Le strade della libertà
Un uomo avanzava lentamente
nelle strade polverose di Yerenia. Cantava a bassa voce una vecchia canzone
d'amore e di lealtà. Indossava un mantello logoro, ma sotto di esso portava una
spada dall'elsa decorata in oro.
Un giovane cavaliere, vedendo
che percorreva la strada in direzione contraria alla propria, lo insultò
pesantemente, urlandogli di spostarsi.
L'uomo si fermò, alzando lo
sguardo quel tanto che bastava per osservare il cavaliere.
Si scostò per lasciarlo passare
e riprese poi a camminare, continuando a cantare fra sé.
Un ragazzo magrolino si fermò
per un attimo, osservandolo con occhi curiosi.
«Venite da lontano, signore?»
«Vengo da lontano, sì, ma anche
da un posto molto vicino».
«Cosa intendete dire?»
«Ragazzo mio, è bene rispettare
i propri compiti: tu devi portare quella frutta al tuo padrone, io devo
percorrere altre strade».
«Siete uno di quei predicatori
che vagano di città in città sparlando delle loro teorie?»
«No, giovanotto. Non sono uno
di loro».
Il ragazzo inclinò la testa.
«Allora siete un nobile
decaduto!»
«Neanche, sono qualcosa di più
complesso».
«Eh? Allora cosa siete? Un
viandante?»
«No. Sono un esiliato, mio
giovane amico».
«Ogni esiliato porta con sé un
fardello di sofferenza. O almeno così dicono i vecchi. L'amore e la lealtà che
cantate sono quelli che riservavate un tempo alla vostra città?»
«No, sono quelli che riservo
alle strade che percorro. La mia patria non è degna di questi valori».
«Raccontatemi la vostra storia,
ve ne prego».
«Vai dal tuo padrone, ragazzo.
Certe storie è bene che restino nascoste nell'animo di chi le ha vissute».
Delusione e tristezza si
mischiarono sul viso del giovane che, nonostante ciò, si sforzò di sorridere.
L'uomo si fermò, osservò il
ragazzino allontanarsi tra la gente e soltanto quando questo scomparve tra la
gente, riprese il suo cammino.
Al calar della notte, chiese
ospitalità in una locanda.
L'oste, nel vedere quell'uomo
dai vestiti stracciati storse la bocca, mormorando qualcosa sul fatto che le
camere erano già tutte piene.
L'uomo sospirò: tirò fuori
dalla bisaccia un sacchetto di monete d'oro, lanciandolo poi tra le mani
dell'oste che, sorpreso da quell'inaspettato guadagno, fece una serie di
inchini, ordinando poi ai servi di riempire il calice dell'uomo con il vino più
pregiato della regione e il suo piatto con i le carni più succulente.
Consumata la cena da solo,
l'uomo andò nella stanza che gli era stata assegnata - la migliore, secondo
quanto aveva detto l'oste.
Si tolse il mantello,
appoggiandolo sullo schienale di una sedia. Vicino a essa posò gli stivali e fu
felice di sentire il freddo delle assi di legno sotto i piedi.
Aveva ancora negli occhi la
curiosità del giovane: si sentiva un po' in colpa per averlo scacciato senza
dire una parola sul suo passato, ma sapeva che sarebbe stato troppo doloroso
rievocare le vicende degli anni precedenti.
***
Le parole della condanna
pesavano su Alexios quanto un fardello sulla schiena di un contadino.
Nell'imminenza dei suoi
vent'anni si era ritrovato a combattere una guerra senza quartiere contro il
tiranno che aveva occupato la rocca della sua città.
Trascinato dall'ardore
giovanile, si era unito alla fazione che combatteva il tiranno, nella speranza
che fosse cacciato una volta per tutte.
Ma in quei frangenti di
tensione, non aveva pensato al futuro: un traditore aveva rivelato al tiranno i
nomi dei cospiratori e il loro sogno di libertà era crollato in appena un anno
Le condanne erano state
immediate: confische ed esili avevano colpito irrimediabilmente tutti i
congiurati.
Il padre di Alexios, un uomo
conosciuto e rispettato da tutti, si era battuto in tribunale ma il tiranno era
stato irremovibile: il giovane, come altri nell'età adatta alle armi, era stato
condannato all'esilio per evitare nuove rivolte.
Alexios si era sciolto a
malincuore dall'abbraccio della madre e della sorella.
Il padre gli aveva donato una
spada, oltre che a un cavallo. L'aveva salutato nel modo in cui si conveniva a
un soldato quale era stato, rammaricandosi solo del fatto che, molto
probabilmente, non avrebbe avuto il figlio accanto nell'ora della morte.
Alexios aveva lasciato la città
al tramonto, spronando il cavallo al galoppo, pur di mettere quanta più
distanza possibile tra lui e la città.
Solo se la morte avesse colto
il tiranno, avrebbe potuto far ritorno. Ma almeno in quei giorni, sembrava che
gli dei favorissero quell'uomo spietato e crudele.
Fermò il cavallo su una
collina: gli ultimi raggi del sole tingevano di arancio l'acropoli. Estrasse la
spada dal fodero, giurando che sarebbe tornato per vendicare l'affronto.
Probabilmente, quell'uomo
spietato non avrebbe rispettato l'accordo che il padre era riuscito a
strappargli in tribunale.
Fino a quel momento, era
riuscito a difendere la famiglia dalle angherie del tiranno ma il futuro si
prospettava incerto: quello avrebbe avuto la possibilità di perseguitare la
famiglia e Alexios, non avendo parenti al di fuori di Ityos, non sapeva dove
andare.
Guardò un'ultima volta la città
baciata dagli ultimi raggi del tramonto prima di spronare il verso le montagne.
Poggiò la testa sulla criniera
del cavallo, lasciando che l'animale
scegliesse la via da seguire mentre le lacrime scorrevano lungo il volto.
Nel corso degli anni si era
fatto conoscere come un giovane forte e coraggioso e in giro si diceva che
nessuno lo avesse mai visto piangere dopo il decesso del nonno.
In punto di morte, il nonno gli
aveva regalato un medaglione che Alexios - a quel tempo appena undicenne -
aveva giurato di portare sempre con sé.
Sul retro vi era incisa una
frase: con essa, il nonno lo invitava a non piangere e a non abbattersi.
Alexios si era affidato a quelle poche parole, facendo di esse la propria
filosofia di vita.
Molti si stupirono del suo
cambiamento poiché lo conoscevano come un bambino piagnucolone e dalla lacrima
facile. Bastava, infatti, che si sbucciasse un ginocchio perché scoppiasse a
piangere.
Perso com'era nei ricordi un
passato tutto sommato felice, Alexios non si accorse di un ramo più basso degli
altri che lo colpì in pieno, facendolo cadere.
Un'imprecazione gli sfuggì dalle
labbra mentre si rialzava.
La vegetazione piena di rovi
del bosco aveva fatto sì che si fosse ritrovato le braccia e le gambe piene di
rovi.
«Potevi anche avvisarmi del
ramo» borbottò rivolto al cavallo mentre risaliva in groppa.
Continuò a cavalcare finché non
trovò una radura.
Legò il cavallo a un albero,
lasciandogli abbastanza libertà di brucare l'erba.
Si sedette vicino a un albero,
mangiando una focaccia che la madre gli aveva preparato.
Pensò ai genitori e alla
sorella: in quel momento realizzò quanto si sentisse perso senza la risata del
padre, senza gli occhi azzurri della madre - così simili ai suoi - carichi
d'amore e senza l'energia della sorella.
Si avvolse nel mantello e,
rabbrividendo, si addormentò.
La mattina dopo, Alexios si
svegliò quando sentì qualcosa leccargli il viso.
Aprì a fatica gli occhi e vide
il muso di un cane davanti al suo naso. Quello abbaiò scodinzolando e dandogli
un'altra leccata sul viso.
«E tu? Appartieni a qualcuno?»
Il cane abbaiò nuovamente,
allontanandosi appena da lui.
«Non hai nessuno?» chiese
Alexios sbadigliando.
Il cane scosse la testa, come
se avesse capito la domanda, mettendo poi in bella mostra la lingua.
«E va bene, ho capito. Verrai
con me».
Alexios sciolse il cavallo,
salendo poi in groppa. Fece un fischio al cane che iniziò a trotterellare
accanto al cavallo.
Dopo qualche ora, giunse al
limitar del bosco. La sera prima non si era reso conto che il cavallo aveva
imboccato un sentiero che portava verso le montagne: lo capì non appena vide
estendersi davanti a lui un altopiano. Poco lontano, si erigeva maestosa la
catena del Tunrit. Sapeva che erano un rifugio per banditi e latitanti: sorrise
mesto, pensavo che forse avrebbe potuto fare di esse la sua nuova casa.
Il cane corse in avanti,
slanciandosi in un campo di grano quasi maturo.
Alexios spronò il cavallo,
inseguendo quel cane che, a suo parere, era fin troppo vivace.
Si fermò quasi all'estremità
dell'altopiano: il cane gli si sedette accanto, scodinzolando con aria felice.
Alexios si guardò intorno:
nella vallata si estendevano campi coltivati, interrotti ogni tanto da alcuni
agglomerati di case.
In lontananza, sul fondo della
valle, vedeva il profilo degli edifici di Eldynia.
Quando la zona era un regno
unito e non un mosaico di città stato, Eldynia era la capitale economica.
Ityos, a causa della sua vicinanza, era stata messa in ombra per molto tempo,
diventando così un centro di commercio di poca importanza.
Alexios l'aveva visitata solo
una volta, quand'era ancora bambino: molti parlavano della leggendaria bellezza
dell'acropoli e Alexios, spinto dal desiderio di mettere quanta più strada
possibile fra lui e Ityos, nonostante la sete di vendetta, decise di recarvisi.
Là avrebbe valutato il da farsi per il futuro.
Scese da cavallo e, tenendolo
per le briglie, camminò a lungo tra i campi di grano.
Il venticello fresco gli
scompigliò i capelli neri e Alexios rimase a guardare a lungo il paesaggio.
Il cane abbaiò, riportandolo
alla realtà e Alexios, sorridendo, lo accarezzò.
Percorse buona parte
dell'altopiano, attraversando i campi coltivati. A sera giunse al confine della
città vicino. Le due guardie lo squadrarono da capo a piedi con sguardo truce.
Il loro aspetto non era dei più rassicuranti e le spade che pendevano dai loro
fianchi incutevano paura.
Alexios deglutì e, facendosi
coraggio, si avvicinò a esse.
Lo stemma di Eldynia svettava
sui loro mantelli: chiunque avrebbe riconosciuto quelle due spighe dorate che
s’intrecciavano davanti a un sole al tramonto.
«Chi sei?» gli chiese il
soldato di grado più alto. Alexios gli si fermò davanti e, cercando di
nascondere la paura, raccontò gli eventi dei giorni precedenti.
«Così giovane e già esiliato»
commentò con un certo disprezzo il primo.
«La gioventù di Ityos è sempre
più patetica» sghignazzò l'altro.
«Va' per la tua strada,
giovanotto. Eldynia offre aiuto a chiunque si trovi in difficoltà. Inoltre,
Ityos ed Eldynia non sono le uniche due città del territorio. Troverai un posto
in questo mondo, stanne certo».
Alexios ringraziò i due con un
cenno del capo e, attraversato il confine, salì a cavallo, dirigendosi verso la
città.
Abituato agli stretti e sporchi
vicoli di Ityos, Alexios si guardò intorno stupido. Eldynia conservava un ruolo
di primo piano nell'economia della regione: al contrario, Ityos, da quando era
salito al potere quel tiranno, aveva conosciuto un rapido declino, diventando
ben presto una città quasi fantasma. In pochi erano rimasti: la maggior parte
era emigrata altrove, alla ricerca di una maggiore libertà e stabilità economica.
Altri, invece, erano stati colpiti da condanne all'esilio più o meno lunghe e
per i motivi più vari.
Girovagò a lungo tra le vie,
osservando la vota che continuava frenetica anche dopo il tramonto. I mercanti
urlavano, cercando di attirare l'attenzione degli ultimi presenti al mercato,
alcuni ubriachi cantavano a squarciagola vecchie canzoni. Alexios sorrise
mesto: quelle parole gli avevano fatto venire in mente una canzone che il padre
canticchiava in continuazione.
Si fermò in una locanda,
chiedendo ospitalità per la notte. Il padrone, un ometto basso e grasso, ordinò
a un servo di prendersi cura del cavallo e mentre serviva la cena ad Alexios,
si premurò di lanciare un osso al cane. L'animale ne fu ben felice e l'oste non
poté evitare una leccata in faccia.
Non appena il giovane ebbe
finito di mangiare, l'oste lo fece accomodare vicino al focolare, servendogli
una bevanda calda tipica di Eldynia.
Alexios sapeva quanto gli oste
fossero impiccioni ma quell'uomo era davvero logorroico. In pochi minuti era riuscito
a cavargli di bocca tutta la sua storia.
«Ah, quel farabutto!
Meriterebbe la morte! Ragazzo mio, ti consiglio di andare a Nord. Prima che
prendesse il potere a Ityos, quell'uomo spadroneggiava su Nyicia. Sono circa
cinque giorni di cammino da qui. Troverai molti giovani che vogliono
sbarazzarsi di lui, chiedi il loro aiuto e cerca di riportare Ityos allo
splendore di un tempo».
Alexios lo guardò stupito.
«Ma voi come fate a-». L'oste
lo interruppe.
«Ah, ragazzo mio! Vengo da
Nyicia e in te ho visto la stessa espressione che avevo io quando iniziai il
mio esilio. Fui fortunato: vagai solo per dieci anni prima di stabilirmi qua.
Ma non compiere il mio stesso errore: cerca aiuto e combatti per ritornare
nella tua patria. Solo quando sei esiliato, capisci quanto valga la tua
patria».
Alexios annuì.
«Grazie... Vi sono debitore».
«Vai a riposare: il tuo viaggio
inizia adesso».
Alexios era partito di buon
mattino alla volta di Nyicia: l'oste aveva insistito a lungo affinché il
giovane non pagasse il conto, ma accettasse le provviste per il viaggio.
Il cane seguiva scodinzolando
il cavallo, felice di partire per qualche altra avventura. Alexios era sicuro
che quello fosse mosso dalla speranza di ricevere qualche osso senza ricevere
bastonate.
Quando arrivò a Nyicia, Alexios
fu subito oggetto degli sguardi stupiti della gente. Camminava in silenzio
lungo strade lastricate di marmi - la ricchezza di Nyicia era proverbiale -
finché non giunse alla locanda del porto indicatagli dall'oste di Eldynia.
Era certo che tutti osservavano
la corta e rozza tunica che indossava: le attività principali di Ityos erano
l'allevamento di pecore e l'agricoltura e perciò tutti indossavano tuniche
adatte a esse. Soltanto per le occasioni più importanti venivano usate tuniche
più ricche. Nyicia, al contrario, era un città sul mare, popolata da facoltosi
mercanti. Ogni giorno era una gara tra i più ricchi: ognuno sfoggiava gli abiti
dalle tinte più esotiche e lussuose.
Entrato nella locanda, si
guardò intorno spaesato.
«Alexios? Sei tu?»
Il giovane si voltò.
«Kyros!» esclamò sorpreso.
Kyros, un giovane dai capelli
castani e gli occhi verdi, aveva allargato le braccia, aspettando che l'altro
lo abbracciasse.
«Finalmente una faccia amica!
Ma che ci fai qua?» gli chiese Alexios una volta che l'altro, sfruttando la sua
altezza, ebbe finito di spettinarlo.
«Credo quello che ci fai tu.
Dai, vieni. Sarai stanco, immagino!»
Alexios annuì, seguendo poi
Kyros.
«Ragazzi, lui è Alexios. Mio
compagno di giochi e di armi».
«Anche di letto?» chiese uno.
Alexios rise, scuotendo la
testa e Kyros volse lo sguardo avvampando.
«Be', Kyros, che ti succede? Ti
hanno mangiato la lingua?» sghignazzarono alcuni.
«I-idioti!»
«A me non sembri poi così
adatto alle armi» borbottò un uomo con un tatuaggio sulla faccia. Sguainò la
propria spada, puntandola contro Alexios.
«Vediamo cosa sai fare,
giovanotto. Se ti dimostri un incapace, sappi che non ci penserò due volte
prima di buttarti in pasto ai pesci».
Alexios socchiuse gli occhi,
conficcando la sua spada nel legno del vecchio tavolo.
«Non lamentarti se poi vieni
ferito» sibilò all'uomo.
«Sei solo un ragazzino, non mi
fai paura!» sghignazzò l'uomo.
Alexios, con un rapido gesto
della mano, riprese la spada e lo ferì al petto.
L'uomo, tenendosi una mano
sulla ferita, cadde a terra uggiolando.
Tutti i presenti lo fissarono
increduli: soltanto Kyros alzò i pollici in segno di approvazione, con un
sorrisetto stampato in faccia. Il moro mise un braccio sulle spalle di Alexios,
spettinandogli di nuovo i capelli.
«Sicuro che non ti faccia
compagnia anche a letto, Kyros?» sghignazzò un giovane, i cui capelli cadevano
in perfetti riccioli rossi sulle spalle.
«Non rispondi, Kyros? Desideri
davvero essere posseduto da me?» gli chiese Alexios, facendogli un buffetto su
una guancia arrossata.
«Oh, insomma! Basta parlare di
queste cose! Non abbiamo una spedizione da organizzare?»
Risero tutti e Kyros desiderò
sprofondare sotto terra.
***
Tornare sotto le mura di Ityos
fu un brutto colpo per Alexios: tramite un messaggero era riuscito a far
arrivare sue notizie al padre. La risposta l'aveva sconvolto: il tiranno, dopo
la sua partenza, aveva mandato una guardia a casa con l'ordine di rapire la
sorella di Alexios e uccidere la madre. Il padre, tornato a casa dopo la seduta
del senato, aveva trovato il corpo squartato della moglie sul pavimento.
Aveva provato a riportare
indietro la figlia ma i suoi sforzi non ebbero alcun successo.
Alexios non era convinto che
quel piccolo gruppetto di soldati sarebbe riuscito a vincere il tiranno.
Dalle mura di Ityos, un
gruppetto di uomini e donne osservavano con apprensione la pianura che si
estendeva davanti a loro. Alcuni rivolgevano preghiere agli dei, scongiurando
che quel piccolo gruppo riuscisse a vincere il tiranno.
Nella pianura, Alexios scrutava
le fila dell'esercito che il tiranno aveva raccolto. Vi riconobbe alcuni amici
d'infanzia e alcuni congiurati che però non avevano seguito il suo stesso
destino: condannati alle prigioni, erano stati tirati fuori da esse per
impugnare le armi e combattere contro i compagni di un tempo.
Il silenzio venne spezzato dal
cozzare delle spade contro gli scudi.
Il padre di Alexios scrutò
attentamente la macchia grigia e indistinta che vedeva sotto di lui nella
speranza di riconoscere il figlio.
Una volta finita la battaglia,
la pianura era piena di corpi. L'erba si era tinta di rosso, e persino il
piccolo fiume che scorreva lì vicino aveva assunto una colorazione rosata.
Alcuni dei ribelli erano
riusciti a fuggire, scatenando l'ira del tiranno e quello uccise personalmente
i prigionieri. Quando Ityos piombò nel silenzio, gli abitanti sciamarono fuori
dalle porte, portando in città i corpi.
Il padre di Alexios gli osservò
ad uno ad uno: lasciò che le lacrime gli bagnassero il viso, dato che la sua
pietosa ricerca non aveva dato esiti.
Guardò con sollievo la pianura
che si estendeva davanti a lui.
Soltanto un mese prima aveva
visto il figlio partire per l'esilio.
«Buon viaggio, figlio mio,
ovunque tu sia diretto...»
Due anni dopo
Sconforto e incertezza avevano
dominato l'animo di Alexios nei primi mesi dopo la sconfitta subita sotto le
mura di Ityos. Aveva vagato a lungo tra i campi e le montagne, portandosi
dentro tutto il dolore. Giurò di non tornare più a Ityos: lì aveva perso ogni
cosa.
Tra i compagni sopravvissuti,
solo Kyros volle seguirlo nell'esilio, nonostante Alexios lo pregasse del
contrario.
Tuttavia, in un giorno
d'inverno, Kyros si ammalò gravemente. Un'improvvisa febbre lo uccise in pochi
giorni davanti al rogo funebre, solo con i suoi animali, Alexios giurò che a
Ityos non ci avrebbe messo più piede.
Alzò lo sguardo verso le
montagne, osservando con tristezza le cime coperte di neve.
Quelle sarebbero diventate la
sua nuova casa.
Cavalcò per giorni attraverso i
campi e i boschi innevati: non aveva la minima idea di dove stesse andando.
Sperò solo che il suo viaggio lo portasse il più lontano possibile da Ityos.
Prese un bastone che teneva
sempre con sé, estrasse il coltello e vi incise una tacchetta.
Sospirando, lo rimise al suo
posto. Dal giorno della fuga, Alexios vi incideva una tacchetta per ogni giorno
passato in esilio.
L'abbaiare improvviso del cane
spaventò il cavallo che, impennandosi, fece cadere a terra il suo cavaliere.
Quando Alexios si rialzò, vide
un uomo piuttosto anziano fermo davanti a lui. Teneva le briglie del cavallo,
accarezzandolo dolcemente. Il cane si era seduto accanto a quello,
scodinzolando allegramente.
«Ragazzo mio, dovete imparare a
tenere bene il cavallo. Avete rischiato di perderlo» disse l'uomo senza
voltarsi. Alexios gli si avvicinò, osservando curiosamente il ricco mantello
che quello indossava.
«Oh... Grazie del consiglio».
«Cosa ci fa un giovane come te
da solo nella foresta di Nyl?»
«Siamo così a Nord?»
L'uomo rise, voltandosi verso
Alexios.
«Questa foresta è l'estremo
confine di Issat».
«La città sul confine...»
«Esatto. Ma rispondi alla mia
domanda: chi sei?»
«Mi chiamo Alexios e vengo da
Ityos».
«Hai attraversato molti
territori, quindi. Ti sei forse smarrito?»
«No. Ormai vagare è il mio destino
e per quanto odi la mia patria, morirò lontana da essa».
«Vieni con me, ragazzo.
Resterai a Issat fino all'inizio della primavera. Rischieresti di morire
attraversando le montagne adesso».
«Siete molto gentile. Ma come
posso sdebitarmi con voi?»
L'uomo si incamminò verso la
fine della foresta e Alexios lo seguì.
«Vedo che hai una spada. Sei un
guerriero, quindi».
«Sì. Volete che combatta per
voi in qualche contesa?»
«No, mio giovane amico. Vorrei
che insegnaste a mio nipote le basi del combattimento. Un principe che non sa
combattere quale vantaggio porterà alla sua patria?»
«Principe, avete detto?»
«La legge impone di uccidere
chiunque venga trovato nella foresta di Nyl senza permesso del sovrano di
Issat».
Alexios fu sconvolto da quelle
parole.
«Perché mi avete risparmiato?»
«Eri perso nei tuoi pensieri,
non prestavi attenzione all'ambiente circostante. Quando ti ho visto, ho capito
che non potevi essere uno bandito che si nasconde qua».
«Grazie... Vi devo la vita».
«Non ringraziare me, ragazzo.
Ringrazia il tuo cane. Ha abbaiato così all'improvviso facendomi sbagliare mira
e la mia freccia ha colpito un albero».
Il cane abbaiò, portandosi in
mezzo ai due.
«Quella laggiù è Issat. Spero
che tu riesca ad andare d'accordo con il principino. Ha preso il carattere di
sua madre. Ha fatto scappare cinque nutrici e due maestri d'armi. Non male per
un bambino di dieci anni, vero?»
Alexios deglutì.
«Quindi... Voi siete il
fratello del re?»
«Esatto. Ma odio quel titolo
quanto mio nipote. Il mio nome è Ruem. Sei il primo che viene salvato dalla
foresta, e a mio fratello non piacerà molto: Ityos e Issat sono rivali nella
produzione di lane pregiate».
«Un tempo forse. Adesso Ityos è
in un periodo buio: governata da un tiranno è caduta in declino rapidamente.
Non esportiamo più la lana e-».
«Avremo tempo per parlare della
situazione di Ityos ma tu inventati che vieni da Nyicia, la città più neutrale
esistente al mondo» gli disse l'uomo facendogli l'occhiolino.
Alexios annuì leggermente
spaventato mentre varcavano l'ingresso della città.
***
Alexios si era ben presto
adattato alla vita frenetica di Issat. Città commerciale, era il cuore pulsante
dell'economia di una vasta regione. Il re inizialmente l'aveva guardato con
sospetto, accusando il fratello di formare un'armata di giovani stranieri per
occupare il trono. La verità su Alexios venne fuori nel corso di un processo a
carico di Ruem. Il giovane, deciso a salvarlo, raccontò davanti alla corte gli
eventi che l'avevano portato a Issat. Il re fu profondamente colpito dalle sue
parole e, ammirando il suo coraggio, gli affidò l'educazione del figlio.
Nei mesi successivi, la
battaglia sotto le mura di Ityos divenne solo un brutto ricordo.
«Sei in partenza, Alexios?»
«Oh, salve, Ruem. Sì, sua
maestà mi ha dato il permesso».
«È stato molto contento del tuo
lavoro. Hai cambiato il carattere del principino. Tutta Issat ti sarà grata per
sempre di questo».
Alexios scoppiò a ridere.
«Non esagerare! È solo un
bambino!»
«Un bambino terribile. Ma come
hai fatto a fargli imparare le cose?»
«Era un'ottima sveglia. Ma
penso che qui a Issat si trovi meglio che in esilio».
«Parli del cane?»
«Nessun bambino può resistere a
un cane giocherellone. Lo so per esperienza: mia sorella ha pianto per dieci
notti consecutive per convincere nostro padre a comprare un cane al mercato».
Alexios ridacchiò, pensando all'espressione dapprima disgustata del bambino
quando il cane aveva iniziato a leccargli la faccia. Pian piano, i due erano
diventati amici e il principino era riuscito a strappare una promessa ad
Alexios: alla sua partenza, il cane sarebbe rimasto lì.
Ruem gli mise una mano sulla
spalla.
«La primavera è inoltrata: il
regno di Lybor si trova a pochi giorni di cammino da qua. Ti do un consiglio,
ragazzo mio. Evita i sentieri troppo in quota: la neve potrebbe giocarti
qualche brutto scherzo».
Alexios gli strinse la mano.
«Non preoccuparti. Starò
attento».
«Tornerai mai a trovarci?» urlò
Ruem mentre il giovane si allontanava a cavallo.
Alexios si fermò e, voltatosi,
osservò l'uomo. I suoi capelli neri, ormai tenenti al bianco, incorniciavano
gli occhi azzurri in cui Alexios vi aveva letto una scintilla di gioventù mai
spentasi.
«Se così vorrà il fato, tornerò
con piacere. Altrimenti, se le strade mi porteranno in altri porti e in altri
monti, conserverò il vostro ricordo. Addio, Ruem. Che gli dei benedicano le
terre di Issat!»
«Buon viaggio, ragazzo mio»
urlò agitando la mano mentre la figura del giovane si faceva sempre più piccola
all'orizzonte. Il cane si acquattò ai suoi piedi uggiolando e Ruem lo accarezzò
sulla testa.
«Mancherà a tutti, quel
ragazzo» mormorò sconsolato tra sé l'uomo. In quei pochi mesi trascorsi con
lui, Ruem si era affezionato così tanto ad Alexios che lo considerava il figlio
che non aveva mai avuto.
Per Alexios, gli anni seguenti,
trascorsero lenti tra paesaggi sterminati, focolai stranieri e scomodi letti.
Tuttavia, in essi aveva trovato
una felicità e una pace che a Ityos non aveva mai conosciuto.
Si era fermato nella capitale
del regno di Lybor, offrendosi al sovrano come mercenario. Sapeva che c'era una
guerra in corso e Alexios non si era ancora arreso all'idea di morire in un
letto di vecchiaia: avrebbe preferito cadere in battaglia trafitto dal nemico.
Finita la guerra, si era
stabilito nella capitale, lavorando al servizio di un vecchio proprietario
terriero. Quello, in punto di morte, gli aveva affidato la tenuta e la mano
della figlia e Alexios non si era sentito di rifiutare.
Tuttavia, per quanto la nuova
vita fosse comoda, Alexios sentiva spesso la nostalgia della vita trascorsa in
esilio.
Così, senza dire niente a
nessuno, una notte riprese l'esilio, abbandonando la capitale e dirigendosi là,
dove era possibile sfiorare gli ultimi raggi del sole.
Lybor era prevalentemente
pianeggiante e Alexios sapeva che quelle sterminate pianure gli avrebbero
offerto rifugio.
Yerenia, quarant'anni dopo
Seduto sul ramo di un albero,
un ragazzino dai capelli rossi osservava la campagna circostante. Poco lontano
dalla vecchia quercia vi era una strada lastricata: era ciò che rimaneva del
collegamento principale di quando Issat, Ityos, Eldynia e Yerenia facevano
parte dello stesso regno. Un tempo trafficata, in quel momento era deserta.
Voltò lo sguardo verso la
città, sperando che giungesse qualche ignaro mercante cui giocare uno scherzo.
Gli s’illuminarono gli occhi
quando vide un uomo avanzare verso di lui. Si appoggiava a un bastone e
indossava un logoro mantello.
Il ragazzo decise di non fargli
scherzetti: non portava con sé niente di speciale e far prendere paura a un
povero vecchio non era un comportamento rispettoso. Scese velocemente
dall'albero, sedendosi sul ciglio della strada.
«Venite da lontano, signore?»
«Vengo da lontano, sì, ma anche
da un posto molto vicino».
«E dove state andando?»
«A Ityos».
Il ragazzino lo osservò stupito
per un attimo, scoppiando poi a ridere.
«O venite da molto lontano o
siete davvero stupido. Ityos ormai è un cumolo di macerie. La città è stata
conquistata dal nostro esercito. Rimane solo il nome adesso!»
Alexios sorrise: ancora una volta,
fino alla morte, le strade sarebbero state la sua casa.