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Autore: Alaska__    27/08/2015    0 recensioni
( • Long • OCs • District 6 • 56th Hunger Games • )
Cinquantadue anni dopo i Giorni Bui l'idea di rivolta sembra quasi un'utopia. Il popolo di Panem è straziato, piegato sotto i macigno del regime di Snow, costretto, ogni anno, ad assistere a ventiquattro ragazzini che si ammazzano l'un l'altro in un'Arena.
Eppure, nel Distretto 6, uno dei più dimenticati della nazione, qualcosa sta nascendo, grazie a quattro ragazzini stanchi di vedere il loro popolo costretto a tanto dolore e desiderosi di vendetta.
Questa è la loro storia.
È la storia di Franziska e Igor, i due gemelli che vogliono assicurare un futuro migliore al loro fratellino; di Aaron, i cui genitori sono stati giustiziati pochi giorni dopo la loro misteriosa fuga dal Distretto 6; di Jimmy, il figlio del sindaco, stanco del regime oppressivo di Capitol City e desideroso di poter avere un vero rapporto con suo padre.
Sono quattro ragazzini che si sentono invincibili, che sanno di poter cambiare le sorti di Panem. Ma il male c'è sempre, ed è dietro l'angolo e loro dovranno affrontare mille ostacoli.
Nel frattempo, le Mietiture si susseguono, una dopo l'altra... e le loro vite potrebbero cambiare. Per sempre.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate, Vincitori Edizioni Passate
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sparks. '
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CAPITOLO XIII
 
Kiss and hugs

 
 
«Anche il più terribile fallimento, anche il peggiore, il più irrimediabile degli errori, è di gran lunga preferibile al non averci provato».
-Grey’s Anatomy
 
 
Jimmy odiava dover passare le notti in bianco.
Detestava stare lì, nel letto, e continuare a girarsi, con le lenzuola che si impigliavano tra le gambe e i pensieri ancora più ingarbugliati. Non dormire lo faceva pensare troppo e in quei casi gli veniva sempre un’ansia spaventosa.
Quella notte non avrebbe chiuso occhio; ne era certo, ormai, dopo due ore passate a cambiare posizione, cercando quella più adatta. Si era sforzato di calmarsi, tenere le palpebre calate e immaginare qualcosa di piacevole, ma erano stati tutti dei vani tentativi. Due minuti dopo, ricominciava a pensare al pomeriggio, la rabbia riprendeva a montare e si ritrovava ancora sveglio e vigile come mai era stato.
Sospirando di frustrazione, calciò via lenzuola e coperta e si mise a sedere. Un brivido gli percorse il corpo, non appena le piante dei piedi poggiarono sul pavimento freddo. Si affrettò quindi a mettersi le ciabatte e a cercare una felpa da indossare sopra la maglietta leggera che usava come pigiama. Dal fondo del suo armadio – al buio più completo – ne pescò una con un buco sulla tasca anteriore.
Mentre si accingeva a metterla, si avvicinò alla finestra e scostò la tenda, per osservare il paesaggio. Suo padre gli ripeteva fino allo sfinimento che doveva chiudere le imposte, ma lui – come sempre – preferiva non dargli ascolto. Di tanto in tanto, di notte, si alzava per guardare fuori, come in quel momento. Non che il panorama dalla sua camera fosse bello: dietro l’elegante villetta in cui abitava, c’era un grande prato e, più in là, si notavano i profili delle officine.
Quella notte, tutto era coperto di bianco. Nevicava, e i fiocchi freschi andavano a coprire la patina dura e scivolosa, rimasuglio della nevicata di qualche giorno prima.
Appoggiò la fronte contro il vetro freddo, cercando di distinguere qualcosa in tutto quel buio.
Detestava quel posto. Non trovava nulla di esaltante nel vivere al Distretto 6, o nella vita dei Distretti in generale. Era casa sua, ma nemmeno quel pensiero riusciva a farlo stare meglio. Non era riconoscente di nulla a quel posto, se non di avergli fatto conoscere Aaron, l’unico, vero amico che avesse mai avuto. Ora alla lista si sentiva in dovere di aggiungere anche i gemelli Madison. Li conosceva poco, ma gli bastava. Se erano dei personaggi un po’ strambi, un po’ isolati, allora dovevano essere il suo tipo ideale di amici.
Sorrise, pensando al fatto che Aaron sarebbe arrossito, sentendosi dare dello strambo, e si scostò dalla finestra.
Visto che non riusciva a dormire, tanto valeva scendere in cucina e bere qualcosa di caldo, magari guardando qualche stupido programma che Capitol City proponeva la notte. Aveva scoperto poco tempo prima che lì le emissioni andavano in onda ventiquattro ore su ventiquattro. La notte, perlopiù, facevano vedere le edizioni degli Hunger Games più discutibili.
Aprì la porta e uscì dalla sua stanza, cercando di fare meno rumore possibile; tutti dormivano e non voleva svegliare nessuno. Suo padre gli avrebbe ordinato di andare a letto e avrebbero litigato; Jasper, invece, avrebbe voluto stare con lui.
Scese pian piano le scale, aggrappandosi al corrimano per evitare di ruzzolare giù e farsi male. Verso la fine, però, si accorse che c’era qualcosa di strano.
In fondo, infatti, vi era un debole bagliore proveniente dal salotto. Incuriosito – e un po’ seccato di non poter stare da solo – si diresse verso la stanza.
Suo padre era seduto sulla sua solita poltrona. In mano reggeva una tazza fumante e la televisione era accesa, mentre venivano mostrate le scene dei trentanovesimi Hunger Games. Un vassoio era appoggiato sul tavolino.
«Jimmy?» domandò suo padre, voltando appena la testa verso destra. «Sei tu?»
Il primo istinto del quattordicenne fu quello di correre in camera sua, senza rispondergli. Ma, per qualche motivo a lui sconosciuto, le sue mani si ficcarono nelle tasche dei pantaloncini e le sue gambe presero a muoversi verso il divano.
«Sì» rispose, accomodandosi.
«Ti sei svegliato?»
«A meno che io sia sonnambulo, direi di sì» replicò.
Chadwick sospirò. «Dovresti dormire».
«Anche tu». Jimmy prese a tamburellare con le dita sul bracciolo. «Il sindaco del Distretto dovrebbe essere sempre vigile e attento».
«Jim». La voce di suo padre era stanca. Non delusa, non arrabbiata, non infastidita. Stanca. Jimmy ne rimase colpito: era da tempo che lui non usava quel tono. Ma soprattutto, era da tempo che non lo chiamava semplicemente Jim, come faceva quando era più piccolo. «Non ho voglia di litigare. Non stanotte».
«No, neanche io» ammise il ragazzo, con un filo di voce. «Ci siamo già detti abbastanza».
Dopo che era tornato a casa – verso le nove di sera, con un Jasper parecchio affamato – lui e Chadwick avevano litigato ancora, come voleva la prassi in casa loro.
«Sì, me lo ricordo» commentò il sindaco, con voce incolore; i suoi occhi erano fissi sul televisore, dove la loro terzultima Vincitrice – Anjelica Thomas – stava salendo sull’hovercraft che l’avrebbe riportata nella Capitale, dopo la sua vittoria. «Prendi un po’ di cioccolata».
Jimmy aggrottò la fronte. Era davvero suo padre quello che era lì, vicino a lui, oppure un altro essere aveva preso il suo posto?
«Come scusa?» chiese.
«Jimmy, non sei sordo. Prendi un po’ di cioccolata» ripeté Chadwick, indicando il basso tavolino da caffè con un cenno del capo.
Riluttante e allo stesso tempo compiaciuto, Jimmy si allungò e versò un po’ di quel liquido denso nella tazza di porcellana. «Grazie» borbottò, non sapendo bene come rispondere. Quegli atti di gentilezza tra lui e suo padre erano talmente rari che non per lui era una situazione nuova, quella.
«E di che? Non è mia proprietà» ribatté l’uomo, scuotendo la testa.
Il quattordicenne ne bevve un sorso, con cautela. Era buona. Buonissima. Per un brevissimo istante, si ricordò di quando era piccolo e suo padre gliela preparava la domenica. Prima che lui crescesse. Prima che il suo migliore amico morisse. Prima che loro due diventassero quasi due estranei.
«È buona. Proprio come quando me la facevi, quando ero piccolo» mormorò, stringendo le dita attorno alla porcellana finissima.
Chadwdick gli rivolse uno sguardo triste. «Ne preparo sempre un po’ in più perché spero di offrirla a qualcuno. Ma poi non ne ho mai l’occasione» spiegò. «È una vecchia abitudine che ho preso da giovane».
«È un bel gesto» commentò il ragazzo, pulendosi l’angolo della bocca con un lembo della manica.
Nell’oscurità, notò suo padre che sorrideva. «Lo facevo per Jonathan, quando eravamo ragazzi. Mio papà mi ha insegnato che fa bene alla salute e al buonumore. E dato che lui aveva dei problemi a casa e spesso si rifugiava da me, gliene lasciavo un po’» raccontò.
Jimmy strinse le labbra. Era difficile associare l’uomo che aveva conosciuto e l’uomo di cui gli era appena stato raccontato.
«Eravamo come te e Aaron» continuò Chadwick. «Indivisibili. Migliori amici. Facevamo le nostre cavolate insieme, poi ne ridevamo su».
«E allora perché oggi gli hai dato dell’incosciente?» Jimmy non avrebbe voluto chiederglielo, ma qualche forza oscura dentro di lui aveva fatto sì che lui parlasse. Aveva bisogno di risposte. E per quanto bella fosse l’amicizia tra Jonathan e suo padre quando erano giovani, non gli sembrava sincera.
«Perché lo era. Lo siamo stati insieme» replicò Chadwick. «Mi spiace di non avervi dato le risposte che volevate. E non posso darvele. Non voglio, a dire il vero. Perché – volente o nolente – tu sei mio figlio. Ed è mio dovere proteggerti». Il primo cittadino del Distretto 6 si alzò, appoggiando la tazza sul tavolino, e andò a sedersi accanto al figlio. «Per quanto io e te litighiamo e ci insultiamo, io sono tuo padre. E non voglio vederti buttare via la tua vita, come abbiamo quasi fatto io e Jonathan».
«Non la sto buttando via» sussurrò Jimmy. «Io e Aaron non vogliamo fare niente. E nemmeno gli altri due nostri amici. Vogliamo solo sapere cosa facevate. Prima o poi Aaron e Brenton devono sapere perché i loro genitori sono morti».
«Fidati, figliolo, quando ti dico che certe cose è meglio non saperle mai. Fanno solo più male». Detto questo, il sindaco si alzò e rimase in piedi per un attimo. «Ti prego di porgere le mie scuse ad Aaron, domani. E anche alla signorina che era con te, e a suo fratello. Per un istante ho avuto paura che mi uccidesse».
Jimmy non riuscì a trattenere un sorrisetto. «Chi? Franziska o Igor?»
«Il ragazzo. Ma anche la sorella non mi sembrava molto contenta. Chiedi loro scusa per me. Forse, prima o poi, troverò il modo di dirglielo di persona». Il sindaco fece un mezzo sorriso. «Quando finisci, vai a letto, mi raccomando. Domani hai scuola. Buonanotte».
«Buonanotte».
Una parte di lui non avrebbe voluto far finire quel momento. Erano mesi che lui e suo padre non si parlavano in maniera quasi civile. Erano anni che non davano segni di voler riprendere il loro rapporto.
Jimmy lo appuntò ai prossimi obiettivi: riprendere il rapporto con suo padre.
Anche se sapeva che lo avrebbe deluso. Non aveva alcuna intenzione di smetterla di indagare sulla morte dei genitori di Aaron.
 
 
*
 
Era tutto sbagliato.
Il disegno. Il modo in cui aveva rappresentato i capelli di Franziska. Come aveva raffigurato il suo sorriso. E i suoi occhi non erano abbastanza verdi.
Aaron girò la cartellina trasparente che conteneva il disegno, sentendo che l’isteria cominciava a montare.
Nel frattempo, per calmarsi, girava a grandi passi nell’Officina Abbandonata, tentando di ignorare gli spifferi freddi e la paura. Aveva dato appuntamento a Franziska dopo il lavoro, lasciandole un bigliettino sotto il banco durante l’intervallo, a scuola. O meglio: Jimmy l’aveva lasciato. Lui era in punizione per aver osato dormire durante l’ora di matematica.
Si sistemò meglio il cappellino di lana nera in testa e lasciò il disegno sul letto, accanto allo zaino. Più lo teneva in mano, più rischiava di far bagnare la cartellina per il sudore che trasudava dai suoi palmi. Senza contare che, man mano che passavano i minuti, continuava a guardarlo e a pensare che non andava bene – nonostante le rassicurazioni di suo cugino, che glielo aveva ficcato in mano dopo che lui aveva pensato di buttarlo e comprare un mazzo di fiori, con la speranza che Franziska non gli tirasse in faccia anche quelli.
Dopo un quarto d’ora di attesa, sentì il cigolio della porta che veniva aperta, accompagnato da un freddo più intenso di quello degli spifferi.
Si voltò; la testa di Franziska faceva capolino dall’entrata. I capelli biondi erano legati in una spessa treccia che teneva appoggiata su una spalla, e lo zaino – che teneva appeso con una sola cinghia – le era scivolato lungo il braccio.
La ragazza chiuse la porta dietro di sé e, finalmente, lo salutò con un cenno della mano, accompagnato da un sorriso.
«Grazie per il bigliettino e per gli auguri» esordì, dopo che anche lui l’ebbe salutata, «ma non è servito. Ho beccato Jimmy proprio mentre andava in classe per metterlo sotto il mio banco e mi ha spiegato tutto a voce, anche se mi ha lasciato il foglietto».
«Oh» fu la sola reazione di Aaron. Si grattò la nuca, imbarazzato. Jimmy avrebbe potuto raccontare a Franziska qualunque cosa, con quella linguaccia che si trovava. «Io ero un tantino occupato» spiegò, sedendosi sul letto.
La ragazza si accomodò accanto a lui, appoggiando lo zaino vicino al cuscino. «Me l’ha detto. Sonnellino durante l’ora di Faccia di Rana, eh? Igor l’altra volta è stato sbattuto fuori dalla classe insieme a Robbie Newton». Rise. «Comunque, come mai mi hai invitata?»
Aaron prese la cartellina. Sentiva il cuore che batteva più forte del normale; lo avvertiva nelle tempie, nei polsi, in ogni zona del corpo. Il freddo sparì di colpo; aveva improvvisamente caldo.
«Volevo…» cominciò, «volevo darti il mio regalo» concluse, tendendole la cartellina con il disegno.
Franziska la prese, e Aaron continuò a fissarla, esaminando ogni singolo movimento e ogni sua reazione.
Lei tirò fuori il foglio, lo osservò. Prima sembrò sbalordita, poi contenta. E nel frattempo, il cuore di Aaron perdeva i battiti in più di poco prima e recuperava la sua normale corsa.
«Oddio, Aaron è…» si bloccò, «non so nemmeno come definirlo. È bellissimo» terminò. Poi arrossì, come se si fosse accorta di aver detto una stupidata. «O meglio, il disegno è bellissimo, non il soggetto ovviamente» ridacchiò.
«Sono contento che ti piaccia».
Franziska aveva le guance rosse e il sorriso più bello che lui le avesse mai visto stampato in faccia. Si scoprì contento per quel piccolo gesto, mentre sorrideva a sua volta.
«Grazie. Sei la prima persona a farmi un regalo di compleanno dopo tantissimo tempo. A parte Igor ovviamente». La ragazza si mordicchiò il labbro inferiore. «Io però al tuo compleanno non ti ho dato nulla, mi sento un mostro».
«Hai cucinato quella torta» le ricordò lui. «Che era molto buona».
Franziska rise. «Dopo averne bruciate due». Allungò il collo verso il viso di Aaron e gli scoccò un bacio sulla guancia. «Grazie» sussurrò ancora.
Aaron sentiva le guance in fiamme e una strana sensazione all’altezza dello stomaco.
Gli aveva dato un bacio!
Non riusciva a capire cosa lo confondesse di più, se il suo sorriso, il suo bacio sulla guancia o solo il suo respiro contro la sua pelle. La sua testa era diventata un ammasso di pensieri sconclusionati, un computer in tilt.
«Io… grazie» balbettò, senza sapere bene cosa rispondere. Poi si rese conto che era la risposta sbagliata: la stava ringraziando per un bacio. «Cioè… prego. Volevo dire, prego».
Nel mentre, sentiva una strana eco: la solita frase che gli ripeteva che lui, con le donne, non ci sapeva proprio fare.  
 
 
*
 
La Zona F non era poi tanto diversa dalle altre.
I soliti condomini dall’intonaco scrostato stavano ai lati delle strade mal asfaltate, piene di buchi e ghiacciate per il gelo dell’inverno. Nella periferia, una cappa di fumo nero segnalava la presenza delle varie officine che lì operavano. In tutto ciò, c’era una piccola piazzetta, con una stazione e qualche negozietto per i generi di prima necessità. A parte il fatto che non c’era il Palazzo di Giustizia – presente solo nella Zona C – e che era molto più piccola, con meno negozi, non era poi diversissima da quella della zona dove abitava Franziska.
«Non ero mai stato qui» osservò a bassa voce, guardandosi intorno. Di quel posto sapeva solo che gli adolescenti, ogni anno, dovevano recarsi nella loro piazzetta per assistere alla mietitura su degli schermi. Negli ultimi anni non le era mai capitato di vedere tributi di quel posto, ma ricordava che un anno la partenza verso Capitol City aveva subito dei ritardi proprio perché chi era stato scelto si era dovuto recare nella Zona C in treno, dopo i saluti.
«Noi sì» raccontò Jimmy, tirando un calcio ad un mucchietto di neve. «L’anno scorso. Abbiamo bigiato scuola e siamo venuti qui a farci un giro. E poi alla Zona G».
«E cosa c’è di tanto interessante?» domandò Igor.
«A parte un ubriaco che strillava in mezzo alla piazza? Nulla» rispose il figlio del sindaco, con una mezza risata. «Le altre Zone diverse da quella centrale sono tutte piccole. Un agglomerato di case con qualche officina».
«Purtroppo o per fortuna ci toccherà visitarne qualcuna» si intromise Aaron, sistemandosi la cuffietta in testa. Fino a quel momento aveva parlato pochissimo; camminava guardando in basso.
Igor sospirò. «Il tizio con cui dobbiamo parlare oggi…»
«Dean» lo informò sua sorella, scoccandogli un’occhiata.
«… Dean. Ecco, abita tanto lontano da qui?»
Aaron scosse la testa, voltandosi verso l’amico. «Stando ai fogli che ha preso Jim, dovrebbe abitare nei pressi della piazza, forse in uno di questi condomini» rispose, indicando i casermoni a lato della via.
«Si spera almeno che la sua casa sia calda». Jimmy strofinò le mani – coperte da due guanti neri – una contro l’altra.
Franziska sollevò invece la zip della giacca fino alla fine, sistemandosi bene la sciarpa di modo che le coprisse quasi metà viso. Sembrava una criminale, ma perlomeno stava al caldo. I giorni della merla erano arrivati, accompagnati – come previsto – da un gelo pungente che aveva ghiacciato le strade e la neve ancora ammucchiata ai loro lati.
La casa di Dean non era poi così lontana dalla piazza, come aveva detto Aaron. A circa cinquecento metri di distanza dal luogo, un condominio dai muri gialli, che ancora riusciva a mantenere una certa dignità contro il tempo e la poca manutenzione, si rivelò essere l’abitazione di quel signore.
Al contrario di com’era accaduto con il sindaco, Franziska non aveva la più pallida idea di come potesse essere questo ex-ribelle. Aaron le aveva dato una descrizione sommaria, ma lei non riusciva a togliersi di dosso una certa agitazione, nonostante l’amico l’avesse rassicurata sul conto di Dean.
Giunti dinnanzi al condominio, Aaron si fece avanti per primo. Un sonoro cigolio accompagnò l’apertura della porta in legno, che, al contrario del resto dell’edificio, era vittima dell’incessante scorrere del tempo.
Dalle scale, una signora anziana li osservava con occhi curiosi, mentre facevano il loro ingresso nell’atrio mal illuminato. Doveva avere pressappoco un’ottantina d’anni, e si reggeva al corrimano, anche se esso aveva tutta l’aria di poter cadere da un momento all’altro. Nell’altra mano, invece, stringeva il pomello di un bastone da passeggio malamente intagliato.
«Le chiedo dov’è l’appartamento di Dean» sussurrò Jimmy, toccando Franziska sul braccio destro per chiederle di farle spazio. «Scusi» continuò poi, arrivando fino all’inizio della scalinata, «potremmo chiederle una cosa?»
L’anziana fissò il figlio del sindaco, senza lasciare i suoi due sostegni. «Dimmi pure, giovanotto» disse con voce roca, cominciando a scendere.
«È qui che abita un certo Dean Fletcher?» s’informò il quattordicenne, salendo a sua volta un gradino.
Prima di rispondere, la donna percorse il breve tratto di scale che la separava dal ragazzo. «Sì, lo conosco» rispose, alzando la testa verso l’interlocutore. «È al terzo piano. Appartamento 3B».
«Grazie mille, signora» esclamò Jimmy, dopodiché fece cenno ai suoi amici di seguirlo per la scalinata. I tre attesero che l’anziana arrivasse in fondo, prima di cominciare a salire.
L’appartamento 3B non fu difficile da trovare; era il secondo del terzo piano e, appena giunti nel corridoio, lo notarono subito.
Il cognome del proprietario dell’appartamento – “Fletcher” – era scritto in un ordinato stampatello su un foglio dal fondo quadrettato, inserito in una semplice cornice in legno dipinto di nero. Da sotto la porta si notava un leggero bagliore; nonostante fosse pomeriggio, il tempo uggioso rendeva necessario illuminare le case.
Franziska si sentì in dovere di tirare il sospiro di sollievo che tutti stavano trattenendo. Ora erano sicuri che Dean fosse in casa.
«Aaron? Bussi?» Jimmy toccò l’amico sulla spalla; Aaron era rimasto fermo a fissare la porta, senza far niente.
«Busso? Oh, sì, faccio subito» disse, scuotendo la testa. Allungò una mano verso la porta e picchiettò piano con le nocche.
Franziska trattenne il fiato, mentre un «arrivo!» giungeva ovattato da dietro la porta. Nel giro di qualche secondo, essa si scostò di poco, lasciando posto alla faccia barbuta di un uomo alto e robusto.
Non sembrava tanto male; era esattamente come Aaron gliel’aveva descritto: muscoloso, con i capelli scuri e un’aria molto gaia, che, in quel momento, era diventata un’espressione inquisitrice.
«A… Aaron?» domandò l’uomo, spalancando la porta. «Ma sei davvero tu?»
Il quindicenne annuì, con un mezzo sorriso. «In persona» rispose, nell’esatto istante in cui gli occhi scuri di Dean passavano sulla figura di Jimmy.
«E qui c’è anche Jimmy. Oh…» fu la sua unica reazione, prima di uscire fuori e stringere i due ragazzi – nello stesso istante – in un abbraccio così forte che Franziska temette di sentire scricchiolare le loro ossa.
«Oddio! Scusate, ragazzi, scusate» ansimò Dean, lasciandoli andare. «Siete cresciuti! E state bene» commentò, facendo un passo indietro per guardarli meglio. Sembrò accorgersi solo allora della presenza dei gemelli e, dall’alto di quello che doveva essere almeno un metro e novanta, li osservò con fare curioso.
«Loro sono due nostri amici» li presentò Aaron.
Dean andò verso di loro, il braccio teso per stringere loro le mani. «Piacere, ragazzi, piacere di conoscervi» disse, prima all’una e poi all’altro, dando loro una stretta vigorosa. «Mi chiamo Dean. E voi due, invece…»
«Io sono Igor» rispose il ragazzo. «E lei è mia sorella gemella Franziska».
«Dovete essere i figli di Grace!» esclamò allora il signore, battendo le mani. «Mi ricordo che aveva due figli gemelli che si chiamavano così. E le assomigliate anche tanto. Ma non eravate in tre?»
«Lo siamo» confermò Franziska. «Ma il nostro fratellino è a casa con la nonna; è un po’ più piccolo di noi».
«Ora ricordo» ribatté Dean, annuendo. «Ma, prego, entrate pure in casa, dovete essere gelati».
L’uomo posò una mano sulla schiena di Franziska, per invitarla ad entrare. Quando tutti ebbero varcato la soglia, chiuse la porta dietro di sé.
L’appartamento, per fortuna, era caldo e confortevole. Nell’aria c’era un buon odore di dolci appena sfornati.
Da un angolo, fece capolino una donna rotondetta dai capelli castani e il viso di una dolcezza quasi ultraterrena. Indossava un grembiule bianco a scacchi neri e osservava i ragazzi con curiosità.
«Mellie, loro due sono Aaron e Jimmy. Te li ricordi, vero? Aaron è il figlio più grande di Keira» raccontò Dean, andando verso la moglie.
La signora annuì. «Sei cresciuto proprio tanto» osservò, rivolta al ragazzo. «Non assomigli a Keira, però. Sembri una versione più piccola di Jonathan» aggiunse, con una risatina. «Mentre tu sei il figlio di Chadwick» concluse, indicando il figlio del sindaco con un dito paffuto.
«E i due ragazzini biondi sono i figli di Grace Madison» le spiegò il marito.
Mellie guardò Franziska e le sorrise; la ragazza rimase per un istante imbambolata. Aveva passato quegli ultimi istanti a pensare ad una parola che descrivesse bene quella signora e, finalmente, le era venuta in mente.
Mamma.
Mellie aveva un’aria da mamma, con il grembiule un po’ stropicciato, il viso dolce e la voce calma. Si chiese se Dean e lei avessero figli: in caso contrario, si sarebbe stupita. Quella donna sembrava nata per essere una madre, o un’insegnante – in ogni caso, per avere a che fare con dei bambini.
«Direi che un po’ di tè non può farvi che bene» disse. «Vado a prepararvelo».
«Noi ci accomodiamo in salotto. Vi chiedo scusa, ma c’è un solo divano e forse sarete un po’ stretti» spiegò Dean, mentre la moglie si allontanava verso la cucina.
Il salotto era un luogo di pace e armonia. C’erano pochi mobili, ma sembrava che la loro ubicazione fosse stata studiata per dare a quel luogo quella cert’aria paradisiaca e tranquilla. Le pareti erano gialle, tinteggiate con cura e pulite; l’unico accenno di vecchiaia e disuso era uno scassato televisore posto su un mobiletto basso.
Dean li fece accomodare su un divano arancione e comodo; come previsto, stavano un po’ stretti, ma non troppo.
«Allora» esordì poi l’uomo, sedendosi su una poltrona, «non mi aspettavo questa vostra visita. Per di più, mi sono trasferito anni fa e non credevo che avreste trovato questo posto».
«Diciamo solo che avere il sindaco come padre ha i suoi lati buoni» replicò Jimmy. «Mi è bastato cercare il tuo nome su qualche file nel computer del Palazzo di Giustizia ed eccoci qui».
«Quindi credo ci sia un motivo più ampio se voi siete venuti fin dalla Zona C per stare qui e per cercarmi». Dean si appoggiò con i gomiti sulle cosce, osservando i quattro uno per uno. «In ogni caso, sono contento di rivedervi. Mi capitava di pensarvi, ogni tanto».
«Anche a noi. E oggi siamo qui per una cosa importante». Aaron si sistemò meglio sul divano; in un muto accordo, i tre gli avevano lasciato il posto più vicino a Dean. «Riguarda i miei genitori. E te».
«Me?»
«Sì. Forse non ti farà piacere parlarne, ma dobbiamo». Il ragazzo si mordicchiò il labbro inferiore. «Mi puoi dire una cosa? Vorrei sapere cosa facevate in quelle sere in cui vi incontravate tu, i miei e altre persone come i loro genitori».
Il volto di Dean assunse un’espressione stupita, poi divenne serio e poi quasi sofferente.
E adesso ci sbatte fuori, pensò Franziska; il suo cuore aveva accelerato i battiti. Invece di mandarli via, però, Dean scosse la testa.
«No, Aaron. Non posso e non voglio dirvelo».
«Niente niente?» si intromise Jimmy. «Ti prego, non fare come mio padre» lo supplicò.
Dean inarcò un sopracciglio. «Tuo padre?»
«La settimana scorsa siamo andati da lui e ci ha trattati come pezze da piedi» rispose Igor con voce atona. «Senza offesa, Jimmy».
«Nessuna offesa, fratello».
«E volevate – volete – sapere delle nostre riunioni?» chiese Dean. «Capisco bene che tuo padre non vi abbia risposto!»
«Non può darci almeno un piccolo indizio?» Franziska si sporse oltre suo fratello, per osservare meglio Dean.
«Dammi del tu, ragazzina» l’ammonì il signore, con la stessa, beata espressione di poco prima. «L’unico indizio che posso darvi» proseguì con il cipiglio serio assunto dopo la domanda di Aaron, «è che è meglio che voi non vi immischiate in certe faccende» concluse, mentre una silenziosa Mellie posava un vassoio con cinque fumanti tazze di tè sul tavolino da caffè, prima di tornare in cucina in modo altrettanto silenzioso.
«Ma...» cominciò Aaron; poi si bloccò e scosse la testa.
Franziska osservò il suo profilo; il capo abbassato, il cappellino stretto tra le dita in una presa flebile e l’espressione delusa.
«È importante per noi. Per Aaron, soprattutto» disse allora a bassa voce. Non ce la faceva a vedere il suo amico così; se si soffermava troppo sulla sua figura, sentiva una serie di spilli bucarle il cuore. «Vorrebbe solo sapere qualcosa per far luce sulla morte dei suoi genitori».
«Mi dispiace, ragazzina» mormorò Dean, prendendo la tazza di tè. «Non posso. E ci tengo a precisare che non è perché non mi fido di voi» aggiunse, guardandoli uno per uno. «Non voglio solo che vi accada qualcosa, o che vi facciate strane idee. Jonathan e Keira non sono stati gli unici a rimetterci qualcosa, in questa storia». Bevve un lungo sorso di tè.
Franziska – rendendosi conto che era scortese non servirsi, vista la gentilezza mostrata da Mellie – prese a sua volta una tazza.
«Sembra che tu voglia dirmi qualcosa, ragazzina» osservò l’uomo, lanciandole uno sguardo oltre il fumo sprigionato dal calore dell’acqua bollente.
La quindicenne aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse subito dopo, scrollando le spalle. «Ero solo tentata di implorarti ancora di darci un minimo indizio, ma è evidente che i miei sforzi sarebbero vani».
Dean fece un sorriso bonario. «Ti devo, purtroppo, confermare che sarebbe così. Non  mi piace fare la parte dell’autoritario, ma in quanto figli di ben tre persone che io stimavo e rispettavo, non me la sento di rivelarvi qualcosa di così grande; voglio evitare che voi finiate nei guai». Si allungò verso il tavolino, appoggiando la tazza sul vassoio. «Vi consiglio solo di non immischiarvi più in questa situazione» nel dirlo, i suoi occhi si spostarono – seppur in modo quasi impercettibile – verso una foto incorniciata, sistemata accanto al televisore.
Franziska non avrebbe voluto accorgersi, ma il suo sguardo seguì la traiettoria di quello di Dean, e si ritrovò a fissare il sorriso di una ragazzina dai capelli scuri e gli occhi marroni, che era abbracciata ad una versione più giovane e gioviale del proprietario dell’appartamento.
«Era mia figlia» raccontò lui, e Franziska – non accorgendosi che lui aveva notato la sua curiosità – sobbalzò. Gli lanciò un’occhiata, ma Dean non sembrava arrabbiato. Anzi, pareva rilassato, nonostante la tristezza espressa dai suoi occhi fosse evidente. «Si chiamava Erynn. È morta qualche anno fa, agli Hunger Games. Aveva appena pochi anni più di voi».
«Me la ricordo» sussurrò Aaron.
«Non dire che ti dispiace» l’ammonì Dean. «Sono sicuro che tu capisci bene la banalità di questa frase quando si perde qualcuno di importante».
Il quindicenne fece una smorfia. «Purtroppo».
«Me l’hanno portata via esattamente per questo motivo. O almeno, ne ho sempre avuto il sospetto» continuò Dean, facendo spallucce. «Pertanto, dalla mia bocca non uscirà una parola. Se qualcuno viene a sapere che questa storia circola ancora, voi potreste essere portati via ai vostri cari».
Dopo quest’ultima affermazione, nella stanza gravò un silenzio che – pur essendo impalpabile – sembrava pesare quanto un macigno sopra le loro spalle.
«E allora…» Igor scosse le spalle; sembrava scoraggiato, ma continuò a parlare, «allora perché facevate queste cose? Cosa vi spingeva a incontrarvi ogni sera?»
Dean abbozzò un sorrisetto. «Se te lo dicessi, ragazzino, ti rivelerei anche cosa facevamo, e io non voglio. Ma apprezzo lo sforzo, sei un ragazzetto furbo come tua madre». Ridacchiò, mentre Igor faceva una smorfia di disappunto. «Comunque, ci incontravamo per spirito di intraprendenza e senso di giustizia. Nient’altro. Non starò a dirvi che eravamo incoscienti perché sono sicuro che non lo fossimo. Stavamo sempre molto attenti a tutto. Poi è evidente che qualcuno ha fatto la spia, o ci hanno scoperti e addio».
«Per fortuna tu sai che non eravate degli idioti» borbottò Jimmy. Poi, lanciato un breve sguardo al suo migliore amico, si congedò da Dean. «Ora ci spiace, ma dobbiamo tornare a casa. Siamo partiti tardi e tra poco scatta il coprifuoco».
L’uomo annuì, alzandosi dalla poltrona – imitando il gesto dei quattro ragazzini, che si erano alzati quasi in sincronia. «Sono contento di avervi rivisti ragazzi».
«Potremmo tornare a trovarti, che ne dici?» propose Aaron. «Tanto adesso sappiamo dove abiti».
«Sarei la persona più felice del mondo, in tal caso». Dean diede una pacca sulla spalla al quindicenne; i suoi occhi luccicavano e Franziska temette che si stesse per mettere a piangere.
Salutata anche Mellie, i quattro ragazzi uscirono dalla casa di Dean. Non appena furono in corridoio, si lanciarono uno sguardo carico di dispiacere, e sospirarono.
Era andata male anche quella volta.
 
 
*
 
«Ragazzi, il problema è serio».
Jimmy era in piedi, davanti agli altri tre membri del gruppetto, seduti sul materasso dell’Officina Abbandonata.
Durante il viaggio in treno non avevano parlato molto; e nemmeno in quel momento ne avevano tanta voglia, ma Jimmy aveva indetto una riunione d’emergenza da fare subito e si erano adeguati. Un Jimmy accontentato era meglio di un Jimmy nervoso che andava a casa a litigare con il padre.
Franziska chiuse gli occhi, appoggiando la testa contro il muro dietro di lei. Sentiva una gran voglia di dormire, di riposarsi. Le succedeva sempre dopo delle delusioni.
«Non l’avrei mai detto» commentò a mezza voce.
«Felice che qualcuno mi abbia risposto, nonostante l’evidente sarcasmo possa risultare fastidioso. Quindi, grazie, Franziska» ribatté il figlio del sindaco.
«Oh, non c’è di che». La ragazza fece un gesto con la mano davanti al volto e aprì gli occhi.
«Comunque, dobbiamo elaborare un piano per migliorare la situazione e alla svelta» continuò Jimmy, mettendosi le mani sui fianchi e guardandoli uno per uno.
Igor sbuffò. «Ce l’abbiamo già» gli rammentò, staccando la schiena dal muro. «Interrogare gli altri membri del gruppo. Non ti basta?»
«Ti devo ricordare le loro identità, temo. I prossimi sono una pazza e un drogato. Evviva!»  replicò l’altro, fingendo un’espressione contenta.
Aaron sospirò, massaggiandosi le tempie con le dita. «Possiamo elaborarlo in un momento in cui non bisogna andare a scuola il giorno dopo e in cui non ho appena ricevuto un’altra batosta?» domandò con fare supplichevole.
«No» esclamò il suo migliore amico. «Sentite, forse è da pazzi, ma in treno mi è venuta un’idea».
«È da pazzi» commentò Aaron.
«Non sai nemmeno che piano è!»
«Sì che lo so». Il quindicenne si tolse la cuffia, passandosi la mano più volte tra i capelli castani. Quando rialzò la testa sembrava che una bomba gli fosse esplosa sul capo. «Sarà qualche piano pazzo in cui tu rischierai di farmi morire. Come quella volta che abbiamo fatto scappare Jarod dalla presidenza».
«Non è colpa mia se hai un cugino con una sudorazione estrema alle mani! Comunque, ve lo dico». Jimmy balzò a sedere sul letto, a gambe incrociate e braccia conserte. «Voglio andare alla caserma dei Pacificatori».
Franziska si svegliò all’improvviso. «Che cosa?» domandò con voce stridula, staccando la testa dal muro.
«Ho detto» cominciò Jimmy con tono lento, «che voglio andare nella caserma dei Pacificatori. Loro di sicuro hanno qualche documento o roba del genere sul caso. O sbaglio?»
«Non sbagli» mormorò Igor, strofinandosi gli occhi. «E come idea non è scema, in fondo in fondo. Anche se è molto pericolosa».
«E soprattutto, come facciamo?» chiese Franziska. «Andiamo dai Pacificatori e diciamo loro: “Ehi, scusate, non è che potreste darci qualche documento su un’esecuzione che avete svolto anni fa?”»
«Con te credevo di sfatare il mito della bionda stupida» la prese in giro Jimmy. «Perché è ovvio, no? Ci travestiamo da Pacificatori! La sarta cuce le loro uniformi. Noi gliele chiediamo, magari con qualche soldino del papà. Lei ce le dà, e noi andiamo, magari distraendoli in stile Jimmy».
«In stile Jimmy?» ripeté Aaron, sarcastico.
Il figlio del sindaco alzò gli occhi al cielo. «Non ci conviene farlo in stile Aaron, visto che l’ultima volta sei finito a pulire un muro. Sì, come faccio io. Dici sempre che sono un grande attore e tu» indicò Franziska con un dito, «mi aiuterai nella mia impresa, mentre tuo fratello e Aaron fanno i Pacificatori».
«E come pensi di distrarli con me, di grazia?»
Jimmy rimase un istante in silenzio, a bocca aperta. «Questo non lo so ancora. Ma mi verrà in mente qualcosa».
«Siamo proprio fortunati ad avere uno stratega come te» disse Aaron. «E se ci beccano?»
«Beh, credo che non sarà una bella cosa».
Sottinteso, pensò Franziska, se ci beccano siamo morti. 

 
 

Alaska's corner 

Buongiooorno!
Arrivo anche con il tredicesimo capitolo, che mi ha prosciugato le energie. Non ne vado molto fiera, ma ho passato un piccolo periodo a non scrivere e quindi ho un po’ perso la mano. In ogni caso, spero che non risulti troppo schifoso!
Comunque, qui vediamo la seconda intervista (??) dei nostri quattro eroi. Come vedete, gli è andata male pure questa. Sono un po’ sfigati, già. Ma – don’t worry – Dean comparirà anche più avanti e non vedo l’ora di farlo tornare! Vorrei che chi segue la storia si ricordi un pochino del suo background, perché è importante il fatto che abbia perso la figlia.
La scena tra Aaron e Franziska spero sia risultata piacevole: l’ho inserita per spezzare un pochino la tensione ^^
Il prossimo capitolo sarà proprio incentrato sulla loro gita dai Pacificatori, quindi stay tuned :D
Ah, prima di andarmene, volevo postare una foto di Jonathan e Keira, visto che ogni personaggio in questa storia si sente in dovere di dire ad Aaron quanto somiglia a suo padre xD Btw, cliccate sulla X per vederli: X
Il prossimo capitolo, se tutto va bene, dovrebbe arrivare domenica, sennò giovedì prossimo – sempre se tutto va bene xD
Un abbraccio e un bacio (lol, vedasi titolo del capitolo),
Alaska. ~
   
 
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