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Autore: LittleWillow_    22/08/2015    4 recensioni
[INCOMPIUTA!]
Prendiamo Dhani, Sean e Julian.
Facciamo in modo che siano sullo stesso aereo, ma che qualcosa vada storto e finiscano negli anni '60.
Cosa potrebbe succedere?
"("Va tutto bene, sarà un bel viaggio" pensava ancora una volta Dhani mentre i suoi polmoni si riempivano dell’aria di una Liverpool anni ’60. Nascondeva il volto dietro un ciuffo dei suoi capelli scuri ed era quasi una supplica silenziosa, una preghiera, una speranza. "Va tutto bene, sarà un bel viaggio" si ripeteva ancora. Andrà tutto bene. Fa' che vada tutto bene.)"
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: George Harrison, John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Capitolo 2
My father, he done told me
 To never, ever hurt no one
 But now I'm sick and mad,
and I been caught red-handed
 And I'm still my father's son”
[Fistful of Mercy, My father’s son]
Dhani, con i suoi capelli corvini e i grandi occhi color cioccolato, non era a conoscenza di tante cose. Non conosceva nemmeno la metà del reticolo di strade che costituiva Liverpool, non sapeva come si giocasse al tiro dell’arco, tantomeno come si suonasse la batteria, né aveva mai  capito come si facesse da bambini a saltare la  corda senza cadere – aveva sempre preferito lo skateboard, finendo però col cadere anche con quello- .
C’erano due o tre cose però che gli avevano insegnato e che sapeva da quando il primo dentino da latte aveva fatto capolino nella sua bocca quando era piccolo. Fra quelle cose ve n’erano due in particolare che gli tornarono alla mente in quel momento. “L’importante è essere qui adesso. Dal passato non torna nulla, Dhani” , usava ripetergli suo padre mentre una ruga d’espressione gli increspava la fronte e qualche capello bianco cominciava a fare intrusione nel suo caschetto nero.
Dal passato non torna nulla, appunto. Allora come diavolo era possibile essere a Liverpool il primo settembre 1968?
Guardò l’aria perplessa di Julian e si trovò a pensare che forse lui sapeva qualcosa, che doveva sapere qualcosa, perché era l’unico che era già in giro in quell’anno  e -
“Non è possibile” prese parola Sean, battendo Dhani sul tempo, mentre un luccichio strano gli illuminava gli occhi. “Come è possibile, Jules?”
“Non ne ho idea” rispose il fratello.
“1968” penso fra sé e sé Julian. Aveva ragione Dhani, quell’anno lo ricordava bene perché era stato probabilmente uno dei più brutti della sua esistenza. Aveva cinque anni ed era stata quella la prima volta che aveva perso suo padre, nonostante già in precedenza non si fosse mai sforzato più di tanto per meritarsi di essere definito così.
Ricordava le lacrime nascoste che cercava di imporsi di non sprecare, le litigate sempre più frequenti di suo padre con sua madre, le porte sbattute e quello sguardo di John, sempre vacuo e indecifrabile, quando si posava su di lui.
E poi ricordava quella volta in cui aveva incontrato quella signora dall’aspetto orientale  e aveva deciso di non aver più bisogno della sua famiglia, ma di potersene costruirne una nuova dall’altra parte dell’oceano, come se la distanza psicologica che vi era sempre stata fra lui, suo figlio e la madre di suo figlio- quella donna a cui un tempo con gli occhi innamorati aveva giurato amore eterno – non bastasse e ci fosse bisogno di girare ulteriormente il coltello nella piaga.
No, il 1968 non era qualcosa che Julian avrebbe voluto rivivere. Anzi, non vedeva l’ora di andarsene.
“E’ pazzesco” commentò Dhani, mentre cercava di dare una spiegazione logica a ciò che era accaduto, senza trovarne.
“Dobbiamo trovare un modo per andare a casa. Al più presto” affermò flebilmente il maggiore dei Lennon.
“Andare a casa?” scattò Sean, fronteggiando il fratello e prendendo vita improvvisamente. “Cosa diavolo stai dicendo, Jules? 1968, hai capito? Sai cosa significa?“
C’erano paura e un’agitazione nuova in quegli occhi scuri così simili ad un altro paio di occhi scuri che Julian aveva odiato per il modo in cui si erano intromessi nella vita di suo padre e nella sua.
Speranza, quella speranza che è un’arma doppio taglio, che ti uccide e contemporaneamente ti mantiene in vita. Speranza, ecco cosa c’era negli occhi di Sean.
“Che i nostri padri sono ancora vivi” affermò pacatamente Dhani, ostentando una calma del tutto innaturale, mentre i due fratelli si giravano verso di lui.
C’era stato un tempo – e Julian lo sapeva  – in cui Sean era stato un bambino e si era divertito ad immaginare  che la morte fosse solo un brutto sogno e  che la sua famiglia era felice, che non fosse costretto a tracciare nell’aria il contorno del volto di suo padre per poi piangere disperatamente perché quelle immagini sembravano sempre più lontane e confuse.
Ma quello era solo un sogno di un bambino di cinque anni che aveva dovuto accorgersi troppo presto di che razza di posto orribile fosse il mondo, e poi vi era la realtà dove la morte non era un brutto sogno e forse era la vita ad esserlo.
“Lo dici così? Come se non ti importasse niente oltre a ripartire in quello stupido aereo per andare a quel fottuto concerto?” attaccò Sean senza mezzi termini, e Julian si frappose fra loro. Era sicuro dell’indole tranquilla di Dhani, un po’ meno di quella di suo fratello.
L’unica risposta che arrivò da Dhani fu il silenzio, perché oh dannazione, Sean non poteva capire che maledetta  arma a doppio taglio potesse essere per lui rivedere suo padre. La cosa che temeva di più e che voleva di più allo stesso tempo. Socchiuse gli occhi, quegli occhi con cui in quel momento gli sembrava di vedere il volto fiero di George, immaginandolo intento a dargli una pacca sulla spalla e a trovare subito un argomento sul quale discutere. Gli parve quasi di sentire l’eco di una risata che forse era quella di un George venticinquenne che lui non aveva mai conosciuto e si girò cercando di capire da dove provenisse, ignaro del fatto che esistesse solo nella sua mente.
“Sento l’assenza di mio padre ogni giorno, Sean. Ma dobbiamo andare a Los Angeles e – “
Non poté finire la frase, perché Sean lo interruppe prontamente.
“E fare finta che questo non sia mai successo? Ti prego, so che non sei così stupido, Dhani.”
“Adesso smettila, Sean” lo riprese Julian, ma sapeva che qualsiasi cosa il suo fratellino si fosse messo in testa non avrebbe cambiato idea e lo capiva anche, proprio come capiva il piccolo Harrison. Dhani era così spaventato dall’idea di poter soffrire di nuovo, di poter perdere George di nuovo, mentre Sean… Sean - proprio come lui - semplicemente non aveva nulla da perdere.
“Non te la renderò più semplice, Harrison.” continuò Sean, prendendo la sua valigia e la custodia della chitarra. “Aspetto questo momento da trentacinque anni, non rinuncerò ad esso né per te né per nessun altro”
Così dicendo fece dietrofront, lasciando Dhani e Julian sol, in uno stato di trance apparente che si interruppe solo quando l’uomo divenne un puntino all’orizzonte.
Che fare, dunque? Non potevano certo ripartire senza Sean. Anche se a Dhani  fosse lontanamente passato per la testa,  Julian non lo avrebbe mai fatto. Doveva violare qualche strana regola del “Codice dei Fratelli”, in fondo. E poi come diavolo sarebbero potuti tornare indietro?
Dhani non aveva controllato, ma era piuttosto sicuro che nessuna biglietteria vendesse biglietti aerei di sola andata per gli anni 2000.
“Perché non l’hai fermato?” chiese all’unico rimasto fra i due Lennon che, in risposta,  gli lanciò un’occhiata carica di pacata consapevolezza e di tenerezza, per poi affermare semplicemente:
“Perché non lo fermi uno come Sean”
Zia Mimi l’aveva sempre detto, in fondo. Nonostante l’impressionante somiglianza fisica fra Julian e John, era Sean con  i suoi modi, le sue movenze ed il suo senso dell’humor a ricordarlo di più.
 Vi era per lui una sorta di pacata rassegnazione nel constatare che se anche avesse provato a fermare Sean avrebbe fallito, proprio come tanti anni prima  le sue lacrime non erano riuscite a fermare suo padre quel giorno che aveva deciso di tagliare lui e sua madre fuori dalla sua vita.
**
La prima voce che l’aveva raggiunto quel giorno raccontava la storia di un uomo e di come il suo sangue avesse macchiato il marciapiede di fronte casa sua – e di come questo si aggrappasse alle mattonelle, nello stesso modo in lui non era riuscito ad aggrapparsi alla vita-.
Mentre camminava per le strade di una  Liverpool che appariva più bizzarra e lontana che mai, Sean non si chiese mai se quello che stava facendo – se rincorrere lo spettro di suo padre in un’epoca in cui il volto di suo figlio sarebbe stato ancora uno fra i tanti – fosse la cosa giusta. Vedeva solo la strada stagliarsi di fronte a lui, il cielo ironicamente limpido per essere a Liverpool, e non aveva più tempo per pensare a quel volto che riempiva di sangue i suoi incubi.
Quando si trovò davanti l’insegna del Cavern, però dovette cominciare  a guardare in faccia la realtà. I Beatles non suonavano lì da anni ormai e chissà in quale parte del mondo si trovavano in quell’esatto momento. Chissà quando sarebbero tornati. Si lasciò andare su una panchina  poco distante, blaterando un “Maledizione” fra i denti. Forse Dhani aveva ragione. Forse si stava illudendo. Forse vi era davvero qualche  divinità nei cieli lo stava punendo per non avere mai creduto nella sua esistenza. Forse –
“Cerchi qualcuno?” chiese una voce, appena dietro di lui.
Esitò prima di girarsi, come scosso da un fremito. Quel timbro e quell’accento di Liverpool inconfondibile. Non si trattava di suo padre, perché una parte di Sean sapeva che avrebbe sempre riconosciuto l’eco del ricordo di quella voce, ormai così lontana del tempo.
“George?” azzardò cautamente.
George si maledisse mentalmente in quel momento. Di lì a poco lo sconosciuto avrebbe cominciato ad urlare in preda ad una crisi isterica  ed addio alla passeggiata tranquilla che aveva programmato di fare, come se fosse mai riuscito a farne una negli ultimi anni. Della sua vita di prima era quella la cosa che più gli mancava. Sembrava essere una specie di applicazione della legge del contrappasso dantesco, come se il prezzo per l’essere amati fosse la totale rinuncia ad ogni attimo della propria vita privata, ad ogni azione che fino a poco tempo prima aveva dato per scontata.
“Devi…devi avermi scambiato per qualcun altro” balbettò, affrettandosi a dileguarsi.
Peccato che Julian avesse ragione su una cosa: Non si ferma uno come Sean, ma forse più genericamente, non si ferma un uomo che ha davanti l’opportunità di realizzare un qualcosa a cui ambiva da una vita. Si parò davanti a George, sfruttando il fatto di essere veloce a livello mentale e sperando in un colpo di fortuna.
“Mio cugino. Sto cercando mio cugino”
Era la prima cosa che gli era venuta in mente e Sean era terrorizzato dall’idea di cadere in fallo in qualche punto. Sperò con tutto il cuore di non doversi rimangiare quella frase, che tuttavia non sembrava aver colpito per nulla  George che stava tirando dritto sulla sua strada.
“Buona fortuna, allora” ribatté, sempre rimanendo sul chi va là e chiedendosi perché non potesse uscire di casa senza incontrare il matto di turno.
“Mio cugino John Lennon. Forse tu puoi aiutarmi”
Non era la prima volta che qualcuno se ne usciva con un’ assurdità del genere davanti a George, che in genere ne rideva. Ma non quella volta.
 C’era qualcosa, qualcosa di stranamente intimo nel modo in cui quell’uomo pronunciava il nome di una delle personalità più influenti sulla faccia della terra. Come se lasciandolo scivolare fra le labbra e i denti sancisse anche il suo diritto su ogni frammento di quell’uomo, su tutto il bene e il male  che, anni prima, George aveva intravisto dietro quella corazza di troppo ostentata indifferenza.
 “Un Lennon dall’accento americano” ironizzò allora il beatle, mantenendosi scettico e diffidente.
Sean cercò di sostenere lo sguardo di George, che non era certo uno stupido. Non poteva perdere quella possibilità, doveva suonare più convinto possibile.
“La sorella di suo padre, E*…” annaspò un attimo, alla ricerca di quel nome di una zia che aveva visto poco e niente in un periodo ormai lontano. Quell’attimo bastò a fare alzare un sopracciglio a George che continuava a guardarsi intorno, terrorizzato dall’idea che qualcuno potesse riconoscerlo. “ Mia madre è emigrata in America. Io sono nato lì.”
George esitò, indeciso sul da farsi. Magari a John sarebbe piaciuto conoscere questo cugino. O magari no. Magari avrebbe mandato al diavolo quell’uomo e pure lui stesso per averglielo fatto incontrare. Non voleva certo creare ulteriori tensioni. Come se fra le manie di protagonismo  del “duo compositivo”, Paul che aveva deciso di autoproclamarsi leader, Yoko che era una presenza costante e pressante, ci fosse giusto bisogno del cugino americano a complicare ulteriormente le cose.
“E’ qualcosa che non mi riguarda e di cui devi  occuparti con John, non con me” rispose infine, facendo ciò che gli imponeva la sua indole riservata e riprendendo per la sua strada.
Peccato che non ci fosse nulla di più pericoloso di un uomo determinato, e Sean in quel momento era l’uomo più determinato del mondo. Decise di mettere in atto il piano B – un piano improvvisato e che  non avrebbe mai voluto attuare -. Sorpassò nuovamente George, questa volta con più decisione.
“Adesso mi porti da John” affermò, senza ammettere repliche.
“Oppure?” sfidò quello che – per paradosso- era il più giovane dei due in quel momento.
George si stava innervosendo. Poteva sentire addosso gli sguardi dei passanti e sapeva che non mancava molto al momento in cui qualcuno l’avrebbe riconosciuto. E - suo malgrado – questo lo sapeva anche Sean.
“Oppure mi metto ad urlare di star conversando con uno dei Beatles”
Conosceva l’amore di George per i suoi fan, ma sapeva anche del modo in cui era terrorizzato dalle folle e di quanto la fama potesse farlo soffrire talvolta, e quella era la sua ultima ed unica ultima possibilità. Avrebbe rivisto suo padre, costasse quel che costasse.
“Sai” gli disse George, lanciando un sospiro di sdegno. “Ora sono sicuro che tu sia un Lennon”
Questa affermazione dovette aver lasciato interdetto Sean, perché quando si svegliò da quegli istanti di torpore, George lo stava osservando con un cipiglio ironico. Fra tutti  gli schizzati che gli capitavano fra le mani, doveva beccare anche il presunto cugino di John?
“Perché?” inquisì lui, sospettoso.
“Perché sei proprio un bastardo” rispose, facendo cenno di seguirlo con il capo.
Sean aprì la bocca per rispondere, ma non emise alcun suono ed improvvisamente si sentì incapace di rispondere con una carica di sarcasmo pari a quella di George.
Ma in fondo non ve ne n’era bisogno: era fatta.
 
 
**
Trovare un piccolo albergo dove fermarsi per quel soggiorno a scadenza indeterminata negli anni ’60 non era stato difficile per Dhani e Julian. Nella reception dell’albergo, una sala non troppo lussuosa ma nemmeno squallida, in cui vi era  un grazioso vaso di fiori, aveva dato loro il benvenuto una ragazza con i capelli neri raccolti in uno chignon, che li aveva squadrati. Doveva probabilmente aver pensato “Somigliano a…”, ma - con grande gioia di Dhani – si era limitata ad un sorriso gentile. Avevano affittato due camere, una per Sean e Julian e una per il giovane Harrison. In quest’ultima si trovavano i due in quel momento.
Lo sguardo di Julian si fermò su una foto che Dhani aveva già posto sul comodino e che lo ritraeva da piccolo, mentre sonnecchiava e suo padre lo teneva stretto, coprendolo con una coperta.
L’uomo non poté fare a meno di rabbrividire davanti all’assurda normalità di quella scena, in cui un ex beatle - una star internazionale - aveva più l’aspetto di un padre che rimboccava le coperte al proprio figlio stringendolo a sé, preoccupandosi che non prendesse freddo e non cadesse, incurante del fatto che non sarebbe stato certo il freddo o una caduta ad ucciderlo.
C’era stato un tempo in cui anche suo padre aveva fatto lo stesso (“Julian, mettiti il giubbotto se esci” o “Jules, fai attenzione o potresti cadere”), ma aveva smesso ben prima che lui potesse decidere da solo se poteva mettere o meno il giubbotto quando usciva in giardino. C’era qualcosa nel guardare quella foto che lo faceva sentire un intruso, come se non avesse nessun diritto di essere lì, a spiare nella loro intimità.
“La porto sempre dietro quando vado in giro con la band oppure in Islanda, con Sola*” affermò timidamente  e nervosamente il bambino ritratto nella foto, che ormai aveva l’aspetto di un uomo. “Sai, dà l’idea che nulla sia..”
La voce di Dhani si incrinò, quasi rotta dall’emozione, in crisi come ogni volta che cercava le parole per descrivere suo padre.  
“Cambiato” affermò Julian, abbozzando un sorriso dolce, distogliendo  finalmente lo sguardo e posandolo  su Dhani, nonostante fosse ancora lontano anni luce da quel pianeta.
Improvvisamente gli sembrava tutto lontano e faticoso e c’era una parte di lui che voleva solo arrendersi e smettere di scappare, cercarlo e chiedergli perché, provare a capire con gli occhi di adesso, proprio come gli aveva suggerito quel bigliettino del biscotto cinese.
(Per anni non aveva fatto altro che  viaggiare e visitare paesi che non gli ricordassero le promesse mai mantenute di quell’uomo, ma lui era sempre lì, ad ogni angolo di strada, ad ogni svolta e ad ogni piazza; la sua voce era lì ad accompagnarlo di fronte alla scoperta di ogni meraviglia che il mondo avesse ad offrirgli, ogni paesaggio che gli ricordava che lui e sua madre non c’erano più, ma c’era ancora speranza, c’era ancora vita, c’era ancora qualcosa per cui valesse la pena.)
“Tuo padre era un uomo buono, Dhan” affermò poi, riemergendo da quell’abisso senza fine. “E tu un bambino fortunato.”
“Era una delle persone più complicate e semplici che io abbia mai conosciuto. Sto ancora imparando da lui.” affermò, stringendosi le spalle imbarazzato.
Era difficile descrivere George. Quel genitore che riusciva ad arrabbiarsi con lui se strappava una fogliolina da uno dei suoi alberi, ma che lo invitava quotidianamente a stare a casa con lui  e a non andare a scuola.
“Dhani?” Julian si aggiustò i capelli, un po’ indeciso sul porre o meno quella domanda e sul come porla. “Posso farti una domanda?”
Il piccolo Harrison si stropicciò gli occhi con aria stanca e solo in quel momento Julian si accorse di quanto Dhani apparisse abbattuto e perfino più vecchio in quel momento. Lo vide sforzarsi di fare un cenno affermativo.
“Siamo nel 1968. Questa mattina saresti potuto andare con Sean alla sua ricerca, corrergli incontro e abbracciarlo. Perché non l’hai fatto?”
Si accorse del sorriso triste che balenò sulle labbra del giovane Harrison, fermandosi lì e non raggiungendo mai gli occhi. Ci mise qualche secondo prima di dargli una risposta, tanto che Julian pensò che non sarebbe arrivata.
“Perché non rimarremo  negli anni ’60 per sempre, Jules. E io non posso perderlo un’altra volta. Non lo sopporterei.”
Fu in quel momento che forse Dhani capì.
Pensò a Sean. Era troppo piccolo per ricordare il modo in cui suo padre rideva quando lo vedeva camminare verso di lui. Troppo piccolo per ricordare quando si metteva al piano prendendolo in braccio, dicendo che un giorno - che non sarebbe mai arrivato - avrebbe insegnato anche a lui comesuonare e diventare una grande rock star.
E Julian. Grande abbastanza per ricordare, ma troppo lontano, troppo poco consapevole di tutto ciò che aveva perso, di tutto ciò che gli era stato negato. Non avrebbe mai avuto l’onore di presentare una fidanzata a suo padre. Non avrebbe mai atteso con ansia un giudizio di suo padre su come aveva suonato. Non  avrebbe mai sorriso, sentendosi dire da lui che aveva un talento naturale nella musica.
Non avrebbero mai capito di aver perso una delle figure – non il grande John Lennon, ma semplicemente un padre - più  importanti sulla faccia della terra. Non avrebbero mai saputo quanto quella perdita lo aveva logorato poco alla volta, ogni giorno.
 
 
 
 
Note dell’autrice.
Ciao! Sarei da prendere a calci per la puntualità. “Aggiornerò a fine luglio” o “Per il compleanno di Dhani”…non credetemi mai più.
 Anche questo capitolo avrebbe dovuto contenere altre tre scene – una dell’incontro fra John e Sean, una fra Sean e Julian e una fra Dhani e Sean – che non sono state tagliate, ma che verranno inserite nel capitolo successive perché sennò aggiornavo il 22 agosto… dell’anno prossimo.
Questo capitolo fa piuttosto schifo e non succede nulla di rilevante, lo so, ma voglio rimanere sul piano introspettivo e mentale, più che sui grandi colpi di scena,  ma….Vi ringrazio per le recensioni e i continui incoraggiamenti. Voglio pubblicare qualcosa su Dhani e George anche se non so quando – potrebbe essere fra un’ora come fra un anno -.
P.S: Buon compleanno al mio nano preferito con 22 giorni di ritardo <3 Ecco un video che ho fatto per lui – Dhani, se non lo avete capito – per il suo compleanno: https://www.youtube.com/watch?v=eD6_Qb_qz48
P.P.S:  Sean Lennon mi ha risposto su twitter tipo 8-9 volte mi ha anche suggerito parte del mio nick su twitter (la parte che mi ha suggerito è Dark Horse). Una volta gli ho chiesto di descrivermi George con una parola, e lui mi ha detto solo “Era George”. Non c’è altra parola per descriverlo, probabilmente. Se qualcuno vuole seguirmi o chiedermi qualcosa su twitter:  https://twitter.com/weissschwarz9
Un bacione e alla prossima. P.P.P.S: Se avete preferenze per qualcuno in particolare dentro alla FF, sarei curiosa di sapere chi :-)
D.
  
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