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Autore: TheEldestCosmonaut    08/08/2015    2 recensioni
Una rielaborazione del mondo fantastico ideato da Leandro Consumi e Gianfranco Enrietto, e sviluppato da Giochi Preziosi ©.
In una un tempo sperduta e sconosciuta isola del Grande Golfo, situata alle porte dell’inesplorato Mare dei Serpenti, un anziano maestro nato e cresciuto qui, dal passato oscuro e dall’identità misteriosa, noto a tutti, fuorché la moglie, come semplicemente il Cronista, riunisce ogni mattina i giovani del suo Popolo di appartenenza, il Popolo della Foresta. Il Cronista insegna ai cuccioli della sua etnia la storia lunga della razza che domina l’Isola di Gorm: in particolare, è arrivato il momento per il Cronista di narrare le vicende degli ultimi cinquant’anni circa dei gormiti, i più intensi e sanguinari, quelli che maggiormente hanno sconvolto le usanze, la filosofia, la scienza, e in generale la realtà intera dell’isola, e che hanno aperto i suoi abitanti alle altre razze del Grande Golfo.
Mappe:
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Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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“Uhm, devo darmi una regolata. Mi lascio proprio andare, dilungo troppo e faccio dei sermoni pesantissimi.” Disse il Cronista, dando un’occhiata al proprio orologio, le cui lancette dall’inizio della lezione avevano viaggiato fin troppo. I due studenti erano di altro indirizzo.
“Be’, è stato intenso.” Fece Osmaniu ghignando, le mani sulle ginocchia, agitato e a stento rimanendo fermo in quella posizione con la schiena piegata in avanti.
Il padre immaginava sicuramente l’intensità fosse per lo più dovuta ai racconti delle lotte e alle mirabolanti capacità militari dei gormiti, singoli e in comunità. Presagiva opinioni negative al proposito da parte di Lafivias, ancora intenta a scribacchiare rapidissimamente sul suo blocco note, provocando una continuazione di un discorso iniziato e interrotto alcune lezioni prima, ma di certo non concluso.
Invece, questa volta, la figlia di Atarros era tutta dalla parte del fidanzato, incredibilmente.
“Intenso a dir poco. – soggiunse raggiante – È…meraviglioso rivivere questi episodi della nostra storia, anche se non certo felici, rivivere le imprese dei nostri avi, le loro emozioni di fronte alle novità dei gargoyle e dei ka’nhili. Siete davvero incredibile, maestro.”
Il Cronista arrossì per davvero e in maniera molto visibile, cosa assai difficile da raggiungere per un gormita vegetale. Come un bimbo a cui fanno un meritato e atteso complimento per una bella cosa che ha appena fatto, si ritrovò a grattarsi la nuca sorridendo in un atteggiamento davvero molto innocente, dicendo: “Be’, grazie. Grazie…grazie davvero.”
Non riusciva a dire altro, in quel momento. Il complimento della terricola lo aveva colpito molto.
“La scienza dietro quelle armature dev’essere…uah. – fece Osmaniu. Si alzò e si portò le mani alla testa, immaginando se stesso all’interno di un’armatura dorata, probabilmente – Sono state utilizzate ancora, dopo, vero?”
Il Cronista annuì: “Vedrete.”
“Fa anche un po’ paura. – replicò Lafivias, al che l’entusiasmo del compagno si spense un poco in un sospiro; si immaginava qualche assurda riflessione sulla correttezza etica o chissà che cosa da parte di lei riguardo quelle armature, uccidendo l’enfasi della loro inequivocabile potenza – Voglio dire, sono state realizzate dai ka’nhili, alieni per noi, per i gormiti. E funzionavano! La loro conoscenza del nostro corpo, che è in gran parte sconosciuto anche a noi, non può non spaventare. Almeno un pochino.”
Osmaniu sollevò il capo interessato. Contrariamente alle sue aspettative, il discorso di Lafivias lo interessava. Fu lì lì per aggiungere la sua opinione, quando la più che amica riattaccò, con un altro argomento.
“Le riflessioni che avete messo in bocca a Opale Nero, poi, le ho davvero apprezzate molto. Non sempre gli stregoni pensano davvero a quello che fanno quando operano con la magia. Che stanno sfruttando qualcosa che non comprendono davvero, che qualcuno di superiore ha compreso e ci ha dato il potere di utilizzare, per chissà quale motivo. – fece una pausa e si guardò intorno un po’ imbarazzata dal tono e dall’indirizzo delle sue parole – È-È un discorso che si può…estendere un po’ a tutto, credo.”
“Molto profonda come cosa. – dovette ammetterle (al che sorrise) il Cronista – Sì, è proprio vero che gli uomini molto spesso, o quasi sempre, e soprattutto noi gormiti, credono di avere il mondo sotto il loro controllo, senza leggere dietro le righe, e capire che tutto quello che possiamo oggi lo dobbiamo a chi, prima di noi, si è veramente impegnato per capirlo, il mondo.”
“Gli Aborigeni…” dissero in coro il Cronista e suo figlio Osmaniu. Entrambi si interruppero e scese un disagevole silenzio nell’aula.
“Vai, vai, papà.” Lo invitò il figlio, con un gesto della mano.
“No, no. Di’ pure quello che hai da dire.”
“Maaa, non è niente di che.”
“Parla.”
“Be’, voglio solo dire che gli Aborigeni sono sempre stati un mistero per noi (e non solo noi) ma con la loro magia ci abbiamo conviv…convissuto? Suona male…insomma, ci conviviamo e ci siamo migliorati, e adesso il mondo, questa parte di mondo, almeno, è unita, grazie anche alla magia. Non ci siamo mai fatti troppi problemi al riguardo di chi siano veramente e di cosa vogliono, non penso sia un bene farcene ora, che si sta così bene.”
Scese nuovamente un insolito, irrequieto e nervoso silenzio che non piacque a nessuno dei tre, dei quali nessuno, per un certo tempo, riuscì a trovare la forza di romperlo. Non continuando il discorso, almeno, che sembrava condurre a ragionamenti fin troppo complicati e ‘caldi’. Giacché Lafivias, alla fine, disse: “Devilfenix, comunque, si dimostra di nuovo un vero e proprio…hm, non vorrei dire parolacce. Anche se non si tratta di quello vero, mi dà davvero fastidio quello che fa e quello che dice. Anzi, come lo dice. Perché la sua filosofia di vita…c’è della verità, nelle parole che ha detto a Thorg. Secondo me, eh.”
“Lo credo anch’io. – assentì Osmaniu facendo di sì con la testa – Recuperare il passato è bello, cioè, fa bene, è utile. Ma Thorg, almeno a parole, lo ha portato all’esagerazione. È davvero un vecchio, ‘Antico Thorg’, da questo punto di vista. Anche se ha fatto comunque grandi cose.”
Lafivias fu un pelo contrariata. Pensò il Cronista che il suo parlare di Devilfenix non era tanto riferito alle accuse rivolte all’anacronismo dell’ex-Signore della Terra, quanto alla sua dichiarazione: Voi non avete ancora capito che quello che conta in vita è sopravvivere anche sfruttando gli altri, viverla al meglio che si può. Non c’è nessuno che vi giudicherà quando sarete polvere. Dimmi, Antico Thorg, i tuoi straordinari eroi e i loro straordinari valori, che fine hanno fatto? Dimmelo, coraggio. Sono morti, i loro sogni non li hanno salvati. Sono tornati polvere alla pari di tutti gli altri, compresi i criminali e i più immeritevoli gormiti che sono esistiti.
Tuttavia ella non si impose il discorso si chiuse lì. Definitivamente quando Osmaniu attaccò dicendo: “Ma poi, vogliamo parlare degli scontri tra il Sommo e re Obskurios? I loro attacchi di parole e di spada…la lotta sulle bestie, e quel mostro di Tato Yami, e il loro volo per fermare la meteora. E Karmilla. Chi è Karmilla?”
“Di questo ne parleremo la prossima volta. Forse non avrete nemmeno bisogno di chiederlo. Pazientate. – il Cronista diede un’ulteriore fugace occhiata all’orologio – Credo, comunque, che…”
“E quella visione dei tre cerchi e uno? – si aggiunse Lafivias – Esattamente come quella avuta da Magor, e da Buferios, e quelle incisioni nella Fossa. Le inserite apposta o qualcuno le ha viste davvero?”
“Qualcuno le ha viste davvero, e il loro mistero ha colpito anche me, ma io sono uno storico, non un cacciatore di leggende. Stavo dicendo…”
“Quando ci direte della vera storia dei ka’nhili e dei gargoyle?” fece ancora la terricola, invero piuttosto insistente.
“Un’altra volta, per favore. È davvero tardi. – tagliò corto il Cronista, senza, però, si accorse, un valido motivo; lui del resto non doveva scappare da nessuna parte – So che ci sono molte altre cose di cui parlare. Magor ed il Vecchio Saggio, ad esempio, quello sì che è importante. Ma ormai ci stiamo avvicinando alla fine, ragazzi. La fine di Magor e del Vecchio Saggio, e dell’Occhio della Vita. Alla prossima lezione molti segreti non saranno più tali. Anche prima, magari, se vi informate in qualche biblioteca. Non sono certo cose che non conosco solo io. E ora, su, andate e divertitevi, Atarros non vuole che ti trattenga troppo, Lafivias.”
“D’accordo, maestro. – accettò quella – Domani è asildie. La prossima lezione è di menumdie…alla decima ora? O all’undicesima.”
“Così presto? Be’, come vuoi tu. All’undicesima va bene.”
“Va bene. Allora, ci vediamo, maestro.”
Non appena i due stettero per varcare la porta della sala, il Cronista ebbe in un lampo una rivelazione, si dette uno schiaffo e li fermò, urlando: “Fermi, aspettate! Lafivias, non ho dimenticato la tua richiesta di qualche giorno fa. Sono riuscito ad ottenere una visita a Patmut Iun, tutti e tre, per domani. Ci state?”
Lafivias gli si gettò letteralmente al collo.
“Oh, maestro! Siete davvero…un asso!”
“Ehi, ehi, piano! Ah, ah! – rise il mentore, scostandola delicatamente – Piano con questi ringraziamenti. Dovresti prima farti dare il permesso da tuo padre. Poi puoi abbracciarmi quanto vuoi.”
 
Si trattava della seconda volta che il Cronista tornava nella casa della sua gente dopo il suo ritiro nella fiorente Garsomor – la prima, una fugace comparsa per mezzo di un varco spaziale costatogli molto caro, ma il sale nero non gli mancava, per ottenere il permesso per la visita. In entrambi i casi, la sua presenza si era limitata e si stava limitando a un luogo particolare, e nessun ritrovo con le solite facce che fino a due anni prima era solito incontrare, sorridere loro e salutare, mentre ora, se le avesse per un caso o per un altro incrociate – e vista la tradizione nomade, ciò era improbabile – le avrebbe sicuramente ignorate. Tranne forse Ederus. Lui, sì, l’enigmatico Ederus l’avrebbe incontrato volentieri, si sarebbe fermato da lui per un chiacchierata, sarebbero andati a far baldoria, perché no, il Cronista era vecchio ma non debole, in qualche locale, come due giovani amici.
Tuttavia non era quello il momento per un simile incontro. Non era quello il giorno. Quando si sarebbe preso delle ferie, magari, al termine delle lezioni di storia per Lafivias – e chissà con quale scusa Atarros gli avrebbe permesso di soggiornare nel suo palazzo, a quel punto?
Ritornare in quell’ambiente che era stato la sua dimora per lunghi anni, il rifugio d’amore di lui e della sua unica compagna di vita, non gli aveva procurato alcun sentimento insolito. Non si poteva però nemmeno dire che era come se si sentisse a ‘casa’, a Garsomor. Nel palazzo signorile respirava un’aria salubre, amichevole, familiare, sicura e rassicurante. Nulla di questo lì, nei pressi dell’entrata a Patmut Iun. In soli due anni di vita altrove – e ne aveva vissuti di anni fuori da Gorm, in luoghi che ben pochi gormiti hanno calpestato –  Dalarlànd aveva perso la connotazione di casa per lui. Nemmeno, comunque, era lecito dire che si sentisse in un luogo a lui sconosciuto e diverso.
Era una strana sensazione, non completamente di disagio ma nemmeno di apatia.
Il passaggio non più segreto per il sotterraneo Museo della Ricerca Storica era ben diverso da quello descritto nei suoi racconti ai giovani della sua vecchia radura e a Lafivias e ad Osmaniu nelle addobbate sale del Tempio di Roccia. Un semplice, grosso masso ricoperto d’edera e muschio e licheni, anonimo e senza pretese, nel mezzo della Foresta, che alla melodia di parole d’ordine periodicamente modificate si apriva come si apre un cancello per condurre ai piani sotterranei. Questo in precedenza. Nell’odierno 931, e già da diversi decenni, solerti gormiti della Foresta – probabilmente con l’aiuto di terricoli – avevano preso la roccia dal suolo e dalle cave della Città Sotterranea e di Picco Aquila, l’avevano modellata e ne avevano fatto un imponente arco di marmo, decorato con altri minerali preziosi, sobrio nella forma e nella composizione ma comunque grandioso, sormontato da una scultura a dimensioni ridotte di Patmut, colui che insegnò ai gormiti a leggere i segni del cielo, del mare e della terra, il dio dalla maschera di piovra.
I semidei della tradizione, nell’iconografia tradizionale, avevano davvero un aspetto e degli addobbi, se così si può dire, quanto meno singolari, se non addirittura alieni. All’interno del tempio di Patmut, il Cronista poté notarlo – o meglio, rammentarsene – con maggior dettaglio. Difatti, tra le pareti finemente incise di date, di nomi di personaggi, di figure stilizzate, di frasi criptiche e cariche di misticismo, tra gli archivi di tavoli e di libri, prima della sala che ospitava il grande telescopio e, alle sue spalle, l’immensa muraglia che elencava le costellazioni, i loro titoli e i nomi delle stelle e gli altri corpi celesti, vi erano sculture a grandezza naturale dei Semidei.
Grandezza naturale? Certo, e io sono un cavallo. Che cosa assurda.
Era curioso come i gormiti tra loro dissimili avessero immaginato figure di divinità che, al contrario, erano tutte uguali tra di loro, fisicamente, tranne per le diversità di genere. Esseri alti, dalla carnagione rosa acceso priva di pelo – anche se nelle grigie sculture questo particolare non era realizzato – con una lunga coda, quattro dita per mano e per piede, piedi che avevano tutto l’aspetto di mani con le dita pareggiate e il pollice spostato più indietro e lateralmente, e gambe arcuate come quelle dei mammiferi di montagna; gonnelle di pizzo per le donne e ciripà per gli uomini a coprire le nudità e un ombelico, entrambi elementi assai ‘sospetti’ per divinità di una civiltà di rettili che non avevano motivo alcuno di nascondere i propri attributi; strane spalliere rotondeggianti naturali, tanto simili a quelle di Magmion, e ali piumate bianche meglio descritte dall’aggettivo ‘improbabile’, per forma e dimensioni e per un effettiva possibilità di volo. Infine, i loro volti, dalle labbra in su, erano un mistero. Nessuno, in nessun mito o libro sacro, li aveva mai raffigurati o anche solo pensati con i loro visi sprovvisti di quei peculiari copricapo, o meglio, quelle maschere, che erano il loro unico segno di riconoscimento: di piovra per Patmut, di squalo per Davon, di lupa per Asili, di cervo per Fendril, di formica per Celeles, di ariete per Krut, di pipistrello per Melis, di falco per Praconrem, di serpente per Menumia, di cinghiale per Travor. Le maschere, e le armi, o utensili, che essi portavano, diverse per ogni semidio, su cui il Cronista non si concentrò, erano ciò che li differenziava l’uno dall’altro. Oltre a tatuaggi dei colori dell’elemento e monili vari quali bracciali, orecchini, anelli, collane, collari, e molto altro, di questo o quel materiale, di quella forma, disposti in tal modo e in tal numero, su cui però la tradizione non dava fissità.
“Ehi, papà.” Lo chiamò Osmaniu, ripetutamente. Stava indicando tremante un manufatto conservato nel tempio.
“È davvero…davvero quella?” continuò, estasiato.
“Sì. – affermò, bastandogli una sola occhiata dell’allungata arma a due punte – È proprio la Lancia dell’Oblio.”
“Uah. È stata sempre tenuta qui?”
“È stata utilizzata nelle Guerre di Riconciliazione. Ti consiglio di non avvicinarti troppo.”
“Perché?”
“Tu non farlo.” Gli consigliò ancora, freddamente, il genitore. Osmaniu acconsentì spaventato, e continuò ad osservare ammaliato la tremenda arma di lucido metallo dalla raffinata fattura da lontano, le mani dietro la schiena.
Passarono all’incirca un’ora, in genere nel più completo silenzio, osservati dalle – poche – gelide guardie del luogo, guerrieri mystica forti di allenamenti in tutte le arti del fare del male a qualcuno, e per lo più ignorati dai curatori delle profezie e degli annali, che parlavano loro, con gentilezza anche, solo quando si facevano loro delle domande. Osmaniu si perdeva tra la Lancia dell’Oblio, un’armatura Neor’gani danneggiata e altri manufatti magici; Lafivias, da storica per passione, aveva occhio solo per gli annali di Gorm, e non dava peso alle migliaia di profezie. Il Cronista, dal canto suo, leggeva queste ultime con misto di interesse mistico e scettico divertimento, insicuro se credere o meno, e quanto, alla verità scientifica di quelle previsioni. Non riteneva la storia come ciclica, e la tecnica delle profezie, in parte, lo ammetteva.
Mentre rileggeva la profezia relativa al Vecchio Saggio, di come si era collegata la posizione della costellazione della Falce a metà tra Greemerald in fase di piena e Tealoo nascente, ripresentatasi in concomitanza con scosse di terremoto sia per il ritorno della prima spedizione vulcanica a Tato Yami che per l’arrivo di Razael, un improvviso e intenso rumore colse l’attenzione di tutti.
“Sì!” gridò un curatore addetto al telescopio, quasi cadendo dalla sua postazione e creando un caos immane. Si appiccicò a una parete e prese a incidere delle scritte. No, erano dei disegni.
“Le stelle distanti si sono allineate con le tre lune! – vociò – La costellazione del Cappio e l’ammasso di Farcuan…tutto collegato, significa che il tempo è giunto! Ci sarà un grande terremoto! Il cielo si squarcerà, come una pergamena quando è aperta, ed ogni montagna ed ogni isola saranno rimosse dai loro luoghi. Tutti gli abitanti, allora, ogni libero come ogni schiavo, si ritireranno nelle caverne della terra, e grideranno alle montagne: ‘Crollateci addosso, e nascondeteci dalla presenza dei quattro, i Signori della Natura dall’Altro Mondo, e della loro Rovina.’ E non è finita! Il ribelle antico solleverà il suo capo, si ergerà tra gli abitanti, annienterà gli altri antichi e combatterà contro i quattro e la Rovina con gli abitanti a cui svelerà il loro destino. Poiché i padri degli antichi verranno, e il loro destino per noi, gli abitanti, è buio come la notte. Colui che registra le cose che sono state, saprà le cose che saranno. A lui apparirà il ribelle antico prima che venga il giorno della sua ascesa, e le sue parole saranno profezie.”
Bah. C’era da aspettarselo che usassero l’oppio per questo nonsenso.
 
<< All’avvicinarsi della sera, un vento insolitamente freddo aveva cominciato a soffiare sul Deserto in prossimità delle mura, ancora lontane, che circondavano la capitale del Popolo della Terra.
Cumuli di sabbia volteggiavano fantasiosi sovra gli accampamenti ristabiliti delle forze stanche, affascinate, spaventate, cambiate capitanate da Obskurios il re di Tato Yami e il Sommo Signore Luminescente III di Karmil, cumuli che andavano ad adagiarsi su e ad appesantire i teli che coprivano le tende e ad irritare gli occhi delle guardie appostate fuori e dei soldati svegli che girovagavano fuori dai padiglioni.
Il disco ambrato di Nejema scompariva sempre di più dietro il mare ad ovest, nascondendosi tra le verdi colline di Dalarlànd, e donava la sua luce alle tre lune per illuminare la notte in vece sua.
Il gelido clima della tarda serata desertica, seppur più mite grazie alla vicinanza con un ambiente meno ostile, stava prepotentemente prendendo il posto dell’arsura diurna.
El’issam, nudo sul suo giaciglio dentro la tenda riscaldata, a gambe incrociate e con un’unica mano tesa in avanti, aperta, non soffriva del cambiamento della temperatura né delle deboli raffiche sabbiose. Le pareti della sua tenda che ondeggiavano ripetutamente erano l’unico segnale delle condizioni atmosferiche non del tutto pacifiche che imperversavano all’esterno.
Accendeva e spegneva a intermittenza il fuoco nella sua mano. Un fuoco vermiglio come il sole che stava tramontando in quel preciso momento, un fuoco che non lo bruciava, nonostante sorgesse direttamente dal suo palmo violaceo.
L’Occhio della Vita era ritornato su Gorm, si era separato in sei pezzi tutti ugualmente pericolosi, e aveva rilasciato un’ondata di un’essenza di natura aliena e dalle molteplici capacità.
Aveva cambiato i gormiti. Non tutti, solo alcuni casualmente scelti dall’energia neozon scoppiata quando l’Occhio si era distrutto, e non solo nella regione dove si era appena svolta la battaglia. L’ondata si era espansa praticamente a tutta l’Isola, a tutte le altezze: aveva ricevuto notizie che trasformazioni si erano verificate lungo ogni area di Gorm, sopra e sotto la superficie del mare.
Di gargoyle e ka’nhili mutati come il re nero e lui nemmeno l’ombra. Solamente loro due erano stati cambiati.
Luminescente III si sentiva diverso, solo. I suoi sudditi e la Consulta gli avevano garantito obbedienza come in precedenza, ma ciononostante continuava a sentirsi turbato, nella modalità tipica degli apatici karmiliani.
Non gli importava che anche ai gormiti fosse successa una cosa simile, che non tutti loro si trovassero a loro agio con i nuovi corpi e le nuove abilità donategli dall’Occhio della Vita. Erano abituati, avevano detto alcuni, era già successo che l’Occhio fosse origine di fenomeni come quello, anche se nessuno che fosse in vita potesse ricordarlo, dicevano.
Lui, al contrario, non era avvezzo a tutto questo. Trasformazioni – basta ricordare la mystica, ancora irrisolta – poteri dalle grandi potenzialità distruttive che si comandano col pensiero e che succhiano una quantità davvero esigua delle proprie riserve di energia.
Il fuoco ardeva senza produrre fumo dalle sue dita. Gli riusciva estremamente facile, spontaneo, bruciare le proprie forze a quel modo, come se nel profondo avesse sempre avuto quell’abilità.
Spense le fiamme. Perché l’Occhio della Vita gli aveva dato quel potere? Il fuoco. Il potere del nemico. Non era forse scorretto utilizzare la stessa arma che i giurati nemici adoperavano per razziare e per uccidere? Peggio ancora, poteva essere visto come una dichiarazione indiretta della superiorità delle armi del nemico, della necessità di usufruirne, l’unico modo possibile per vincerlo.
Che intenzioni aveva quel maledetto oggetto incantato? Che fosse una tentazione, una prova da superare? Ma l’Occhio, gli Occhi della Vita, adesso, qual era il loro segreto? Perché facevano quel che facevano? Un meccanismo insito completamente naturale, un’azione e una reazione. Oppure esso aveva una sua identità, una coscienza e una personalità e agiva puramente in base ai propri capricci. Gli aveva parlato, dopotutto, così come al Vecchio Saggio. Così gli aveva detto.
Il drappo all’entrata fu scostata di scatto e rapidamente un ka’nhili si posizionò dentro, richiudendo l’uscio.
El’issam sussultò, più contrariato che spaventato. Non tanto perché fosse nudo – reprimere l’imbarazzo e la vergogna per la propria nudità è tra le primissime cose che insegnano a Karmil – ma perché privo del suo elmo-corona, simbolo del suo potere e carica, appoggiato su un comodino basso di fianco.
Fortunatamente era qualcuno di fidato a cui poteva mostrarsi anche senza il regale copricapo.
Ra’lam, il cancelliere militare. Un ka’nhili straordinariamente grasso per i precetti del codice, con una vistosa pancia e un largo collo. Occhi verdi spenti e apparentemente stanchi, porte verso una personalità più attiva e scattante di quanto il suo corpo facesse presagire. Delle macchie a imitazione, per forma e colore, di una foglia di quercia erano il suo segno di riconoscimento peculiare.
“I Signori dei gormiti arriveranno a breve, Sommo Signore.” lo informò con la sua voce bassa e meccanica.
“Eccellente, cancelliere. Grazie dell’informazione.” lo ringraziò a dovere, prendendo con i suoi comodi l’elmo-corona e posandoselo in testa. Fortunatamente i suoi abiti poteva metterseli e toglierseli anche con la corona addosso, tuttavia non li aveva ancora.
“Dovreste prepararvi.” gli consigliò Ra’lam, accennando alla sua nudità. Era facile per lui parlare così: il suo corpo era rimasto quello di sempre, e non c’era stato bisogno di rivedere tutti i vestiti e le corazze perché potessero essere adatte alla nuova forma. Aveva solo un completo pronto, che giudicò però non consono a un consiglio tra sovrani.
“Ra’lam, cancelliere, vorrei porti un quesito.” parlò poi non potendo trattenersi, alzatosi per studiare l’unico abito di cui poteva servirsi.
“A vostra disposizione, Sommo Signore.”
“Sono ancora un ka’nhili?” la drammatica domanda.
La risposta di Ra’lam fu concisa ma eloquente: “Siete ancora uno di noi. Il vostro corpo è cambiato, ma rimanete comunque Luminescente III.”
“Vale lo stesso per Car’milah?”
A questa domanda Ra’lam esitò per un istante. Ponderò bene la sua risposta, senza distogliere lo sguardo dal suo re, cercando una possibile soluzione tra gli occhi azzurri di lui che spuntavano dalla fessura dell’elmo.
“Car’milah rimane un ka’nhili anche se cambiata, punita nel corpo.” Si conformò poi ai dubbi di El’issam, almeno apparentemente. Il Sommo fu sorpreso e quasi deluso da quella risposta
“Tuttavia, non è una karmiliana, non più. Non è una di noi.” riprese esplicando la sua tesi. El’issam fu soddisfatto, questo turno.
“Ti ringrazio per il tuo tempo e le tue parole, cancelliere Ra’lam. Potete uscire, ora.”
Puntualmente, Ra’lam uscì.
Rientrò immediatamente dopo, spuntando dall’apertura della tenda solo con la testa.
“Sommo Signore. - disse - I Signori sono qui.”
“Pregali di aspettare un momento, devo essere presentabile…Ho finito, ora possono entrare.”
El’issam fu scosso da preoccupazione e dall’impulso di mettersi al sicuro quando si vide entrare nella tenda le tre imponenti figure dei Signori, una dopo l’altra.
Stupidità. - si rimproverò tornando rilassato - Devo abituarmi alle loro nuove forme.
I Signori Thorg, Nobilmantis e Grandalbero non erano stati risparmiati dal rivoluzionario fenomeno scatenato dall’Occhio della Vita, che molti già avevano denominato ‘la Grande Caduta’ – sebbene in futuro, col senno di poi, l’avrebbero ricordata in un altro modo, a cui El’issam già si rifaceva, in parte.
Si erano presentati più volte dopo la Grande Caduta, sospettosi, inquieti, conquistati e anche vanitosi dei loro nuovi aspetti e poteri, e Luminescente III quasi mai riusciva a reprimere del tutto la sua continua sorpresa nel vederli cambiati e nel constatare le nuove abilità che piegavano al loro dominio.
Thorg era stato ripulito della sua rozzezza animalesca e reso più fascinoso ed aggraziato, elevato all’eleganza austera dei ka’nhili – questo agli occhi del Sommo – ma manteneva tutta la sua possanza e indiscutibile superiorità muscolare.
La sua postura leggermente gobba si era raddrizzata, e i grossi e irregolari spunzoni squamosi sulla schiena erano stati livellati, così come quelli su tutto il corpo. Tuttavia, non persero la loro pericolosità, assumendo una durezza ancora più considerevole che in precedenza, come dimostrava il loro nuovo colorito nero come il carbone.
I duri zoccoli ai piedi erano stati rimpiazzati da quattro dita, e se questo si fosse rivelato un beneficio o uno svantaggio non lo si poteva dire al momento; lo avrebbe scoperto Thorg vivendo.
La sua pelle, di un brillante e pulito mais scuro, aveva perso molto del suo pelo che si nascondeva bene tra la carne e sullo stesso viso la peculiare barbetta caprina che gli era molto cara era scomparsa, e solo le folte sopracciglia, ora color castagna, erano sopravvissute.
Il cambiamento più radicale e vistoso era senza dubbio l’evoluzione delle corna. Prima delle comuni e non troppo grandiose corna d’avorio bianco, che si sviluppavano all’indietro per poi curvarsi e spingere le punte in avanti. Tutto diverso, adesso: di ben maggiori dimensioni e spessore, lucide, levigate ed argentee, che si dipartivano dai lati del capo per poi quasi riunirsi dietro la nuca.
Non si poteva dire lo stesso di Nobilmantis che, sebbene dimostratosi apertamente ostile a diversi modi di fare dei karmiliani sin dalla proposta di cacciare nuove bestie da usare come cavalcature – mossa che in fin dei conti non aveva rappresentato il grande vantaggio sperato – aveva sempre esibito la delicata altezzosità tipica dei ka’nhili, e cosa ancora più sorprendente, non si separava mai dal suo elmo acquamarina quasi fosse una sua imitazione dell’elmo-corona del Sommo Signore. Un segno della sua nascosta ammirazione verso i ka’nhili e le loro tradizioni che aveva imparato ad ammirare, o forse una sfacciata presa in giro.
Laddove la sua carnagione aveva in precedenza mostrato lucide e leggere gradazioni di azzurro e acquamarina, in contrasto con tratti di caldo arancione, ora essa presentava unicamente colori forti e freddi, blu notte e blu acciaio, accompagnati da ancor più rigidi verde mare scuro e bianco. Colori che rispecchiavano il suo nuovo potere, ribadito ancor di più dal cannone a braccio, geometricamente perfetto, bianco, due tronchi di piramide sovrapposti che condividevano una base.
Non erano getti d’acqua – anche quelli in verità, ma non era la sua specialità – che uscivano a fiotti da esso, men che meno improbabili zampilli sabbiosi o infuocati.
Neve, ghiaccio, espulsi a getto continuo a temperature tremendamente basse. Era questo l’elemento che, in concordanza con l’acqua, tutti i gormiti del Mare graziati – o dannati – dall’Occhio della Vita potevano ora dominare a loro piacimento. In eterno, si sperava, al contrario delle abilità potenziate solo temporaneamente dell’evoluzione mystica.
L’altro mutamento degno di nota del Signore del Mare erano le ali: non più due grandi uniformi lembi di pelle, ma multiple e discretamente ampie paia di membrane accavallate l’una sull’altra, quattro a destra e quattro a sinistra, alternamente azzurre e verde acqua.
La componente legnosa più dura e più scura del corpo di Grandalbero aveva preso il sopravvento su quella più morbida e verde, verde chiaro e luminoso. Spessi e voluminosi viticci terra bruciata, che sfumavano in una gradazione più dolce nelle parti più interne e meno resistenti, parevano comporre le sue membra strato per strato, lungo gli stinchi e i polpacci, per il torace e i bitorzoluti avambracci.
Una singolare trasformazione aveva colpito il suo volto: il legno robusto delle corna, ora rivolte all’indietro come quelle di Thorg ma meno angolate rispetto al viso e decisamente non lisce, si era propagato per gran parte del capo, coprendolo come una maschera, un elmo naturale, che lasciava scoperto solo la parte inferiore della bocca e il resto del collo – oltre che a fessure per occhi e naso.
Il suo peculiare braccio-bastone era divenuto più forte di prima ma forse più scomodo, grazie e a causa di due escrescenze come lame di falce color ambra che si erano sviluppate dove prima c’erano solo due spini bruni.
Nessuno di loro era in tenuta da battaglia – a meno che l’elmo di Nobilmantis non lo si considerasse segno di uno stato di guerra – e anzi per lo più erano nudi, come era tipico dei gormiti; nessuno di loro diede mostra di sorpresa nell’aspetto mutato di Luminescente III, che già avevano veduto in quella forma.
La sorpresa e la preoccupazione, se c’erano, per le proprie, di nuove forme, furono lasciate immediatamente da parte per discutere di argomenti più seri e importanti, tralasciando del tutto i saluti e i convenevoli, limitati a semplicistici cenni del capo.
“Contro ogni aspettativa, l’Occhio della Vita è tornato su Gorm.” constatò banalmente Thorg, visibilmente teso.
“Ci ha dato corpi e poteri nuovi, ma ha rinnovato il conflitto che credevamo finalmente concluso. - riprese - Quel che è peggio, l’Occhio della Vita non è più uno solo: sono sei pezzi, e dovremmo distruggerli tutti.”
“Distruggerli? - domandò offeso Grandalbero - Non hai sentito il vuoto e il freddo quando l’Occhio è scomparso? Vorresti provare di nuovo quelle sensazioni, anche dopo i doni che ti ha fatto?”
Thorg strabuzzò incredulo gli occhi.
“Cosa sento! - esclamò spaventato - Credi che solo perché la sua assenza ci ha fatto male non dovremmo sbarazzarcene? Ha fatto molto più male restando qui per secoli che svanendo per nemmeno un giorno, non puoi negarlo. O sei forse un altro traditore, come Elios?”
“Non ti permetto di parlarmi a questo modo. - si alterò Grandalbero - Solo perché non voglio la distruzione dell’Occhio non significa che sia dalla parte dello Stregone di Fuoco. Sono solo convinto che ci dev’essere un’altra via. Tu non puoi negare, del resto, che l’Occhio ci ha resi più forti.”
“O sei con noi o sei contro di noi, Grandalbero. - lo ammonì Thorg - L’Occhio ci ha potenziati, è vero, ma anche i gormiti di Aria e Vulcano lo sono stati. E finché l’Occhio favorirà entrambi, non può esserci affatto d’aiuto. Dev’essere distrutto, come diceva il Vecchio Saggio: non c’è altro modo.”
“Ci deve essere! Non hai idea di quello che non solo io, ma tanti altro hanno provato quando non c’era più!”
“Finiscila, dici tutto questo solo per la tua religione!”
“Calmatevi ora, entrambi.” si intromise ferreo il Signore del Mare, puntando alternamente il suo cannone di ghiaccio prima all’imponente terricolo e poi al Signore degli alberi. Puramente a scopo intimidatorio, sapeva che se avesse aperto il fuoco avrebbe scatenato un mare di guai.
“Sia il Signore della Terra che il Signore della Foresta hanno ragione. enunciò, guardando a turno Grandalbero e Thorg, in sequenza, e rivolgendo per ultimo uno sguardo di approvazione verso il Sommo Signore.
“Da una parte, Thorg: la guerra di Gorm ricomincerà presto, poiché lo Stregone di Fuoco non sarà soddisfatto di solo tre Occhi, e non potremo decretarne la fine finché non riavremo di nuovo l’Occhio nelle nostre mani. Dall’altra, Grandalbero: abbiamo una comprensione migliore, anche se di poco, dell’Occhio della Vita e del suo collegamento con noi, e cancellarlo da Gorm non appare più ovvio come una volta. Prima di decidere cosa farne, però, dobbiamo riprendercelo.”
“Se posso dire la mia, Signori di Gorm - interloquì Luminescente III, rimasto in sereno e muto ascolto - Non otterremo mai la vittoria se vi contrastate e vi oltraggiate tra di voi, specie ora che siamo così nuovamente vicini alla conclusione. Divisioni interne in questo momento si rivelerebbero assai letali per la riuscita della missione.”
“Sagge parole, Sommo Signore.” concordò il Signore del Mare, cessando il suo fare minaccioso e tornando al suo posto.
“Io non comprometterò mai l’alleanza tra il Popolo della Terra e il Popolo della Foresta a causa della fede del mio compagno Signore. - giurò Thorg con la mano sul nero petto - Ma non possiamo tirarci indietro ora, solo perché non c’è più il Vecchio Saggio ad metterci in guardia: non appena avremo gli Occhi della Vita, nessuno potrà impedirmi di distruggerli a modo mio.”
“Questo è tutto da vedere, Signore della Terra: temo che non troverai solo me ad opporsi a te.” lo avvisò Grandalbero, guardandolo storto.
“Ad ogni modo, - seguitò - dico a nome mio e a nome del mio fratello di Roscamar che il nostro diverbio rimarrà tra noi, e non toccherà in alcun modo i nostri sudditi. Ora, Signore del Mare, le vostre parole si sono rivelate molto sagge. Forse ne avete altre da offrirci, in merito a come agiremo una volta conclusa questa riunione?”
“Sì.” rispose Nobilmantis fiero. Estrasse dalla sua borsa di tessuto impermeabile un foglio ripiegato e avvolto in una pellicola trasparente.
Dispiegò la mappa su un tavolino prontamente disposto da Luminescente III al centro del gruppo con la forza magica.
“I nostri accampamenti sono qui, nella Pianura delle Nebbie, – e indicò col dito il punto esatto, una regione in pericolosa prossimità con la capitale della Terra – quelli del nemico precisamente all’estremità opposta della pianura. Potrebbero disfarli per riorganizzarsi o per mirare altrove, molto probabilmente per agguantare gli Occhi della Vita sparsi per Gorm. Oppure, dopo la conquista di Garsomor, potrebbero perfettamente tentare un’invasione di Roscamar, per il solo atto di catturarla o per prendere l’Occhio della Terra. Improbabile, però. Tuttavia, possiamo concludere questa lotta con il nostro trionfo, ma dobbiamo evitare che i nemici abbandonino questo posto.”
“Perché? Dove vuoi arrivare?” domandò incuriosito e non del tutto convinto Thorg.
“I sei Occhi della Vita – continuò, apparentemente ignorando il dubbio del Signore della Terra – si sono fatti trasportare qui, a Poivronopoli, dietro di noi a Roscamar e qui presso il Rifugio della Rugiada. Per quanto ne sappiamo, gli altri tre si trovano uno in un nascondiglio imprecisato su Picco Aquila, gli altri due insieme all’interno di Monte Vulcano.” e ad ogni luogo che nominava additava la sua collocazione sulla cartina.
“Abbiamo forze nascoste disposte al largo dello Stretto di Gorm. – continuava imperterrito, passo per passo, facendo riflettere i tre sovrani in modo che arrivassero da soli alla conclusione – Non c’è stata la possibilità di ordinare loro l’attacco, ed è stato un bene, sperando che non si siano disorganizzate o siano state scoperte. Dobbiamo trasportare tutti gli Occhi nelle nostre mani e riunirli qui, a Roscamar, e fare in modo che i nemici sappiano che li stiamo raccogliendo. In questo modo, saranno inevitabilmente attirati qui e non penseranno minimamente a ritirare le truppe adesso. Gli sguardi di tutto il Vulcano e del Vulcano stesso saranno fissi verso Roscamar, e nessuno si aspetterebbe un assalto nelle città del Vulcano, a cui daremo avvio appena l’esercito nemico ci attacca.”
“Questo è il mio piano.” concluse soddisfatto.
“Geniale, Nobilmantis, geniale…” disse stupito Thorg, strofinandosi il mento. Un’abitudine legata alla barbetta che, sebbene non l’avesse più, non l’aveva ancora abbandonata.
“Può risultare rischioso – rifletté il più giudizioso Sommo – o inutile. Obskurios e lo Stregone di Fuoco potrebbe fiutare la trappola, e non attaccarci mai nella pianura.”
“E’ un’occasione troppo ghiotta per loro. – spiegò Nobilmantis ottimista – Tre Occhi in un colpo solo, con gli uomini già pronti e a poche centinaia di piedoni dalla meta. In più, fino ad ora siamo stati sempre passivi, difensivi. Tutti saranno stupefatti quando scoprono che, per la prima volta, siamo ad agire per primi. Come del resto avevamo programmato di fare, ma ci hanno anticipato.”
“Un piano che può riuscire. – concordò Grandalbero – Il Vulcano è grossomodo indifeso, con centomila uomini qui nella pianura. Invierò quanti più soldati possibile a rinforzare le truppe nascoste, così il Vulcano non avrà scampo.”
“E io farò lo stesso, dall’accampamento nascosto nella Foresta. – promise il Sommo – Per motivi di sicurezza, sono quasi tutti uomini del Mare, ma con i nostri metodi di occultamento, potremmo inviarci chiunque.”
“Però, ho un dubbio: l’Occhio dell’Aria è a Picco Aquila, giusto? – questionò Grandalbero - Se l’assalto a Monte Vulcano dovesse riuscire, rimarremo comunque senza.”
“Se il più potente esercito di Gorm dovesse cadere, l’Aria non esiterebbe ad arrendersi. – spiegò Nobilmantis – Se dovessero mostrarsi ostinati, non avrebbero comunque via di fuga. In più, anche se era un inganno, Gheos ha già guidato con successo i suoi uomini negli angoli più freddi di Picco Aquila.”
“E’ stata una campagna sensazionale.” affermò Thorg, sentitosi chiamato in causa e onorato in qualità di portavoce della Terra per gli elogi dati a un suo suddito e passato Signore.
“Non è possibile inviare uno dei ribelli, che conoscono bene i segreti della loro casa, a derubare il Popolo dell’Aria dell’Occhio? Falcosilente, mi pare, vi invia ancora informazioni riservate, anche se con più riserbo di un tempo.” propose il Sommo.
“Picco Aquila è pressoché interdetto. – disse Nobilmantis con sicurezza – Infiltrarsi nella montagna potrebbe risultare più pericoloso che assalire il Vulcano. Faremo a meno del loro Occhio.”
“Io sono con il Signore del Mare. – esclamò Grandalbero, alzando il pugno – Termineremo questa lotta, una volta per tutte.”
“E distruggeremo l’Occhio della Vita, una volta per tutte!” aggiunse Thorg.
***
Il silenzio divorava l’immensità della Foresta Silente notturna: superiore, soffocante.
Pallide e tenui erano le luci riflesse delle lune Greemerald e Redrubise alte nel cielo, con la luna rossa al massimo del suo splendore, tuttavia lontana dall’eguagliare la potenza del sole e inguaribilmente debole quale luna che era.
Al cielo, l’intera Dalarlànd appariva come un’infinita, impenetrabile e rettilinea massa erbosa di freddo verde palude, dalla quale si potevano scorgere, con la dovuta attenzione, inconsistenti fuochi e colonne di fumo che donavano sfumature più vive al grigiore della selva. Ma per il resto, era completamente buia, ferma. L’imponente Rifugio della Rugiada non faceva eccezioni.
Sotto le foglie che tutto nascondevano, quasi a creare una barriera tra il mondo all’ombra degli alberi e quello che si apriva al di sopra delle chiome frondose, il chiasso delle migliaia di forme di vita, pressoché di dimensioni minori di un pugno, alla ricerca di un pasto o di un compagno, era intenso.
Tuttavia, proprio come la luce bianca è la comunione dei numerosi colori – una scoperta relativamente recente, per i gormiti – insieme, tutti quei rumori naturali si affastellavano, si attaccavano, si sovrapponevano l’uno sull’altro, e il risultato era il silenzio.
Il silenzio tipico della Foresta Silente: nessuno, che abitasse da sempre tra le foglie o che fosse nella sua prima visita al regno di Grandalbero, avrebbe mai giudicato ciò che udiva come confusione. Tutto era perfettamente equilibrato, armonioso e sereno.
Persino i secolari abitanti della Foresta Silente, con i loro passi, affrettati o tranquilli che fossero, e il loro parlottio non disturbavano la quiete boschiva. Erano sempre vissuti al di sotto delle sue rigogliose foglie, abituati sin da quando ruppero il guscio ai suoi ritmi e rumori: erano parte integrante di essa, e qualunque fosse la loro mole, il loro umore e l’importanza del loro compito, i suoni da essi prodotti si univano al coro della natura con discrezione ed eleganza. Quasi sempre.
I due spediti ma prudenti gormiti della Foresta che con destrezza e rapidità percorrevano l’impervio cammino verso la sponda a sud - est dello Stretto di Gorm non facevano eccezione.
Meglio di altri conoscevano come orientarsi nei tratti più selvaggi della foresta dove non esistevano sentieri, e ugualmente sapevano riconoscere i segni naturali, anche senza le stelle a guidarli, per comprendere la retta via da seguire e accertarsi di essere sulla strada giusta.
La mutazione subita per merito del ritorno dell’Occhio della Vita non aveva aggravato la loro scioltezza nei movimenti e nell’orientamento né la loro discrezione in quegli stessi movimenti.
Che fossero più grandi e pesanti, più alti, che disponessero di armi naturali in più, non erano stati indeboliti da essi e procedevano con la stessa prontezza con cui solevano prima della Grande Caduta. Il fardello che gravava sulle loro spalle – fisicamente solo su uno di loro - li preoccupava, giustamente, ma non abbastanza da suscitare in loro esitazione o paura.
“Potresti andare più piano?” sbuffò il più corpulento tra i due, lo stesso che, in una sacca di foglie a tracolla, trasportava il globo di smeraldo che era l’Occhio della Foresta.
“Shh.” lo zittì il compagno, più alto ma più esile, senza guardarlo e procedendo con la stessa andatura.
“Ma...” protestò il primo.
“Shh!”
Senza fermarsi si voltò e sussurrò: “I nemici possono essere ovunque, e sentirci.”
“Certo, come no, i nemici… - borbottò, infastidito dall’esagerazione dell’amico – Vabbe’, ma potresti andare più piano? Non sono esile come te, io!” lagnò nuovamente.
“Non c'è tempo per andare piano!” spiegò irremovibile l’altro.
“Si che c'è, invece!”
“Shh!”
Champius ‘Battiquercia’ soffocò in un ringhio una sonora imprecazione, che avrebbe certamente destato i sospetti di qualcuno.
Non aveva mai pienamente sopportato Sporius. Sin dal primo momento, dalla prima missione insieme, quando unendo le loro forze in un modo che nessuno dei due avrebbe mai potuto programmare riuscirono ad acciuffare il primo dei cervi muschiati che servivano ora il volere di Grandalbero e del Popolo della Foresta.
Continuava a detestarlo, e a dare dimostrazione della sua avversione nei suoi confronti. Ciò nonostante, la loro era una coppia perfetta: furono inviati in altre missioni dopo di quella, tutte culminate con un successo o parziale successo, e con una rassegnazione sempre meno evidente di Champius che preferiva rimanere nella sua fattoria e i sospiri di entrambi nel constatare di dover tollerare un’ennesima volta il comportamento reciprocamente sgradevole dell’altro.
E nonostante le corrisposte prove di tutto il contrario di affetto – anche se non sfociavano mai in odio aperto – una salda amicizia, o fratellanza che dir si voglia si era formata tra i due.
Come non aveva cambiato altre cose, la trasformazione non aveva mutato il loro legame e il successo delle loro missioni congiunte. Quest’ultima affermazione, lettori, è per voi ancora da confermare, poiché quella che racconto in questo momento è il primo incarico dopo la Grande Caduta.
Battiquercia, come amava chiamarsi ed essere chiamato, aveva mantenuto tutta la sua prestanza fisica, pur rimanendo piccolo di statura. Le mani erano grandi e capaci come un tempo, ora rese ancor più micidiali dai cannoni che si erano sviluppati nelle braccia, anch’esse ora massicce e in modo quasi sproporzionato.
La sua corteccia aveva subito un cambiamento parecchio radicale: non c’era quasi più traccia di verde, marroni e bruni di tonalità scure e con sfumature arancioni e rossastre lo avevano ricoperto tutto. Le possenti braccia presentavano delle incrostazioni dure e spesse di terra bruciata intervallate da lembi di pelle più morbida e dal colorito corallo. Parevano in tutto e per tutto, fuorché la consistenza e la temperatura, magma incandescente preda del freddo e dell’aria degli spazi aperti, che ne avevano indurito e inscurito a tratti la superficie.
Sporius il cacciatore, che a causa del clima rovente degli ultimi tempi esercitava la sua professione sempre più raramente, era meno cambiato all’aspetto rispetto a prima.
I suoi colori non erano mutati di molto: i verdi erano ancora presenti, seppur non dominanti, e a dare un netto contrasto tra la vivacità tipica dello smeraldo e il freddo della castagna si erano aggiunti piccoli particolari di un giallo ocra brillante.
Il cappello naturale non gli aveva affatto scoperto il viso; in compenso, nell’estremità posteriore esso si era biforcato, e terminava in un paio di punte brune non molto lunghe o sottili.
L’unico altro cambiamento particolare, l’unico degno di nota agli occhi di Battiquercia, era la crescita di due artigli legnosi retrattili, color carota, nel braccio sinistro, che alla massima estensione raggiungevano la lunghezza di mezza gamba di Battiquercia – e solo perché Champius è basso non è da giudicare poco.
“Quanto ti detesto! - brontolò silenzioso Champius - Non poteva scegliere qualcun altro, Grandalbero?”
“Avresti fatto meglio a stare zitto, invece di dichiararti volontario. - replicò con aria seccata Sporius - A quest'ora saresti bello comodo nella tua bella capanna, a coltivare il tuo bell’orto.”
Si fermò di colpo, levando un braccio per fermare anche il suo forte compagno.
La disapprovazione e il desiderio di rispondere a tono alle sue ironiche affermazioni si fecero piccole piccole: di fronte a quell’improvviso cambiamento d’umore e a quell’ancora più repentino e preoccupante arresto, Battiquercia si fece assai serio.
Sporius non sbagliava mai quando c’erano di mezzo i sensi, e se si era fermato, era chiaro che avesse visto o udito qualcosa di pericoloso.
“Cosa c'è? Cos'hai sentito?” chiese frenetico l'ora turbato Battiquercia, con voce ancor più bassa.
“Passi, - rispose tagliente e sbrigativo Sporius, alzando il capo e annusando l'aria - passi pesanti.”
Battiquercia, di orecchie meno fini, si concentrò per udire anche lui quei misteriosi e così spaventosi, per Sporius, passi pesanti.
Rimase in impaziente ascolto per alcuni lunghissimi secondi, senza che il minimo eco di passi raggiungesse i suoi timpani, con la fretta che cresceva e, sebbene avesse poc’anzi chiesto di rallentare l’andatura, con la richiesta di riprendere il cammino che gli formicolava sulla lingua, pronta a balzare fuori dalle labbra.
Era vero che Sporius era infallibile, ma Battiquercia, non avendo la conferma di ciò che temeva il compagno, si convinse che molto probabilmente i passi che aveva udito non appartenevano a nessuno che potesse rappresentare un pericolo o un ostacolo per la loro missione.
Ormai sul punto di aprire la bocca e parlare, spazientito dell’attesa, Battiquercia si bloccò.
I passi. Eccoli, li sentiva anche lui, adesso. Passi lenti, lenti e incessanti, una malinconica marcia.
Lenti e davvero molto pesanti. Il riverbero da essi prodotti sul suolo, di cui si accorse con ritardo anche Champius, era impressionante.
Il suo viso si fece preoccupato, mentre quello di Sporius, immobile e in ascolto, non dava visibili segni di turbamento.
Cosa poteva provocare un eco così profondo? Meccanicamente i piedi dell’imperscrutabile toccavano il suolo, uno dopo l’altro, senza mai fermarsi, con cadenza ritmica, e ad ogni passo il terreno rimbombava sotto l’enorme peso dell’intruso.
Perché rimanevano fermi? Era evidentemente qualcosa di davvero grande, grande e diretto indiscutibilmente verso di loro, come si poteva dedurre dai suoni che si facevano sempre più intensi.
Dovevano agire, nascondersi, cercare un altro passaggio per la costa. Sporius rimaneva però bloccato, e Champius non aveva la forza o le conoscenze per separarsi da lui e proseguire da solo.
Altri rumori si aggiunsero ai gravi passi dell’oscuro avversario, accompagnandoli con meno ritmicità, quasi egli non avesse il controllo sopra di loro come ne aveva sui piedi.
Il lampante tintinnio e il cozzare su se stessa di una grande superficie metallica si unì al coro di passi, risvegliando l’immaginazione di Champius per dare forma a quell’indecifrabile e invisibile pericolo.
Sembra come se un mostro fatto di catene avesse preso a camminare. - immaginò, rabbrividendo vedendoselo prender forma nella sua testa - Un mostro gigantesco, tutto di metallo…
I suoni erano ora vicinissimi, eppure nessuno dei due si muoveva. Colpiti da qualche incantesimo che li confondeva, o tanto audaci da voler scoprire cosa si celasse dietro tutto ciò?
Non appena ai passi pesanti e metallici se ne aggiunsero di altri, ben più scattanti e felpati, una voce, cupa e terribile, ordinò dall’oscuro delle foglie: “Prendeteli.”
Correndo con affiatato ardore e producendo un terremoto di rumori, schiacciando radici, rametti e vario fogliame rinsecchito, tale da destare l’intera Foresta Silente, due gormiti del Vulcano comparvero dal buio davanti ai due forestali.
Erano due gormiti nuovi, nel senso di quei gormiti del Vulcano toccati dall’energia rilasciata dall’Occhio della Vita quando ritornò su Gorm. Lucenti, e freddi nel loro fuoco, ridipinti dalla ‘natura’ di tinte di rosso, arancione, giallo e nero molto forti e in accecante contrasto tra di loro.
Corpo scheletrico e muscoloso al contempo, gommagutta, falce grigio metallica e un volto anch’esso grigio che pareva un teschio spellato, assai simile a quello di Orrore Profondo; un corpo cremisi tinteggiato di aculei gialli, potenziato nei muscoli, un viso crudele rinforzato in basso da un paio di nere tenaglie, una possente chela a un braccio e uno spuntone osseo simile a una trivella nell’altro, coda con letale pungiglione all’estremità.
Siffatti erano i due vulcanici che avanzavano bellicosi contro Battiquercia e il cacciatore. Anche se non lo potevano sapere, uno di essi era Skorpios, trasformato, lo scopritore e il padrone di Akarion l’aracnorosso. Nessun segno del gormita – o di chissà cosa – che aveva dato loro l’ordine e che aveva spaventato i forestali.
“Preparate le vostre teste!” guaiva con espressione folle il vulcanico con il teschio come capo, agitando al vento la sua falce e pregustando una vittoria facile e molto dolorosa per i due avversari.
Battiquercia e Sporius non si fecero cogliere impreparati. Nemici lungo il cammino era una possibilità riguardo alla quale il consigliere di Grandalbero li aveva ben preparati, sebbene tutti e tre, Battiquercia più fieramente degli altri, sapevano che era molto improbabile.
In tale improbabile occasione che era ora realtà, i due forestali avevano organizzato un gustoso stratagemma.
Si guardarono vicendevolmente, e si scambiarono un sorriso.
“Pronto, cacciatore?” domandò Champius.
“Al tuo segnale, Battiquercia.” disse tranquillo Sporius, indietreggiando piano mano a mano che i vulcanici avanzavano.
“D’accordo…ora!”
Con uno scatto davvero sorprendente per la sua stazza, Battiquercia diede le spalle ai due focosi avversari, e lo stesso fece Sporius, entrambi procedendo per traiettorie diverse.
Sotto gli occhi inizialmente confusi poi più che mai attenti di Skorpios e compagno, nella fuga Battiquercia estrasse dalla sua sacca il pacchetto di foglie che tratteneva l’Occhio della Foresta.
Senza alcuna discrezione, lo lanciò in direzione di Sporius, che lo agguantò con presa sicura.
Come un branco di lupi attirati da una capretta solitaria, i due vulcanici si gettarono sbavanti verso il cacciatore, ignorando del tutto Battiquercia.
Una mossa inutile: non appena gli furono a un passo, Sporius, che tra l’altro non scappava in linea retta ma zigzagando disordinatamente, saltando in lungo e di lato, addirittura appendendosi ai rami e salendo sugli alberi – Battiquercia non era da meno, nonostante trovasse un po’ più di difficoltà nel farlo – passò nuovamente l’Occhio in mano a Champius.
Il passaggio del fardello continuò in tal modo, infuriando all’inverosimile Skorpios e l’altro, finché questi due non misero in moto il cervello e invece di seguire solo un forestale alla volta, quello che aveva in mano l’Occhio, decisero di seguirli entrambi, Sporius da Skorpios e Battiquercia dallo scheletrico.
Anche questa mossa si rivelò inutile, e del tutto presa in considerazione dai due forestali come segnale della fine del loro inganno.
Champius, che tratteneva il fagotto al momento, arrestò la sua fuga repentinamente. Si volse all’indietro celere e si mise a roteare tranquillamente, tenendolo per il nodo del pacchetto, l’Occhio della Foresta, come se non fosse di alcun valore per lui.
“Lo vuoi così tanto? Tienilo!” urlò, e lo buttò addosso al gormita scheletrico che, vedendoselo arrivare addosso, fermò atterrito la sua corsa e lo raccolse, riuscendoci piuttosto grossolanamente e rischiando di farlo cadere, passandoselo di mano in per la parte più piatta della falce come se scottasse.
Fu in visibilio quando si rese conto di avere davvero tra le mani l’Occhio della Vita della Foresta, e lo alzò trionfante al cielo, gongolando.
Avido, scartò furiosamente le foglie accartocciate che lo racchiudevano. La sua espressione di sconcerto quando vide cosa c’era davvero all’interno del fagotto fu spettacolarmente drammatica.
Un sasso grigiastro dalla forma irregolare, con vari fori da cui fuoriusciva una luce rossiccia: una bomba, di quelle fabbricate e utilizzate dal Vulcano stesso, solo in dimensioni minori.
L’esplosione innescata dal fascio di linfa infuocata dal cannone di Battiquercia non fu massiccia come quella delle bombe di dimensioni normali, ma fu abbastanza fragorosa da ustionare e scorticare il braccio, il petto e il volto del vulcanico, e ad ucciderlo.
Era questa la nuova abilità dei gormiti della Foresta. Dopo secoli di incessante paura del fuoco, il loro più grande avversario e il pericolo più significativo per la loro casa e le loro membra, l’Occhio della Vita aveva donato ad alcuni di loro la possibilità di dominarlo.
Non era vero e proprio fuoco, in più potevano creare solo getti e fasci più o meno ampi di quella sostanza, non sfere o barriere. In più, pareva non trovarsi in natura e creare il fuoco, questa volta fuoco genuino, quando bruciava il bersaglio, quindi non c’era la possibilità di controllare la linfa già presente.
Io l’ho definito qui così, linfa, ma è un nome puramente ipotetico. C’è chi crede sia una mistura di sostanze velenose che si manifestava sotto forma di un getto bruciante e rovente più del fuoco; in tal modo, poteva collegarsi al controllo della materia organica dei forestali.
Ad ogni modo, Skorpios fu palesemente spaventato ma ancor di più irritato nel vedere il suo compare morire così, per uno sciocco inganno di cui anche lui era caduta vittima, e quella sorte sarebbe potuta toccare a lui se le cose fossero andate in modo leggermente diverso.
“Razza di incapaci.” proferì fredda come il ghiaccio la voce del capo di quella missione, che ora appariva in tutta la sua maestosità e terribilità, emergendo dallo scuro fogliame della notte.
Un gormita senza nome, senza pietà e senza misericordia, gelido e ligio al dovere, il più patriottico di tutto Monte Vulcano, un vero vulcanico che credeva fino in fondo allo Stregone di Fuoco e al radioso futuro di dominatore del mondo del Popolo del Vulcano, pronto a tutti i sacrifici per raggiungerlo.
Racchiuso in un’impenetrabile e nerissima armatura tutta di metallo, come aveva compreso Champius e anche Sporius, con rifiniture rosso sangue, un ampio spadone stretto nella forte mano, un elmo irremovibile a difesa e rifugio dell’indecifrabile sguardo. Il misterioso cavaliere.
Nessun segno che fosse stato anche lui trasformato, e divenuto ancora più potente e pericoloso che mai.
“Skorpios, tutti e due potrebbero avere l’Occhio. – lo informò, avanzando temerario, notando come entrambi avessero del bagaglio con sé – Io mi occupo di quello alto, tu pensa al grosso.”
Senza confermare gli ordini, Skorpios si diresse a capofitto contro Battiquercia, mentre il misterioso cavaliere camminava lento e sicuro di sé verso Sporius, che aveva estratto i due lunghi artigli ambrati e preparato l’arco.
Sporius non era messo affatto bene, ma Battiquercia non poteva occuparsi di aiutarlo, impegnato com’era a difendersi da Skorpios.
Gli attacchi dell’agile vulcanico erano velocissimi e sicuramente davvero dolorosi, a tal punto che Battiquercia non aveva possibilità di contrattaccare, ed era costretto a indietreggiare e a schivare come meglio riusciva i letali montanti dell’avversario.
Ogni parte del corpo di Skorpios poteva dimostrarsi un ottimo modo di finire la propria vita: le mandibole laterali, ampie e aguzze, scattanti e forti, all’altezza giusta per recidere il collo di Battiquercia; la robusta e tagliente chela che minacciava di dilaniargli la pancia ad ogni movimento; il duro spunzone attorcigliato che sembrava capace di perforare persino la roccia e che, irregolare com’era, non doveva essere affatto piacevole da sentire conficcato e rigirato nell’addome; il pungiglione acuminato e dal bruciante veleno, scrollato a destra e a sinistra nel tentativo di pungergli le gambe.
Ciò che più Battiquercia temeva accadesse, balzando di lato, abbassandosi e divaricando le gambe per evitare colpi bassi, alla fine accadde.
Il pungiglione si conficcò come una freccia nella coscia sinistra di Champius, immobilizzandolo.
“Hng.” mugolò, quando questo gli fu rimosso, e Skorpios avanzò su di lui, cercando di mettere le mani sul suo equipaggiamento.
Con grande stupore di Battiquercia stesso, non c’era alcun dolore dentro di lui. L’unico fu rappresentato dalla punta aguzza che lo penetrava per poi lasciarlo, e nient’altro.
Se ne accorse spaventato anche Skorpios infine, quando Champius gli strinse una larga mano attorno al collo. Il suo veleno non aveva effetto sui vegetali!
Un sonoro pestone sulla coda ora inerte di Skorpios, e quello, trattenuto ancora per il collo prese a saltellare e divincolarsi come se avesse messo i piedi sui carboni ardenti.
Battiquercia, trionfante e sorridente, lo gettò a terra, e prima che potesse rialzarsi, ora sicuro che non poteva essergli di alcun danno, lo afferrò per la coda.
Esattamente come fece poc’anzi con il finto Occhio della Foresta, Battiquercia roteò Skorpios fuori gioco, sollevandolo sempre di più sopra di sé e facendolo vorticare sempre più velocemente.
Quando fu soddisfatto, lo lasciò andare a sfasciarsi come una catapulta contro un tronco.
“Fuori due!” esclamò, indirizzandosi con sicurezza verso l’ultimo nemico ancora in piedi.
Sporius era alle strette: il misterioso cavaliere, benché con la corazza piena di frecce incastrate, premeva con tutto il suo peso un piede sul petto del cacciatore, che quasi sprofondava tale era la massa del gormita.
Con un urlo di sfogo, Battiquercia caricò con tutto se stesso contro di lui, si gettò a tutta forza sul corazzato corpo del vulcanico.
Il colpo sembrò non avere molto effetto, ma fu sufficiente a distogliere il cavaliere, muto, dal suo intento di schiacciare Sporius, e puntare il suo spadone contro Battiquercia.
Il suono di rami che si spezzano all’unisono, una folata di vento multicolore e velocissima, e in un istante le intenzioni omicide del misterioso cavaliere furono irreparabilmente interrotte.
Un guerriero alato, alto di statura, estremamente elegante, dotato di un paio di ali candide come la neve che l’aveva cullato e ampie come il cielo che solcava con maestria, dalle forme e i contorni confusi per l’estrema rapidità dei suoi movimenti, ma chiaramente un gormita di una bellezza esemplare.
Il misterioso cavaliere, afferrato da quelle svelte braccia, fu sbattuto contro un tronco che all’impatto perse quasi tutte le foglie. Non gli fu data possibilità di reagire o di contrattaccare, sebbene fu abbastanza incredibilmente svelto da rialzarsi e stringere la spada contro il nuovo inatteso nemico.
Con uno schiocco delle dita uncinate del grazioso guerriero in volo, un incanto dalla luce violacea immobilizzò del tutto il cavaliere.
Raffinate e precise torsioni della mano e delle dita riversarono su di lui prima un torrente infuocato, e in seguito una pioggia di fulmini che grazie alla sua armatura tutta di metallo lo arrostì per bene.
Gettando in alto le braccia come stesse sollevando un carico pesante, impose all’aria sottostante il cavaliere i suoi irrevocabili comandi, e il vulcanico fu sospinto verso l’alto con un minuscolo dispiego di forze.
Mentre egli cadeva, ancora immobilizzato, il gormita dell’Aria fece dei magneti per il vento delle sue mani, protese in verticale e con le dita che, stringendosi e rilassandosi, chiamavano a sé quanta più aria fosse possibile. Quando arrivò il momento esatto, ritrasse le mani e le braccia e con uno scatto le tese in avanti, ben rigide, con le mani aperte a triangolo: la tecnica del Mektigvind.
Un vento impetuoso e impietoso stravolse il corpo inerme del misterioso cavaliere, investendolo, storcendolo, scaraventandolo al di fuori, e ce ne sarebbe voluto prima che avrebbe di nuovo toccato terra, della copertura di foglie.
Più di un albero e parecchi rami furono completamente devastati da quella tecnica; un sacrificio accettabile: il misterioso cavaliere non intralciava più il cammino e la missione di Champius e Sporius, che ora si apprestavano a ringraziare a dovere il loro salvatore, esausto e a terra piegato su di un ginocchio, prima di proseguire.
“Ehi, ehi, tu. – incominciò a parlare Battiquercia, solare, dopo aver aiutato Sporius a rialzarsi – Non so chi tu sia, ma ti saremo per sempre debitori per il tuo aiuto.”
Avanzavano trionfanti, a rilento per la fatica, verso il loro sconosciuto redentore, affaticato quanto loro, se non di più.
“E’…stato un piacere aiutarvi dopo tutto questo tempo.” gracchiò a fatica, criptico ma beato, con una voce assai meno fine del suo aspetto.
Il guerriero rimaneva a terra, di tergo, e né Champius né il cacciatore erano riusciti a riconoscerlo, sempre che lo avessero già visto in precedenza.
Quell’affermazione aveva dell’inspiegabile: dopo tutto questo tempo? Cosa voleva significare, chi era?
Non assomigliava a nessuno dei ribelli di Noctis che Battiquercia avesse incontrato. Noctis non era così alto e slanciato, e le ali non combaciavano affatto. C’era una certa somiglianza con Livaz, ma nemmeno lui era longilineo né aggraziato quanto quell’aereo.
Che fosse Falcosilente era una possibilità da scartare immediatamente: non c’era alcun modo per cui un gormita così vicino al suo Popolo e soprattutto ai dirigenti della sua gente, per quanto combattuto dentro, osasse combattere apertamente contro coloro che lo ritenevano un alleato.
Un dubbio iniziò a divorare Battiquercia con foga e drammaticità crescenti.
Quella bellezza giovanile e stupefacente, quelle piume azzurre così lucenti, la voce roca e stridula al contempo, quelle ali di neve tanto grandi e tanto luminose, specchio del suo umore…
“Non ve l’aspettavate, vero? Nemmeno io me lo sarei aspettato, fossi stato in voi.” riuscì pure a scherzare, l’aereo! Alzandosi e voltandosi, con grazia avvicinandosi ai due, non ci fu più alcun dubbio.
Il loro ultimo salvatore, il loro impensabile alleato in quella lotta imprevista, altri non era che Elios, il Grande Traditore.
Battiquercia e Sporius si misero sulla difensiva: è vero, li aveva ‘salvati’ dal misterioso cavaliere, ma non ci si può mai fidare di un traditore, specialmente se quel traditore è tra i gormiti più odiati sull’Isola, il fautore di una delle spaccature più profonde degli ultimi anni.
Era impensabile che di punto in bianco Elios, dopo mesi di silenzio, il seguito di due anni spesi totalmente alla conquista di Gorm e dell’Occhio della Vita al prezzo di una personalità importante e un tempo a lui cara come quella di Barbataus, tra le tante altre vittime che il suo voltare le spalle aveva mietuto, tornasse sui propri passi e decidesse di soccorrere gli amici di una volta.
Elios era ormai a un piede da loro.
“Sta lontano!” sbraitò Sporius tendendo l’arco, che non la pensava differentemente da Battiquercia.
L'espressione di Elios, prima sorridente, ora pareva depressa.
“Ma come. – singhiozzò rattristito, al punto che parve scoppiare a piangere - Vi ho salvato e vi comportate così?”
“Non ci hai salvato. – ringhiò ostinato Battiquercia - C'è sicuramente qualcos'altro sotto." e gli puntò un cannone contro. Poi anche l’altro.
“Credereste alla mia sincerità se vi mostrasti questo?”
Da una sacca nascosta tra le ali luminose estrasse una pietra sferica e cristallina, illuminata di una luce propria, celeste.
Sporius abbassò l’arco, senza rilassare però la corda, e si avvicinò sbalordito. Battiquercia lo imitò, ancora ringhiante e rabbioso, calando un braccio ma tenendo ben fisso l’altro sull’impensabile soccorritore, guardando alternamente Elios e la sua offerta.
“L’Occhio dell’Aria?” mormorò incredulo Sporius.
“Come…cosa significa?” domandò il compagno, che, testardo com’era, non si sarebbe mai immaginato un episodio simile divenire realtà.
Era forse il segno che il Popolo dell’Aria non era del tutto corrotto e irrecuperabile: c’era ancora del buono, del ragionevole in loro, se il primo dei traditori ritornava supplichevole dagli antichi compagni.
Prima però bisognava stare a sentire le sue motivazioni, se c’erano.
“Falcosilente… - mormorò ad occhi chiusi – Devo tutto a lui, a mio fratello, al mio caro…caro fratello. Mi ha aperto gli occhi, in un modo che Magor non ha potuto fare. Anzi, Magor me li aveva chiusi, e mi ha fatto vedere solo ciò che voleva che vedessi, nascondendomi tutto il resto. Tutto il male, tutto sbagliato…”
Elios scoppiò a piangere come un cucciolo, senza controlli. Un pianto che pareva autentico, spontaneo, sincero. Soprattutto, una dimostrazione di sofferenza talmente tragica e compassionevole che Battiquercia ne fu scosso al punto da abbassare anche l’ultimo cannone, ed abbandonare ogni ostilità verso di lui. Fu quasi spinto dal desiderio di abbracciarlo e confortarlo, ma si trattenne. Sì, sembrava genuinamente colpevole, ma era giusto che soffrisse per il dolore che le sue scelte errate avevano arrecato agli altri.
“Magor aveva visto giusto. – continuò tra i singhiozzi – L’Occhio della Vita è potente, molto potente, può davvero portarci fino alle stelle, renderci i conquistatori dei mondi.”
A quest’affermazione Battiquercia riprese parte della sua avversione. Non era, allora, davvero pentito, se la pensava ancora a quel modo!
“Il fine giustifica i mezzi, così si dice. – seguitò – Ma fino a che punto? I mezzi del Vulcano sono terribili, abominevoli, disumani. Non posso credere a quello che ho visto, non posso credere di essere riuscito a sopportarlo così a lungo…non…non posso credere di essermi alleato con simili mostri!”
“Voglio dimenticare, dimenticare quello che ho visto, quello che ho fatto…ma non posso, come non posso dimenticare, mettere da parte il Grande Sacrificio. Ma voglio provare a rimediare, finché ancora posso, e non essere più ricordato come un traditore e un mostro come loro. Non voglio!”
Sia Sporius che Battiquercia erano estremamente colpiti e impietositi da quelle parole, da quelle dichiarazioni. Era una svolta storica, e la speranza di poter riappacificarsi con il Popolo dell’Aria diveniva più forte. Tuttavia, al tempo stesso, la possibilità di una pace definitiva con il Popolo del Vulcano scemava dopo quelle stesse parole di Elios riguardo i suoi modi di fare.
I due volevano replicare, promettere e far promettere qualcosa ad Elios, dichiarargli la loro benevolenza per le sue ultime azioni e anche ricordargli della malevolenza di altre.
Nulla di questo fu possibile, che Elios riprese a parlare, di un argomento assai diverso.
“Prendete quest’Occhio e fuggite. – intimò loro, gli occhi asciutti e le parole dure – Devilfenix è sulle mie tracce da quando ho lasciato Picco Aquila. Devo scappare, e non posso permettere che vi trovi. Devo…”
Le sue parole furono interrotte dal suono orribile della vita che si deforma e perde la sua essenza per merito di una forte scossa, e il rumore detestabile della stessa corrente elettrica, un fulmine concentrato in un piccolo spazio, raggiunse minaccioso le orecchie dei tre gormiti, mentre foglie e rami rinsecchiti dall’elettricità cadevano sordi su di loro e sul suolo erboso.
E all’improvviso, una sfera bianca cosparsa di fulmini saettanti e tempestosi, diretta come i fulmini di cui era composta, si precipitò da un’apertura tra le foglie sopra di loro tra i tre. La Bomba elettrica. Era infatti l’elettricità il nuovo potere del Popolo dell’Aria.
Quando la Bomba elettrica toccò il suolo, riversò su quell’intera porzione di foresta una scarica continua e tremenda di elettricità che immobilizzò e devastò i tre, portandoli tutti sulle proprie ginocchia e con le mani alla testa, quando la scarica terminò.
In seguito, dalla stessa apertura tra le fronde, scese volando una figura nota e nuova, carica di sadismo, odio e di desiderio di mettere alla prova il suo nuovo dominio sui fulmini.
L’onda di energia dell’Occhio della Vita aveva completamente bruciato le sue piume e anche la sua pelle, lasciandosi dietro un corpo di soli muscoli blu notte e porpora e ossa, rinforzato come non mai.
I muscoli bluastri delle braccia erano più possenti, gli artigli lunghi di mani e piedi erano percorsi da una scarica elettrica al suo comando, il torace coperto da una forte ma leggera corazza ossea.
Le tre paia d’ali erano le ali della morte, agghiaccianti falci sostenuta da nient’altro che ossa, bianche come il ghiaccio e rosse come il sangue appena versato.
Devilfenix. Battiquercia tremò di fronte a lui. Aveva saputo, in particolare dal Signore della Terra Thorg, che il Signore dell’Aria avesse abbandonato il suo Popolo e Gorm stessa molto prima dell’arrivo dell’Occhio della Vita. Evidentemente si era sbagliato, o Devilfenix aveva avuto dei ripensamenti.
“Andate, ora! Portate via gli Occhi!” ordinò Elios ai due, rialzandosi. Subito questi obbedirono, e cominciarono a correre senza guardarsi indietro.
Devilfenix si alzò in volo, pronto a fermarli, o peggio; ma Elios gli si parò davanti, a braccia aperte.
“No, Devilfenix. Il tuo scontro è con me!” affermò grave.
“E’ vero, ti sei preso l’Occhio.”
Scoppiò a ridere: “Sei soltanto un traditore, debole, doppiamente traditore. Lasciami andare, ingrato, e poi farò come vuoi tu e ti strapperò le piume una ad una!”
“No! - lo fermò – Combatti adesso! Vendicati ora per ciò che ho fatto!”
“Eh! - sorrise Devilfenix - Se proprio ci tieni, combatti allora! Ci metterò un attimo a sbarazzarmi di un pollo come te, e poi sarà il turno di quei tronchi buoni a nulla!”
I due tronchi buoni a nulla adoperarono quanto forza avevano ancora in corpo per lasciarsi alle spalle lo scontro che infuriava tra Signore ed ex - Signore dell’Aria, diretti verso la costa dove si sarebbero separati e dove li attendeva il marino con l’Occhio del Mare che con una barca, un grifone, qualsiasi cosa, avrebbe condotto i non due, ma tre Occhi nella capitale del Popolo della Terra!
Sapevano entrambi che Elios avrebbe potuto non ritornare per combattere nuovamente fianco a fianco con i Popoli amici, ma, mettendo coraggiosamente da parte il male che aveva fatto, avrebbero informato tutti della sua scelta decisiva, e di come meritava di essere ricordato.
***
Tutto il giorno e tutta la notte precedenti il 2 Tealse 860 l’accampamento dell’esercito capeggiato da re Obskurios non conobbe pace, fu in costante movimento.
Rimossi dalle stive delle grandi carrozze trainate da quattro o sei salamandre, che avevano compiuto uno sforzo immane trasportandole lungo tutto il Deserto di Roscamar, davanti agli occhi dei gormiti alleati prendevano forma imponenti macchine d’assedio: catapulte, arieti, baliste, torri arpionate tirate e spinte dagli stessi uomini, oltre che dalle bestie.
Per quanto assurdo possa sembrare, i gormiti sotto la guida di Luminescente III furono estremamente sollevati, quasi gioiosi, ma giustamente cauti a mostrare il proprio stato d’animo, nel constatare la decisione dell’esercito dello Stregone di Fuoco di continuare la lotta, dirigersi a Roscamar come del resto avevano fatto finora e cingerla d’assedio per conquistare gli Occhi della Vita di Terra, Foresta, Mare e anche Aria raccolti nel cuore di pietra e d’oscurità del millenario labirinto della Caverna di Roscamar, dove, incuranti del sangue che irrorava il paesaggio baciato dal sole, instancabili gocce d’acqua avevano scolpito muraglie di granito e calcare sotto forma di denti che avvolgevano il soffitto e il suolo delle grotte.
Era il segnale che il Vulcano e il Popolo delle Tenebre, o dell’Ombra o Oscurità che dir si voglia, avevano indirizzato tutta la loro attenzione sul covo dei preziosi di cristalli. Erano sull’orlo del precipizio della trappola progettata dai Signori di Gorm.
I gormiti dalla parte della Pianura più vicina alla capitale attendevano con impazienza che l’esercito dal lato opposto desse una volta per tutte il segnale dell’assalto, che iniziasse il conflitto finale.
Volevano farla finita, una volta e per sempre, ed essere come quelle gocce d’acqua nei tunnel sotterranei: scultori senza preoccupazioni e senza sofferenza capaci di costruire in pace un futuro sempre migliore per i propri figli, senza cruenti scossoni a interrompere continuamente il corso dell’acqua da stalattite a stalagmite.
Per attimi che ricordavano come così ristretti e insignificanti i gormiti del Vecchio Saggio – tranne poche eccezioni – avevano pregustato la fine risolutiva delle ostilità e dei mali che vessavano l’Isola, che avrebbe determinato il loro ritorno definitivo tra le braccia della famiglia e della casa, e nessun gormita avrebbe più dovuto vivere dieci e più anni della sua vita vivendo la paura della guerra, o la guerra stessa. Speranza e convinzione che li abbandonarono quasi subito, lasciando in loro un retrogusto amaro di desolazione e frustrazione, e di una risolutezza ancora più ferma di prima.
L’Occhio della Vita, non importava di quali grandi prodigi fosse capace, finché esisteva la guerra non si sarebbe mai conclusa.
La vittoria in quella pianura, la conquista con successo di Monte Vulcano potevano rallegrare i gormiti del trionfo sui bellicosi vulcanici, ma lasciava aperti ancora numerosi discussioni e dubbi, e la distruzione dell’Occhio della Vita era ancora un mistero; ma erano passi importanti da compiere nel raggiungimento del fine ultimo.
Dall’altra parte, anche il Popolo del Vulcano era sfinito e stanco di quel conflitto, freddo e caldo, protrattosi per quasi un ventennio e che, sebbene in costante piede di guerra e apparentemente dotati di risorse illimitate, li aveva estremamente indeboliti e impoveriti. Anche per loro quella lotta doveva essere terminata il prima possibile, o il Vulcano avrebbe rischiato il collasso, anche con gli aiuti dell’Aria, e di Tato Yami.
I nuovi poteri donati loro dall’Occhio della Vita e la presenza stessa di parti di esso nei loro territori dopo quasi mezzo secolo da quando il sacro rituale del passaggio dell’Occhio era stato cancellato li aveva riempiti di nuova forza e rinnovata volontà di divenire i conquistatori di Gorm e del mondo, con potenzialità distruttrici senza limiti. Il fatto che gli Occhi si fossero diretti nelle loro case di propria ‘volontà’ li rendeva tronfi e convinti che l’Occhio li avesse scelti per la loro grandezza, e che gli altri tre fossero stati catturati con le oscure magie del Vecchio Saggio e piegati al suo volere. Il fatto che egli fosse scomparso non li toccava. Anzi, faceva di loro una forza ancora più inarrestabile e convinta della propria supremazia, ora che il suo nemico era privo della fiamma che li aveva guidati nel buio per decenni, sicura della disorganizzazione generata dalla sua scomparsa.
In più, gli Occhi di Vulcano e Aria, prima che furono reclusi con le ricercate motivazioni dallo Stregone di Fuoco – e ben in pochi si opposero a lui – avevano già dato prova del loro potere che necessitava di essere controllato, mostrando a chiunque si avvicinasse visioni di un mondo futuro dove essi dominavano da sovrani e anticipazioni dell’imminente vittoria. In più, esattamente come narravano i miti contenuti negli Annali di Gorm e citati più di una volta da gormiti di ogni dove, le pietre preziose poste attorno agli Occhi furono riempite di energie, le meno capaci al punto da rompersi. Nessuna ulteriore trasformazione dei gormiti, però.
Avere avuto tra le mani l’ambito Occhio della Vita, seppur diviso, e sapere che le parti mancanti erano state riunite in un unico luogo non lontano da dove era stanziato l’esercito era un’attrazione troppo potente per sfuggirle.
Inoltre, essersene lasciate scappare uno, di Occhio, sotto il naso e per merito di traditori li aveva ancora più animati: riacquistare il maltolto e riunirlo con i suoi fratelli.
Che fosse stato il Popolo dell’Aria a consegnare più o meno indirettamente l’Occhio del suo elemento nelle mani nemiche fu un avvenimento decisamente malvisto e alquanto arduo da tollerare. La lega tra Aria e Vulcano era proceduta grossomodo con successo, ognuno cercava di rispettare i modi e gli usi dell’altro, spinto da un’unica missione. Tuttavia, tutti si ricordavano di essere stati nemici in un tempo assai poco lontano, e quel tradimento non scoperto, da parte poi dello stesso primo traditore, infiammò nei vulcanici l’idea dell’inaffidabilità del Popolo dell’Aria da cui esso non riuscì a difendersi con successo, merito della testardaggine dei vulcanici.
Dopo che il silenzio tornò a regnare nell’attendamento di Obskurios e le torce furono spente, lasciando solo piccoli scarsi fuochi di sorveglianza, nessun movimento sospetto fu più intercettato dalle sentinelle con la vista più acuta – o con i cannocchiali più precisi – nel lato opposto.
Fino al mattino seguente, quando l’eponima foschia già da alcune ore dominava la regione pianeggiante.
La Pianura delle Nebbie è, come già detto, una vasta regione piana antistante la ancor più ampia zona fertile e mite di Darth Kuun meridionale.
Il clima non lo si può definire desertico ma nemmeno dolce: le temperature sono comunque ostili, solo più sopportabili.
La sabbia ricopre solo superficialmente il suolo della pianura, e a un quarto di dito in profondità appare la terra dura, morbida se paragonata alla terra di Picco Aquila o della Valle del Vulcano, ma dura se messa a confronto con il terreno instabile e in cui è facile inciampare del pieno Deserto.
La pianura è ricca di oasi, piccole zone erbose con gruppi di mezza dozzina di corti alberi che circondano pozze d’acqua di dimensioni ridicole, ma molto preziose per quegli animali che evitano la città di Roscamar e navigano per natura attraverso l’inospitale e arido deserto, le uniche fonti d’acqua prima della Valle dei Canyon, fatta eccezione per rare oasi e falde molto profonde, diverse rese pozzi dai viaggianti terricoli per loro uso e consumo negli ordinari traffici tra Roscamar e Garsomor.
La prossimità con l’ambiente parecchio più ospitale, verde e quasi umido della feconda valle di Roscamar, il contrasto con l’aridità del deserto poco più in là rende la Pianura preda di frequenti invasioni di nebbia, specie al mattino e al crepuscolo.
La nebbia di quella mattina, come quella delle mattine e delle sere precedenti, quando c’erano, furono assai poco gradite. Impedivano la vista alle sentinelle, e nascondevano i movimenti del nemico. Anche salendo sulle torri più alte e volando a centinaia di piedoni nel cielo, l’esercito ostile era invisibile, fuorché con la magia, ma gli incantesimi non potevano scacciare l’intero muro di nebbia, né per sempre. Bisognava attendere che si diradasse, anche perché muovere contro un nemico che non si vedeva, si supponeva soltanto fosse davanti, era sconveniente e azzardato. Inoltre, i piani richiedevano che fosse l’avversario ad attaccare per primo.
Gli stessi svantaggi avevano valore per le truppe dalla parte opposta, quindi si aspettava.
Si attendeva con impazienza. I soldati erano in fila, ogni classe di guerriero disposta nei suoi ranghi; le macchine belliche di cui anche loro erano armati, diverse ordinate dalla vicina capitale della Terra, sistemate secondo il programma.
Contro ogni aspettativa, ma forse no, accadde che l’attesa fu anticipatamente interrotta.
Il suono del lento marciare, passi corazzati di ogni uomo e bestia su un terreno molto più sonoro, le ruote delle grandi catapulte che stridevano nel loro avanzare; le cime, ben guarnite, delle torri d’assedio che sovrastavano il campo di nebbia.
E infine i volti ricoperti a tratti di elmi e le sciabole che luccicavano opache apparvero affamati dalla fitta foschia.
Il tempo dell’attesa non era ancora finito. Difatti, non appena le fila iniziali dell’armata dello Stregone di Fuoco si resero visibili ai capi dei battaglioni alleati, la loro marcia fu arrestata.
Le catapulte furono fatte avanzare, spietate macchine di ingranaggi e inneschi piegate per lor natura alla devastazione. Gli alleati sperarono vivamente non fossero armate con le letali bombe che minacciarono pochi anni fa la distruzione della Città Sotterranea. Era inoltre improbabile che, nel caso in cui si fossero fatti trasportare carichi di costosi ordigni esplosivi dal Monte di Fuoco, armassero le catapulte solo per assalire le fila avversarie, invece che risparmiarle per l’assedio alle mura. I massi poco minacciosi che posero nei robusti sacchi delle catapulte diedero sollievo ai gormiti alleati, ma solo per poco: una pioggia di macigni non è affatto uno spettacolo piacevole, e non era ancora sicuro che non avessero a disposizione le famigerate bombe.
Quando poi a molti dei massi in vista fu appiccato fuoco il sollievo nei cuori dei gormiti fu completamente rimosso. Non erano esplosive, ma terribilmente dolorose.
Come un'unica grande forbice, chele, falci e pugnali dei vulcanici ruppero all’unanime tutte le corde che tenevano tese le catapulte, e con un sobbalzo tremendo centinaia di enormi sassi e lapilli che tagliavano il cielo con scie di fuoco furono sollevati in aria. Scomparvero nella nebbia e poi riapparivano più veloci e carichi di morte di prima, e si schiantavano al suolo con possenti tremori e numerose vittime.
La battaglia era finalmente iniziata.
La risposta degli alleati fu repentina e ugualmente mortale: armarono le proprie catapulte, in numero minore e nessuna infuocata, e a i macigni in caduta libera accompagnarono più precise, penetranti e meno intercettabili frecce, scagliate da archi e balestre, in particolare dei ka’nhili.
Uno sciame assassino di vespe oscure, senza veleno ma con un pungiglione molto più pericoloso, che dipinse il cielo ingrigito di un lugubre nero, che abbandonando la volta dominata dalla nebbia macchiò di rosso la sabbia e i corpi ora inerti di coloro che furono colpiti.
Agli attacchi a lontananza si aggiunsero fino a rimpiazzarli totalmente le cariche più o meno ordinate della cavalleria, seguita a distanza dalla fanteria. Possenti dragoni e graziosi grifoni solcavano il cielo nebbioso e stampavano la loro sagoma nella densa foschia, mentre le salamandre si scontravano e si abbattevano follemente, vicendevolmente squarciate dalle lunghe lance dei loro cavalieri, qualora essi mancavano il loro bersaglio.
La risolutezza nel porre fine a quella battaglia era ancora più salda che nella battaglia alla Valle della Disperazione, gli stessi infallibili guerrieri ka’nhili sembravano aver abbandonato la loro rigidità e compostezza per dare libero, ma ancora controllato, sfogo al loro desiderio di eliminare la loro nemesi oscura, un desiderio e una necessità, come se la stirpe di Tato Yami fosse un male incurabile da debellare al più presto e senza pietà.
Lo stesso si poteva dire per i gargoyle, più folli e spietati che mai, che spingevano e premevano con i loro cupi poteri scatenando terribili perdite.
Una vera e propria furia degli elementi, ora che nuovi poteri si erano aggiunti alla straordinaria lista delle abilità dei sovrumani gormiti. Pieni poteri, li chiamavano: il culmine insuperabile del dominio delle forze della natura.
Al vulcano si era aggiunta con fatica la lava che brucia tutto, persino i metalli più duri, ai liquidi e all’acqua impetuosa il ghiaccio più freddo della cima di Picco Aquila, al vento e alle correnti il dominio dei fulmini e delle scariche più forti, alla terra e a alla sabbia e alle pietre il diamante indistruttibile ma con un alto prezzo di energia, e l’inquietante potere sulla materia organica si accompagnano fasci luminosi che ardevano come il fuoco.
Luce e ombra che illuminavano di gelo tagliente e accecavano di veleno bruciante; fiumi di fuoco generati con la semplice flessione delle mani, che bruciavano senza legna e senza paglia, vivi dell’energia interna dei vulcanici, una forza che pareva inesauribile; turbini e saette, spesso uniti in un unico devastante temporale piegato al volere di un solo gormita, più apocalittico di qualsiasi catastrofe naturale; Blomstervegg, le mura di legno o osso, alti come il fiume Cornolmo era lungo eretti dal terreno e a cui i guerrieri della Foresta attingevano grossi lastroni taglienti con cui impalare gli avversari.
Una tremenda e tutt’altro che gradevole dimostrazione del potere degli elementi, che molto altro che portare morte possono fare.
V’era, a dirla tutta, poca dimostrazione della forza devastante dell’acqua, sin dall’inizio della campagna nella Valle della Disperazione. Gormiti del Mare erano rari, questo perché erano in gran parte adoperati per l’assalto a Monte Vulcano, una campagna memorabile il cui avvio stava per partire in quel momento. Non certo – ma sotto sotto anche per quello, forse – perché il Deserto era l’ambiente più inospitale per i marini.
La cosa doveva dare da pensare ai nemici. Eppure non si vede alcun dubbio in loro, nessuna preoccupazione. Dritti e decisi alla meta, non temevano nulla. Troppo decisi e sicuri, forse; non potevano in fin dei conti davvero pensare di poter assediare Roscamar con solo quell’esercito, contro uno di pari numero che poteva rimpolparsi ad ogni momento dalla vicina città, mentre i rinforzi nemici dovevano percorrere lunghissime leghe, e all’arrivo non sarebbero stati affatto capaci di combattere al pieno delle forze.
Che stessero nascondendo qualcosa? Che avessero fiutato l’inganno, e stessero a loro modo ingannando, facendo credere di essere caduti nella trappola? Non lo si poteva dire.
Ritornando alla funesta furia degli elementi, e al problema dell’acqua: c’era in verità qualcuno che dimostrava al gran completo il micidiale carattere distruttore dell’elemento del Mare, oltre al Signore Nobilmantis e ai suoi pochi guerrieri.
Obskurios re di Tato Yami, splendido e feroce, alto nel cielo sorretto dalle spettrali ali pallide che da sole avrebbero potuto condurlo sulla vetta di Picco Aquila e ancora più su; con una mano, quando non stringeva lo straziante Nero Artiglio, l’unica, inseparabile arma che riteneva necessario usare, ingiungeva tremendi comandi ai suoi uomini; con l’altra mano, la mano del lugubre braccio robusto come un giavellotto, dono dell’inesauribile e benevolo Occhio della Vita, comandava a possenti masse d’acqua che in quel deserto nessun’altra fonte all’infuori di lui e dei marini poteva generare, piegate a lui e unicamente a lui senza possibilità di sottrarglisi, di spargersi con impetuosità nella calda estensione e travolgere i nemici con la forza che solo la natura poteva imprimere loro.
Per lui, e per molti gargoyle sotto di lui che lo invidiavano per la fortuna propizia, la caccia agli Occhi della Vita era divenuta un motivo di lotta molto più acceso dell’odio verso i ka’nhili.
Esso aveva infuso in lui la proprietà unica dei gormiti del Mare di creare e controllare l’acqua, dotata di usi e potenzialità con cui la mera forza dell’oscurità non poteva competere, ma soprattutto gli aveva regalato un nuovo braccio.
Tutto aveva fallito: le cure più lunghe, le pozioni e le erbe curative e rigeneranti più rare e costose, gli esperimenti d’alchimia e magia più spericolati. Da quando gli fu tolto dall’odiato El’issam, da quando nulla sembrò poterlo riportare indietro, Obskurios si era rassegnato a vivere senza un braccio, senza una parte di lui. L’esperienza spirituale della via dell’ombra portava a simili conseguenza, lo struggimento per la perdita di un proprio possesso.
Nonostante tutto, l’Occhio della Vita, manufatto antico e misterioso e soprattutto ignoto agli occhi di Obskurios che mai lo aveva visto prima della Grande Caduta, lo aveva graziato con un corpo nuovo e un braccio ancora più forte di prima, con cui poteva trafiggere gli avversari come fosse una lancia e che necessitava di molto più che una toccata di spada per cessare di esistere un’ennesima volta. Un potere simile, il potere dell’Occhio della Vita, doveva essere suo.
I suoi sudditi, come ho del resto già accennato, provavano invidia, meraviglia e ammirazione per ciò che gli era toccato. Loro, esperti e audaci alchimisti, erano avvezzi a mutazioni e a esperimenti applicati su se stessi, spesso con risultati poco gradevoli; perciò, che il loro re avesse perso le sue sembianze da gargoyle per una forma più potente li preoccupava poco. Li preoccupava di più mettere le mani sugli Occhi della Vita e ottenere anch’essi quelle straordinarie abilità.
Obskurios, da parte sua, temeva che per l’eccessiva invidia di alcuni individui si fossero sollevate insurrezioni basate sulle convinzioni più disparate per cacciarlo dal trono, ritenuto davvero troppo potente e troppo pericoloso, al punto da far credere di non aver affatto bisogno di un popolo al suo servizio e di conseguenza che i bisogni del popolo non lo toccavano più come una volta.
Così non era, e Obskurios avrebbe lottato fino all’ultimo per bruciare ogni credenza simile sul nascere e mantenere la sua famiglia sul nero trono di Tato Yami; ma allo stesso tempo non si sarebbe risparmiato in spaventose esibizioni di supremazia dell’acqua.
All’altezza in cui si trovava non c’era molta azione: l’esercito avversario non poteva dispiegare un egual numero di guerrieri alati quanti il suo, e i soldati capeggiati da Devilfenix, consci di ciò, volavano a bassa quota e assalivano i gormiti ostili a portata di tiro, volteggiando da una parte all’altra della pianura, senza un obiettivo preciso nella maggior parte dei casi.
L’attacco dall’alto quando il nemico può solo contrattaccare terra - aria non era appagante, dilettevole, adrenalinico come la lotta in mezzo alla folla belligerante, con schegge, percosse e lame che ferivano da ogni parte, avversari ligi al dovere della guerra pronti a tagliare la testa ad ogni lato, da cui era necessario difendersi con prontezza di riflessi, o immensa fortuna.
A tale quota Obskurios non era nemmeno nella possibilità di sfoggiare appieno il potere del Mare, e questa era forse la cosa che più lo infastidiva.
Poco gli importava di essere il sovrano che combatteva in prima linea sotto il fuoco di tutti i nemici: era tradizione, era solito che il re lottasse come e insieme agli altri gargoyle. Del resto, non era la prima occasione in cui lo faceva, nemmeno la prima contro i sorprendenti gormiti, che rendevano necessario guardarsi doppiamente le spalle. Ora però non era più lo stesso di prima: era più forte, era migliore.
Con grande teatralità flesse le ampie ali acuminate e si tuffò con una capriola verso il basso, entrambe le braccia protese in avanti in direzione del suolo. La velocità con cui cadeva s’accresceva pericolosamente tanto più il secco suolo si faceva più grande e vicino al suo sanguigno sguardo.
In un attimo un’enorme blocco d’acqua si materializzò nel punto d’impatto del re dei gargoyle, attutendo la sua caduta e inglobandolo in esso. Non appena la sua figura tenebrosa, tetramente illuminata da una precisamente sagomata corazza mirto cupo, scomparve nella massa d’acqua questa, magicamente trattenuta in una forma di parallelepipedo, si sformò repentinamente e scoppiò frammentandosi in una serie di potenti onde che avvolsero gli avversari più vicini.
Ed ecco che, assorbita l’acqua dall’assetato marrone sotto i loro piedi, la figura di Obskurios riapparve, sana, forte, eretta ed energica come non mai, già impegnata a sferzare l’aria a sinistra e a destra con onde d’acqua e di oscurità.
Il Nero Artiglio sfigurava e disarmava trucemente, lo scudo rotondo con l’immagine di un drago a due teste lo difendeva dagli attacchi frontali e incanalava i poteri del re in misure e dimensioni meglio contenibili.
Incurante dei dardi diretti contro di lui e liberandosi non senza ricevere danno di coloro che si abbattevano con furia su di lui, esercitava al meglio della sua portata le tecniche elementali dell’acqua.
Nel poco tempo che aveva separato la battaglia in corso dalla Grande Caduta Obskurios si era fissato particolarmente con l’acqueo potenziale donategli dal divino cristallo e si era allenato quasi l’intero tempo a dominare tutte le tecniche del Mare più impegnative e distruttive.
Il Maelstrom lo affascinava come poco altro in quella vita: un maremoto scaturito dalla sola energia del suo cuore e delle sue ossa; ma non c’era stato il tempo, lo spazio, l’occasione e la forza necessari per poter eseguire con successo, nemmeno dare avvio a una tecnica così complessa e rovinosa.
Le Mura del Mar Rosso erano la sua mossa prediletta, la più cruenta e piacevole alla vista di Obskurios, sempre alla ricerca di spettacoli improbabili e carichi di violenza, e si sprecava nell’attuarla tutte le volte che poteva durante quella battaglia.
Richiedeva tuttavia una certa dose di precisione ed entrambe le mani, e la combinazione delle due cose lo lasciava rischiosamente esposto ad attacchi ostili.
Per la maggior parte riuscì a sopportarli senza crollare, ad evitarli o a respingerli e portare a termine le Mura del Mar Rosso; ad un certo momento, però, mentre pregustava di schiacciare tra le due masse liquide un misero gormita gambizzato, un gelido getto di luce lo accecò e lo deconcentrò.
L’acqua scrosciò rumorosamente a terra, liberata dal controllo del re, che barcollò indietro e agitava la mano davanti ai propri occhi feriti.
Riacquistò in tempo la vista, ancora con la mano armata di scudo a parargli il viso, per riconoscere il suo assalitore e schivare uno squarcio luminoso della sua lunga spada.
“Ancora convinto che tu debba usare solo la forza della luce, El’issam?” gli domandò con vena sarcastica e sprezzante, ritornandogli indietro una zampata di tenebra che non andò a segno.
Sommo Luminescente III, abbagliante al sole del primo mattino che con i suoi raggi dissipava la nebbia, osservava dall’alto del suo volo magico, le quattro ali ambrate ben ferme e salde, il suo nemico con boria e sufficienza che trapelavano facilmente dalla sottile fessura del suo elmo-corona.
Addobbato in una tradizionale armatura karmiliana a tessere, bianca con oro e argento, le ampie spalliere e le robuste placche della cintura ai lati delle gambe, se non fosse stato per la carnagione violetta – oltre che alle già citate ali e alla mancanza di rigonfiamento in prossimità dei fianchi, merito delle braccia ausiliari scomparse – era tale e quale a prima dell’evoluzione, e quasi non un sovrano ma un soldato di Karmil qualunque. L’elmo - corona era l’unica cosa che faceva di lui un ka’nhili speciale, prendendo in considerazione solo l’armamentario.
“Non vedo perché dovrei aver cambiato il mio atteggiamento.” replicò glaciale e vago El’issam, sfoderando l’altra spada.
“Sai cosa intendo. So che puoi controllare il fuoco, non negarlo. Ma non lo vuoi fare.” Gli rinfacciò con tono di rimprovero il sovrano yamense, cominciando a sbattere lentamente le ali per salire.
“Questo potere è sbagliato. Se lo usassi, dichiarerei la mia dipendenza da esso, e dall’Occhio della Vita, sua fonte, che ho giurato di distruggere”
Un letale fascio di luce concentrato da entrambe le lame accompagnò la sua spiegazione.
“Stronzate. – sbuffò Obskurios, accelerando la sua salita per evitare l’attacco – Sei un folle, El’issam. Hai sempre agito come tale, e sempre lo farai. Non c’è cura per questa tua follia, se non la morte.”
“So dove vuoi arrivare. Mi dispiace porti questa notizia, ma non sarai tu a darmi la morte.”
Esausto delle chiacchiere, Obskurios portò le mani indietro per poi ricacciarle in avanti, grondando un torrente d’acqua che lanciò su El’issam.
Il Sommo si difese con facilità impressionante, rimanendo fermo ma spostandosi da un alto con la forza magica.
Obskurios optò stavolta per una più lenta ma più forte Zanna del Demone Marino.
Con indifferenza e flemmaticità insopportabili, quasi senza agitare le dita, si spostò, levitando lentamente e con leggiadria, ed evitò anche quest’attacco, che si disperse in una fitta pioggia dietro di lui.
Non potendoselo affatto aspettare, non riuscì ad eludere anche lo stesso scudo dipinto, scagliato in un impeto d’ira, che gli si ficcò in pieno addome ammaccandogli diverse tessere.
La sua reazione sarebbe stata devastante, se Obskurios non gli avesse impedito qualsiasi mossa all’infuori di quelle difensive, precipitandosi contro El’issam, deciso a trapassarlo da parte a parte con gli spiacevoli uncini verde acido del nuovo braccio.
Tre volte, coadiuvato dai prodigi della forza magica per maggiore potenza nonché per sicurezza, fece scattare in avanti il robusto e perforante arto come una freccia in un arco teso, e tre volte Obskurios fallì, fendendo l’aria con riverbero inquietante e rabbia crescente.
Esasperato per le continue facili elusioni del Sommo – anche se ultime gli erano costate parecchio sudore e fortuna – cacciò un urlo selvaggio e alzò omicida la frusta uncinata.
Il Nero Artiglio fu bloccato nel suo sfuggente tragitto verso El’issam…dalla sua mano.
Gli uncini perforarono i guanti e la coriacea carne, bagnandosi di lucido sangue, ma non ci furono sospiri di dolore per quelle ferite, né ci furono quando Obskurios strattonò la frusta per rimuoverla dalla presa nemica lacerando ulteriormente i palmi e le dita, che però non abbandonarono la presa.
Segnali di dolore mancarono addirittura quando, con forza superiore a quella con cui il re yamense tirava dalla sua parte, Luminescente III trascinò il Nero Artiglio verso di sé e se ne appropriò.
Obskurios spalancò la bocca rabbioso e indignato. Quella frusta valeva per lui come l’elmo - corna valeva per El’issam. Non era affatto alcun simbolo di potere, non ufficialmente, tuttavia non poteva comunque permettere che gli fosse sequestrata.
El’issam sembrò rendersene conto – forse lo sapeva sin dall’inizio – e infatti, aiutandosi sorprendentemente con le due paia d’ali, che sbattevano per la prima volta dalla loro nascita, iniziò una fuga precipitosa da Obskurios con il preciso intento di farsi inseguire, provocando il derubato con globi di luce.
Obskurios non era per niente interessato al suo uso delle ali, né aveva bisogno di ulteriori provocazioni: doveva riprendersi il Nero Artiglio.
Rispondendo ferocemente alle provocazioni con ingiurie e sferzate ombrose e d’acqua, inseguì furente El’issam, senza la minima cura della sua destinazione.
Il suo attaccamento alla frusta e la sua sconsiderata corsa per riprendersela fu la sua rovina.
Luminescente III la fece repentinamente cadere, dopo che almeno mille teste per uno si erano susseguite sotto di loro, e Obskurios incosciente si gettò a capofitto verso di essa. Non tanto incosciente da non sparare una Zanna verso El’issam per precauzione.
Fu però un colpo alla cieca, che non centrò mai il bersaglio.
Appena le mani di Obskurios serrarono la lucida e ricamata impugnatura del Nero Artiglio, un abbraccio a un amico che non si vedeva da lungo tempo, un bolide fulgente lo investì con una spinta di centinaia di libbre.
Una spinta ineludibile, tanto intensa da impedirgli qualsiasi movimento, che l’avrebbe portato a sfracellarsi al suolo, ed El’issam con esso. Una piccola soddisfazione: morire insieme a lui e saperlo ucciso dalla sua stessa follia, dalla rabbia nei suoi confronti che non era più riuscito a contenere. Essere consapevole di aver fatto perdere la ragione all’acerrimo nemico, di avergli fatto tradire i suoi tanto cari rigidi codici e di averlo portato in tal modo alla morte lo riempì di compiacimento, e di gioia. Forse quelle due passioni sarebbero riuscite a salvarlo.
Le cose andarono diversamente.
La caduta e lo schianto inevitabili di Obskurios furono inaspettatamente arrestati da qualcosa di secco e freddo che strinse con presa ferrea i polsi e le caviglie di carbone di Obskurios e, se anche lo salvarono dalla morte o quanto meno dal rompersi la schiena e il collo, non gli risparmiarono il dolore nello strattonarlo violentemente a terra, e ad ancorarlo lì.
Immobilizzato da mere radici, ingannato da un trucco infantile, reso impotente, lontano dal campo di battaglia…non poteva essere vero.
Attorno a lui vide Grandalbero, il sovrano dietro quelle liane, e due gormiti dell’Aria che, con i palmi aperti e rivolti in avanti, luminescenti, lo tenevano ulteriormente fermo con qualche magia.
“Fai buona guardia, Signore della Foresta” enunciò trionfante El’issam, una sagoma scura e indistinta, in pieno contrasto con Nejema che si stava levando. Grandalbero annuì tacitamente.
“Argh! - urlò di collera Obskurios - Maledetto!”
   
 
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