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Autore: _ayachan_    28/01/2009    11 recensioni
A cinque anni dalle vicende de "Il Peggior Ninja del Villaggio della Foglia", che ne è stato delle promesse, dei desideri e delle recriminazioni dei giovani protagonisti?
Non si sono spenti con l'aumentare dell'età. Sono rimasti sotto la cenere, al caldo, a riposare fino al giorno più opportuno. E quando la minaccia è che la guida scompaia, quando tutt'a un tratto le scelte sono solo loro, quando le indicazioni spariscono e resta soltanto il bivio, è allora che viene fuori il carattere di ognuno.
Qualunque esso sia.
Versione riveduta e corretta. Gennaio 2016
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'eroe della profezia'
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Penne 21
24/02/2016
Capitolo ventunesimo

Il ritorno dei fantasmi




A Suna l’aria non era mai fresca, di notte come di giorno. Se a Konoha il profumo dell’estate era ancora una brezza impercettibile, nel Villaggio della Sabbia era già l’acre odore della polvere misto al rumore dei grilli e al ronzio dei condizionatori.
Gaara era avvezzo ai rumori della notte praticamente da sempre. Anche dopo la scomparsa di Shukaku l’insonnia per lui era stata una compagna inseparabile, probabilmente ridotta a normale ciclo sonno-veglia da anni e anni di abitudine. Non soffriva particolarmente la mancanza di sonno, ma da quando aveva iniziato ad avere rapporti con le altre persone provava dispiacere nel passare tante ore da solo: con l’arrivo di Loria le cose erano cambiate, perché averla accanto e sentirla respirare al suo fianco era confortante come una ninnananna, ma quando la Roccia l’aveva portata via le notti erano tornate tristi e solitarie.
Quella notte, finalmente, lei sarebbe tornata.
Fermo sulla cima del palazzo dell’Hokage, Gaara scrutava il cielo punteggiato di stelle opache. Poche decine di minuti prima un uccellino rosso era sfrecciato davanti alla sua finestra con un messaggio di Chiharu, e adesso lui li attendeva cercando di distinguerli nonostante la foschia.
Cosa le avrebbe detto? E lei cosa gli avrebbe detto? Come l’avrebbe vista, cosa le avevano fatto, era arrabbiata con lui? Sei anni erano un tempo enorme... Sei anni che lei aveva passato rinchiusa, per colpa sua. Se non fosse stata la segretaria del Kazekage non le sarebbe accaduto nulla, lo sapeva lui, lo sapevano quelli della Roccia e lo sapeva anche lei. Aveva avuto fin troppo tempo per covare rancore nei suoi confronti, e lui ne aveva avuto altrettanto per coltivare il senso di colpa. Ma al di là di tutto, tra senso di colpa e rancore, cosa sopravviveva dell’amore di una volta? Era quella la domanda che davvero lo turbava. Gaara sentiva i palmi delle mani sudare e il cuore battere giù nello stomaco.
Una sagoma scura emerse dalla foschia, spostando una nube di vapore e polvere, stagliata nel riquadro di cielo limpido al di sopra del palazzo. Da lontano non sembrava tanto imponente, ma quando fu abbastanza vicina da essere paragonata agli edifici circostanti si dimostrò di dimensioni ragguardevoli, tanto che ogni colpo di coda dava origine a un risucchio incredibilmente sonoro. La luna illuminava ogni cosa con la nitidezza di un piccolo sole bluastro. L’uccello era enorme, molto più grande di qualunque altro Gaara avesse visto prima. Aveva una forma affusolata, con un collo lungo e mobile che sorreggeva la testa dal becco affilato. Gli occhi erano neri, grossi come i pugni chiusi di un uomo e privi di ciglia, le zampe spesse come un tronco giovane, dotate di artigli lunghi una spanna. Nonostante l’incredibile apertura alare, che al massimo dell’estensione copriva alcuni metri, il dettaglio che più colpiva dell’animale era senza dubbio la coda: una massa di lunghe penne nelle sfumature dell’oro e del rosso, che si allargavano a ventaglio durante il volo e si riunivano in uno spesso fascio una volta a terra. Gaara individuò quattro sagome sul dorso dell’uccello, e non appena fu sicuro della sua intuizione con un cenno chiamò tre ninja a volto coperto.
«Prendetela» ordinò, e quelli scomparvero.
Sentì la prima folata di aria tiepida sul viso, una manciata di sabbia gli solleticò il naso. Sbatté a malapena le palpebre, seguendo i movimenti dell’uccello che tentava di atterrare sulla piccola superficie del tetto e facendosi bruscamente indietro quando uno spostamento d’aria quasi lo abbatté. Gli artigli del volatile stridettero sulla roccia del palazzo, cercando di mantenere l’equilibrio sulle due zampe. Le ali sbatterono a vuoto per alcuni secondi, poi finalmente si placarono e tornò il silenzio della notte.
Una delle quattro ombre sul dorso dell’animale si spostò con movimenti un po’ rigidi e si lasciò cadere a terra passando davanti alle grandi ali. Gaara si avvicinò appena in tempo per vedere un’altra ombra che, aiutata da chi ancora era sul dorso dell’uccello, veniva fatta scivolare giù subito dopo; e lì, alla luce della luna e delle poche stelle, rivide dopo sei anni l’unica compagna delle sue notti di solitudine, con l’aspetto emaciato di chi ha sopportato una lunghissima prigionia e stretta a un Anbu esausto. Allora il suo stomaco sprofondò fino in fondo ai piedi.
Akeru, che sorreggeva Loria e avvertiva il tremito delle sue gambe, gettò uno sguardo verso l’alto e uno a Gaara; poi, con delicatezza ma anche un filo di fretta, sospinse gentilmente Loria verso il Kazekage e lasciò che fosse lui a reggerla. Gaara la prese tra le braccia come se fosse fatta di vetro, registrando in un secondo tutti gli angoli acuti delle ossa, la fragilità della pelle, le fibre sottili dei muscoli atrofizzati. Ricordava bene come era abbracciarla, ricordava le curve del suo corpo con precisione millimetrica, ma non ne riconosceva nessuna. Sentì però la fatica che le costava mantenersi in piedi, e capì che la prima cosa da fare era metterla in mano ai ninja medici del palazzo.
«E’ lei?» chiese una voce distante.
Con uno sforzo di volontà Gaara si costrinse a spostare lo sguardo sulla ragazza sconosciuta che gli stava davanti, e con fatica anche maggiore si rese conto che si trattava di sua nipote. Strinse la presa attorno alle braccia di Loria.
«Ho un tatuaggio sulla schiena» disse rapidamente. «Loria, cosa rappresenta?»
«Niente» sospirò lei. «Non hai nessun tatuaggio.»
«E’ lei» confermò con un moto di sollievo.
«Bene» Chiharu annuì distrattamente, passando lo sguardo sull’enorme animale che li aveva portati lì. «Vado a riposare.»
«Dov’è l’infermeria?» chiese Akeru, reggendo un Kotaro praticamente privo di sensi.
«Vi accompagno» propose Gaara.
Chiharu aprì la bocca per protestare, ma prima che potesse farlo l’uccello scarlatto gettò un grido acuto e penetrante, che li spinse tutti a tapparsi le orecchie e strappò un gemito al povero Kotaro. La kunoichi si voltò e scambiò uno sguardo rabbioso con l’animale.
«Certo che puoi andare!» sibilò tra i denti.
L’uccello la studiò inclinando la testa da un lato. Con un fremito distese le ali - quasi buttando a terra Akeru - e prima di darsi la spinta gorgheggiò qualcosa dal fondo della gola. Poi, dispiegando una potenza invidiabile, graffiò il tetto in profondità e causò un piccolo ciclone per sollevarsi verso il cielo.
Non appena fu partito le spalle di Chiharu si afflosciarono percettibilmente.
«Io vado a dormire» annunciò con voce roca.
«Dobbiamo andare in infermeria...» tentò di dire Akeru, ma lei si era già diretta verso le scale interne e non sembrava avere intenzione di considerare le sue ultime parole. Il ragazzo si innervosì: negli Anbu ogni volta che completavano una missione si complimentavano l’uno con l’altro; anche i meno socievoli non dimenticavano mai di rivolgere un grazie smozzicato ai compagni, perché in una squadra è importante mantenere rapporti civili. Quella ragazza era un vero scorpione.
«Le manderò un medico in camera» mormorò Gaara, già proiettato verso le cure da fornire a Loria. «Vieni, l’infermeria è al pianterreno. Che è successo all’Uchiha?»
«E’ tornato a Konoha» spiegò Akeru sintetico. Gaara lo fissò con aria interrogativa, ma lui non aggiunse altro: Hitoshi era uno snob spocchioso e irritante, ma restava uno shinobi della Foglia come lui e l’unico che valesse la pena di definire rivale. Non lo avrebbe umiliato di fronte a uno straniero, anche se erano alleati ed era lo zio di Chiharu. Gaara comprese, o forse aveva faccende più immediate a cui dedicarsi, perciò non insisté oltre. Con un cenno fece capire ad Akeru che doveva seguirlo e insieme si diressero verso la porta che conduceva all’interno del palazzo.


Le dita premettero sul muro, quasi volessero perforarlo. Il dorso della mano, livido e sudato, era coperto dai minuscoli sentieri delle vene sotto pelle.
Chiharu serrò i denti e si appoggiò alla parete con l’intero avambraccio, premendovi la fronte. I polmoni bruciavano, le gambe erano pesanti, la nausea le attanagliava lo stomaco, ma la cosa peggiore era la mano maligna che si era serrata attorno al suo cuore e sembrava impedirgli di lavorare come doveva. Era solo una sensazione, ne era più che consapevole: finché il sangue scorreva nelle vene il cuore batteva, era un postulato inaggirabile.
Nonostante questo, nonostante la Lophenaria, nonostante gli allenamenti, però, non poteva fare a meno di odiare sé stessa e la propria scellerataggine di tredicenne. Non passava giorno senza che si desse dell’idiota, e, anche se non l’avrebbe mai ammesso a voce alta, sapeva che le cose non andavano affatto bene.


«Ho provato a rappezzarlo in viaggio, ma il nostro mezzo sussultava troppo e rischiavo di fare un danno!» ripeté Akeru per la terza volta, ormai esasperato.
Il piccolo medico canuto che si affaccendava attorno al letto di Kotaro gli rivolse un cenno sprezzante e borbottò qualcosa che somigliava parecchio a un insulto, mandandolo definitivamente fuori dai gangheri.
«Senta, lo vede questo? Eh?» sbottò il ragazzo sventolando il tatuaggio da Anbu sulla spalla. «Sono un Anbu della squadra medica, non il primo pivellino che passa! Ho visto più morti io in due anni che lei in tutta la sua carriera! Se dico che non si poteva fare niente, non si poteva fare niente!»
«Una costola fratturata per più di otto ore con un paio di porte del chakra aperte e processi di guarigione a briglia sciolta...» smozzicò il vecchio medico scuotendo la testa. «Roba da farti radiare dall’albo, anche se per miracolo non ci sono danni ai polmoni.»
Akeru si voltò e strinse i pugni per non pestarli addosso all’uomo. «Facciamo così: io vado a riposarmi e lei fa finta di non avermi mai incontrato, ok?»
Il medico non si degnò nemmeno di rispondergli.
Con un’esclamazione poco cortese Baka scostò violentemente la tenda che separava il lettino del giovane Lee dal resto dell’infermeria e attraversò la stanza a passo pesante. Non solo era dovuto stare dietro a due pazzi suicidi come Chiharu e Kotaro, ma gli si rimproverava pure di non aver posto un limite alla loro follia! Questo era troppo. I due dementi erano maggiorenni e vaccinati, se volevano drogarsi e spalancare le otto porte del chakra erano liberissimi di farlo. Lui non poteva esserne ritenuto responsabile, era contrario a qualunque concetto di etica medica! E poi ci aveva provato. Ci aveva sempre provato a spiegare a Chiharu che non poteva scherzare con le droghe del nonno, ci aveva provato a tredici anni e anche adesso, eccome se ci aveva provato... Se poi lei non ascoltava non poteva farci niente. Proprio niente.
Rallentò il passo fino a fermarsi nel corridoio.
Certo che non aveva proprio una bella faccia quando se ne era andata, ricordò. Occhiaie fino agli zigomi, labbra viola, mani che tremavano... Mentre rifletteva vide un uomo passargli davanti e lo riconobbe come il medico che era stato mandato da Chiharu.
«Dov’è la ragazza?» gli chiese fermandolo.
«Non l’ho trovata. Nella sua stanza c’era solo la madre, adesso la sta cercando. Io vado a chiamare il Ka...»
«Ci penso io» lo interruppe Akeru. «Dica al Kazekage che so dov’è, e anche a sua madre. Penso a tutto io.»
Prima che il medico potesse protestare lui era già ripartito. Nella sua testa si affacciavano diversi scenari, dal peggiore - Chiharu in coma in fondo a una scala con la testa spaccata e un collasso cardiorespiratorio - a quelli praticamente ridicoli - Chiharu che si era addormentata nella prima stanza aperta.
Raggiunse i gradini che portavano ai piani superiori, e mentre iniziava a salirli estrasse dal marsupio un foglietto bianco, stringendolo tra indice e medio. In un attimo il foglietto si separò in due, e poi in quattro, otto, sedici... Dei frammenti venutisi a creare uno scivolò a terra qualche gradino più avanti, un altro poco oltre. Akeru li seguiva mano a mano che piovevano, docili, e quando il primo foglietto si esaurì ne estrasse un secondo. I coriandoli fruscianti lo portarono fino all’ultimo piano, in un corridoio laterale rispetto a quello che aveva percorso con Gaara poco prima. Il piano sembrava essere deserto: era male illuminato da lampadine di emergenza, e a distanze regolari si aprivano porte senza insegne. L’idea che Chiharu fosse crollata addormentata nella prima camera a disposizione tornò a solleticargli il cervello. Avanzò lungo il corridoio trattenendo gli ultimi frammenti di carta, cercando di tendere l’orecchio in cerca di suoni o fruscii. Non si sentiva nulla. Poi, davanti a una delle prime porte, l’ultimo quadratino di carta andò ad appiccicarsi alla maniglia e lì rimase, senza cadere al suolo.
Akeru sbuffò, alzò il pugno e bussò in tono deciso. Nessuna risposta.
«Se non apri porto qui tua madre» annunciò.
All’interno ci fu il rumore di qualcosa che cade e poi dei passi ovattati, seguiti dal suono di una serratura che scatta. Baka fece un passo indietro, pronto a difendersi se necessario, ma scoprì che non era proprio il caso: ad aprirgli la porta fu una pallida imitazione della Chiharu che conosceva, una ragazzina dalle spalle curve e le labbra asciutte che teneva a fatica gli occhi aperti.
«Se chiami mia madre ti denuncio all’ordine dei ninja medici» piagnucolò con un filo di voce. «Il mio nascondiglio voglio che sia un segreto professionale.»
«Che ci fai qui?» balbettò Akeru, cercando di spiare dentro la stanza buia.
«Dormo. Cosa vuoi?» sospirò Chiharu. «Ti prego, ho solo bisogno di dormire...»
«Non credo proprio. Devo visitarti.»
Le spalle della ragazza si raddrizzarono impercettibilmente. «Tu?» chiese, e il tono della sua voce sembrava quello di qualcuno che ha appena scoperto un verme nel suo piatto.
«Avevano mandato un altro medico, ma non ti ha trovata. Allora hanno avvisato tua madre, e spero che le sia bastato il mio ‘ci penso io’, altrimenti tra poco la sentiremo gridare il tuo nome per tutto il palazzo.»
Chiharu si guardò attorno nervosamente, quindi incassò la testa tra le spalle e fece un passo indietro. «Ti concedo cinque minuti.»
Akeru si infilò nella stanza mentre lei accendeva una luce polverosa. Quelli dovevano essere gli appartamenti per gli ospiti che usavano solo in caso di estrema necessità, e avevano l’aria di essere vecchie suite in disuso. Sicuramente durante il giorno da lì doveva godersi un panorama spettacolare, ma in quel momento gli spessi tendoni scuri erano tirati a coprire le finestre, e sugli oggetti era posato un leggero strato di polvere.
Peccato che non sapesse che quella era anche la stanza in cui Chiharu e Hitoshi avevano dormito la notte prima della missione.
«Fai in fretta» disse Chiharu richiudendo la porta e lasciandosi cadere seduta sul letto. «Sono sfinita.»
«Lo vedo» mormorò Akeru, e non appena l’eco della sua voce si spense, tutto a un tratto si accorse che era solo con lei e stava per giocare al dottore. Cioè. Stava per visitarla. Gli si seccò la bocca di colpo.
Chiharu lo fissò con sguardo interrogativo finché lui non riuscì a schiodare i piedi dal pavimento. Professionalità, ecco cosa serviva. Era un medico. Aveva un’etica. Chiharu era visibilmente bisognosa di cure, e lui avrebbe messo da parte le sue pulsioni e lavorato come si conveniva.
Inspirò a fondo, costringendosi a guardarla: con quegli occhi da animale braccato e l’aspetto di un malato oncologico poteva anche dirsi che non era proprio lei. Ci somigliava e basta.
Muovendosi rigido le si sedette accanto. Chiharu si scostò impercettibilmente. Lui la ignorò e le prese una mano, al che lei si ritrasse di scatto.
«Come te lo sento il polso?»
Chiharu strinse le labbra e allungò il braccio. Akeru posò tre dita poco sotto il pollice e attese, consultando l’orologio per qualche tempo.
«Non mi dire, sarò mica tachicardica?» sbottò ironica Chiharu prima che lui finisse, incapace di trattenersi più a lungo. «Che sorpresa!»
«Non ho mai visto la tua laurea in medicina» borbottò lui mollandole il braccio di colpo.
«Finito?»
«Stai scherzando?»
Chiharu si agitò leggermente. Quale perverso sadismo muoveva quel ragazzo? Perché la torturava così sfacciatamente?
«Devo posarti una mano sul torace.»
Chiharu sussultò scandalizzata. «Non sono sicura che faccia parte della pratica medica» obiettò stringendo le braccia al petto.
«E questo te lo hanno insegnato sempre nella scuola per medici di cui parlavamo prima?» replicò Akeru. «Sullo sterno. Sopra il cuore.» Chiharu non diede segno di volersi muovere. «Oh, andiamo! Sei una stramaledetta cardiopatica, ti avranno visitata così decine di volte!»
Mai medici con una cotta quinquennale per me.
«Posso sempre uscire di qui, tornare da tua madre, e...»
Chiharu abbassò le braccia di scatto. «Sei uno stronzo bastardo, e giuro che te la farò pagare!» ringhiò, la testa incassata tra le spalle nello spasmodico tentativo di non prenderlo a cazzotti. «Te lo giuro!»
Akeru chinò il capo in un ironico cenno di ringraziamento, quindi, cercando di mascherare la tensione, deglutì a vuoto.
Giocare al dottore era un’espressione travisata, si disse. I bambini scrupolosi mostrano in questo gioco solo un puro interesse scientifico per la più nobile delle professioni. Sono poi gli adulti maliziosi che danno al gioco una connotazione negativa. Poteva vederla da questo punto di vista.
Controllando il lieve tremito della mano la sollevò e la posò delicatamente sullo sterno di Chiharu, avvertendo subito il battito forsennato del suo cuore. Come medico, in quel momento si pentiva amaramente della sua sciagurata confessione. Liberò la mente dai pensieri che non c’entravano e si concentrò sul flusso del chakra, facendo scendere un minuscolo filo-sonda giù per lo sterno, nel periostio e fino al pericardio. Sembrava che coronarie e annessi fossero in ordine. Le valvole funzionavano bene, i ventricoli pompavano un po’ stancamente ma con ritmo discreto. Sotto le dita sentiva ancora una lievissima traccia di Lophenaria, che tuttavia era già stata trasferita al fegato, e gli altri organi, nonostante la stanchezza generale, non mostravano particolari criticità, a parte le costole contuse quando aveva rischiato di volare giù per il dirupo. Poi, mentre si stava avvicinando ad indagare i canali del chakra, si scontrò con qualcosa di molto strano: era una specie di flusso anomalo, la circolazione del chakra sembrava alterata; come se due liquidi di densità differente si fossero mescolati ma non lo avessero fatto troppo bene. Stava per approfondire l’analisi, quando Chiharu allontanò la mano dal suo petto.
«Mi sembra più che sufficiente!»
L’ondata di irritazione che attraversò Akeru gli aumentò la temperatura corporea di qualche decimo di grado: anche lui era stanco, anche lui avrebbe preferito dormire piuttosto che litigare con lei, anche lui aveva fatto dieci ore di volo senza mai distrarsi e con una spalla dolorante. Se era lì era per il suo bene, perché lei era una cretina imprudente e lui un medico, e quella cretina imprudente non faceva che ostacolarlo!
«Razza di decerebrata in crisi adolescenziale!» sbottò afferrandola per il polso. «Sto facendo il mio lavoro! Smettila di mettermi i bastoni tra le ruote!»
In quel momento, del tutto senza preavviso, gli tornò alla mente la prima volta che aveva giocato al dottore con una bambina.
Lei aveva cinque anni ed era bionda, con dei graziosi codini che la facevano somigliare a un cocker. Lui aveva solo qualche mese in meno e un fortino magnifico di sabbia e sassolini. Lei gli aveva detto che il suo papà era un ninja medico e lui, per non dire che invece del suo papà non sapeva niente, le aveva chiesto cosa facesse un medico. «Visita le persone», aveva risposto lei, e aveva finto di provargli la febbre per dimostrare la sua affidabilità. «Il mio dottore mi mette una cosa fredda sulla schiena e mi dice di tossire» aveva ribattuto lui, ansioso di non fare brutta figura. «Vuoi giocare al dottore?» aveva chiesto lei. Akeru aveva sentito un fremito corrergli lungo tutto il corpo, un brivido di cui non aveva la benché minima nozione e che lo stupì ed esaltò insieme. Prima che potesse cercare un sasso da usare per auscultare i polmoni della bambina, però, la madre era piombata sulla scena e l’aveva riportata a casa.
Grazie a quell'incontro, di una cosa, anche a distanza di anni, Baka era assolutamente certo: i bambini giocano al dottore proprio per mettere le mani addosso alle bambine.
Chiharu sentì l’aria farsi pesante e sgradevole sotto lo sguardo fisso del suo presunto medico. Questa volta forse non avrebbe avuto la forza di rimetterlo al suo posto, non quando era così esausta e non nella stessa stanza in cui era successo quel che era successo con con Hitoshi. Avrebbe voluto alzarsi di scatto e spedirlo fuori, ma il solo pensiero di fare qualcosa di scatto le portava via le energie. E in fondo, ma molto molto molto in fondo, per un istante un lievissimo brivido le aveva attraversato la spina dorsale. Si chiese cosa avrebbe fatto se lui avesse provato a metterle le mani addosso...
Invece Akeru lasciò andare il suo polso e si alzò in piedi.
«Non credo che morirai entro stanotte» disse evitando di guardarla. «Però domattina fatti fare un esame accurato; non per me o per tua madre, ma perché il Kazekage ti ha affidato una missione importante e non puoi fare cazzate se lui ci mette la firma. E piantala con la Lophenaria, il tuo fegato ci metterà settimane a metabolizzarla come si deve. Buona notte.»
Chiharu lo fissò istupidita mentre lui usciva frettolosamente. Per alcuni lunghi istanti rimase seduta sul bordo del letto, sola, troppo stanca per riflettere sull’accaduto e allo stesso tempo profondamente perplessa. Si era aspettata altro. Non sapeva bene cosa, ma sicuramente qualcosa di diverso. E, rendendosene conto, con gran sconcerto si accorse di provare un barlume di delusione.


Gaara era con Loria in una stanza privata della clinica del palazzo. Un ninja medico l’aveva già visitata a fondo e la aveva attaccata a una flebo, diagnosticandole disidratazione, denutrizione e una serie di malattie minori dovute alla scarsa igiene e alla pessima qualità di vita. Guardandola alla luce fredda dei neon, il Kazekage di Suna si sentì schiacciare di nuovo dal senso di colpa.
«Sei comoda?» chiese per spezzare il silenzio.
«Finalmente sì» sospirò lei a occhi chiusi, accarezzando il lenzuolo. «Non ricordavo neanche più com’è un materasso morbido.»
«Hai sete? Fame?»
Lei sollevò il braccio dentro cui scompariva la flebo, agitandolo con sforzo incredibile.
«Devo farti portare altri cuscini?»
«Va bene così. Voglio solo riposare.»
Gaara lo percepì come un congedo, e non riuscì ad aggiungere altro. Le augurò a mezza bocca un buon riposo, quindi, quasi con la coda tra le gambe, uscì dalla stanza. Fuori lo aspettava il medico, che gli fece un resoconto semplificato delle condizioni della donna: avrebbe avuto bisogno di cure per i prossimi mesi, ma se il danno psicologico non era troppo grave si sarebbe ripresa. Gaara lo ringraziò e ordinò che restasse qualcuno di guardia per l’intera notte, poi si assicurò che anche Kotaro fosse in mano a uno dei medici e domandò di Chiharu. Gli fu detto che Akeru aveva scelto di occuparsene, ma la notizia non lo tranquillizzò particolarmente.
In ogni caso, aveva qualcosa di urgente da fare.
Senza farsi accompagnare da nessuno scese le scale che portavano ai sotterranei, a quell’ora scarsamente illuminate e attraversate da un filo di aria fresca. Scese due rampe, percorse un corridoio su cui si aprivano diverse porte, e infine entrò nell’ultima in fondo.
La stanza in cui si venne a trovare era piccola e male arieggiata. C’era una sedia al centro, e sulla sedia una versione di Loria ben pasciuta, ancora in pigiama e visibilmente furiosa. Aveva le mani legate dietro lo schienale.
«Tu non sai cosa hai fatto!» gridò non appena vide entrare Gaara.
«Toh, allora parla ancora» commentò Kankuro, appoggiato al muro accanto alla porta di ingresso. «L’abbiamo prelevata senza problemi, ma si è rifiutata di aprire bocca fino a questo preciso istante» spiegò.
Gaara si avvicinò alla donna. «Sciogli la trasformazione, ormai è inutile.»
«Perché ti sembra inutile?» ringhiò la finta Loria. «Quando i miei compagni non vedranno arrivare il mio solito messaggio la uccideranno. Pensi di farmi parlare prima che questo accada? Vuoi che mi trasformi perché pensi di non riuscire a torturarmi se ho la sua faccia?»
Gaara la fissò. «Non hai la sua faccia. Lei non ha mai avuto quell’espressione da topo. Ne sono certo, l'ho appena lasciata a riposare.»
Per la donna sulla sedia fu una brutta sorpresa. Il fiato le si mozzò in gola e un velo di paura le coprì gli occhi. «Non è vero...» tentò di protestare, ma il Kazekage la interruppe.
«I miei ragazzi l’hanno riportata poco fa. Naturalmente sei libera di non credermi. Ma quando, fra tre giorni, io sarò ancora qui a cercare di farti parlare e nessuno dei tuoi sarà venuto a cercarti, confido che diventerai più collaborante. Forse dovresti riflettere sul perché, dopo sei anni, finalmente ti abbia affrontata apertamente.»
Un sottile filo di sabbia risalì le gambe della sedia, le dita della donna e il gomito, fino a solleticarle il collo. Gaara incrociò le braccia sul petto senza distogliere lo sguardo.
«Per me non regge neanche un'ora...» borbottò Kankuro.
La sabbia si avvolse attorno al collo della falsa Loria, percorse il mento e andò a coprire la bocca, mentre il respiro della donna accelerava sensibilmente. Tentò di divincolarsi, ma i primi granelli si insinuarono su per il naso e le serrarono le labbra.
Gaara assottigliò lievemente gli occhi. «Quando smetterai di avere le sue sembianze lo prenderò come il segnale che sei pronta a parlare... O almeno a respirare» disse sottovoce.
La sabbia ormai copriva tutta la parte inferiore del viso.


O aveva fatto una cosa molto stupida, o ne aveva fatta una molto etica, si disse Akeru mentre tornava avvilito verso la sua stanza: visitando Chiharu aveva sentito l’impulso fortissimo di saltarle addosso – aveva sempre avuto un debole per le donzelle in difficoltà – ma, inaspettatamente, lo aveva combattuto.
Ancora adesso non sapeva come interpretare la cosa. Che la sua cotta storica stesse finalmente passando? Il braccio gli faceva troppo male per permettergli performances di cui andare fiero? Forse era solo sfinito, oppure... Oppure boh. Non si era mai ritenuto un gran modello di etica.
«Finalmente!» esclamò di colpo una voce.
Akeru alzò lo sguardo, e proprio davanti alla stanza che gli avevano assegnato trovò una bellicosissima Temari in assetto da battaglia.
«E’ un’ora che ti aspetto! Dov’è mia figlia?»
Segreto professionale, balenò nella mente del ragazzo.
«Prova a mentirmi che non rivedi più Konoha» aggiunse lei leggendogli il pensiero.
Akeru non tentò nemmeno di difendersi. «Si sta nascondendo. E’ da qualche parte nel palazzo a dormire. L’ho visitata, non è in pericolo di vita, e le ho fatto giurare di farsi fare un controllo completo domattina.»
«Tu l’hai visitata?»
«Anche lei lo dice come se avesse appena trovato un verme nel piatto... perché?»
«Senti un po’, se non mi dici immediatamente dove...»
Akeru alzò entrambe le mani e la interruppe. «Con tutto il rispetto, signora Nara, per questa notte ho già affrontato la sua famiglia. Se vuole trovare sua figlia io non voglio avere responsabilità, la cerchi da sola. In questo momento voglio soltanto dormire dieci ore e svegliarmi per fare colazione. La prego. La supplico
Temari richiuse la bocca infastidita «Come l’hai visitata? Non le avrai mica messo le mani addosso?»
«Onestamente ci ho pensato, ma alla fine la mia etica professionale ha avuto la meglio e mi sono limitato a farle un esame cardiologico.»
Temari spalancò la bocca. Akeru pure. Aveva risposto senza riflettere.
«Non intendevo...»
Temari lo fermò con un gesto. «Non continuare. Finora sei andato bene con la risposta sull’etica. Ti conviene andare a dormire prima che io cambi idea... Spera che domani mia figlia sia viva e reperibile
«Guardi, domani se non la troviamo la porto alla sua camera, promesso» si arrese Baka. «Ora, per favore, la prego, posso andare a dormire?»
Sbuffando insoddisfatta, Temari si fece da parte e liberò il passaggio.


*


Sin da girino, Scheggia XIII si era rivelato tollerante quanto un gerarca fascista. Se la sua zona di stagno veniva invasa dal minimo granello di plancton non autorizzato, lo spingeva a testate fuori dai confini; se un girino rivale intralciava il suo percorso, lo sbatteva sul fondo; se un ranocchio quasi formato si azzardava a fargli notare che non aveva ancora le zampe, lui quasi staccava le sue a morsi.
All’epoca della sua nomina a nuovo Scheggia qualcuno aveva sollevato obiezioni: è troppo aggressivo, disobbediente, individualista, arrogante, assolutamente inadatto. Più di un rospo si era schierato contro di lui, anche nomi influenti, ma alla fine la maggioranza aveva deciso di fidarsi – e ancora oggi qualcuno si chiedeva se il consiglio non fosse stato corrotto o minacciato. Così era nato l’attuale Scheggia XIII. E, se qualcuno aveva sperato che con il tempo si calmasse, aveva avuto un’amara delusione: incredibile a dirsi, il carattere di Scheggia non aveva fatto che peggiorare. L’orgoglio per la nomina a corriere ufficiale ingigantì la sua autostima; sotto gli occhi sbigottiti della comunità la sua velocità crebbe allo stesso ritmo della sua tracotanza, e in breve tempo divenne una sorta di boss mafioso di cui molti avevano terrore.
Naturalmente gli umani non potevano sapere nulla di tutto questo. Se così fosse stato, sicuramente qualcuno avrebbe notato l’interessante parallelo con Naruto – e poi, se lo avesse espresso a voce alta, sarebbe morto sotto una zampata.
Comunque nessuno lo sapeva e neppure lo immaginava, tanto meno Akeru, che si era inspiegabilmente trovato d’accordo con il rospo e lo riteneva decisamente a modo e dotato di raziocinio. Per questo Hitoshi non poteva nemmeno lontanamente sospettarlo. E non sospettandolo, rischiò seriamente di cadere dalla groppa quando Scheggia si diede alla corsa più folle che la foresta del Fuoco avesse mai visto.
«Senti un po’, mi sono rotto di andare come un girino! Prima arriviamo e prima scendi: tieniti stretto che si vola!»
Una manciata di parole aspre, e poi il balzo traumatizzante.
L’unica cosa che Hitoshi avrebbe ricordato del viaggio sarebbe stata l’emicrania: dopo quell’esperienza dovette riscrivere completamente le sue tabelle, aggiungendo nuovi e straordinari picchi di sofferenza, che se avevano avuto un pregio era stato unicamente quello di eclissare qualsiasi tipo di vertigine avrebbe potuto provare durante quei terribili salti.
Grazie alla momentanea ondata di follia, comunque, ridussero notevolmente la durata del tragitto: nonostante la prima parte a rilento, riuscirono a raggiungere Konoha nello stesso tempo impiegato per il viaggio d’andata. Che Hitoshi, una volta al villaggio, fosse più morto che vivo, sembrava irrilevante.
«Come deve soffrire!» commentò una delle guardie, scrutandone con preoccupazione il colorito terreo. «Spero per lui che non sia nulla di grave... E’ così giovane!»
Fu raccolto dai piantoni alla porta, mentre qualcuno faceva arrivare una piscina d’acqua per il rospo e una ventina di litri di sakè. In tutta fretta fu mandato un messo all’ospedale, alla ricerca di un medico, e Hitoshi si premurò finalmente di svuotare lo stomaco, confortato dalle comprensive pacche delle guardie.
Sakura impiegò meno di cinque minuti per raggiungere le porte di Konoha, seguita da un paio di infermieri fidati, e non appena lo vide avvertì una stretta allo stomaco: all’improvviso le ricordava Sasuke, ma quel Sasuke atono che aveva curato dopo la morte di Itachi; nulla a che vedere con l’orgoglioso Uchiha di sempre. Lo raggiunse rallentando leggermente il passo – correndo lo avrebbe messo in imbarazzo – e mentre l’alba andava a tingere i suoi capelli d’arancio, si inginocchiò accanto a lui, sforzandosi di soffocare la madre a beneficio del medico.
«Come va?» sussurrò, cercando di intrappolare la voce perché gli altri non sentissero. «Come ti senti?»
«Abbattete quel rospo» replicò Hitoshi, con voce roca. «Abbattetelo o lo faccio a pezzi non appena sto meglio.»
Scheggia, il cui udito era molto superiore a quello umano, gli scoccò un’occhiataccia.
Sakura, invece, inarcò le sopracciglia. «Beh, finché fai del sarcasmo non sei in pericolo di vita» sospirò, impercettibilmente sollevata. «Dove senti dolore?»
«Ovunque.»
Sakura annuì e fece un cenno agli infermieri, che si avvicinarono con una lettiga.
«Ce la faccio da solo!» sibilò Hitoshi, furente, ma lei gli scoccò un’occhiataccia e lo ridusse al silenzio.
«Io decido cosa riesci o non riesci a fare» rispose asciutta. «Andiamo.»
«Allievo di quello là» grugnì Scheggia in tono chiaramente udibile.
Lo fecero stendere sul supporto di stoffa sotto gli occhi preoccupati delle guardie – che ancora lo consideravano in fin di vita, anzi già parlavano di lui al passato – e quando lo sollevarono Hitoshi nascose il viso rosso di umiliazione dietro un braccio, digrignando i denti.
Un moribondo dallo stomaco debole, ecco cosa pensavano tutti quegli uomini. E anche sua madre, che era arrivata con quegli occhi pieni di compassione, non era diversa da loro: nessuno avrebbe più avuto fiducia in lui, nessuno avrebbe più collegato il suo nome alla stirpe degli Uchiha; da quel momento sarebbe sempre stato trattato come un invalido, perché lui era tornato indietro, lui e solo lui. Lo sapeva benissimo, con ogni fibra del suo corpo; e lo detestava.

Chiharu Nara, questa me la paghi.







* * *

Akeru nuovo simbolo della cavalleria!
Ahah, lo so.
Ho cambiato anche quella parte.

Buongiorno a tutti,
e bentrovati di nuovo.

Da oggi gli aggiornamenti saranno più piccini,
con meno capitoli,
perché sono vicina alla fine del materiale già pronto
e ho bisogno di un po' più di tempo per scrivere altro.

In compenso gli eventi da qui in poi sono
COMPLETAMENTE NUOVI E INEDITI!

Evviva! Ce l'abbiamo fatta!

Spero di non fare erroracci di coerenza...
Se ne trovate qualcuno, per favore scrivetemelo.
Il bello della pubblicazione online è che si può sempre correggere.

Grazie a chi commenta e a chi legge!
Un abbraccio a tutti.


  
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