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Autore: Euridice100    08/08/2015    7 recensioni
"Ma l’altra rialza il capo e lo fissa con odio.
È allora che Gold la vede.
Arretra di un passo con la certezza di avere dinanzi a sé un fantasma.
'No, non può essere.'
Ma è allora che il passato torna a essere presente."
(Victorian!AU RumBelle
Seguito di "Cleaning all that I've become" e "All of the stars".)
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Nuovo personaggio, Signor Gold/Tremotino, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Your dream is over... Or has it just begun?'
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Per voi, adorate,
che da un anno a questa parte
NON ESISTETE! – cit.
Vi voglio bene. ♥ ♥ ♥
 
 
 
XV - Photograph
 
 
 
“Loving can hurt,
loving can hurt sometimes,
but it's the only thing
that I know.
 
 
 
Robert Gold non si definiva innamorato di Belle French. Una simile dichiarazione sarebbe stata troppo vaga e superficiale, totalmente inadatta a esprimere la portata dei suoi sentimenti; e soprattutto, sarebbe stata ripetitiva, e Robert Gold odiava ripetersi.
Molto più semplicemente, il mago dei tessuti considerava Belle French quanto di migliore gli fosse capitato in mezzo secolo di vita; e riteneva ciò che avevano costruito, che stavano costruendo, puro incanto.
Se dieci anni prima gli avessero predetto una persona che avrebbe segnato un “prima” e un “dopo”, non avrebbe creduto: la donna che sarebbe diventata centro di ogni sua azione, il filo logoro e tanto resistente che li avrebbe uniti e ciò che ne sarebbe scaturito gli sarebbero parse utopie, gloria benedetta cui non era destinato ad accedere. Rassegnatosi ormai a non conoscere più l’affetto, forse avrebbe umiliato l’incauto indovino, dettogli che la sua vita era già perfetta: non necessitava miglioria alcuna – o almeno, non migliorie possibili.
Forse lo pensava veramente, un tempo.
Forse.
Ma poi era successa Belle.
E allora come rimpiangere il passato, il vuoto bardato di magnificenza che gli era stato proprio, se aveva Belle ed Helena con sé?
Alle volte gli pareva incredibile. Si ripeteva che prima o poi avrebbe aperto gli occhi e capito che no, non tutto era stato un sogno, ma che lo era diventato; che la seconda parte della loro storia, quella in corso, era solo nebbia e fumo perché lui aveva – o comunque avrebbe – rovinato tutto.
Si sarebbe preso a sberle per simili pensieri: avrebbe davvero preferito essere forte come Belle, capace di puntare i piedi e resistere senza farsi trascinare dagli eventi. La sua Sweetheart sosteneva che ciascuno fosse artefice del proprio destino, che l’avvenire si costruisse con le scelte e che lui dovesse solo impegnarsi per restare lungo la retta via che, malgrado decenni di confusione e paura, il suo cuore non aveva mai scordato.
Avrebbe voluto fosse vero.
Avrebbe voluto annuire convinto, sforzarsi e riuscire.
Ma, in un modo o l’altro, lui non riusciva.
Più di una volta era stato sul punto di parlarle di New York.
Si era sempre interrotto prima dell’irreparabile.
In un’occasione Belle l’aveva guardato confusa, come intuendo che c’era qualcosa di non detto; l’aveva fatto presente, ma in un modo o nell’altro lui l’aveva rassicurata. L’aveva fatto abbracciandola, perché se l’avesse dovuta guardare negli occhi ogni cosa sarebbe stata perduta.
Gold s’interrogava sul perché perseverasse in un atteggiamento che finiva per nuocere alla luce della sua vita. Perché, quando si trattava di lei, riusciva a fare sempre la cosa sbagliata? Non sapeva forse che procrastinando avrebbe solo peggiorato la situazione?
Lo sapeva, Gold lo sapeva.
Ma – se una parte di lui era convinto che Belle l’avrebbe capito e aiutato –, un’altra ne temeva la reazione come e più della morte. Temeva non avrebbe più voluto vederlo; o comunque, anche senza giungere a previsioni tanto catastrofiche, la menzogna che c’era stata – che continuava a esserci – l’avrebbe ferita.
E lui non voleva lei soffrisse ancora a causa sua.
In fondo, la Zelenyy non si sarebbe fermata in Inghilterra per sempre, e con la sua partenza tutto sarebbe finito.
Gold mentiva a Belle per questo, per proteggerla, per risparmiarle ulteriori ansie…
Bugiardo.
Non confessi perché temi se ne vada. Come faresti senza di lei? Senza Helena, ora che la conosci?
Sei un debole, lo sarai sempre, ma ora almeno hai Belle. Hai un disperato bisogno di Belle, dopo aver affrontato la realtà da solo.
Per questo conduci la tua doppia vita, la bestia che sei e l’uomo che vorresti essere; per questo preghi che tutto vada bene un’altra volta.
Solo un’altra, un’ultima volta…
Al contrario di lui e delle sue promesse di sincerità, Belle
aveva tenuto fede alla parola data: una settimana con lui, una dalle Lucas, e così ancora. Le due settimane fino ad allora trascorse assieme erano state perfezione.
Potrei abituarmi a essere felice, si era sorpreso a pensare una volta. Era stato strano: preferiva non ammetterlo neanche a se stesso. Le cose belle, si sa, prima o poi finiscono; ma quando Belle sorrideva, a Gold il mondo sembrava davvero un posto migliore. Era così buffa e bella, con le mille espressioni che inconsciamente faceva; si scopriva intento a osservarla, a catturarne ogni respiro, ogni contrazione del volto. Quanti particolari aveva scordato, illudendosi di ricordare? La Belle che aveva popolato i suoi sogni per tanto, troppo tempo era stata un pallido spettro, somigliante all’originale quanto una candela al sole. Non rischiarava l’ombra – non rischiarava la vita quanto questa Belle eterea e graziosa e al contempo così decisa e saggia, all’apparenza tanto fragile e in realtà resistente quanto un diamante. Era difficile scheggiarla, ma purtroppo non impossibile.
Lui l’aveva fatto, e lo faceva ancora.
La sua Sweetheart era serena, ma alcuni giorni nei suoi occhi compariva un’ombra. Lei non se ne vergognava, non la nascondeva; non adduceva altra giustificazione se non la verità.
- Alle volte temo di star sognando, – mormorava mordendosi un labbro.
Quando succedeva di sera era peggio. Come se col buio il passato, le paure inferocissero la loro morsa, dilaniassero carne e anima con lo scopo specifico di far male.
Uccidere, non ferire.
Far crollare, non angustiare.
Gold non le diceva che vederla così lo addolorava come poco altro. Faceva ciò che lei aveva fatto le mille volte in cui l’aveva trovato in pezzi e cercato di sistemarlo: abbandonava qualsiasi altra cosa – perché non c’era incartamento, non c’era corrispondenza importante quanto lei –, la prendeva tra le braccia e la cullava.
Era stato lui a colpirla.
Sarebbe stato lui a curarla.
La sentiva rilassarsi contro di lui, chiudere i pensieri in un cantuccio e concentrarsi solo sul contatto, sulla sua bocca e sulle sue mani che le percorrevano lievi la schiena. Si rannicchiava contro di lui, e si asciugava una lacrima solitaria prima di tornare a sorridere.
- Non c’era bisogno di tante scenate per un bacio. Bastava chiedere, – provava a sdrammatizzare pur di sentire l’eco della sua risata
Siamo il balsamo dei nostri tagli.
Alle volte Belle lo prendeva per mano e gli rivolgeva una sola parola.
- Seguimi.
Il solo ordine, il solo comando cui obbediva, lei la sola che potesse portarlo alla pace.
Il suo viso da statua greca, la sua pelle lattea, i suoi fianchi morbidi.
I suoi seni dolci, le sue labbra calde.
Suo sarebbe stato il nome che avrebbe sussurrato in eterno.
La sua preghiera, la più profana, la più bella.
Lei, l’unica dea che avrebbe venerato, l’unico altare al cui cospetto si sarebbe inchinato.
L’unica in cui credere e giurare.
Lei era l’unica risposta che cercava.
Le settimane senza Belle ed Helena, poteva davvero chiamarle vita? Erano giorni lenti, che si susseguivano senza scopo e senza meta. Salutava i rintocchi dell’orologio con gioia, perché ogni ora era un’ora più vicino a loro; si concentrava sul lavoro per essere più libero la settimana successiva, ma nella sua mente c’erano solo loro.
Era andato a trovarle a Whitechapel. La prima volta era rimasto sbigottito nel vedere Belle lavorare come aveva fatto fino a qualche tempo prima, come se nulla fosse successo: perché lei, che meritava gli specchi del Savoy 1 e piatti profilati d’oro, lei che era del suo rango, lei che un giorno sarebbe stata sua moglie, non poteva mescere birra d’infima qualità per ubriaconi lerci e rozzi, e non esisteva che sua figlia ruzzasse tra i vichi coi figli dei poveracci.
- Helena gioca con i suoi amici. E quanto a me, se sono qui devo lavorare, – Belle aveva sottolineato quando lui aveva espresso le sue rimostranze – Anzi, no, – si era corretta – Voglio lavorare. Sai che se non mi dessi da fare non sarei io.
- E sono d’accordo, ma questo quartiere non è sicuro. Potrebbe accadere di tutto… Non preferiresti vivere altrove? Potresti scegliere una villetta a Mayfair e…
- …E trascorrere l’intera giornata a districarmi tra abiti da mattina, da tè e da sera? No, – aveva riso gentile, ma determinata – Grazie, ma va bene così.
Helena gliela dovevano strappare di dosso ogni volta. Dopo la prima settimana, il ritorno a Whitechapel era stato tragico: al momento dei saluti la bambina aveva iniziato a piangere – uno gnaulio flebile, che aveva tentato di mascherare, ma che ben presto si era tramutato in singhiozzi disperati.
- Non voglio andare! – aveva strillato, e niente – né le rassicurazioni di Belle, né le promesse di Mary Margaret né, suo malgrado, i giuramenti di Jones – l’aveva placata.
Alla fine era intervenuto lui. Le aveva offerto una mano e l’aveva invitata: – Vieni con me?
La bambina l‘aveva seguito nello studio, ma una volta entrati lì aveva ripreso a strepitare.
- Puoi guardarmi, per piacere? – le aveva chiesto infine; e lei aveva obbedito malvolentieri – Perché non vuoi andare con la mamma?
Aveva atteso la risposta senza dar segni di impazienza.
- Se vado mi dimentichi.
Gold aveva trasalito.
- Chi ti ha detto una cosa simile?
- Nessuno, – la piccola aveva scrollato le spalle – Però io ho paura. Se riparti come quando sono nata e passa tanto tempo prima che torni e poi non mi ricordi più?
Ogni parola era un colpo micidiale. Helena gli toccava nel cuore con un’intimità a chiunque altro sconosciuta; risvegliava in lui sentimenti non provati da così tanto tempo da essere nuovi. Non sopportava di vederla in quello stato, sentirla esprimere timori che mai avrebbe provato se avesse avuto un padre degno di questo nome.
- Helena, – aveva esordito nell’unico modo che conosceva – Sai cosa si fa quando tra due persone ognuno ha qualcosa che l’altro vuole? Un accordo, quello che noi facciamo spesso. Tu non vuoi che io ti dimentichi, e io non ho alcuna intenzione di farlo. In un certo senso, le nostre volontà s’incontrano: ce n’è abbastanza per un accordo… Non credi?
La bambina era parsa soppesare quando dettole.
- E che dobbiamo fare?
- Promettere di pensarci. Se ci pensiamo non saremo mai davvero distanti. Sono solo sette giorni, dopo i quali saremo di nuovo insieme… E in ogni caso, nel frattempo saremo vicini col pensiero.
Dopo lunghi minuti Helena aveva annuito appena.
- Va bene, – aveva accettato – Ma perché tu sei papà e dicono che non rompi mai gli accordi.
Non le disse che ne aveva rotti due, i più importanti.
Quelli con tuo fratello e con tua madre.
Ma non avrebbe rotto anche quello con Helena.
Quello con te no, mai.
- Già, – aveva risposto a bassa voce – Io non rompo mai gli accordi.
 
 
 
“When it gets hard,
you know it can get hard sometimes
,
it's the only thing
that makes us feel alive.”
 
 
 
- Helena? Che stai facendo?
Quando era andata a riprenderla da Tink, a Belle la figlia era parsa strana: meno gioviale del solito, più cupa e sfuggente. Le aveva chiesto cosa fosse accaduto, ma non ricevendo risposta si era rivolta alla Barrie; la quale, a sua volta, non aveva notato alcunché di strano, nemmeno una scaramuccia tra bambini.
Il diniego dell’amica aveva confermato a Belle la motivazione di quella tristezza.
Lo sapeva perché lei per prima provava una malinconia dall’identica causa: a entrambe Gold mancava più di ogni altra cosa. Era già la seconda volta che facevano la spola da Kensington a Whitechapel e, malgrado i disagi, fino a quel momento Belle era stata piuttosto convinta della scelta. Solo lentamente lei e l’amato avrebbero potuto trovare un equilibrio: affrettare le cose non sarebbe stato di alcun giovamento.
Però al momento dei saluti lo sguardo triste di Robert la faceva sempre morire un po’. Ogni volta le certezze vacillavano: finiva per interrogarsi sulle proprie azioni e, per quanto si ripetesse di dover perseverare, che già stava ottenendo dei risultati e che di quel passo presto avrebbero conosciuto una nuova stabilità a Kensington, le domande diventavano pressanti.
In poche ore Robert iniziava a mancarle tanto da farla sentire quasi male fisicamente. Se di notte aveva freddo, era solo il suo abbraccio a riscaldarla un po’ di più; era solo la sua ironia a farla sorridere un po’ di più, era solo il modo in cui pronunciava il suo nome piano, come se quasi l’assaporasse, a farle battere il cuore un po’ di più ed erano gli angoli e i segreti del suo volto ciò che le sue dita volevano carezzare un po’ di più.
Lo portava nel cuore, protetto dal resto del mondo; ma lui era quel un po’ di più che cambiava ogni cosa, e che non poteva fare a meno di mancarle come ossigeno.
Helena giocava imperterrita coi balocchi portati con sé. Dopo il primissimo giorno aveva a suo modo accettato il distacco: nominava spesso gli abitanti del Castello, ma senza eccessivo rammarico, come se avesse capito che li avrebbe presto rivisti. Sembrava essere la solita, vivacissima Helena. L’improvvisa involuzione, per quanto giustificabile, preoccupava non poco Belle, che si accoccolò accanto alla bambina e l’abbracciò.
Dinanzi al suo ostinato silenzio, la donna decise di intervenire.
- Ti manca papà? – avanzò con dolcezza.
Finalmente la piccola alzò lo sguardo.
- Sì, – ammise – Molto.             
- Anche a me. Ma tra pochi giorni…
- Già lo so, – l’anticipò tra i denti – Ma perché non torniamo ora? Stiamo bene con lui. Stiamoci sempre.
La logica della bambina le provocò un groppo alla gola. Quanto avrebbe voluto ascoltare la vocina che le mormorava le stesse parole, che le ricordava quanto avesse resistito il loro amore e come fosse riuscito a riemergere dagli abissi cupi in cui la gelosia aveva tentato di annegarlo. Cosa la frenava, in fondo? Sarebbe stato la decisione migliore per tutti. Avrebbe fatto bene a trasferirsi all’istante e per sempre da Robert: la gioia dell’uomo sarebbe stata immensa, e loro figlia avrebbe ritrovato il sorriso. Avrebbero regolarizzato il loro rapporto, come lui tanto desiderava, e iniziato a vivere come una famiglia anche ufficialmente. Perché erano già famiglia: forse dal passato non convenzionale, forse più complessa e ferita di altre, ma non per questo meno autentica o forte. Perché chi è passato attraverso il fuoco può diventare cenere o sopravvivere; e se lo farò, riemergerà ferito, ma mutato, fortificato per sempre.
E loro erano sopravvissuti.
Era così semplice a dirsi.
E così difficile a farsi…
- Tesoro, – cercò le parole per spiegare a una quattrenne concetti tanto evanescenti – Anch’io sto bene con papà, lo sai. Vi amo, e da quando vi ho per me non ci sarebbe gioia più grande che stare sempre insieme. Però, – deviò su un altro aspetto della questione – Ruby e Granny sono state le sole ad aiutarci quando papà era in America e tu non eri ancora nata. Ci hanno protette dai cattivi e hanno diviso con noi tutto. Non possiamo andarcene e non tornare mai più, dimenticarle.
- Ma noi non le dimentichiamo! – la bambina si ribellò. Tratteneva a stento le lacrime – Ci portiamo anche loro con noi, e Graham e Tink, e Grace ed Henry, e Anna ed Elsa, tutti! Il Castello è grande!
- Non è così semplice. Per tutte le persone che hai nominato, questo posto è casa: ci vivono, ci lavorano, hanno tutte le persone care. Non possono lasciarlo come se nulla fosse, o soffrirebbero. Tu come ti sentiresti se dovessi lasciare casa all’improvviso?
Un esile pigolio fu in grado di raggelarla.
- Io non so più qual è casa.
Helena spiò la madre, come per controllare non stesse piangendo. Alle sue parole, la donna aveva avuto una strana reazione: era rimasta immobile e rigida, come pietrificata, ma le aveva stretto più forte la mano con un gesto in cui non c’era stato amore, quanto più che altro… Altro. Una sorta di sofferenza, rifletté la bambina; come se le avessero appena tirato un pugno cogliendola di sorpresa e al tempo stesso impedendole di lamentarsi. Era stata lei a colpirla, seppur involontariamente, con le parole anziché con le mani?
Non era sua intenzione far soffrire ancora mamma; però era lei stessa a consigliarle sempre di essere sincera, di non tenersi dentro le paure e di esprimere i sentimenti senza timore del prossimo. Aveva sbagliato a obbedirle? A dire che era proprio così che si sentiva – confusa, impaurita, sperduta? Un giorno era al Castello, circondata da cose preziose, servita e riverita da Killian e dagli altri e con mille vestiti tra cui scegliere; quello seguente era nella locanda dove c’erano le persone che conosceva da sempre e niente che le ricordasse lo sfarzo, il lusso che erano il regno di suo padre. Perché c’era chi aveva tutto e chi solo ciò che portava addosso?
E soprattutto, lei a quale gruppo apparteneva?
Quale posto poteva definire casa, qual era il posto in cui sentirsi davvero al sicuro e fare quel che le pareva? Qual era camera sua?
Non lo sapeva più.
Regina le aveva consigliato di ritagliare un angolo tutto per sé; ma come fare, ora che aveva troppi spazi in cui rifugiarsi, e “troppo” significava “nessuno”?
E poi, perché ora mamma non le rispondeva?
Belle aveva pensato di star agendo bene. Si era detta che forse all’inizio sarebbe stato strano, ma che presto si sarebbero abituate e che la scelta avrebbe facilitato il trasferimento definitivo. Di volta in volta avrebbe allungato i tempi di permanenza a Kensington, e avrebbe aiutato la figlia a sentirsi a suo agio tra porcellane di Meissen e umile terracotta, a dominare due mondi per quanto opposti; perché loro figlia aveva tutta la forza necessaria, le serviva solo la guida per lasciarla emergere. Non sarebbe stato semplice, Belle lo sapeva, ma i primi risultati l’avevano illusa di star riuscendo.
E invece, aveva fallito. Aveva fallito, e la prova era quella frase, l’incertezza che dominava il faccino contratto di Helena e il suo disorientamento.
Come aveva potuto essere tanto cieca da non accorgersene? C’erano stati dei campanelli d’allarme, certo, e lei non li aveva considerati: che razza di madre era? Helena era tanto espansiva nella gioia quanto taciturna nell’angoscia; come aveva potuto lasciarsi ingannare dalla tranquillità della bambina tanto da credere non stesse soffrendo?
Ora poteva solo trovare il modo di rimettere assieme i cocci.
- Helena, – le prese il volto tra le mani e allontanò ogni traccia di paura dalla propria voce – So che quanto sto per dire forse ti sembrerà difficile – e non perché tu non sia grande, ma perché è difficile per chiunque, me compresa –, ma voglio tu ricordi una cosa. Casa non deve essere per forza un luogo: può essere anche una persona, o anche più di una, a dire il vero. Prendi noi e papà: ci amiamo, ed questo l’importante. L’amore è tutto ciò che conta davvero, e noi l’abbiamo. Fisicamente non siamo vicini tutti i giorni, ma nel cuore sì, sempre. Io penso ogni momento a te e a papà, e lui pensa di continuo a noi. Possiamo cambiare mille case, dal Castello, – a quella parola, la bambina piegò gli angoli della bocca come se volesse sorridere e Belle, incoraggiata, proseguì – All’ultima delle capanne, ma ovunque saremo insieme col cuore quella sarà per noi casa. Perché noi siamo una famiglia: non conta dove siamo, ma ciò che ci unisce, e noi siamo legati dalla cosa più importante. Siamo legati dall’amore.
La bambina annuì appena, incerta.
- E Regina?  – il nome le esplose sulle labbra in un impeto d’ansia che fece sorridere Belle. Non riusciva a farne a meno, quando pensava al modo in cui la figlia si era affezionata a quell’adolescente solitaria che a fatica stava recuperando sprazzi di sorrisi.
- Anche Regina, – rispose senza esitare, mentre un’idea iniziava a prendere forma nella sua mente – Se lo vorrà sarà sempre parte della nostra casa, della nostra famiglia. E sarà con noi ovunque andremo.
 
 
 
“Loving can heal,
loving can mend your soul
.”
 
 
 
Quando Gold aveva detto ai suoi bravacci di tenere d’occhio la locanda, avrebbe dovuto prevedere il sensibile mutamento di mansioni cui sarebbero andati incontro.
Sì, perché dopo anni di onorata carriera più o meno malavitosa, Hulme e Blockhurst erano divenuti, oltre che guardie, messi dei biglietti che Belle gli faceva pervenire quotidianamente – e la cosa, doveva ammettere, valeva anche al contrario.
Tuttavia, il contenuto dell’ultimo messaggio era il più bello letto fino ad allora.
“Oggi manchi persino più del solito.
Se non hai impegni, potresti farci una “sorpresa” e venire a trovarci?
Fa’ venire anche Regina.
Ti amo.
B.”
Robert Gold aveva deciso ben prima di arrivare all’ultima riga.
Aveva spostato un appuntamento e fissato un altro che si sarebbe rivelato con ogni probabilità molto più interessante e certamente più piacevole: perché, in un modo o l’altro, avrebbe trascorso un giorno con le persone che più amava al mondo.
Aveva avanzato, sia pure con parecchia reticenza, l’invito a Regina; ma l’adolescente aveva dimostrato un po’ di senno e rifiutato, e lui non aveva certo insistito.
Gold proprio non sapeva come trattarla. Volente o nolente, aveva imparato a tollerare la sua vicinanza a Helena e a Belle, per quanto gli apparisse assurdo che le due donne riuscissero a respirare la stessa aria senza litigare; e, malgrado non intendesse accantonare ogni circospezione, giorno dopo giorno i timori su eventuali delazioni andavano obiettivamente scemando. Regina giocava con Helena, leggiucchiava qualcosa o stava con Belle; e di tanto in tanto lui aveva dovuto fingere di non scorgerla con l’assurdo fidanzatino che si era scelta.
Almeno sul punto Cora aveva ragione: la giovane Mills si sarebbe rovinata la reputazione.
Ma in ogni caso, Regina era figlia di sua madre: per ripetere le parole di Belle, poteva essere anche un fiore che nasceva dai rovi – dinanzi a quell’improbabile slancio poetico Gold si era seriamente interrogato sulla salute mentale dell’amata –, ma non era una damigella ingenua e facile a cadere in deliquio dinanzi a un baldo giovane che l’affascinava con chiacchiere e muscoli e l’allontanava da tutto e tutti…
Che discorsi stupidi. Simile gelosia perteneva a un genitore protettivo più che a un estraneo senza voce in capitolo come lui.
Almeno ufficialmente.
Farla ragionare avrebbe implicato un contatto che lui non era intenzionato ad avere dopo quella frase. Aveva parlato solo per rabbia, per smuoverle l’animo e indurla a confessare? O perché nella foga i suoi più antichi sospetti avevano trovato lo spiraglio per riemergere?
Non lo sapeva. Sapeva però un’altra cosa: Regina non aveva scordato la rivelazione. Gliela ripeteva in silenzio ogni giorno: ogni volta che erano costretti a condividere un pasto, ogni volta che per caso i loro sguardi si incrociavano, ogni – rara – volta in cui lei gli rivolgeva direttamente parola, era cortese e formale, ma sempre desiderosa di urlare una domanda che non poteva, non doveva essere posta.
Non ha senso chiedere.
Non ci sarà mai certezza.
Anche se era lui il primo ad aver ripreso a studiare di nascosto le increspature del viso di Regina, a cercare somiglianze e differenze trovandovi ogni volta una risposta differente.
Anche se la risata di Helena era simile a quella che poche volte aveva udito da una bambina dai capelli neri e dai mille segreti.
Ma quella non era certo giornata da perdere in simili crucci.
Gold montò in carrozza con un borsone da viaggio e a breve si ritrovò a bussare al portone sul vicolo, che si aprì quasi all’istante. Appena l’uomo mise piede nel patio, Belle gli allacciò le braccia al collo e lo baciò con una passione che lo lasciò interdetto, ma che certo non sindacò.
- Che accoglienza, Dearie, – la canzonò, ancora a un soffio dalle sue labbra – Dobbiamo star lontani più spesso, se sono questi i risultati.
- E tu mi fai venir voglia di cacciarti, quando ti rivolgi a me in questo modo. Cos’è, ci chiami tutte così?
Tutte, tranne te.
Tu non sei solo Dearie da cinque anni.
Ma non era la risposta che poteva darle.
- Forse, – la sbeffeggiò, riparandosi malamente dal colpo scherzoso che lei gli tirò e approfittandone per rubarle un altro bacio – Dov’è l’altra donna della mia vita?
- Dentro. Vado a chiamarla subito, – fece per voltarsi, ma Gold la trattenne.
- In realtà avrei in mente un programma diverso, – spiegò – Mi sono preso la libertà di portarvi un paio di indumenti. Ho pensato sarebbe bello se vi cambiaste e andassimo a vivere un’avventura.
La replica di Belle non si fece attendere.
- Quale avventura?
Dinanzi alla scintilla di curiosità che le accese lo sguardo, l’industriale rise: la sua Sweetheart era una donna adulta, ma conservava quella voglia di vivere, quella sete di novità che di rado si riscontra in chi ha più di qualche primavera alle spalle. Nulla le aveva strappato il desiderio di esplorare che la contraddistingueva da che lui la conosceva. Come non amarla, con quell’espressione così intrigata?
- È una sorpresa, – disse per bearsi del broncetto che le adombrò appena i tratti.
- Voglio sapere!
- Se non fosse una sorpresa sarebbe forse un’avventura?
- Ma almeno un indizio!
- Helena è molto più matura di te, te l’hanno mai detto?
- Certo, – rispose pronta – Helena è molto più matura di me… Ma io sono molto più matura di te. Perciò, Mr Gold, – ghignò – A voi le conclusioni.
 
 
 
Per quanto impacciata nei movimenti dal nuovo vestitino color glicine, Helena non esitò a correre incontro al padre appena lo vide, e l’uomo non fu da meno: la prese subito in braccio complimentandosi per il fascino e facendola ridere.
Gold rivolse un cenno a Ruby, che aveva accompagnato la piccola e ancora non se ne andava. Lo studiava come se volesse chiedergli qualcosa e al tempo stesso – inaudito per la giovane Lucas! – ne fosse intimidita. Eppure, quando aprì bocca il suo tono risuonò audace e padrone di sé come al solito.
- Belle non è fuggita, scende tra un minuto. Ultimi ritocchi, sapete. Helena, – si raccomandò poi – Non c’è bisogno di ripetertelo, ma conto su di te. Fatti comprare tutta Londra se…
- Se la desiderasse, gliela comprerei volentieri. E mi assicurerei che non la dividesse con voi, Miss Lucas.
- Uhm! – Ruby bofonchiò annoiata – Non sapete che nell’East End è maleducazione interrompere l’interlocutore? Parola mia, Helena, la tua impazienza ha un unico responsabile, ed è al tuo fianco. Dì a tuo padre di mettere una buona parola col suo amico. Gli conviene pur sempre avermi come alleata…
Gold inarcò un sopracciglio.
- Cosa intendete? – non aveva capito alcunché.
- Ruby è innamorata di quello biondo che viene a trovarla – gli venne in soccorso la bambina, senza tuttavia aiutarlo. Lei stessa se ne accorse – Quello biondo, bianco bianco! Non so come si chiama, è stato qui pure l’altro giorno! E tu lo conosci!
- Helena, tesoro, permetti che lo confermi: l’impazienza dal papà, l’intelligenza dalla mamma. Non si può pretendere troppo, – Ruby ribadì con fare chioccio, prima di rivolgersi all’uomo – Il vostro amico dottorino vi ricorda nessuno?
Gold impiegò più di un istante per ricollegare la professione al volto. La cameriera aveva adocchiato… Viktor Whale? Che follia era mai quella? Non conosceva bene il medico, ma qualcosa gli suggeriva che non era tipo d’uomo da perdere tempo dietro a una sguattera che certo non gli avrebbe portato doti da investire in ricerche. Avrebbero formato una coppia assurda.
E comunque migliore di te e Belle, gli ricordò una vocina beffarda.
Eppure, guarda dove siete arrivati…
Non vi fu tempo per commentare: Belle comparve sulla soglia. Una cascata color avorio le avvolgeva la figura, messa in risalto dalla fusciacca ametista ricamata in vita. Due perle le scintillavano ai lobi.
- Che meraviglia! – Ruby si avvicinò timorosa all’amica, come se temesse di sporcarle l’abito – Posso? – titubò facendo segno di voler toccare la stoffa. Con un sorriso, Belle fece un passo verso di lei.
Non passò più di un istante prima che la più giovane si voltasse incredula verso Gold e ululasse: – È vera seta!
- Certo, – confermò lui – Solo il meglio per noi.
- Parola mia, Belle, – le mani ai fianchi, la cameriera dichiarò con fare sornione – Se ti torce un capello, dimmelo che lo faccio fuori. Ma prima – strizzò l’occhio – Devo scoprire da chi fa cucire i vestiti.
 
 
 
“And it's the only thing that I know.”
 
 
 
Erano in viaggio da oltre mezz’ora, ma il tempo volava senza che se ne accorgessero: Robert aveva un modo d’incantare Helena, di conquistarla e avvincerla a suon di aneddoti che Belle quasi si ritrovava a invidiare.
Com’erano belli padre e figlia assieme, quanto la emozionavano con le loro identiche iridi nocciola di rara espressività. Quando si era resa conto del dettaglio, Belle aveva quasi creduto di non riuscire a guardare la figlia: con quegli occhi immagine di suo padre, i primi tempi era ogni volta una fitta al cuore. Ma poi quella paura era svanita, lasciando posto solo a un’emozione che gli anni avevano solo accresciuto. Sarebbe mai stata in grado di descrivere l’intensità dei suoi sentimenti per Helena e Robert? “Amore” sembrava una parola così vuota, così piccola. Ma forse non esisteva parola tanto grande da esprimere ciò che provava: il mondo intero non era abbastanza grande, né forse lo erano il cielo o le stelle.
E con quanta rapidità quei due avevano imparato a conoscersi e amarsi. Belle aveva temuto che la bimba non lo accettasse, che fra i due s’innalzasse una barriera causata non certo dalla mancanza d’affetto, ma proprio dal troppo amore già una volta sfociato in diffidenza; ma giorno dopo giorno aveva visto svanire i suoi timori, disperdersi come refoli di nebbia al primo raggio di sole.
Come Helena riusciva a intuire i suoi stati d’animo, così pareva comprendere il padre, le sue emozioni e i suoi gesti; anticiparlo, quasi come se tra i due vi fosse una sorta di silente comunicazione, come se condividessero un qualche segreto che permetteva loro d’intendersi senza parole. Belle, però, non ne era gelosa. Se inconsciamente lo era stata all’inizio, ora il pensiero le pareva assurdo: lei non era esclusa, non era esclusa neanche per un istante da quella combriccola. Bastava il sorriso di Helena, bastava lo sguardo di Robert e ritrovava ogni conferma: erano una famiglia. E nella loro famiglia nessuno sarebbe mai stato abbandonato o dimenticato. 2
All’improvviso la carrozza frenò. Le passeggere guardarono oltre il finestrino: di fronte s’innalzava un edificio di mattoni scuri che ai loro occhi pareva simile a mille altri; ai loro occhi, ma non a quelli di Gold, che sorrise tra sé e sé senza farsi notare.
Aiutò le due a smontare dalla carrozza e si diressero insieme verso la porta. Arrivati lì, quasi per caso Belle alzò gli occhi alla placca d’ottone che recava incisa una scritta.
Quando capì, si portò una mano alla bocca e si voltò verso Gold, una smorfia di genuino stupore sul volto.
L’uomo intercettò il suo sguardo e ammiccò.
- Signore, – disse con un sorriso storto e impertinente, ma pieno di calore – Heller&Sons Fotografi e Artisti è pronto a ricevervi.
 
 
 
“We keep this love in a photograph,
we made these memories for ourselves,
where our eyes are never closing, 
our hearts were never broken 
and time's forever frozen still.”
 
 
 
- Benvenuti, benvenuti! – li accolse un ometto bruno e stempiato – Isaac Heller, al vostro servizio. Siete puntualissimi, proprio come d’accordo.
- Non sono noto per rompere i miei accordi.
Belle sospirò appena. Robert era migliorato sotto molteplici punti di vista, ma al prossimo si presentava ancora come l’imprenditore superbo e arrogante che non tollerava prevaricazione alcuna.
- Certo che no, certo che no, – l’uomo scosse il capo prima di rialzarlo – Per questo prima adempiamo ai nostri obblighi meglio è.
La donna represse una smorfia. Forse il suo amato aveva trovato pane per i suoi denti… Ma non poté soffermarsi sul confronto: ogni istante un’eccitatissima Helena richiamava la sua attenzione per indicarle un oggetto sconosciuto che l’affascinava e mormorarle domande interessate, quasi irradiando un’aura visibile di curiosità attorno a sé.
Belle non poteva biasimare la figlia: da ragazzina anch’ella aveva visitato uno studio fotografico con identico entusiasmo, ma non ricordava nulla di simile. Quell’atelier era piccolo, ma ordinato; questo era molto più ampio, ma vi regnava il caos.
Tre pareti erano attrezzate con sfondi per qualsiasi esigenza: paesaggi trompe-l'œil, colonnine classiche portatili, finti salottini alla moda e false biblioteche; ovunque si scorgevano accessori d’ogni tipo che andavano da busti a orologi a pendolo, passando per un cavallino a dondolo che Helena guardava con occhi pieni di desiderio. 3
- L’ordine non è la nostra virtù, Milady, – Isaac si rivolse a Belle, fraintendendo le sue occhiate incuriosite – Ma in qualità di scrittore, io sono un artista molto più dei miei colleghi. E in quanto tale, le questioni materiali poco mi tangono.
- Non potrei certo farvi la paternale. Dicono che il disordine sia sinonimo di mente creativa, e in tutta sincerità, io apprezzo la fantasia. Oramai è merce rara nel mondo.
 - Ottima risposta, – commentò l’uomo.
Però, Gold si era scelto una donna interessante, oltre che ornamentale. Isaac Heller interagiva con l’imprenditore da svariati anni: il loro era un mero rapporto d’affari, ma il fotografo non poteva negare che lo scozzese gli fosse, malgrado il caratteraccio, simpatico. Come tutti, conosceva la leggenda dell’uomo venuto dal Nord e riuscito a fondare un impero sulla lana; e il fatto che l’avesse costruito da solo, che contando su ben poco oltre che le proprie forze l’ultimo dei derelitti fosse divenuto il primo tra i borghesi non poteva non avvincere un – purtroppo ancora aspirante – romanziere costretto dall’ascendenza a un mestiere che non amava. Quella storia di riscatto e rivincita sociale sarebbe potuta essere l’avvincente trama di un capolavoro: l’avrebbe complicata rimarcandovi le atmosfere dickenseniane e aggiungendovi un lieto fine con tanto di famigliola felice…
Lieto fine che, saggiamente, Gold non aveva atteso gli fosse scritto.
Per essere un bravo scrittore – anche se “bravo”, Heller l’aveva imparato a sue spese, non fa rima con “successo” – bisogna avere occhio per i particolari. E lui, modestamente, lo aveva.
La giovane dal sorriso candido non realizzava il potere che deteneva: dal modo in cui Gold la guardava, era chiaro che a un suo cenno il più temuto degli industriali avrebbe rinunciato a tutto per lei. La sconosciuta e la figlia forse non portavano la corona, forse non erano unte da tutti i crismi dell’ufficialità, ma erano le regine di Gold non meno di quanto lo potessero essere una moglie o una discendente legittima.
Le labbra di Isaac s’incresparono in un sogghigno, ma l’uomo tornò presto serio.
- Allora, – disse pratico – Quali pose desiderate?
- Una di gruppo, – si fece avanti Gold – E due singole.
Subito il fotografo li fece disporre nel falso salotto, l’uomo in piedi al centro, la bambina in piedi davanti a lui e Belle seduta alla loro destra.
- Ma’, – Helena chiese dubbiosa – Che devo fare?
- Guarda in alto verso l’obiettivo, e tieni gli occhi ben aperti, – la donna spiegò mentre l’artista prendeva posto dietro il cavalletto – Ora questo signore ci scatterà una fotografia. Sai cosa significa? No? Significa che resteremo per sempre impresse sulla lastra così come siamo adesso. Anche quando sarai più grande potrai guardare l’immagine di questo giorno e ricordarlo, riviverlo nonostante gli anni che passano. Insomma, – concluse – Si fissa un momento in eterno. Non trovi sia bellissimo?
A Helena la cosa sembrava inquietante, altro che bella. Cosa intendeva mamma? Quello strano marchingegno avrebbe intrappolato al suo interno lei e i suoi genitori, li avrebbe imprigionati per sempre? Mamma aveva detto che da grande avrebbe potuto rivedere il momento… Allora sarebbe cresciuta dentro la macchina?
La prospettiva non le piaceva affatto. Fissò turbata l’apparecchio come se fosse stato la finestra per un altro mondo, senza neanche accorgersi di essere rimasta immobile proprio come le ordinava lo sconosciuto e trattenendo a stento un urletto quando uno scoppio e il bagliore del flash l’accecarono.
Eppure… Eppure, malgrado lo scatto, la situazione sembrava immutata: si trovava sempre nello studio e nessuno era stato catapultato altrove. Che avesse interpretato male le parole della madre? O forse alla fine papà era davvero divenuto un mago e i suoi poteri avevano contrastato quelle del temibile aggeggio salvandoli tutti?
Seppure indecisa, Helena preferì questa seconda opzione; per questo si mostrò un po’ più tranquilla quando posò da sola e quando vide la madre fare lo stesso senza che nulla di terribile accadesse. Sì, doveva essere così: papà le stava proteggendo. Ripeteva sempre che da allora in avanti sarebbe sempre stato al loro fianco, le avrebbe amate e protette in ogni momento; ebbene, lo stava dimostrando.
Mamma rideva quando lo sentiva pronunciare cose simili, e gli ricordava che fino ad allora se l’erano cavata benissimo da sole e che non avevano bisogno di un cavalier servente pronto a scattare ai loro comandi e a difenderle da draghi invisibili; Helena però non era d’accordo. Era vero, prima la loro non era stata una brutta vita, ma con papà era meglio: con lui il mondo era un posto diverso, ricco di segreti e misteri la cui esistenza non aveva mai sospettato. E poi, aveva rispettato la sua parte di accordo: l’aveva pensata mentre erano distanti, era tornato da lei, e ogni volta restava persino un po’ più della precedente. Le aveva confidato in gran segreto che un giorno non ci sarebbe più stato bisogno di separarsi, e lei aveva fatto i salti di gioia.
Ora che erano finalmente assieme, Helena avrebbe voluto addormentarsi sempre con la voce della mamma all’orecchio e le carezze di papà sul volto.
- Direi che è tutto, – Isaac si passò le mani sui pantaloni e annuì a se stesso – Vi farò sapere quanto prima.
Gold non rispose subito. Appariva assorto, come se stesse riflettendo su qualcosa da cui non riusciva a distogliere la mente. Belle gli sfiorò appena un braccio per riscuoterlo, e l’uomo si riebbe. La guardò ancora prima di parlare.
- Mi serve un altro scatto, – dichiarò all’improvviso.
- Certo, – l’artista non fece una piega. Con quello che Gold lo pagava anche per mantenere il segreto sull’appuntamento – sulla sua famigliola illegittima – avrebbe potuto fotografarlo altre dieci volte – Una posa da solo?
- Solo con mia moglie, – precisò lui, guardandolo dritto in volto e facendolo rabbrividire, quasi avesse letto il pensiero.
A Belle quelle parole fecero venire un colpo.
Il cuore le si gonfiò, le riempì il petto, tanto grande da starle scomodo. S’impose di non trasalire, di fingere impassibilità per non tradire Gold, ma nulla poté fermare l’emozione che la sovrastava.
Non c’era di che stupirsi, in fondo: quelle parole non erano che la conferma di quanto Robert le ripeteva giorno dopo giorno. Le confessava incessante il suo amore e, sebbene non avessero più toccato l’argomento nozze, le sue intenzioni erano palesi; ma il fatto che ora le avesse ribadite dinanzi a un terzo andava ben oltre la necessità di mantenere le apparenze.
Gold la conosceva: a lei il giudizio altrui non faceva paura. E lei conosceva Gold: nessuna sua parola era davvero casuale. Avrebbe potuto limitarsi a chiedere una foto “solo con lei”, senza ulteriori specificazioni; il fatto che le avesse aggiunte di sua sponte indicava – non una prevaricazione, non un’imposizione – ma una precisa volontà.
La volontà di considerarla davvero sua moglie.
Belle non proferì parola sedendosi davanti all’industriale. La mente piena degli accadimenti degli ultimi istanti, non si voltò, non cercò il suo sguardo.
Tutto accadde in fretta, più veloce di un battito di ciglia
Appena un istante prima che Heller scattasse la foto, Belle strinse le mani di Robert.
Per sempre così come siamo adesso.
Il suo tocco bruciava come avesse il sole tra le dita.
 
 
 
“I swear it will get easier,
remember that
with every piece of ya,
and it's the only thing
to take with us
when we die.”
 
 
 
Belle era stata gentile a coinvolgerla. Regina non aveva dubbi: era stata lei a invitarla a prender parte a quella giornata, non certo lo zio. Per quanto il sospetto iniziale si fosse placato, la tensione tra i due restava palpabile: la palesavano i gesti irrimediabilmente freddi che si scambiavano, la capacità dell’uomo di ignorarla pur guardandola in volto, quei silenzi che avevano come causa e scopo non esacerbare ancora un conflitto non sempre così latente.
La ragazza non lo biasimava: comprendeva quella ritrosia e, in un certo senso, la condivideva.
Ma l’atteggiamento stesso non era forse un’ammissione di colpe?
Quando si chiedeva cos’avesse forgiato l’espressione del suo sguardo, erano gli occhi di ossidiana di Cora quelli che Regina ora voleva incontrare allo specchio.
Non i suoi – non i loro, sempre che di loro si potesse parlare.
Per quanto scaturente da diversi contesti, in parte si trattava dello stesso disagio che provava verso Belle. Anche con l’ex domestica la situazione era in divenire: sebbene la donna si mostrasse gentile e disponibile nei suoi confronti – amichevole, non poteva non pensare Regina con una stretta al cuore –, l’adolescente tendeva a non indulgere in simili premure, facendo ben attenzione a non abbattere del tutto la staccionata eretta attorno a sé.
Il tempo rimarginava anche gli squarci nel cuore, dicevano, e in effetti Belle le aveva accordato il suo perdono; ma lei, lei sarebbe mai riuscita a perdonare se stessa? Aveva accettato la mano che la donna le aveva porto, ma se si fossero avvicinate ancora sarebbe tornato il pericolo di deluderla, e con esso la memoria mai sopita del tradimento.
Memoria e pericolo che già sua madre sollecitava a ogni visita. Nelle settimane precedenti la contessa Mills era andata a sincerarsi delle condizioni della figlia per ben tre volte – più di quanto immaginabile – e in tutti i casi lo zio non aveva negato la vista, nell’assurda speranza che le due riparassero lo strappo e si dileguassero dalla sua vista. Aveva addirittura presidiato gli incontri che, prevedibilmente, erano divenuti teatro di battute infuocate, labbra che si arricciavano appena nel criticare pervicacemente una persona mai nominata ma sempre presente e ghigni serafici e taglienti in difesa di quella stessa identica persona.
Ogni volta Cora raccomandava alla figlia di ritrovare la retta via; e ogni volta Regina avrebbe voluto rispondere che lei sarebbe sì tornata a casa, a condizione però che la madre accettasse il suo modo – immaturo, non esclusivo, forse inadeguato – di volerle bene restando se stessa.
Ma Maman non l’avrebbe ascoltata.
- Perché non mi lasciate stare? – le aveva chiesto una volta, imponendosi di vestire di durezza la propria voce.
Cora aveva sorriso triste.
- Sono tua madre. Come potrei lasciarti stare?
In quel momento, nonostante la rabbia, nonostante la frattura che mille regali non avrebbero potuto riparare – quei regali che non mancavano mai, che parlavano della donna che Cora si aspettava Regina divenisse e mai di quella che stava divenendo –, la ragazza aveva solo desiderato di tornar bambina e poter piangere senza vergogna.
Una cosa, però, doveva riconoscere: era eccezionale come Cora perseverasse nelle battaglie senza rendersi ridicola. Tanto che stesse fronteggiando la figlia, quanto che duellando con la rivale, manteneva un’aria altera e regale che la ragazza in cuor suo invidiava: al suo posto, con ogni probabilità Regina avrebbe preso a pugni l’avversaria e risolto in fretta e furia la faccenda.
Ma con Daniel simile eventualità non si poneva: per Daniel, esisteva lei e lei sola.
Malgrado l’avvertimento, il giovane era tornato a trovarla: non spesso quanto avrebbe desiderato, ma più di quanto sperato. Ancora una volta i loro erano incontri fugaci, separati da un maledetto cancello le cui chiavi Regina non riusciva a sottrarre, ma non per questo erano meno belli: il modo in cui si confidavano, in cui si stringevano le mani e sfioravano le labbra erano vita per Regina.
Una volta era andata a trovarla anche Mal. L’amica le aveva rivolto il solito sorriso sornione che la contraddistingueva e aveva fischiato alla vista della nuova dimora di Regina.
- Ma brava la mia allieva! – aveva commentato – Ribellarsi a mammina paga! Dov’è la mia ricompensa per averti salvata?
Entrambe avevano sogghignato con non facevano da tempo e avevano trascorso minuti di spensieratezza che non condividevano da settimane intere. Salutandola, Regina aveva raccomandato all’amica di star attenta a sé e a Daniel: il pericolo di ritorsioni c’era, ed era alto: gli incubi in cui Cora si vendicava non le davano tregua.
Ma quel giorno non c’era spazio per le preoccupazioni: Daniel aveva promesso sarebbe tornato a trovarla. Anche per questo la nobile aveva rifiutato la proposta di Gold, benedicendo il Cielo alla scoperta che lui sarebbe stato fuori casa per delle ore. Non che lo zio si curasse molto della sua routine – senza Ronzinante e quella bestiolina petulante di Helena, si era ritrovata suo malgrado a trascorrere intere giornate in biblioteca –, ma certo era preferibile non la sorprendesse ad amoreggiare con un ragazzo…
Tanto più in un giorno in cui era finalmente riuscita a farsi prestare le chiavi del cancello di servizio.
Per una volta nella vita Regina si trovò a benedire il modo in cui Mary Margaret era così… Mary Margaret: distrarla si era rivelato più facile del previsto. Si stupiva che la donna non si fosse ancora resa conto dell’assenza e si chiese che razza di governante lavorasse per lo zio. Certamente se l’uomo si fosse accorto di simile disattenzione avrebbe licenziato la Nolan… Ma le chiavi sarebbero magicamente ricomparse ben prima che il padrone tornasse. Misteri del Castello, per citare Helena.
Ecco: avrebbe trascorso una giornata con Helena più che volentieri. Dubitava che il suo ospite gliel’avrebbe permesso, ma forse anche in questo lei avrebbe agito senza chiedere: non avrebbe mai torto un capello a quella bambina che, sorellastra o meno, l’aiutava a sorridere della bellezza del mondo. Era petulante come Belle, infantile, ingenua e irritante, ma – perché negarlo ancora? – Regina non poteva fare a meno di volerle bene e di sentirsi addolorata quando Helena la salutava in lacrime prima di tornare in quell’East End in cui sua madre continuava assurdamente a tornare.
Addolorata e lusingata, perché ben poche volte nella vita aveva sperimentato un amore tanto disinteressato come quello che solo un bambino può donare.
Ogni riflessione passò in secondo piano con l’arrivo di Daniel.
- Salve! – il giovane la salutò col suo solito sorriso – Oggi siamo parecchio felici, a quanto pare.
Regina non rispose. Si limitò a far dondolare davanti al volto la massiccia chiave d’ottone, ridacchiando dinanzi all’espressione dell’ex stalliere.
- Apre il cancello?
- No, Buckingham Palace, – non si trattenne – Cos’altro dovrebbe aprire, secondo te?
Daniel alzò le mani ridendo.
- Domandare è lecito.
- … E rispondere è cortesia, – terminò lei aprendo l’inferriata – Ora che ci siamo aggiornati sulle ultime novità della saggezza popolare, vorresti entrare? – il ragazzo obbedì con attenta circospezione. La bruna se ne accorse – L’unica cosiddetta Bestia di questa casa è assente. Non che ti considererebbe, vedendoti con me, ma comunque…
- Le cose vanno come al solito anche con lui? – Daniel era al corrente dei dubbi che dilaniavano la sua innamorata.
La Contessina alzò le spalle.
- Va bene così. È normale che il nostro rapporto non sia dei migliori, – disse in tono uniforme – Gli ho portato mia madre in casa proprio quando aveva la possibilità di stare con sua figlia… E in ogni caso, non mi tratta certo male. Non mi fa mancare nulla, pur non avendo obblighi nei miei riguardi.
- Ma non ti fa sentire amata.
- Quello, – commentò – È una cosa in cui ben pochi riescono.
Udendo l’amarezza nella voce della fanciulla, Daniel si pentì d’averla rattristata. Le si avvicinò e l’abbracciò.
- Rubare le chiavi per far entrare un uomo… Cos’hai in questa testolina, Regina Mills? – le sussurrò carezzandole i capelli – Sei tutta matta, e ti amo anche per questo.
Regina rise stringendosi un po’ di più al giovane. Quanto le era mancato poterlo fare, quanto. Ora che era così vicina a lui, si sentiva finalmente bene, serena. Potente – come se nessun nemico potesse davvero essere pericoloso dinanzi alla forza che loro due possedevano. Uniti erano invincibili.
Si sedettero su un gradino a chiacchierare, a parlare delle loro nuove vite e a coccolarsi. Potersi finalmente tenere per mano e stare tanto vicini , baciarsi senza l’ostacolo delle sbarre non pareva vero a nessuno dei due; ma quando Daniel le scostava i capelli, la guardava come se fosse la cosa più bella al mondo e la baciava, entrambi abbandonavano ogni timore.
Erano insieme, e solo questo importava.
 
 
 
- Ma questa chiave? Tua madre sta impazzendo, dice che il Coccodrillo la sbranerà e che stavolta nessuno potrà salvarla. Tu l’hai trovata, Nolan?
- No, la sto cercando anch’io, – Emma aprì gli scuri delle imposte per illuminare meglio la stanza. Fece per voltarsi, ma qualcosa catturò la sua attenzione. Quando capì, suo malgrado sorrise – Ma so benissimo chi ce l’ha.
- Chi? – Killian le si avvicinò incuriosito e guardò in giardino – Oh-oh! Intraprendente, la nostra Contessina! Questo da dove sbuca fuori?
La bionda scosse il capo.
- Non ne ho idea. Ma non è certo un Lord o qualcosa del genere. Quando la vecchia Cora lo saprà, le verrà un colpo.
- Meglio non lo sappia, allora. Questo giovanotto che rischia tutto per la sua Lady mi sta simpatico…
Emma lo guardò male.
- Non scherzare. Con la suocera che si ritrova, rischia veramente la testa…
- E con la mia, ogni giorno rischio entrambe le mani, Milady, – disse prima di allungarsi per baciarla.
Emma, suo malgrado, sorrise.
 
 
 
Come ogni volta, il tempo trascorse in fretta: il cielo estivo già iniziava a imbrunirsi. Lo zio sarebbe tornato da presto, e la chiave doveva riapparire in tempo.
Daniel stesso lo intuì; ma prima di andarsene c’era una cosa che voleva fare.
- Devo dirti una cosa, – esordì – Tra una settimana o due incontrerò una mia vecchia conoscenza. Non preoccuparti – aggiunse subito – È solo un uomo del mio villaggio, un amico di famiglia. È stato in America per parecchi anni e ora tornerà qui per qualche tempo. Partirà ancora e… – si morse le labbra prima di dirlo – Se mi chiederà di seguirlo, lo farò.
Regina non disse nulla. Guardò Locke senza capire subito, un brivido lungo la schiena. Daniel voleva andarsene? Voleva lasciarla lì da sola? E allora, perché i baci, lee moine, le paroline dolci che si erano susseguite per l’intera serata? Perché aveva atteso gli ultimi minuti per comunicarle una notizia su cui avrebbero dovuto discutere?
Non deve certo discuterne con te. La vita è sua, le ricordò qualcosa all’orecchio.
- Capisco, – rispose gelida – In America ci sono molte opportunità.
- È per questo che penso di seguirlo. Per darti un’opportunità migliore, per tornare più ricco e darti la vita che meriti.
- Io non voglio alcun lusso, lo sai, – ringhiò – Voglio solo stare con te.
- E come possiamo stare insieme, se non abbiamo nulla? D’amore non si campa.
Lo so.
Ma neanche di prigionia.
- In America ci sono opportunità anche per le donne, dicono, – il ragazzo la guardò incerto – Potrei lavorare anch’io.
Daniel scosse il capo.
- No. È tutto incerto, il viaggio è lungo e non sempre va a buon fine. E lì la nobiltà è ben poca cosa – lì nessuno regala nulla a nessuno.
Il sottinteso la ferì nel profondo.
- Sai a cosa mi ha portata una vita di regali? – alzò la voce, incurante di poter essere scoperta – A dover sempre soddisfare le aspettative altrui, a dire solo ciò che gli altri vogliono sentirsi dire. E io sono stanca, sono stanca di questo, perché è questo ad averci condotti qui!
- Ma…
- E sono io a dover scegliere cosa fare della mia vita, perciò se non vuoi che ti segua benissimo, non ti seguirò perché comunque non è mia intenzione, ma non mi potrai certo impedire di emigrare e di cercare libertà per conto mio!
Daniel le si avvicinò e le prese le mani.
- Se mi accompagni, mi rendi l’uomo più felice al mondo, lo sai. Io vorrei tu partissi con me, credimi, amore mio, – le confessò – Ma se lo fai, non potrai tornare indietro. Tua madre vuole ancora riaccoglierti, se scappiamo…
- Ma io non voglio tornare da mia madre! Io non voglio più essere prigioniera di nessuno, e tu lo sai!
Il giovane si passò una mano sul viso.
- Tu vuoi scappare. E io non voglio farti rovinare.
 - Io intendo solo costruire assieme il futuro che tu vuoi darmi. Parteciparvi, non aspettarlo senza far niente. Il resto è tutta opera tua.
Daniel sospirò. Aveva parlato delle sue intenzioni per una questione di sincerità, ma avrebbe dovuto immaginare che sarebbero arrivati a quel punto. Conosceva Regina troppo bene per illudersi di riuscire a farla tornare sui suoi passi… L’occasione di andar via da Londra e da sua madre era troppo ghiotta perché potesse lasciarsela sfuggire; e in effetti, lui la capiva. Ma sarebbe anche potuta essere il loro peggior errore…
- Promettimi che ci pensi su bene – disse infine diplomatico – Non c’è fretta. Non prendere decisioni di cui pentirti.
- Non mi pentirei mai di iniziare una nuova vita lontano da tutto e tutti. È l’unica cosa che voglio, – rispose lei.
Il giovane sorrise. Non avrebbe voluto farla arrabbiare, peggiorarle ulteriormente l’umore. Regina aveva già tanti problemi; almeno lui aveva il compito di rallegrarla. Non potevano salutarsi senza aver fatto la pace.
- Vieni qua, – la invitò per abbracciarla. Regina obbedì – Che ti ho detto prima? Che sei tutta matta?  Mi sa che avevo sbagliato. Tu sei peggio.
- Ma mi ami anche per questo.
- Già.
 
 
 
“Holding me close until our eyes meet,
you won't ever be alone.”
 
 
 
Quando entrò in camera, Gold trovò Belle ad attenderlo in piedi alla finestra.
- Sono contento abbiate deciso di fermarvi stanotte. Alla fine la giornata è terminata con una sorpresa anche per me, – scherzò.
Belle sorrise, ma l‘espressione del suo volto rimase distante, sovrappensiero; un particolare che non gli sfuggì.
- Va tutto bene? – le chiese cauto.
La risposta giunse solo dopo qualche secondo.
- Sì, – a quel mormorio l’uomo riprese a respirare – Sai, non riesco a fare a meno di pensare a… A prima. A ciò che hai detto da Heller. All’ultima foto.
- La nostra prima foto ufficiale.
- Hai detto che sono tua moglie.
Gold la guardò.
- Sì. Ti considero mia moglie nel cuore.
Le parole le corsero sulla pelle, colpendola nel profondo. Proprio come poche ore prima, il cuore accelerò la sua corsa, così forte che pareva voler uscire dal petto.
Belle cercò le parole adatte senza riuscirvi; affidò al silenzio la propria emozione, mentre l’amato le si avvicinava. Un momento erano uno di fronte all’altra, occhi di cielo contro terra; quello dopo la donna era contro il suo petto, le mani aggrappate alla camicia.
Gold chinò il capo per poggiare la fronte sulla testa dell’amata.
- Ti ho infastidito chiamandoti mia moglie?
La donna rimase immobile.
- Mai, e credimi, mai nella vita, – le tremava la voce. Era disperazione? Era… Speranza? – Sono stata chiamata in modo tanto bello. Grazie.
Gold posò le labbra su quelle di Belle prima ancora di formulare il desiderio di baciarla.
- Sono io a doverti ringraziare, – le disse poi, fronte contro fronte – Per avermelo permesso, ma soprattutto per esserci. Per restarmi accanto anche se non sono all’altezza di ciò che meriti, anche se a causa mia non posso di baciarti ogni giorno.
- Non devi provarmi nulla, Robert, – gli occhi di Belle scintillavano felici mentre gli stringeva le mani – Io ti amo.
- No, Sweetheart, fammi parlare, – non glielo dirai, ma deve sapere. Almeno questo, deve saperlo – Perdonami perché ho sbagliato, sbaglio e sbaglierò ancora, ma ti amo, e questo non cambierà mai, qualsiasi cosa accada. Non vorrei mai deluderti. Te lo giuro, – sussurrò la promessa carezzandole il volto – Non ho cambiato idea: se ci sposassimo sarebbe tutto più semplice, per noi e soprattutto per Helena. Ma se siamo arrivati a questo punto – se tu non puoi ancora essere chiamata Mrs Gold, se agli occhi del mondo ancora non sei la sola che considero mia pari – il colpevole è uno solo. Per questo capisco le tue paure e accetto la tua volontà. Non ci saranno forzature da parte mia: finché lo vorrai, saremo sposati nel cuore. E questo, questo mi rende l’uomo più felice del mondo.
Belle non piangeva, Belle non tremava. Le lacrime avrebbero solo macchiato la purezza di un istante che avrebbe custodito in eterno, incontaminato e autentico.
Belle rideva. Era felice – felice come poche altre. Belle voleva dirgli che quella dichiarazione corrispondeva ai suoi sentimenti, a ciò che l’aveva spinta a lottare anche quando era stato vano, anche quando un oceano li separava e nulla sembrava più poterli unire. Troppe miglia, troppi ostacoli, troppe paure li avevano separati, ma lei non aveva mai temuto che il loro amore non potesse resistere, e sapeva perché.
Il loro era vero amore.
- Non lasciamoci andare mai più, – esalò percorrendogli la linea della mascella con baci leggeri – Non permettiamoci di dimenticare dove siamo arrivati dopo tutti questi anni, chi siamo stasera. La sera in cui ci consegniamo il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro perché noi – perché noi ci amiamo.
Indietreggiarono sino al letto, su cui caddero assieme. Malgrado il desiderio, la spogliò piano, con perizia, non perdendo occasione di appropriarsi di quella bocca che sapeva di peccato e perdono e beandosi di ogni lembo di pelle che scopriva fino ad averla nuda sotto di sé.
Il sorriso che lei gli rivolse allungandosi verso i bottoni della camicia sarebbe dovuto essere illegale. Le sue mani fini erano un sussurro sulla pelle, così lievi e morbide, ma l’uomo fu più svelto: intercettò il movimento e le bloccò i polsi, portandoglieli sopra la testa e non allentando la presa dinanzi alla sua timida resistenza.
- Non ancora, – le sussurrò appena, sorridendole contro l’orecchio quando colse il suo brivido – Sii paziente, mia Sweetheart, – le ricordò pur sapendo che, in fondo, non l’avrebbe fatta attendere tanto per il suo piacere.
Le sfiorò la gola, la fossetta tra le clavicole; scese senza fretta lungo il profilo puntuto dei piccoli seni, rivestendola di baci erranti, rialzando il capo per non perdere per un istante quello sguardo acquamarina che sentiva sempre su di sé, con cui lei lo carezzava a distanza – quello sguardo che possedeva il suo spirito, luminoso come se contenesse tutte le stelle del firmamento; baciò ogni centimetro del ventre, seguendo una linea immaginaria che solo lui conosceva e su cui avrebbe trascorso il resto della sua esistenza, sentendola fremere mentre scendeva tra le gambe.
Dio, quanto l’amava in momenti simili. Quanto amava il modo in cui le si accelerava il respiro, quei suoi piccoli versi, quei gemiti rochi che le erompevano dalla gola. Erano musica per le sue orecchie, una melodia che unita al sapore di Belle sulla lingua erano sufficienti a farlo impazzire.
Gli artigliava i capelli tra i pugni chiusi, ma non c’era fastidio, non c’era dolore quando lei lo benediceva con quell’agonia che sapeva di vita, la cui bellezza lo lasciava ogni volta senza fiato.
Belle pronunciava il suo nome come fosse stato panna nella bocca: le lettere si scioglievano sulla lingua, scivolavano dalle labbra in un sussurro continuo che gliela faceva desiderare ancora di più. Sentirla arcuarsi gli provocò un moto d’orgoglio che fu sole liquido nelle vene.
Restò così, col viso poggiato sul ventre e le mani sul seno, a sentirla riprendere fiato e continuare ad accarezzarla senza sosta.
- Sei bella, – mormorò – Sei bellissima.
La udì ridere mentre si puntellava sui gomiti per sollevarsi.
 - Vieni qui, – gli disse facendogli segno di raggiungerla.
Gold obbedì.
 
 
 
And if you hurt me,
that's okay, baby,
there'll be worse things.
 
 
 
Non riusciva a prender sonno quella notte. Nonostante Belle gli fosse accanto, immersa nel sonno cui i giusti accedono, lui restava immobile a fissare il soffitto.
Sarebbe potuto restarle accanto, vegliandone il riposo fino al mattino; avrebbe voluto guardare la vita tornare in lei, ammirare le ombre che le lunghe ciglia formavano attorno agli occhi e tracciare la curva del suo primo sorriso con le dita, prima di baciarla ancora una volta.
Però, se si fosse alzato avrebbe potuto portarsi avanti col lavoro e concedersi maggiore libertà – maggior tempo con la sua famiglia – l’indomani, prima dell’appuntamento delle undici. Così facendo, se Belle ed Helena fossero volute tornare a Whitechapel – inutile dire che le sue speranze erano sempre nel senso opposto – avrebbe potuto accompagnarle lui stesso…
Si sciolse con attenzione dall’abbraccio della sua Sweetheart: non intendeva svegliarla. Che continuasse a sognare, che le sue notti fossero piene di allegria, di danze e canti e sogni colorati: d’ora in avanti ci sarebbe stato lui. Lui l’avrebbe protetta, e la sua vita sarebbe divenuta la fiaba che sarebbe sempre dovuta essere.
Anzi, più bella di una fiaba; perché vera.
Come se si fosse accorta della separazione, la donna borbottò qualcosa nel sonno, ma una carezza lieve bastò a placarla.
- Amore mio, – non si trattenne dal sussurrare, dedicandole un ultimo sguardo e sfiorandole appena una mano con le labbra.
Il bacio che si dà a una regina.
L’avrebbe sposata. Prima non una menzogna aveva abbandonato la sua bocca tanto spesso spergiura: ogni frase, ogni giuramento era stato sincero. Belle era sua moglie, lo era più di quanto lo era stata Milah, lo era più di quanto sarebbe mai potuta esserlo Cora: Belle era metà della sua anima, il pezzo mancante che rendeva tutto completo. Come le aveva detto la loro prima notte insieme, lei aveva trovato il buono in lui, giungendo anche a crearlo; aveva saputo esserci sempre, in un angolo, senza prepotenza, fino a fargli desiderare di tornare alla parte migliore di sé; e questo non era mai accaduto prima
Belle lo aveva portato a casa, e per quanto continuasse a compiere scelte sbagliate, lui non avrebbe mai potuto dimenticare la distanza tra ciò che era stato e chi era diventato grazie a quella donna così piccola e così potente.
Helena, amore mio, dici spesso che io sono un mago.
La vera maga, però, è tua madre.
È lei a possedere la magia più potente di tutte.
Gold soppesò la pila di corrispondenza da sbrigare col timore di scorgere un’altra missiva di quella pazza scatenata con cui si pentiva di essersi ubriacato.
Una lettera proveniente dalla tenuta dei Feinberg, con quella ceralacca che pareva quasi un grumo di sangue, gli fece digrignare i denti.
Era stato chiaro: non voleva più avere a che fare con Rebecca, non voleva più sentirsi rinfacciare momenti e voti che non avevano mai avuto luogo. Checché affermasse la giornalista, tra loro non c’erano mai state promesse: era stato solo semplice, comune sesso.
Sesso liberatorio, privo di responsabilità e conseguenze; sesso buono solo a regalarsi un istante di oblio per nascondere il dolore in un orgasmo.
Per illudersi di nascondere il dolore in un orgasmo.
Perdersi nel corpo di Rebecca era stato semplice, per un po’. Non si era mai illuso di sfuggire veramente alla tristezza: i ricordi di quando toccava un’anima e non solo un corpo tornavano ogni volta, e ogni volta più feroci delle precedenti.
C’era anche questo tra i motivi che l’avevano indotto a lasciarla.
Non si era comportato bene con l’ex amante, lo ammetteva. L’aveva usata per i propri fini, quando invece avrebbe dovuto mettere in chiaro le cose sin dalla prima maledetta notte; ma era stato questo il suo sbaglio, non altri. Non l’aveva mai, mai illusa.
Stavolta, notò all’improvviso, il mittente della lettera non era la Zelenyy, bensì direttamente Hans Feinberg.
Meditò perplesso sul dato, mentre la mano correva quasi da sé al tagliacarte.
Il marito di Ella era sempre stato piuttosto barocco nella prosa: anche nelle lettere commerciali si dilettava in orpelli e vezzi formalistici che poco aggiungevano alla sostanza dei fatti. Tutto il contrario della sua prosa molto più minimalista e immediata. Cosa diamine voleva con tutti quei salamelecchi? Dio, aveva riempito una pagina senza arrivare al cuore della questione: si riferiva all’accordo siglato nella sua tenuta a fine aprile, bene, ma quindi? Non era rimaste questioni aperte, che lui ricordasse.
Gold represse uno sbadiglio e lasciò scivolare lo sguardo qualche riga più in basso, dove una parola apparentemente avulsa dal contesto colpì la sua attenzione.
“Ballo”
Tornò indietro alla ricerca di spiegazioni.
Rilesse il capoverso due, tre, quattro volte nella speranza di non star capendo, di essere stato colto da Morfeo e aver frainteso tutto.
Ma così non era.
L’occasione sì propizia dell’incontro di queste illustri volontà è senz’altro mirabile e necessita pertanto di essere degnamente celebrata. È bene che l’Impero sappia che tale risultato schiuderà le porte a un’ulteriore era di benessere e progresso; è opportuno pertanto che si festeggi con un ballo degno di restare negli annali e che mia moglie Ella sarà lieta d‘organizzare.”
Ella Feinberg stava organizzando una festa che l’avrebbe visto tra gli ospiti d’onore.
Una festa cui avrebbe dovuto presenziare
E cui lui non sarebbe mai potuto andare.
 
Perché con Ella ci sarebbe stata anche Rebecca.
 
 
 
“Wait for me
to come home.

“Photograph” - Ed Sheeran
 
 
 
1: il Savoy è uno dei più antichi e imponenti hotel di Londra – https://it.wikipedia.org/wiki/Hotel_Savoy;
2: Citazione del cartoon Disney “Lilo&Stitch”. Se non l’avete ancora visto, recuperatelo appena ne avete occasione: merita!
3: La descrizione dello studio fotografico è molto liberamente ispirata a quella che si legge a pag. 868 de “Il petalo cremisi e il bianco” di Michel Faber. È il mio libro preferito e quindi sono di parte, ma ve lo consiglio caldamente perché, tra i mille pregi, ha quello di saper catturare il lettore come ben pochi altri romanzi. Tra l’altro, nel 2011 ne è stata tratta una splendida miniserie BBC con Romola Garai, Gillian Anderson, Mark Gatiss…
 
 
 
N.d.A. : Dearies!
Adorat*, cosa mi raccontate? State boccheggiando dal caldo come la scrivente? Consoliamoci: “Non può fare 40 gradi per sempre”, semicit. Un giorno arriverà l’autunno e saremo tutt* molto più felici – o almeno, io lo sarò.
Quanto al “capitolo dell’aMMMore”, com’è stato ribattezzato… Il colpevole è Ed Sheeran! Inizialmente non avevo previsto niente del genere: avrei dovuto scrivere direttamente i prossimi eventi. Però poi ho scoperto questa canzone così struggente che non inserirla sarebbe stata follia… Perciò beccatevi l’aggiornamento parecchio fluff, col finale “arghcheca*zosuccede?!” e un po’ porno – #sorrynotsorry, questa storia sta andando così. Spero di non dover alzare il rating! XD
Scherzi a parte, ditemi la vostra: caratterizzazioni astruse, trama delirante, orrori vari, mia incapacità nel descrivere determinati momenti, qualunque critica vi venga in mente voi fatela senza timori. Non vi mangerò, anzi: vi ringrazierò per avermi aiutata a migliorare! Qualche righina, anche una una, fa sempre piacere: non abbandonatemi! :) :*
Grazie di cuore a quant* recensiscono la long, la leggono in silenzio e/o l’aggiungono a una categoria; una menzione speciale alla preziosissima V., che valuta in anteprima certe scene convincendomi a non eliminarle. ♥
Ci si rilegge sabato 29 agosto; pensate che allora mancheranno soli 28 giorni a OUAT e rivedremo i RumBelle – sì, sono una povera sciocca che s’illude. Non svegliatemi, please. ♥
Ricordo infine la mia pagina Facebook “Euridice’s World” per anticipazioni, fangirlaggio, varie ed eventuali. :)
Bacioni, miei arcobaleni, e buon San Lorenzo e Ferragosto in anticipo!
Love u so! :D
Euridice100
   
 
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