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Autore: Utrem    14/08/2015    3 recensioni
1980: Voldemort è all'apice del suo potere. Cosa sarebbe successo se Piton fosse riuscito ad orecchiare una frase in più della profezia annunciata da Sibilla Cooman ad Albus Silente? Dal testo:
'"Chi mai potrei designare come mio eguale?! Io, che domino incontrastato su tutti i Maghi per abilità e per ingegno?! Che cosa posso o dovrei invidiare?! Un potere, un potere... quale potere, se mi sono personalmente occupato di possederli tutti?! Cosa mi sono perso? Cosa?!"
[...]
"L'amore, mio Signore. Penso sia l'amore"
Voldemort sobbalzò[...].
Conosciuta la causa della sua inadeguatezza, tornò a concentrarsi su sé stesso e non badò più a Piton, in lacrime per lo sforzo appena compiuto.
"Amore?! Amore?! Un altro mago... con le mie stesse abilità... ma in grado di amare?!"
[...]
Voldemort si fece guardingo nella sua riflessione, quasi paralizzato.
Ci volle un tempo infinito, gli parve, perché riuscisse a giungere a un'adeguata conclusione.
L'unica cosa che gli mancava era l'amore: ergo, doveva amare l'amore, e siccome questo s'incarnava nel suo nemico, che altri non era che una forma migliorata di sé stesso, avrebbe potuto amare solo e solamente quel bambino che sarebbe nato, al termine del settimo mese.'
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Harry Potter, Tom O. Riddle, Voldemort | Coppie: Harry/Voldemort
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra, Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'L'amore di Voldemort'
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L'amore di Voldemort











Una volta nell'ingresso dell'orfanotrofio, aperta la porta di fronte a quella che dava l'accesso all'edificio e salita una breve rampa di scale, si arrivava in mezzo a un corridoio discretamente cupo ed angusto. Questo era costellato delle porte che conducevano alle stanze dei bambini, numerate, molto vicine l'una all'altra e spesso personalizzate con disegni e targhe di cartone: venivano chiuse alle nove di sera e aperte alle otto del mattino da un'unica chiave, in possesso alla signora Cole.
Teoricamente, la prima metà del corridoio avrebbe dovuto ospitare bambine e ragazze, la seconda  bambini e ragazzi, ma arrivi e partenze erano così frequenti che la regola non riusciva quasi mai ad essere rispettata.
Ogni tanto, tra le porte numerate, ne campeggiava qualcuna non numerata: erano i bagni comuni. Perché fossero proporzionati al numero degli ospiti ce ne sarebbero voluti almeno due o tre in più e così, nonostante la sottile lastra in metallo sulle porte riportasse in effetti la scritta 'maschi' o 'femmine' e data l'impossibilità di chiuderli a chiave data la costante possibilità di imprevisti e i frequenti malanni che colpivano i bambini, la separazione dei generi era quasi inesistente. Ciò rendeva, soprattutto fra i più grandi, molto alto il rischio di 'certi' incidenti, che sarebbe stato prudente evitare ma che era quasi del tutto impossibile gestire.   
L'illuminazione nel corridoio era ancora più carente che nella mensa, tanto che spesso la signora Cole, quando alle nove bussava di porta in porta  per verificare che tutti i bambini fossero a letto, si muniva di una lanterna; d'estate la situazione restava pressoché identica, in quanto il sole aveva la possibilità di penetrarvi coi propri raggi solo tramite il vetro d'una finestra in testa al corridoio stesso.

Procedendo nel verso opposto rispetto alla finestra, a partire dalle scale, si giungeva ad un piccolo spiazzo: a sinistra, una scala a chiocciola portava agli appartamenti di tutti coloro che lavoravano nell'orfanotrofio e all'infermeria, mentre a destra un portone nero e squadrato affacciava sull'agognata "stanza dei giochi".

La "stanza dei giochi" rappresentava la meta principale di tutti gli orfanelli, a prescindere dall'età o dalle preferenze: tutte le mattine a mensa si faceva a gara per finire la colazione ed essere il primo a partire per la camera. Così, dopo una furiosa corsa a rotta di collo (da cui derivavano le dolorose cadute sulle mattonelle dell'ingresso cui faceva riferimento la signora Cole parlando con le tre benefattrici), e tanti spintoni che spesso, più della velocità, decretavano il vincitore, tagliavano il traguardo, esausti e contusi, ma trionfanti. 
Questo perché, appoggiato su una parete della stanza, c'era un armadio, massiccio e di robusto legno di quercia, contenente a sua volte tantissime cassettine, al cui interno c'erano TUTTI gli averi di ciascun bimbo: quindi non solo giocattoli, ma anche pettini, nastri, forcine, guanti, cappellini, quadernetti, libri di scuola, libri di fiabe, romanzi, penne d'oca, barattolini d'inchiostro, gommine, fazzoletti, soprammobili vari, foto e persino denaro, (perlopiù scarne) collezioni di francobolli, flauti e ocarine.
Così come per le porte delle stanze, c'era una sola chiave in grado d'aprire tutte le cassette ed era in mano alla signora Cole: uno ad uno, i bambini si presentavano e lei cercava ed apriva le loro cassette. A quel punto, questi dovevano prendere tutto ciò di cui avevano bisogno per quella giornata, cosicché la signora Cole potesse chiudere nuovamente a chiave la loro cassetta e riporla. Tuttavia, le regole non erano rigide al Wool's Orphanage e chiunque, con un po' di garbo e falsando un faccino estremamente dispiaciuto, avrebbe potuto chiedere alla signora Cole di farsi aprire la cassetta a ogni ora del giorno senza essere rimproverato. Al contrario, Nancy, che era stata l'ideatrice di questo sistema ancora prima che Margaret venisse a lavorare al Wool's Orphanage, quand'era ancora governante,  era molto più severa a riguardo e, se fosse dipeso da lei, lo avrebbe quasi sempre impedito, in quanto riteneva fosse uno dei pochi modi efficaci a loro disposizione per responsabilizzare con successo i bambini.  La signora Cole però, come spesso accadeva, non le aveva dato ascolto; approvava e adottava invece la sua intransigenza riguardo agli averi preziosi (spesso eredità dei parenti) che non faceva prelevare quasi mai, se non in caso di adozione, di abbandono dell'orfanotrofio da parte di un ragazzo che avesse raggiunto la maggiore età o di estremo ed irrinunciabile bisogno (in quest'ultimo caso, il prelievo e l'uso erano amministrati o severamente monitorati  da Nancy o dalla signora Cole). 

Per far sì che nessuno rubasse le cose degli altri, a ogni cassetta corrispondeva anche un elenco, che ne documentava tutto il contenuto e che andava aggiornato ogniqualvolta veniva aggiunto qualcosa. Ogni sera, prima d'andare a letto, s'effettuava il controllo: tutti gli oggetti presenti nell'elenco dovevano essere rimessi nella cassetta. Se mancava qualcosa, veniva setacciato l'intero orfanotrofio pur di ritrovarla: in caso di ritrovamento dopo una perdita accidentale ovviamente non accadeva nulla, ma se era individuato un responsabile, questo era costretto a restituire l'oggetto e non poteva accedere alla sua cassetta per tre giorni. Se invece l'oggetto non saltava più fuori e venivano sospettati dei responsabili, ma nessuno ammetteva d'essere il colpevole, oppure era stato irreparabilmente danneggiato da qualcuno, veniva vietato a TUTTI l'accesso alle cassette per UNA SETTIMANA. Quest'ultimo caso, inutile dirlo, era l'incubo degli orfanelli: non poter giocare per una settimana! Manco a dirlo, i furti e i danneggiamenti dei giocattoli erano molto limitati e, in ogni caso, tutti preferivano arrendersi la sera, restituire il maltolto e rinunciare per tre giorni ai balocchi, magari condividendo quelli di un altro, piuttosto che tenerselo e nel frattempo non potersi divertire con nient'altro per una settimana intera.    
Queste regolamentazioni erano opera di Nancy e la signora Cole, pur lamentandosene in continuazione, dato che destavano sempre molto disordine nell'orfanotrofio, non poteva dir nulla di fronte alla loro efficacia e, seppure a malincuore, le aveva riprese pari pari. 

Ciò nondimeno, nonostante nei giorni anteriori al Natale in cui le tre benefattrici vennero a far visita al Wool's Orphanage nessuno avesse rubato o rotto nulla, il trambusto innestatosi nell'orfanotrofio dopo che queste ebbero battuto la ritirata  — l'invito di Nancy non fu nemmeno preso in considerazione e le due signore chiamarono un taxi per portar via Kelly Kleeman, ancora priva di sensi — non aveva precedenti. 

Infatti la signora Cole, volendo presentare l'edificio nel miglior modo possibile e dunque prevenire lo scompiglio in tutte le stanze, aveva dilazionato il principiare della routine giornaliera dei bambini: ne derivava che il tempo solitamente impiegato a far colazione e giocare, gli orfanelli lo avevano impiegato a farsi pettinare, vestire e rassettare da un'affannatissima Martha e da, una manco a dirlo, contrariata Nancy. Così, nell'ordine affamati, oppressi dagli scomodissimi abiti nuovi e arrabbiati per non aver ricevuto i regali promessi, i bambini non si seppero più contenere: cominciarono a litigare e, quindi, ad azzuffarsi.

Alcuni sputavano addosso agli altri, strappando loro i vestiti di dosso e squarciandoli con le unghie; altri si toglievano le scarpe o raccattavano quelle già per terra e se le lanciavano in faccia; altri ancora si graffiavano e si mordevano finché i denti da latte non si staccavano; infine, alcuni, tra cui Billy Stubbs, che era stato buono fino a quando aveva avuto gli occhi addosso per aver picchiato Harry, ma che aveva approfittato della prima distrazione di Nancy, di Martha e della signora Cole, fecero cadere deliberatamente l'albero di Natale, ne raccolsero la terra e la ficcarono in bocca a Dennis Bishop, che rischiò di soffocare; al che, il piccolo Eric Whalley, che teneva moltissimo alla pallina che aveva decorato, sgusciò in mezzo ai bulli per raccattarla e fece per andare a metterla al sicuro, quando fu travolto da Harry Harper, che stava anche lui correndo, ma per mettere al riparo sé stesso da Tom Riddle, che continuava a tenere le braccia conserte e a puntarlo con quel suo sguardo cattivo. 

Harry, che era esile come un fuscello e solo una spanna più alto del bimbo, sapeva bene com'era essere atterrato da qualcuno e stava per scusarsi con lui, quando fu interrotto da un urlo rivolto a Eric:

"FERMALO!"

Era Tom, e li stava raggiungendo: il parapiglia in corso gli aveva consentito di anticipare la sua vendetta nei confronti di Harry, ma, per fortuna, gli stava anche  impedendo d'essere veloce. 

Spaesato e senza fiato, Eric guardava ora Harry, ora la figura di Tom in lontananza con i suoi grandi occhi turchesi scuotendo la testa, senza sapere cosa fare; al che Harry, istintivamente, s'allungò per raccogliere la sua pallina di Natale rotolata via e gliela restituì con un mezzo sorriso.

"Ho detto FERMALO, Eric!"

Il bambino, ancora più confuso, si voltò nuovamente, il viso colmo di terrore e i polsi che tremavano. Dal canto suo, Harry cercava Nancy con lo sguardo, senza però riuscire a scorgerla e non sapeva che fare, quando i suoi occhi si posarono nuovamente sulla sua pallina. Allora gli chiese, concitato:

"S-scusa, la posso prendere un attimo?"

Eric, che ormai si sentiva spacciato, fece subito di sì con la testa: Harry la prese con rapidità inaudita e la lanciò a un passo di distanza da Tom, che, confuso dallo scompiglio circostante, non notò il lancio e ci cascò sopra col piede, sbattendo pesantemente la mascella sulle piastrelle del cortile.

Impietrito dal suo stesso gesto, Harry indugiava fermo, ansimando; tuttavia, gli bastò vedere Tom muovere due dita della mano per scappare via a gambe levate e prendere la porta per la mensa abbastanza velocemente da non concedergli il tempo di sbattergliela in faccia. Anche Eric, superata l'incertezza, decise di fuggire e seguì Harry, che con la sua prontezza di riflessi s'era conquistato la sua fiducia.

Attraversarono la mensa in fretta e furia: Harry saltò su un tavolo e ci corse sopra, sbattendo grevemente gli scarponcini sul legno, mentre Eric si dava la spinta con gli schienali delle sedie, fino a slanciarsi verso la porta dell'ingresso.
Corsero a zig zag fra le poltrone, sbattuta la porta in alto fecero gli scalini a quattro a quattro, appendendosi come scimmie; sbucati nel corridoio, Harry con balzi da gigante giunse sino alla "stanza dei giochi" e si nascose nel grosso armadio di legno di quercia, cercando di non far cigolare le cassettine, mentre Eric, che, disorientato dall'aver udito qualcuno salir le scale era rimasto indietro, non fece in tempo: infatti, stava per aprire l'anta dell'armadio che la porta della "stanza dei giochi" cozzò contro la parete, con una tale violenza che per poco non si ruppe parte dell'intonaco del soffitto.

Tom entrò nella stanza, con gli occhi sgranati e le braccia conserte, esattamente come prima con la signora Kleeman. Harry lo spiava da una fessura, mentre il piccolo Eric, che, atterrito, si contorceva come una banderuola in preda a una bufera, non trovò di meglio che dire, col suo forte accento irlandese:

"Non l'ho lanciata io! È stato Harry!"

Harry ebbe un sussulto e fu sul punto di far precipitare la cassettina su cui sedeva: per fortuna riuscì a bloccarla tempestivamente con la mano e rimettersi composto.

"Lo so che è stato Harry. Se mi dici dov'è, non ti faccio niente" promise Tom con estrema serietà.

"S'è nascosto lì, dentro l'armadio" rispose Eric, senza un attimo di esitazione.

Harry si lasciò sfuggire un sospiro. Era finita.
Sentiva il frastuono di campanelle diventare sempre più forte, la faccia riscaldarsi come se avesse avuto la febbre, il ronzio d'api penetrargli le orecchie fino a farle vibrare... quando le ante s'aprirono, la flebile luce della stanza lo colpì di nuovo e vide Tom fissarlo, furioso, gli occhi quasi fuori dalle orbite.

Gli mancava il respiro dalla paura.

"Non ti muovere!" gli intimò ad un tratto, allungando un braccio verso di lui. 

La mano di Tom non l'aveva raggiunto, ma Harry si sentì  come colpito da un fortissimo pugno in pieno viso: schiacciò gli occhi e corrugò la fronte, disperato, cercando di scacciare quel dolore anche se gli parve d'aver perso tutti i denti, quando sentì che le cassette gli si stavano gettando volontariamente contro, schiacciandogli la testa e scaraventandosi sul suo addome con gli spigoli appuntiti. Eric, rannicchiato in un angolo, piangeva senza sosta.

Ad un tratto, però, mentre stava respingendo una cassetta, s'accorse che questa si stava allontanando dalla sua faccia senza che la stesse toccando: il tempo di riaprire gli occhi e la vide fiondarsi contro la pancia di Tom come se gliel'avesse lanciata, appendendolo al muro e tramortendolo. 

Ronzio, calore e frastuono di campanelle: tutto finì in un attimo.

Eric Whalley non seppe più trattenersi: cacciò un urlo acutissimo mentre gattonava all'indietro, facendo il segno della croce, tentando inutilmente di rialzarsi. 

Incredulo e bianco come un cencio lui stesso, Harry saltò fuori dall'armadio e fissò lo sguardo sulla cassetta e Tom svenuto, poi sulle sue mani, poi su Eric, che stava pregando in un latino stentato, le mani giunte e gli occhi chiari ingigantiti rivolti verso il cielo:

"Ave, Maria, grátia plena, Dóminus tecum... Benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui, Iesus..."

Non appena vide Harry avvicinarsi, il piccolo Eric indietreggiò di nuovo fino picchiare la testa contro la parete, riproducendo di nuovo il segno della croce con le sottili dita.

"VADE RETRO, SATANA! VADE RETRO! SIGNORA COLE! NANCY! MARTHA! AIUTATEMI! VADE RETRO, SATANAAA! Dio, ti prego, salvami... la mamma prima di morire ti ha chiesto di proteggermi... dal Diavolo... VADE RETRO! VADE RETRO!"

Quelle parole s'incisero in profondità nel cuore di Harry Harper.

Non c'era altra spiegazione... era il Diavolo... 

Singhiozzando, Eric riuscì finalmente a rimettersi in piedi, disse un'ultima volta:
"VADE RETRO, SATANA!" e poi scappò via come il vento.

"Allora, anche tu..."

Harry si girò.

Tom s'era rimesso in piedi. Non aveva più le braccia conserte e sembrava triste.

"Io pensavo d'essere l'unico."

Harry non sapeva cosa dire. Sospirò, lasciando che gli si riempisse il naso e che la prima lacrima toccasse terra.

"Non piangere. Non ci puoi fare niente" spiegò Tom, venendogli di fronte. "Davvero. Io ci ho provato, se no non te lo direi. Però non è una colpa. Sono così da quando sono nato. Probabilmente anche tu."

"Io non lo sapevo... l'ho saputo adesso" dichiarò Harry, sforzandosi di smettere di piangere. 

"Ti eviteranno tutti, d'ora in poi" spiegò Tom "A me è successo così. Non ti parlerà nessuno, non ti verrà a cercare nessuno, perché loro non sono come te e invece vorrebbero esserlo."

"Io non voglio essere Satana!" pianse Harry.

"E invece lo sei" lo rimbeccò Tom, saccente "Secondo me è meglio così. Puoi fare tante cose che gli altri non riescono a fare e avere tante cose che gli altri non hanno."

"Non mi interessa. Io voglio essere come gli altri e fare quello che fanno gli altri"

"Allora sei proprio stupido! Ecco perché preferisci avere dei libri di scuola piuttosto che essere adottato. Se sei adottato da delle signore ricche, non solo ti danno i libri di scuola, ma anche moltissime altre cose. Mi sa che non hai ancora capito bene cosa vuol dire essere Satana, altrimenti non ti comporteresti così"

"Come mi devo compottare?" chiese allora Harry, che aveva capito metà di quello che aveva detto e non sapeva proprio cosa volesse dire 'comportarsi'. 

"Non è difficile: devi fare quello che fa Satana. Io faccio così"

"Ma io non voglio... Satana è brutto e cattivo, e tutti odiano Satana!" 

"È vero" confermò Tom, facendo sì con la testa "Io sono brutto e cattivo e tutti mi odiano. È sempre stato così e lo sarà anche per te. T'ho detto di non piangere! Non devi essere triste!"

"E perché?"

"Perché Satana non è triste d'essere Satana. Anzi, è molto contento! Io sono molto contento e anche tu dovresti esserlo!"

"Non è vero. Tu non ridi mai. Non sei mai contento" replicò Harry, convinto.

"Anche se non rido sono contento lo stesso. Sono contento quando agli altri succedono cose brutte. Sono contento quando io faccio cose brutte agli altri. Tu non eri contento, prima, quando mi hai fatto cadere a terra con la pallina? E adesso, quando mi hai lanciato contro la cassetta?"

"Un pochino... un pochino sì" ammise Harry. Aveva tante cose da imparare, pensò. Tom era molto intelligente e non sapeva se sarebbe riuscito a diventare come lui.

"Vedi?! Sei sulla strada giusta per comportarti da Satana! Te l'ho detto che non è difficile. Basta essere contenti quando succedono cose brutte." 

"Ma tu non sei contento" insisté Harry "T'ho visto prima, quando Eric è scappato via dicendo che siamo Satana. È una cosa bruttissima, eppure tu eri triste"

"Non bisogna essere contenti quando succedono a te le cose brutte. Io ero triste quando mi hai fatto inciampare nella pallina o quando mi hai lanciato contro la cassetta: tu invece eri contento. È giusto così."

"Ma Tom, io non ci capisco proprio niente! Me lo puoi insegnare tu, come si fa a essere Satana? Sei tanto bravo, mentre io invece non riesco neppure ad essere contento!" lo supplicò Harry, rimpicciolendosi di fronte al bambino più alto.

"Si vede che non hai capito proprio niente!" lo rimproverò Tom, irato "Perché dovrei insegnarti come si fa essere Satana? Tu non sai com'è essere Satana, e infatti sei triste: per questo, io sono contento!"

"Non mi sembri contento" ripeté Harry, sempre più persuaso d'aver ragione.

Poi, dopo un attimo di riflessione, se ne uscì fuori così: "E poi anche tu per certe cose non sai com'è essere Satana. Prima Eric ha detto Satana anche a me, e tu hai detto che eri triste. Io lo so perché eri triste: perché io sono Satana come te e quindi tu dovevi essere triste. Anche prima, io ero contento quando ti ho fatto cadere con la pallina e ti ho lanciato contro la cassetta perché non so compottarmi: avrei dovuto essere triste! Questo lo hai detto tu!"

Allora anche Tom si mise a riflettere. Gli sembrava tanto strano quello che stava dicendo, eppure... lui davvero s'era sentito triste in quel momento, quindi doveva essere vero. Adesso non capiva neppure bene perché stesse sottovalutando Harry, dato che alla fine era esattamente come lui... era tutto molto più strano di quel che avesse pensato! 

"Hai ragione tu" concluse dunque, facendo sì con la testa di ricci adesso tutti in disordine, un po' stranito "Io non sapevo che ci fossero altri come me..."

"Visto?!" rincarò Harry, con una sicurezza che non aveva mai dimostrato prima a nessuno "Quindi, mi devi insegnare, perché io sono Satana come te e tu non vuoi che mi accadano cose brutte!"

"È vero, è la stessa cosa che ho detto io" annuì di nuovo Tom "Va bene, ti insegnerò... adesso però dobbiamo andarcene di qui: siamo rimasti troppo a lungo e l'irlandese avrà già fatto la spia"

"Sì, andiamo!" concordò Harry, a cui s'erano asciugate tutte le lacrime. 

Così i due abbandonarono la "stanza dei giochi", sperando di non imbattersi nel percorso con la signora Cole...



INFO: Ho pubblicato una storia, chiamata "L'erede di Merlino": si tratta di uno spin-off opzionale che può essere letto indipendentemente da "L'amore di Voldemort". Leggerlo, tuttavia, aiuta la comprensione degli eventi. Il link: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3232390&i=1
   
 
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