciato, si curvò sul fianco invalidato, perdendo quota a velocità frenetica. Le fila di uomini armati si facevano via via più distinte sotto di loro, le loro espressioni di terrore di fronte a quella vista sempre più esplicite e mal contenute.
La collisione era imminente.
“Disgraziato figlio di puttana! - bestemmiava il vulcanico - Bel modo di morire!”
***
Sopra gli altri belligeranti, tra i nuovi destrieri, i guerrieri delle due isole a ovest e est, nel mezzo dei numerosi soldati che lottavano in volo, due figure furono presto di spicco, e la loro maestosità e potenza, nonché il calibro dei loro cavalieri, quasi interruppe il corso della battaglia, i cui combattenti alzarono a più riprese gli sguardi per osservare l’esito della lotta celeste tra i due giganti.
Liberato dalla sua gabbia, l’infernale mostro tenebroso domandava azione, caccia, carne fresca…che trovò ben presto in quegli inetti che tentavano di tenerlo sotto controllo e che gli stavano non proprio a genio. Alzando una delle grosse zampe anteriori e poggiandola giù con uno scatto pestava con facilità ogni incapace e se lo portava alla bocca…una delle due.
Trattenuta dalle catene da oscuri più forti e tenaci degli altri, fu portato all’aperto del campo di battaglia. L’ululato delle due demoniache fauci fece tremare ogni gormita nelle immediate vicinanze, e oltre, riecheggiando tra le rocce della valle.
La vista, poi, fece impietrire i più deboli di spirito, non solo tra le file del Vecchio Saggio ma anche tra le moltitudini di Magor.
Un orrido apparente ibrido tra un cane, anzi due cani e un pipistrello. Tutto il suo corpo era ricoperto di una leggera peluria, quasi setole, di un grigio buio tendente al bruno. I palmi erano simili a quelli di un canide, solo molto più grandi. Le zampe anteriori erano, come in un pipistrello, più grandi e ampie di quelle posteriori, brevi e di utilità limitata allo spostamento sulla superficie.
Attaccate agli arti superiori e a metà schiena lunghe membrane di pelle ricoperte di pelame più rado, ripiegate. Dall’estremità del piccolo dorso si dipartivano due cervici abbastanza estesi con rispettivi capi di cani dal muso allungato, dentatura massiccia e sottile, e due paia di fini, appuntiti padiglioni auricolari, che ricordavano quelli del pipistrello. I suoi occhi erano verdi e dalle pupille insolitamente feline, scattanti qua e là alla ricerca di prede.
La furia di questa bestia si aspettavano i gormiti presenti: distruttrice e dannosa per i gormiti di Terra, Foresta e Mare, prodigiosa e vantaggiosa per i gormiti di Aria e Vulcano.
Ma l’impeto di questo mostro artificiale di Tato Yami aveva una scopo ben preciso.
Obskurios, liberatosi dai nemici che aveva incontrato, si apprestava a cavalcarla in guerra, contro un preciso avversario. Subito diede mostra di essere quello al comando, calmando Cerberios e rimuovendogli le catene. Fu portata l’armatura da combattimento del mannaro alato, che portava i colori simbolo e gli emblemi del Popolo delle Tenebre. Sulle zampe, sulle teste, sul dorso, la sella…
Cerberios era pronto. Fece una breve corsa, scuotendo le zampe superiori e spiegando le membrane e alzandosi in volo.
Se il suolo era un vero putiferio, si poteva dire quasi lo stesso del cielo. Svariati gormiti sfrecciavano inseguiti o inseguenti, altri attaccavano dall’alto come i cavalieri dei dragoni e dei grifoni. Le fauci sbranavano, acchiappavano e laceravano, si cibavano, colpirono con i globi qualsiasi gormita saettasse troppo vicino, e anche Obskurios attaccava chi intralciava il suo cammino verso il suo obiettivo.
Un magico e possente grifone dalla candida peluria, o meglio dire piumaggio, oppure entrambi – si sono tenuti centinaia di dialoghi riguardo l’essenza del pelo dei grifoni - bianca sfavillante, una criniera di penne maestosa ma non di diversa tinta. Grandi ali piumate, sopra le spalle, sbattevano per mantenerlo in posizione. Tutto era bianco, eccetto per gli occhi di un ceruleo blu. Corazzato dalla tipica armatura argentea e dorata del Popolo della Luce, aveva un aspetto molto più austero e temibile e raffinato al contempo, meno bestiale.
Obskurios raggiunse presto Lux’al, il cucciolo di Sommo Luminescente III e governato al momento, come sempre del resto, da lui, il suo unico vero padrone. La battaglia tra i giganti stava per cominciare.
 
“El’issam - pronunciò scandendo solennemente ogni sillaba Obskurios, un ampio ghigno verdognolo stampato sul volto - …mio genero.”
“Per te non sono El’issam, e nemmeno tuo genero. - lo corresse rigido il Sommo - I vostri matrimoni non hanno valore per noi.”
“Puoi bandire tutti i tuoi familiari e rifiutare ogni costume che non sia tuo, ma non puoi negare il sangue!” gli rinfacciò rabbioso e provocatorio il Re delle Tenebre.
“Non nego il sangue. - affermò infatti El’issam - La mia famiglia e tutta la mia gente si porteranno seco quest’onta, per fare in modo che nessuno ripeta quest’abominio.”
“Siete senza cuore!”
“Dai a noi dei senza cuore…guardati, guarda il tuo destriero. E’ un mostro che non ha diritto di esistere, un’aberrazione della natura. Ogni secondo della sua vita è un’agonia per lui, un orrore incommensurabile per tutte le altre forme di vita.”
“Taci!” urlò Obskurios, azionando la mazza che aveva legata al braccio destro, scagliandola a tutta velocità contro il nemico. El’issam la parò prontamente con il grande scudo rettangolare, che lui aveva stretto al braccio. Infatti non disponeva di una sola spada lunga, bensì di due.
Le due bestie capirono che era giunto il momento e si scagliarono l’una sull’altra.
Il grifone albino mordeva e graffiava, e su questo era avvantaggiato, poiché Cerberios possedeva delle membrane di volo e non vere e proprie ali, cosa che non gli permetteva di usare gli artigli, se non quelli posteriori, ma per usufruirne avrebbe dovuto fare acrobazie in aria e rendere vulnerabile il suo ventre. Ma il mannaro alato possedeva due bocche. Poteva addentare e trattenere con una e scagliare vapore infuocato con l’altra, mentre Lux’al non disponeva di nulla di simile, solo di una corazza di fattura migliore, così riteneva il Sommo Luminescente III.
Mannaro alato e grifone si graffiavano e si morsicavano e facendo della loro frazione di cielo un putiferio di piume e sangue, mentre Obskurios e Sommo Signore combattevano sui loro dorsi, troppo lontani e squilibrati per poter usare le loro lame, proiettando però raggi o sfere di luce e tenebre. Obskurios giocò sporco sin da subito, e con la mazza ferrata colpì Lux’al sul capo, e poi la fece arrotolare sul collo, nel tentativo di strozzarlo. Lux’al si dovette sentire talmente in pericolo che abbandonò le zanne e gli artigli da Cerberios, portando questi ultimi più vicino possibile alla nuca, nel tentativo di rimuovere quella dolorosa morsa soffocante.
Sommo Luminescente II soffocò un grido. Preoccupato per la sua cavalcatura con un’insolita intensità, caricò un fascio di luce molto potente, riversandolo su Obskurios e Cerberios, di cui quest’ultimo ne fu particolarmente accecato e si gettò indietro. La catena della mazza ferrata tirava, e si sarebbe strappata procurando a Obskurios una ferita non proprio lieve. Fu obbligato a ritirarla, lasciando Lux’al in vita.
Cerberios non rimase a lungo fuori gioco e irato si avventò sul collo e sulla spalla di Lux’al, mordendo entrambe, e smuovendo pericolosamente il grifone bianco. In contrattacco, Lux’al morse uno dei due colli e colpì con una zampata il dorso del mannaro e anche Obskurios, senza però riuscire a disarcionarlo. Ottenne però il risultato che ora i due sovrani potevano scambiarsi fendenti.
Cerberios lottò duramente per fare in modo che quella situazione perdurasse il più a lungo possibile, non dando modo all’avversario di mutarla, mantenendo lui e se stesso stretti in quella morsa di zanne e artigli.
Obskurios fu il più veloce: mentre il Sommo Luminescente, senza nemmeno toccarle con le dita, estraeva le sue due lame dal fodero, il re di Tato Yami lo devastò con un’onda oscura.
Il Sommo Signore si ritrovò a sbattere con la schiena contro la sella corazzata, ma con estrema perizia non perse il controllo sulle due spade ricurve, che rimasero, sospese, immobili ai suoi fianchi. Tuttavia, lui stesso rimase immobile: l’onda magia generata da Obskurios non svaniva, mantenendolo ancorato in quella posizione.
Obskurios sogghignava paurosamente, estraendo da dietro di sé una lunga e spessa lancia.
“Tu mi hai tolto un braccio, El’issam. - diceva rabbioso - Fu un attimo, ma il dolore è durato molto di più. Non mi importa di pareggiare i conti e toglierlo anche a te. E nemmeno ti darò la soddisfazione di una morte rapida.”
“La vedi questa lancia?” domandava sghignazzando, armeggiando l’asta metallica, pronta ad essere scagliata, mentre il Sommo ancora si dimenava per liberarsi dalla stretta magica di Obskurios.
“E’ intrisa di un veleno così potente che non ti darà via di scampo, un veleno fatto apposta per quelli della tua razza. Ma non subito: ti brucerà le viscere finché di te non rimarrà che un guscio vuoto, e durerà ore, giorni. E’ finita!”
Con un guaito tremendo e una carica fenomenale, l’asta avvelenata fu catapultata come un letale lapillo infuocato sparato dalla più tremenda delle eruzioni, diretta al corpo bloccato come in una ragnatela del Sommo Luminescente III.
Non si poteva dire lo stesso di Lux’al. Trattenuto fino ad allora dai denti d’acciaio di Cerberios, non appena fu consapevole del pericolo di morte per il suo padrone, non ebbe più a cuore nulla che non la sua salvezza.
In una frazione di secondo, tese tutti i muscoli che poté per sfuggire dalle zanne e le unghie del mostruoso frutto dell’alchimia, procurandosi tagli ampi e profondi grazie a Cerberios che non allentava la presa per nulla al mondo.
Si gettò in avanti, verso l’alto. Un grido talmente acuto che pareva il cielo stesso dovesse spezzarsi per la sua intensità e non accettare più la luce del sole, una notte perenne.
La lancia avvelenata trafisse Lux’al invece che El’issam, e la sua piaga fu indescrivibile.
“Non posso crederc.i” esclamava Obskurios, rabbioso per il fallimento, ugualmente soddisfatto per il dolore arrecato all’avversario e con un mare di altri pensieri che gli frullavano per il cervello senza pace.
“Che cosa questa bestia ha trovato di così buono in te, traditore della famiglia, da difenderti con la sua stessa vita? Che cosa gli hai fatto per renderlo così fedele?”
El’issam, non più sotto il giogo della forza del re oscuro, era libero di contrattaccare. Ma non fece nulla, nemmeno rispose. Lux’al stava cadendo, battendo le ali sempre più lentamente, continuando a lacerare l’aria con i suoi strilli.
“Ti vuole bene, non è così? E tu, gli vuoi bene? Hai il coraggio di mostrare il tuo affetto, o il tuo codice di impedisce anche questo?”
“Senti le sue grida!” urlava furibondo e gioioso al contempo, mentre si apprestava a compiere un atto di una crudeltà senza paragoni. Manipolando la forza magica con l’unica mano, controllò la lancia conficcata nel petto del grifone albino e impresse su di essa una seconda pressione che la fece penetrare ancor di più nella carne. Le urla sofferenti di Lux’al non avevano fine.
“Senti le sue dannate grida! Sentile e dimmi cosa provi! Non provi nulla? Nulla?!”
Una terza pressione sulla lancia. Era quasi tutta dentro.
“Sii un vero uomo, El’issam, e piangi! Piangi per il suo dolore!”
Le provocazioni di Obskurios terminarono in quel momento.
Non so dire se El’issam si lasciò andare alla sofferenza e all’ira, o fece leva su di esse e le represse per ottenere il loro potere. Ma ciò che fece lo fece senza dubbio perché soffriva per il dolore e la morte imminente di Lux’al, compagno di vita.
Riponendo con la forza della mente le due spade al loro posto, mentre Lux’al cadeva inesorabilmente e Obskurios sul mannaro rimaneva fermo a guardare, Sommo Luminescente III alzò il capo verso il nemico per la prima volta.
Nella mano destra concentrò tanta di quella forza magica lucente da accecare per sempre l’intero esercito nemico e alleato. Un globo di dimensioni colossali si dipartì dal suo corpo, devastando il re delle Tenebre e il suo orrido destriero alato, che furono scaraventati verso il basso dalla parte opposta.
Gli ultimi respiri stavano per abbandonare l’abbagliante grifone albino di Karmil. Senza una parola, in caduta libera, El’issam diede sollievo alla sua miseria con le sue forze nei suoi conclusivi istanti.
***
“Ricordatevi di non ritenervi invincibili: non lo siete per niente.” fu l’ammonimento di El’eter ai tre guerrieri dorati, abbagliante nella sua veste candida sotto il sole cocente del Deserto di Roscamar, mentre applicava su Bli’set l’ultima placca della corazza speciale.
“Sapete come funzionano: gli impulsi che i sistemi aurei inviano ai vostri nervi vi renderanno meno succubi alla fatica e al dolore, rinforzeranno i vostri muscoli, l’acido lattico sarà meno fastidioso, vi sentirete capaci di sollevare pesi dieci volte voi. Tuttavia, non osate farlo.”
Era molto severo. Legittimo, del resto: si trattava di un’arma sperimentale, e per quanto i ka’nhili, Bli’set lo sapeva bene, sembrassero così freddi e distaccati, le vite altrui avevano valore anche per loro.
Lui era abituato, suo malgrado, fin dall’infanzia all’austerità, agli obblighi, alle privazioni. I moniti rigidi del rinomato ingegnere di Karmil non lo muovevano affatto; in qualità di soldato, era abituato più dei suoi confratelli anche a ricevere ordini.
Ruotando appena gli occhi verdastri per osservare gli altri due prescelti per usufruire del frutto della conoscenza magica e meccanica di Karmil, un gormita del Mare e lo stesso Signore della Foresta Grandalbero, notò che il tono feroce e al tempo stesso composto dei moniti dell’onorevole El’eter li avevano scossi alquanto.
“Non provate in alcun modo possibile a tentare imprese al di fuori delle vostre capacità. Siate coscienti dei vostri limiti, parsimoniosi della vostra energia, combattete come se aveste indosso un’armatura come un’altra. Sono stato chiaro?”
“Sissignore” obbedì immediatamente Bli’set, piegando volto e torso in un leggerissimo inchino, le gambe ben rigide e dritte, secondo il costume karmiliano. Anche se El’eter non era parte della milizia, gli sembrò giusto rispondere a quel modo.
Grandalbero e il marino obbedirono in ritardo, insicuri su come procedere e su come appellare l’ingegnere. L’uso della parola signore era limitato ai soli Signori, e parve fuori luogo in quell’occasione. Dissero infatti: “Agli ordini, sir.”, imitando come poterono l’inchino di Bli’set e utilizzando l’appellativo generico con cui si era soliti chiamare qualcuno senza dargli né troppa importanza né troppo poca.
“Ottimo.” El’eter si rilassò, massaggiandosi fiaccamente il capo in prossimità delle macchie verdi a mezzaluna, coprendo con l’ampio palmo i due occhi mancanti. La sua movenza e la sua espressione agli occhi di Bli’set erano troppo emotive, troppo rilassate, in contrasto con il codice di Karmil e con la severità di appena un attimo prima.
“E’ tempo di andare. - osservò - La vittoria sarà nostra anche per merito delle Armature Dorate, per merito delle mie ricerche e del mio lavoro. Andate!”
Il suo tono si fece rigoroso e rigido come in precedenza, da vero generale, e gettò la mano in avanti per spronare i tre guerrieri d’oro a lasciare l’accampamento.
“As’nut iara’fei ka’ilarankat, Alshata Bli’set.” augurò rivolto al suo fratello di razza “Che i semidei vi assistano, Grandalbero e Gorgous, e possano le vostre anime trovare la via più breve per riunirsi con le Somme Forze, doveste cadere eroicamente in battaglia.”
La pomposità e l’eroismo di cui erano intrisi gli auguri, le preghiere, le invocazioni dei gormiti erano davvero eccessive per Bli’set, così come credeva lo fossero per chiunque altro ka’nhili di Karmil.
Riflettè silenziosamente sulla religione gormitica mentre saliva sulla salamandra comandata da un gormita – e gli altri due facevano lo stesso – che l’avrebbe portato lontano dall’accampamento all’interno delle rovine di Teunor, nella battaglia che infuriava nella Valle della Disperazione.
Fece numerosi parallelismi tra i culti dei semidei e le credenze e il pantheon dei gargoyle acerrimi nemici della sua razza. Si chiese se in un futuro questi rituali così simili a quelli del genere che ripudiarono tempo fa potesse compromettere la nuova amicizia tra gormiti e ka’nhili di Karmil.
Pensandoci bene, gli sembrò un’evenienza piuttosto improbabile: se mai gormiti e karmiliani, stretti da Sommo Luminescente III in un’alleanza che li avrebbe lasciati legati per molti anni, fossero passati alle armi gli uni contro gli altri non sarebbe stato per la religione.
I gormiti, ad eccezione di quelli cosiddetti del Vulcano, che Bli’set per altro non aveva ancora visto dal vivo, erano pacifici e tolleranti.
C’erano dei contrasti nella società gormitica: se erano davvero comprensivi come si mostravano agli occhi dei ka’nhili, come si giustificava la diatriba decennale tra Vulcano e gli altri Popoli?
Come potevano vivere in maniera così pacifica e tranquilla nel loro piccolo, quando disponevano di potenzialità che avrebbero potuto piegare intere nazioni con scarso impiego di forze? Perché la consapevolezza di ciò, se mai ci fu e c’era al momento, non li ha spinti ad espandersi oltre la loro Isola?
Le sue congetture sui gormiti e sul futuro di quell’alleanza lo tennero occupato lungo tutto il tragitto nell’arida distesa granulosa. Grandalbero e il marino non gli rivolgevano parola – sebbene li potesse sentir parlare tra di loro –  e del resto Bli’set non aveva intenzione di chiacchierare con loro: aveva un compito serio da assolvere, e si sarebbe mantenuto concentrato e con la mente fresca e pura.
“Qui ci separiamo dagli altri.” annunciò forte il gormita alla guida della salamandra.
Bli’set annuì, mentre si allontanava verso sinistra da Grandalbero e Gorgous, e le loro salamandre procedevano una dritta, l’altra a destra.
Esattamente come programmato: la conca rocciosa e cinerea della Valle della Disperazione appariva alla vista, e i tre guerrieri dorati si separavano per unirsi allo scontro in posizioni differenti, per aiutare la loro fazione in più fronti, come era stato deciso dal Sommo.
Superò le forze di retroguardia appostate dietro l’entrata in discesa alla Valle che aveva imboccato, e l’odore del fumo, del sangue e del metallo caldo lo pervase.
Lo scontro lo attendeva, finalmente: anche lui avrebbe dato tutto se stesso per la serenità della propria gente, come ci si aspettava da tutti, soldati e non.
Era completamente calmo e calcolatore, ripetendo le avvertenze di El’eter: le abilità dei suoi nemici, le loro portentose cavalcature solcatrici dei cieli, cose che aveva affrontato rare volte o mai, non lo spaventavano.
E la sua sicurezza non derivava dall’Armatura Dorata che indossava: come l’ingegnere gli aveva raccomandato, doveva credere di essere protetto da una comune corazza, o solo dalla cotta di maglia sottostante, con le sue debolezze e i suoi passaggi che avrebbero potuto costargli la vita.
E’ sbagliato in verità dire che era sicuro di sé: non aveva affatto la certezza di vincere, di terminare la lotta ancora vivo; era semplicemente rilassato. L’addestramento alla via della luce della sua gente lo rendeva…sereno, una parola tanto amata dai ka’nhili di Karmil – e tanto da me ripetuta in queste ultime lezioni – quasi apatico.
Il fatto che le truppe del Vecchio Saggio e di Luminescente III sembrassero in svantaggio, spinte sempre di più verso le due discese - salite dietro di loro, non turbò la sua tranquillità.
“Scendi, soldato!” gli ordinò la guida, la salamandra ormai a un passo dal cozzare delle armi.
Difatti, le salamandre che li avevano condotti lì, lui e gli altri due, e le loro guide dovevano solo scortarli, e non erano autorizzati né effettivamente preparati a entrare nella battaglia vera e propria.
Bli’set rimosse il proprio appoggio sulla salamandra e si librò in aria gettando forza magica fuori dai palmi aperti, e senza usare le proprie ali, secondo la tradizione che imponeva ai karmiliani di sfruttare i poteri della mente e della magia anche per le azioni più mondane, ed utilizzare le parti del proprio corpo il meno possibile.
Non appena il gormita alla guida si vide Bli’set lasciare la salamandra e sollevarsi immobile, quasi trasportato dal vento, fece un’improvvisa inversione di marcia che la cavalcatura non apprezzò di buon gusto, e scomparve a rotta di collo su per la salita.
Tornato coi piedi per terra dopo alcuni secondi di volo, il ka’nhili dorato fu immediatamente benvenuto da un gormita della Foresta che stava lottando poco più avanti e, liberatosi momentaneamente dei nemici, si diede un po’ di tempo per discutere con Bli’set.
“Sei uno dei tre con l’Armatura Dorata?” domandò subito il forestale, preoccupato.
“Sì. Grandalbero e Gorgous, gli altri due, si sono diretti altrove.” rispose Bli’set senza condividere il suo turbamento né il suo sollievo immediatamente successivo.
“Grandioso! Il tuo aiuto ci sarà utilissimo! - esclamò, speranzoso e allietato - Forse sarò troppo ottimista, ma sono convinto che questa battaglia potrà volgere a nostro vantaggio, ora che tu e gli altri sono qui.”
Prima che Bli’set potesse replicare e avvisarlo di non affidarsi troppo sull’invenzione di El’eter, il gormita, di cui ignorava la posizione nella gerarchia militare ma era sicuro fosse piuttosto in alto, riprese a parlare.
“Sono al corrente delle abilità dell’Armatura. - spiegò - Ci servi sul fronte con - ”
Il forestale non potè terminare il suo comando che un dardo gli trapassò il collo scoperto, da dietro.
Mentre quello cadeva con gli occhi spiritati e il sangue alla bocca, cercando di tenersi in piedi appoggiandosi a Bli’set per impedire alla vita di sfuggirgli via, il ka’nhili fu pervaso da una decisa fitta di insoddisfazione e di rincrescimento, la cosa più vicina alla rabbia che poteva toccare il cuore di un karmiliano fedele al codice.
Era giunto lì per aiutare, l’Armatura Dorata avrebbe dovuto risollevare le sorti dello scontro, e invece la prima cosa che il suo arrivo produce non è altro che un’ulteriore perdita. Era insopportabile.
Non per vendetta, non per rancore, ma per senso del dovere localizzò con estrema precisione il balestriere che aveva scagliato il colpo, si gettò nella mischia dello scontro, deciso a terminarlo.
Circondato da soldati alleati ad ogni lato e da soldati avversari davanti, non potendo avanzare ulteriormente verso il suo obiettivo, attinse dalla propria energia interna e la convertì in un fascio di luce che colpì il nemico, un vulcanico, dritto in faccia, e lo mandò a terra. Che fosse morto o ancora vivo, non lo poteva dire: subito dopo il vuoto lasciato dal suo corpo caduto fu riempito da altri nemici, e Bli’set non fu in grado di accertarsi della sua morte, dovendo ora affrontare altri vulcanici e gargoyle che gli si paravano di fronte.
Su una cosa la sua mente rimase focalizzata per un lasso di tempo secondo lui pericoloso: la potenza e la grandezza del fascio di luce. Fortunatamente si ricordò presto della capacità primaria dell’Armatura Dorata: facilitare l’uso della forza magica nella via della luce e amplificarne la portata.
Lottare senza scudo, che non aveva appresso, e senza spada, che non aveva avuto il tempo di estrarre, gli dava una strana sensazione.
Ancora più strano era constatare la mancanza di dolore con cui incassava alcuni colpi e la facilità con cui i soli pugni, talvolta potenziati con la forza magica, riuscivano a stendere gli avversari e senza fargli male: infatti i guanti erano completamente rivestiti della lega dorata, e Bli’set si chiese in che modo poteva far fluire la forza magica senza aperture. Forse c’erano, molto piccole.
Fu presto tutt’uno con lo scontro.
Con uno scarso dispendio di energie, riusciva a creare grandi sfere di luce che accecavano e sbaragliavano gli avversari in un lampo, resisteva a continue e caldissime fiammate dei gormiti del Vulcano, sentendone il bruciore quasi letale ma senza il dolore che era solito accompagnarlo, sollevava massicci nemici resi inoffensivi dalla sua luce e dalla sua potenza e li usava come scudi e come massi con i quali farsi strada tra le fila nemiche.
Recava diverse ferite lungo tutto il corpo, che El’eter aveva raccomandato di curare nonostante l’Armatura annichilisse il dolore, ma del resto non poteva sprecare il suo tempo e distogliere la sua attenzione nel bel mezzo dello scontro, né in tutta sincerità, dopo alcuni minuti di lotta, gli importava più di tanto.
La sua sopportazione, già ampliata all’ennesima potenza dal codice karmiliano, era ancora più straordinaria ora che indossava l’Armatura Dorata.
Cominciava ad abituarsi. Cominciava ad amare la lotta, a sentirsi soddisfatto ogni volta che spezzava il collo o la schiena all’ennesimo nemico.
Convinto della propria invulnerabilità, un nuovo sentimento, nascosto nel profondo più buio del suo animo, lì spinto dal freddo codice di soppressione di Karmil, poco a poco riaffiorava, si faceva strada prepotentemente tra le altre sensazioni, e lo permeava nella sua interezza.
La passione.
I nemici cadevano di fronte a lui, gli amici gioivano e lo esaltavano ai suoi lati, e si tenevano sempre più stretti a lui.
Infine giunse un avversario che non era affatto facile da convincere della supremazia di Bli’set.
Una spessa corazza, senza spiragli, senza fessure, quasi un blocco di metallo sagomato e rigido, irta di spuntoni grossi come dita sulle spalle e sul pettorale, e anche sugli avambracci, uno dei quali, mano compresa, sembrava di dimensioni maggiori rispetto all’altro.
Nera come la notte senza lune, quel metallo sembrava attirare a sé tutta la luce per non rifletterne nemmeno un minuscolo raggio indietro. Non corretto: rifletteva un po’ di luce, ma luce rossa.
Immettendosi e togliendosi dal fascio diretto della luce del sole, un luccichio rosso fuoco illuminava a scatti quel cupo armamento. Rosso sangue. Come se una volta forgiata, quella corazza fosse stata raffreddata in un mare di sangue, ed esattamente come faceva con la luce, avesse assorbito da esso tutto il suo colore, e anche la forza e il coraggio insiti nel liquido vitale di coloro che erano stati uccisi per rendere reale quell’incubo.
L’elmo…no, non era un elmo. Il volto mostruoso del Signore del Vulcano era lasciato completamente allo scoperto, ma completamente verniciato di una pittura verde fosforescente che rendeva quell’antro divoratore e trituratore ancora più spettrale e terribile. Portava solo una mazza con sé.
“Ho sentito che un tale con un’armatura d’oro sta facendo una strage, da queste parti.” disse Armageddon.
“Probabile.” rispose Bli’set, impassibile. Nonostante la sua condotta in battaglia lo aveva accomunato più a un gargoyle che a un ka’nhili, il suo modo di parlare non era stato corroso dalla nuova passione. “Siamo in tre ad indossare quest’arma speciale.”
“Ottimo. Fra poco sarete in due.”
Armageddon raccolse la sua mazza e si avventò contro Bli’set. Questi rimase fermo e con un rapido gesto della mano scagliò un globo di luce, che Armageddon però deviò altrettanto rapidamente con la mazza.
Bli’set non evitò la collisione.
La mole di Armageddon unita a quella della sua possente corazza era impressionante, tuttavia non ne fu gettato a terra, ma nemmeno fu capace di respingerla con la sola forza fisica potenziata.
Il Signore del Vulcano non lo spinse indietro ancora per molto. Con grande foga, tempestò Bli’set e la sua preziosa armatura di colpi di mazza, pugni e sbracciate dalla parte degli spuntoni.
Nonostante l’enorme peso di quella protezione, Armageddon si agitava con una rapidità impressionante.
A un certo punto sembrò dare segno di stanchezza, e opportunità a Bli’set di contrattaccare. Niente di tutto questo.
I suoi avambracci presero fuoco, un fuoco verde come la pittura sul viso, e dunque riprese a colpire il ka’nhili ancora più forte e più velocemente di prima.
Le nocche rinforzate e gli artigli sull’armatura delle braccia strideva terribilmente a contatto con l’Armatura Dorata, il fetore inspiegabile di quelle fiamme verdi raggiungeva il suo naso con prepotenza e quasi lo indeboliva più degli urti stessi, dei quali cominciava a risentire. Al contrario di Armageddon, straordinariamente. Doveva disporre di un carico di pietre preziose riempite di energia da cui attingeva continuamente, per perpetuare quel metodo di combattimento senza dimostrazioni di fatica.
Davvero incurante questa volta della propria salute, spalancò le braccia, aprendo il proprio corpo alle mazzate di Armageddon, e scatenò una tempesta di luce che finalmente tolse il Signore del Vulcano in mezzo ai piedi, gettato qualche piede più avanti, supino, e gli diede tempo per una mossa più elaborata e potente. Tempo che Armageddon non aveva affatto intenzione di dargli.
Infatti, rialzandosi subito, agitò freneticamente le mani in direzione di Bli’set con strani e intricati movimenti. Un anello di fuoco racchiuse il ka’nhili al suo interno.
“Fai tanto il gradasso, ka’nhili di merda, il duro, sotto quell’armatura” lo sfotté “Ma cosa sei senza? Senza la magia, senza la forza magica, non siete niente. Siete solo degli insetti, fragili e indifesi”
Bli’set non rispose alla provocazione, e il pericolo di quel cerchio infuocato fu reso vano semplicemente camminandone fuori, senza interesse per le ali indifese, cosa che imbestialì Armageddon.
“Dannazione! Ma chi ti credi di essere?! - urlò, non potendo sopportare che i suoi attacchi non gli facessero alcun danno - Prima Thorg quasi ammazza me e il mio dragone da solo, poi arrivi tu che ti credi invincibile e niente ti fa male…ma cadrai, e cadrai sul serio, come farò presto anche con Thorg.”
“Guarda qua, piuttosto.” gli intimò subito dopo, con un tono decisamente meno rabbioso, divertito oserei dire. Sollevò da terra una spada lunga, sottile, ricurva a un estremità, e dalla parte dell’elsa pendevano dei lacci bianchi.
Bli’set osservò con sorpresa quella lama in mano sua, e gettò un rapido sguardo al fodero che penzolava, vuoto, al suo fianco sinistro.
Quando era successo? Come e perché? Queste le domande che si fece tra sé e sé nel giro di un secondo. Ad ogni modo, quel furto non gli piacque affatto. Non tanto per il fatto in sé, quanto per non essersene accorto.
“Rendimela.” ordinò severo.
“Vieni a prenderla, se ti interessa. E’ bottino di guerra, e me lo tengo.”
“Non sono idiota.”
“E nemmeno io, per ridartela.” e intanto avanzava lento verso il ka’nhili.
C’era qualcosa di estremamente infantile in quel discorso di poche parole.
“Vuoi la spada, ti è cara? - chiedeva tra un ghigno e l’altro, continuando ad avvicinarsi - Ecco, tienila!” e gliela scagliò addosso come un giavellotto. Bli’set se lo era aspettato, e fece un mero balzo laterale per evitarla.
Non si era però aspettato che Armageddon utilizzasse l’hic et ibi per spostarsi in un lampo da dov’era ad addosso a Bli’set in tutto il suo peso.
Il ka’nhili così sicuro di sé si ritrovò bloccato sotto l’imponente Signore del Vulcano, incapace di sollevarlo, a differenza sua.
E infatti Armageddon, dando dimostrazione di una forza da incubo, trattenendolo bene per le braccia, lo issò e lo schiacciò al suolo due volte, facendolo anche capovolgere.
Non soddisfatto, si sedette sulle gambe di Bli’set, prono, e prese tra le mani le ali protendenti del ka’nhili.
Bli’set si sentì gelare dentro. Impotente, bloccato, schiacciato. Nulla di tutto questo si era aspettato. Le mani di Armageddon stropicciavano le ali traslucide di Bli’set come marchi roventi, e le strapparono con un colpo secco come un tizzone gelido conficcato nel cuore.
Era ancora vivo, però. Non si sarebbe dato per vinto solo perché aveva commesso un errore e ora ne pagava le conseguenze. Se doveva morire, sarebbe morto in piedi, combattendo.
Armageddon sembrava ora davvero soddisfatto, rialzandosi da Bli’set. Rideva della grossa, sgretolando tra le grosse dita le ali del ka’nhili, e quasi senza curarsi di quello che si rialzava, ancora combattivo.
Il suo pugno andò a vuoto. Armageddon gli sembrava straordinariamente veloce, rapido, dai riflessi spettacolari. Non aveva più tra le mani le povere membra recise di Bli’set, ma la sua mazza ferrata e la spada rubata.
Con rapide sferzate della prima, strappò alcuni anelli della cotta di maglia sull’addome, che l’Armatura Dorata non copriva del tutto.
Rallentato come in un sogno, non poté evitare la seconda, la sua spada lunga, fare breccia nel buco appena aperto.
Bloccandogli il respiro, penetrò il primo strato di esoscheletro, risuonando come la pietra che si scheggia sulla pietra. Affondò dolcemente nei morbidi e molli muscoli all’interno, e un prolungato sospiro gli uscì dalla bocca. Abbandonò il suo stomaco senza perforare l’esoscheletro posteriore.
Bli’set rimase lì, rigido, con le labbra spalancate, incapace di muoversi. Il freddo a cui sempre era stato abituato, che gli era stato insegnato sin dalla nascita, lo riempiva in modo esagerato. Non c’era nessun sollievo in quell’apatia, nessuna dell’agognata serenità.
Una spinta dalla mano di Armageddon. Bli’set cadde boccheggiante.
“Cadrai, - gli rammentò il Signore del Vulcano, trionfante - ho detto. E sei caduto. E ora…”
“Cavagli gli occhi! Cavagli gli occhi e lascialo vivere!” strillò qualcuno che Bli’set non riusciva a vedere. Era sicuramente un gargoyle. Nessun gormita poteva conoscere quel dettaglio della cultura karmiliana, nessun gormita poteva essere così crudele.
“Per quale motivo?” domandò Armageddon, più propenso a togliergli la vita.
“Fallo e basta! Non avrà mai più pace, nemmeno da morto.”
“E sia.”
Immobilizzato al suolo, Bli’set si vide Armageddon scendere su di lui, rimuovergli l’elmo. Le sue dita così vicine ai suoi quattro occhi…
Un dolore che mai nessun ka’nhili aveva provato, grida agonizzanti che nessun ka’nhili nato su Karmil aveva mai lasciato andare.
Il buio dominava tutto. Niente più luce, niente colori. Freddo e sofferenza. Abbandono. Un errore, una mancanza: la giusta punizione.
Le mani che lo alzavano da terra, il suolo che si allontanava e gambe e braccia che penzolavano inermi nel vuoto.
“Chi…chi è?” domandò con un fil di voce.
“Sei vivo?! Praconrem, che…che…sei ridotto a uno straccio. Ti cureremo, resisti!”
“Lasciami…lasciami giù” lo pregò Bli’set “Sono morto, non c’è più salvezza per me”
“Non dire idiozie. Possiamo ancora salvarti, e poi non possiamo abbandonare l’Armatura Dorata”
“Non…non capisci! Lasciami! Toglimi l’Armatura e vattene!”
“Basta parlare. Non abbandonare la speranza!”
“Tu non…non capisci…non…capisci…puoi capire…”
“Resisti!”
Svenne.
Non comprese quando e se fu davvero sveglio. Vedeva solo il nero, non c’era differenza tra il sonno e la veglia. Qualcuno confabulava, lì vicino.
“Non ha più le ali, e ha lo stomaco trafitto.” Era lo stesso gormita che lo aveva salvato.
“Non ci sono molte possibilità. Possiamo provare a tenerlo in vita e a far ricrescere i muscoli, ma sarà impegnativo.” La voce di Luminescente III! Si sentì stranamente sollevato nell’udirla.
“Sommo Luminescente III, mio…Sommo.” sussurrò.
“Sereno, Bli’set. Hai svolto un ottimo lavoro.”
“No, Sommo, no. Ho disobbedito, Sommo. Non dovevo affidare la mia vita all’Armatura Dorata, e l’ho fatto ugualmente. Sono stato punito per questo. Osservate, guardate…i miei occhi.”
Luminescente III si ammutolì.
“Oh, mi dispiace. - disse il gormita - Mi ero…dimenticato. Armageddon gli ha…tolto gli occhi. Immagino che per quelli ci sia davvero poco da fare.”
“Per Bli’set non c’è più nulla da fare. Non puoi capire. Possiamo solo essergli vicini nei suoi ultimi giorni, se sopravvive alla guerra.”
“Che cosa significa?” domandò irrequieto e innervosito “Voglio capire, Luminescente III. Cos’ha di così grave?”
“Non ha più gli occhi.”
“E quindi?”
“La sua anima non può più riunirsi con Aru Ra’vima, il grande spirito.”
“Perché?”
“I nostri spiriti sono intrappolati negli occhi. Privati degli occhi, i nostri spiriti sono condannati a un’eternità su questo mondo, senza mai raggiungere la serenità di Aru Ra’vima.”
“Ma - ma…e se raccogliessimo i suoi occhi?”
“Non dire sciocchezze, soldato. Anche se li trovassimo, non possiamo fare nulla.”
“E farli ricrescere?”
“Non è la stessa cosa. Dobbiamo rassegnarci: la sua anima è perduta, e non si può far altro che consolarlo finché in vita.”
***
“Che cosa mi hai fatto, strega?” piagnucolava il misero gormita del Vulcano che si divincolava a terra, si toglieva i pezzi dell’armatura e si grattava come un folle.
“E’ esattamente quello che sembra. - spiegò sadica la suddetta strega - Prurito. Tanto, tanto prurito. Insopportabile, dovunque. Può ucciderti, e potresti ucciderti da solo, scorticandoti per farlo smettere. Ma non sarà così.”
Alzando la mano vellutata di una leggera protezione argentea, che lasciava scoperti le dita e il palmo, evocò un mulinello di sabbia che indirizzò verso il volto del nemico.
Ai lamenti per il prurito si aggiunsero le urla per l’accecamento da sabbia. Poi tutto tacque, e rimasero solo i gorgoglii derivanti dalla polvere dorata in gola, finchè non cessarono anche quelli.
Nonostante la zona fosse quasi spoglia, essendosi la strega della Terra spostata dall’altro lato del fulcro dello scontro, Evera, meglio nota come Opale Nero e anche la Strega di Roscamar, non aveva di che gioire né opportunità per riposarsi, non ancora.
Infatti tre gormiti dell’Aria volteggiavano in alto sopra di lei, e si abbassavano pericolosamente.
Con loro non poteva ancora competere con la magia: sarebbe dovuta passare alle maniere forti.
Ma senza rinunciare alle tecniche elaborate classiche di chi segue la magia da molto tempo.
Repentinamente, si focalizzò sul suolo, una porzione di terreno grigio e duro poco lontano da lei. Creò una spaccatura, dalla quale fece risalire molto in alto la sabbia che regnava al di sotto, a cui aggiunse un po’ della propria.
Agitando elegantemente come in una danza entrambe le braccia, mosse su se stessa la sabbia retta, che ben presto si fece vorticosa e attirava a sé i tre aerei.
Continuava incessantemente a muovere gli arti superiori.
Quando fu sicura che i tre non potevano sfuggirle, e il vortice aveva raggiunto velocità pericolose anche per lei, si arrestò di colpo, e batté sonoramente le mani.
La sabbia lungo tutto il vortice subì come un’esplosione, e fu scaraventata ad ogni lato, investendo i tre in essa catturati e portandoli lontano.
Prontamente Opale Nero eresse una tavola di pietra dal suolo con cui difendersi, e quando la sabbia infine ricadde per terra Evera, adornata da una protezione poco pesante degli stessi colori di quella di Thorg, non aveva subito danni.
Al contrario dei suoi nemici, travolti dalle sue magie e la sua arte elementale.
Si era mostrata sadica per una pura intenzione intimidatoria. Osservando il vulcanico morto, sballottolato dalla tempesta sabbiosa, messo fuori gioco da un semplice ma alquanto brutale prurito, non poteva non sentirsi male.
Non era per questo che voleva usare la magia.
La magia doveva essere un aiuto, un’ultima risorsa, un’arte da elogiare e insegnare, e conservare.
Eppure ecco che lì, come in molte altre guerre prima di quella, la magia non era vista come altro che un ulteriore modo per versare il sangue altrui e sperare di ottenere la pace con vite troncate.
Era solamente un’arma più potente e pericolosa delle altre, senza lama, senza impugnatura, senza fodero né munizioni.
Su quel campo si erano visti alcuni terribili frutti della magia in guerra: il mostruoso Cerberios, la cavalcatura personale di Obskurios, le Armature Dorate che annullavano la fatica, e non sarebbe finita qui, Evera se lo sentiva.
Chissà cos’avevano in mente gli Aborigeni, come insegnava il Vecchio Saggio, o gli Osservatori, come sostenevano coloro che credevano in questa razza superiore al contempo scopritrice della magia e inventrice dell’Occhio della Vita, o gli stessi Semidéi, quando consegnarono nelle mani dei gormiti, tra tanti altri, quel curioso sortilegio. A che scopo? Erano forse tanto folli dal voler fare del male agli altri in mille modi diversi e da insegnarlo, pure?
Cercò di giungere a una conclusione più sensata, mentre sgranocchiava una mistura energetica di miele, formaggio e cuore d’agnello, una valida e ben più saporita seppure meno immediata alternativa all’energia conservata nelle pietre preziose, che non tutti potevano permettersi, prima di unirsi di nuovo allo scontro.
 
Non appena si volse per tornare sul campo, percepì una misteriosa forza tirarla da dietro.
Non era una mano, un tentacolo, men che meno un arpione che la strattonava, era qualcosa di ben più forte, inarrestabile, la cui forza veniva esercitata su di lei senza toccarla.
Si sforzava di procedere in avanti, mentre quel misterioso risucchio la attraeva a sé sempre più forte e sebbene muovesse le gambe per camminare rimaneva in realtà ferma, anzi andava all’indietro.
Osservando impaurita i sassi e la polvere a terra venire aspirati con molta meno resistenza da qualsiasi cosa si trovasse dietro di lei, credette di comprendere di cosa si trattasse.
Si lasciò andare. Il suolo cessò di tenerla ancorata ad esso, e l’unica attrazione fu ora quella del sortilegio, che conosceva discretamente bene, attivato dietro di lei.
Sollevata da terra e spinta all’indietro, girò su se stessa per avere la certezza di quello a cui stava andando incontro.
Eccolo, un globo di luce nera densissimo e pesantissimo, sospeso in aria che attirava ogni cosa a sé.
Il fatto che fosse nero indicava che se avesse dovuto avere contatti con esso si sarebbe fatta davvero molto male.
Evera, ad ogni modo, sapeva come disfarsi di quell’impiccio: due fasci di forza magica ben assestati diretti al centro di quella sfera magica; togliere di mezzo l’artefice di quell’incantesimo sarebbe stato tutt’altro affare.
Caduta una volta distrutti il globo nero e il suo campo d’attrazione fatale, il fautore di quell’attacco nei suoi confronti si rivelò agli occhi di Opale Nero, che si rialzò cautamente e subito.
Un mantello grigio dai riflessi violacei, lacerato, sfilacciato alle estremità, un evanescente fantasma di stoffa che nascondeva al suo interno un misterioso e potente stregone, muto e immobile. Non un respiro, un raggio di luce, un alito fuoriusciva dallo stretto cappuccio che terminava il panno spettrale. Un nero senza forma e senza odore, che non produceva alcun rumore, sussurro o grido, era il volto di quella demoniaca apparizione.
Opale Nero fu impietrita da quella visione. Una veste sospesa in aria, macchiata del sangue di una marea vermiglia di delitti perpetuati senza che essa toccasse mai le sue impotenti vittime, uccise dai fili invisibili, crudelmente piegati ai suoi insani desideri, della trama benevola e distruttrice al contempo che permeava ogni cosa: la magia.
Non c’era ombra di un corpo solido sotto quella maschera di oscurità, di una mente capace di ragionare, assimilabile alla sua o a quella di un altro gormita o un gargoyle.
Poteva essere sicura si trattasse davvero di un abitante di Gorm o di Tato Yami, e che non fosse effettivamente uno spettro, un evaso dalla morte, che perse ogni briciolo di raziocinio a causa dell’insopportabile circostanza con cui gli fu tolta la vita o dei folli esperimenti di alchimia degli yamensi, per i quali commetteva i suoi biechi sortilegi, l’unica sua ragione per continuare ad esistere?
Era forse lo Stregone di Fuoco che aveva preso una forma con cui raggelare il cuore e immobilizzare le membra a Evera? E come poteva avere la certezza che lo Stregone di Fuoco, il celebre Magor, non fosse in realtà proprio quello: un misero fantasma che i gormiti del Vulcano avevano sottoposto al proprio volere e al quale e per il quale riponevano la responsabilità delle loro azioni e dicevano di lottare?
Non potendo giungere a una soluzione con le proprie sole forze, sebbene alquanto spaventata, alzò la voce e parlò.
“E tu chi sei?”
“Fasonis. Spiritonero per i miei nemici.”
La risposta, pronunciata da labbra che non erano e che risuonava alle orecchie di Evera con la sonorità del vetro che si scheggia e la profondità della pietra che si scontra con altra pietra, non migliorò né peggiorò l’umore della strega. Non sapeva ancora se fosse un gormita o altro, ma di certo non era lo Stregone di Fuoco. Per questa cosa si allietò leggermente.
“Fasonis di quale Popolo?” domandò timorosa e senza aspettarsi una risposta Opale Nero, preparandosi a un eventuale assalto di quello Spiritonero.
“Fasonis figlio di Anempodistos, suddito di Re Obskurios di Tato Yami.”
Opale Nero fu enormemente sollevata da quella risposta. La certezza di stare combattendo con una creatura terrena, reale, non evanescente e aliena alla mondana comprensione, le conferì una ben più grande fiducia in sé. Tuttavia mantenne una particolare paura per quel nemico di cui ancora non poteva realizzare la forma e la consistenza del corpo, più specialmente il livello della sua esperienza nella magia.
Tale Spiritonero sembrava non avere intenzione di prendere subito l’iniziativa di continuare lo scontro avviato con quell’attacco sorpresa di poco prima.
“La mia famiglia è da secoli la proprietaria della regione di Lexedria, nel grande continente ad occidente. - riprese a parlare - Sono io l’unico vero Re Stregone di Lexedria.”
Opale Nero, che aveva riacquisito sicurezza, replicò a tono a quelle affermazioni.
“Se sei un gargoyle…la tua gente non è forse stata bandita dalla patria, e da parecchio tempo, se non ho capito male? Hai mai messo piede su questa Lexedria di cui parli?”
“No. - negò come previsto da Evera; nessuna ira nel suo tono - Non sono mai stato graziato dalla vista della terra dei miei antenati. Tuttavia, questa guerra ci permetterà di ritornare da vincitori e da dominatori nella nostra lontana patria.”
“Scaccerò chiunque abbia avuto il coraggio di prendere come sua la mia regione.” annunciò con decisione, mostrando per la prima volta una parte del suo corpo: un pugno a quattro dita, interamente coperto da un guanto di metallo, che strinse drammaticamente di fronte a sé “Ristabilirò la grande dinastia dei Re Stregoni, e nessuno oserà più parlare a me e ai miei discendenti con il tuo ardire.”
Un gesto impercettibile del polso oscurato dal guanto e dallo spettrale mantello.
Opale Nero sentì i suoi sensi offuscarsi di colpo, il suo corpo rispondere ai comandi in modo lento, troppo lento…
Cominciò a battere i denti, sempre più veloce e forte. Si strinse nelle braccia, le dita tremanti, la pelle tanto scossa dai brividi che non se la sentiva più sotto le mani, rese insensibili da quell’improvviso gelo che l’aveva stretta.
Il freddo che la dominava era davvero immenso, quasi il respiro le si brinava sulle labbra, ma ciò nonostante sorrise.
“E’ tutto qui, Re Stregone? - lo provocò - Da uno del tuo calibro mi sarei aspettata qualcosa di molto meglio.”
E prima che quello potesse reagire, nonostante la sensazione di ghiaccio che la attanagliava, lo assalì a distanza con un altro incantesimo evocato con la stessa rapidità del primo.
Il colpo andò a segno, e i suoi effetti si videro subito.
Il corpo invisibile di Fasonis si scosse e si contorse senza controllo all’improvviso sotto il panno grigio; perdeva anche quota, non più in grado di mantenersi sospeso, privato della padronanza sulle proprie membra.
Infatti i muscoli e i nervi di Spiritonero erano stati sfigurati da quella magia, costruita appositamente per privare temporaneamente il bersaglio del controllo sul proprio coordinamento.
Ogni muscolo volontario e involontario, o quasi, che costituiva l’anatomia di Fasonis si agitava, contraendosi e rilassandosi, stimolato da impulsi inesistenti.
Le stesse bocca e lingua erano cadute vittima della fattura, e ciò si dimostrava nei contorti versi che uscivano dalle sue labbra. La potenza e la profondità della sua voce non erano scomparse, ma combinate con l’assenza di senso e di contenuto del suo borbottare assumevano un carattere quasi comico.
Se l’incantesimo avesse dovuto colpire con sufficiente intensità anche il cuore, esso si poteva si dimostrare un valido metodo di uccisione istantanea e sicura.
Il caso non fu favorevole a Opale Nero: difatti un attimo prima che Fasonis, sforzandosi di mantenere il controllo, cadesse al suolo, il suo corpo tornò rigido e fluttuò fino alla quota prediletta.
Tuttavia, qualcosa non quadrava. Nel tornare in volo come in precedenza, Fasonis lasciò sotto di sé una scia di numerose copie dello stesso gargoyle, stessi colori, stesse dimensioni, senza sfumature dovute alle comuni illusioni ottiche.
Erano sette in totale, disposti lungo una colonna. Si mossero tutti insieme contro Opale Nero: i loro movimenti erano tali e quali, uguali, senza un briciolo di differenza l’uno dagli altri, nessun segno con cui definire chi fosse il vero Spiritonero.
Tutti insieme dominarono la forza magica nella via dell’ombra, e sette differenti grossi lapilli oscuri furono scagliati dalle sette mani dei sette gargoyle.
Nessuno colpì Evera, che evitò atleticamente di essere catturata nella loro traiettoria. O meglio, di essere catturata nella traiettoria dell’unico vero bolide ardente, l’unico che toccando il suolo lo intaccò. Ma Opale Nero non poteva dire di quale dei sette si trattasse; non era un grande problema, ad ogni modo.
“Mi deludi un’altra volta, Re Stregone. - esclamò - Magie come queste sono tra le prime che ci vengono insegnate, e non sono di alcun impedimento per chi domina la natura.”
Detto ciò, puntando il palmo aperto verso la colonna di gargoyle, eseguì una serie di rapidi movimenti con le dita e infine battè il piede a terra.
Un masso bruno grande la metà di lei si formò presso la fila verticale di finti nemici, sospinto in alto da un pilastro di sabbia e ghiaia. Il suo corso fu arrestato quasi subito, quando esso si scontrò con il secondo gargoyle in colonna, e all’impatto tutte le sei ombre si dissolsero.
Non ci fu il tempo per Fasonis di contrattaccare, che immediatamente dopo la collisione Opale Nero gridò: “Retardo motus!”
Lo recitò a voce in quanto non era ancora ferrata con quell’incantesimo, e avrebbe potuto incorrere in qualche errore affidandosi al potere del solo pensiero.
Comunque, recitò le parole nel modo giusto, e la magia fece l’effetto desiderato.
Pantiavros, con i piedi finalmente a terra, fu rallentato. Un movimento del suo capo incappucciato durava un eternità; alzare una mano per scagliare un getto di oscurità o un controincantesimo pareva impossibile come se il braccio fosse dotato di un peso enorme.
L’intenzione di Opale Nero era una sola: farla finita con quel misterioso e ambizioso stregone, abbatterlo con la forza impareggiabile, per un gargoyle, dei muscoli e dell’elemento di un gormita della Terra, prima che le provocazioni da lei offerte avessero inevitabilmente sfociato nella rabbia incontenibili tipica dei gargoyle, e prima di dover fare i conti con i terribili incantesimi che ne sarebbero scaturiti.
La sua veloce corsa, merito della corporatura femminile meno massiccia, non fu però d’aiuto a Evera, né l’incantesimo con cui aveva frenato Fasonis. Nella sua incredibile lentezza, Spiritonero era ugualmente riuscito a colpire Opale Nero con una magia, questa volta davvero terribile.
Guardandosi indietro, infatti, Evera fu costretta a fermarsi, il respiro mozzato in gola.
I suoi piedi…non erano al loro posto. Una scia di carne e armatura molle, calda, gommosa separava il corpo dai piedi, misteriosamente e terribilmente rimasti ancorati al suolo poco più indietro, dove aveva iniziato a correre.
“Ah! Aaaaah!” le sue grida sconvolte. Tutto ciò non aveva senso. Come era possibile? Perché era così reale?
Un calore insopportabile, come il gelo della magia di poco prima, la serrava, e i suoi effetti erano ben più palesi e mostruosi dell’incantesimo precedente. Il suo corpo si stava sciogliendo!
Muoveva le proprie gambe, le sentiva muovere, e allo stesso tempo sentiva le ossa piegarsi e le membra squagliarsi insieme all’armatura e annaffiare il duro terreno.
“No! Non può essere vero, no! Fallo smettere! - urlava terrorizzata, portandosi le mani alla testa, impazzita - Fallo…fa…AH!”
Le stesse braccia e mani si liquefacevano di fronte ai suoi occhi, come uno sporco e multicolore miele appiccicoso.
“Sei delusa, adesso? - la scherniva Spiritonero, ridendo nel buio del suo cappuccio, ripresosi dall’incantesimo di rallentamento - Sai fare di meglio? Dimostramelo, sono curioso.”
“No! So che non è vero! E’ solo un’illusione!”
“L’importante è crederci. Quando sarai ridotta in poltiglia per nutrire i campi, mi chiedo se ne sarai ancora convinta.”
“Balle! Non…non può essere vero!”
La volontà di Opale Nero di non credere alla menzogna che stava vivendo sulla propria pelle fu più forte dell’orrore scatenato in lei dalla vista della propria essenza che si riduceva in quella melma informe.
Così, quando Fasonis stette per risollevarsi in volo, non si curò della propria mano che pareva staccarsi dal braccio, mentre la gettava in avanti per bloccare una volta per tutte Spiritonero.
Lo spettrale gargoyle incappucciato fu tirato a terra come un chiodo da un grosso magnete, e una volta ancorato non fu più in grado di alzarsi sui propri piedi.
Opale Nero aveva vinto l’illusione, e le sue membra tornavano al proprio posto. Sassi pronti in mano, riprese la sua corsa assassina verso il gargoyle.
“Non mi finirai così!” urlava Fasonis, dimenandosi invano per sfuggire all’attrazione magica del suolo sui di lui e lui soltanto, facendosi del male da solo dando gomitate involontarie alla roccia.
Riuscì a sollevare la metà superiore del busto e guardare in volto Opale Nero.
“Come farai senza i tuoi poteri, e senza la magia?”
Senza che Evera riuscisse a notare i movimenti della mano di Pantiavros e vedendo solo di sfuggita due anelli luminose andarle incontro velocemente, si ritrovò con i polsi attorniati dai bracciali dorati luminescenti, gli anelli di blocco, che impedivano il fluire della forza magica, della magia e dei poteri elementali.
“Non conosci davvero noi gormiti, scommetto.”
Opale Nero si posizionò, ginocchia a terra e gambe a cavalcioni, su di Pantiavros. Rimosse celere il cappuccio di Fasonis, per guardare almeno una volta il volto del proprio pericoloso nemico.
Era un piccolo capo azzurrognolo di gargoyle, pelato e raggrinzito dall’età, senza alcun pelo facciale al di fuori delle sopracciglia rese verdi dalla vecchiaia, e con il più piccolo paio di corna che Evera avesse mai visto su di un gargoyle.
“E tu saresti il potente Spiritonero? Il sovrano di Lexedria, il restauratore della dinastia dei Re Stregoni? Sei solo un vecchiaccio!”
Senza alcuna pietà, avviò un’esecuzione rapida e dolorosissima di pugni diretti dritti in volto al misero gargoyle, che sembravano non cessare più.
A nulla giovò alla vittima sfuggire all’incantesimo che la teneva incatenata a terra. Opale Nero rimase aggrappata al nemico che aveva giurato di uccidere, e i feroci colpi di oscurità gettati alla cieca lungo tutto il suo corpo non la fecero cambiare d’opinione.
Le mani strette attorno all’esile collo. A mezz’aria. La spinta di entrambe le mani in direzioni opposte. Uno spezzacollo plateale.
   
 
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