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Autore: Letsneko_chan    27/08/2015    2 recensioni
Un regno, un tempo unito, si è diviso in piccoli staterelli. Ityos, una città sempre rimasta nell'ombra di Eldynia, si è ritrovata governata da un uomo senza scrupoli. Fallito l'attacco che doveva ucciderlo, le condanne all'esilio colpiscono molti giovani.
[...] «Venite da lontano, signore?»
«Vengo da lontano, sì, ma anche da un posto molto vicino».
«Cosa intendete dire?»
«Ragazzo mio, è bene rispettare i propri compiti: tu devi portare quella frutta al tuo padrone, io devo percorrere altre strade».
«Siete uno di quei predicatori che vagano di città in città sparlando delle loro teorie?»
«No, giovanotto. Non sono uno di loro».
Il ragazzo inclinò la testa.
«Allora siete un nobile decaduto!»
«Neanche, sono qualcosa di più complesso».
«Eh? Allora cosa siete? Un viandante?»
«No. Sono un esiliato, mio giovane amico».
«Ogni esiliato porta con sé un fardello di sofferenza. O almeno così dicono i vecchi. L'amore e la lealtà che cantate sono quelli che riservavate un tempo alla vostra città?»
«No, sono quelli che riservo alle strade che percorro. La mia patria non è degna di questi valori».
«Raccontatemi la vostra storia, ve ne prego».
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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esilio

Le strade della libertà

 

Un uomo avanzava lentamente nelle strade polverose di Yerenia. Cantava a bassa voce una vecchia canzone d'amore e di lealtà. Indossava un mantello logoro, ma sotto di esso portava una spada dall'elsa decorata in oro.

Un giovane cavaliere, vedendo che percorreva la strada in direzione contraria alla propria, lo insultò pesantemente, urlandogli di spostarsi.

L'uomo si fermò, alzando lo sguardo quel tanto che bastava per osservare il cavaliere.

Si scostò per lasciarlo passare e riprese poi a camminare, continuando a cantare fra sé.

Un ragazzo magrolino si fermò per un attimo, osservandolo con occhi curiosi.

«Venite da lontano, signore?»

«Vengo da lontano, sì, ma anche da un posto molto vicino».

«Cosa intendete dire?»

«Ragazzo mio, è bene rispettare i propri compiti: tu devi portare quella frutta al tuo padrone, io devo percorrere altre strade».

«Siete uno di quei predicatori che vagano di città in città sparlando delle loro teorie?»

«No, giovanotto. Non sono uno di loro».

Il ragazzo inclinò la testa.

«Allora siete un nobile decaduto!»

«Neanche, sono qualcosa di più complesso».

«Eh? Allora cosa siete? Un viandante?»

«No. Sono un esiliato, mio giovane amico».

«Ogni esiliato porta con sé un fardello di sofferenza. O almeno così dicono i vecchi. L'amore e la lealtà che cantate sono quelli che riservavate un tempo alla vostra città?»

«No, sono quelli che riservo alle strade che percorro. La mia patria non è degna di questi valori».

«Raccontatemi la vostra storia, ve ne prego».

«Vai dal tuo padrone, ragazzo. Certe storie è bene che restino nascoste nell'animo di chi le ha vissute».

Delusione e tristezza si mischiarono sul viso del giovane che, nonostante ciò, si sforzò di sorridere.

L'uomo si fermò, osservò il ragazzino allontanarsi tra la gente e soltanto quando questo scomparve tra la gente, riprese il suo cammino.

Al calar della notte, chiese ospitalità in una locanda.

L'oste, nel vedere quell'uomo dai vestiti stracciati storse la bocca, mormorando qualcosa sul fatto che le camere erano già tutte piene.

L'uomo sospirò: tirò fuori dalla bisaccia un sacchetto di monete d'oro, lanciandolo poi tra le mani dell'oste che, sorpreso da quell'inaspettato guadagno, fece una serie di inchini, ordinando poi ai servi di riempire il calice dell'uomo con il vino più pregiato della regione e il suo piatto con i le carni più succulente.

Consumata la cena da solo, l'uomo andò nella stanza che gli era stata assegnata - la migliore, secondo quanto aveva detto l'oste.

Si tolse il mantello, appoggiandolo sullo schienale di una sedia. Vicino a essa posò gli stivali e fu felice di sentire il freddo delle assi di legno sotto i piedi.

Aveva ancora negli occhi la curiosità del giovane: si sentiva un po' in colpa per averlo scacciato senza dire una parola sul suo passato, ma sapeva che sarebbe stato troppo doloroso rievocare le vicende degli anni precedenti.

 

***

 

Le parole della condanna pesavano su Alexios quanto un fardello sulla schiena di un contadino.

Nell'imminenza dei suoi vent'anni si era ritrovato a combattere una guerra senza quartiere contro il tiranno che aveva occupato la rocca della sua città.

Trascinato dall'ardore giovanile, si era unito alla fazione che combatteva il tiranno, nella speranza che fosse cacciato una volta per tutte.

Ma in quei frangenti di tensione, non aveva pensato al futuro: un traditore aveva rivelato al tiranno i nomi dei cospiratori e il loro sogno di libertà era crollato in appena un anno

Le condanne erano state immediate: confische ed esili avevano colpito irrimediabilmente tutti i congiurati.

Il padre di Alexios, un uomo conosciuto e rispettato da tutti, si era battuto in tribunale ma il tiranno era stato irremovibile: il giovane, come altri nell'età adatta alle armi, era stato condannato all'esilio per evitare nuove rivolte.

 

Alexios si era sciolto a malincuore dall'abbraccio della madre e della sorella.

Il padre gli aveva donato una spada, oltre che a un cavallo. L'aveva salutato nel modo in cui si conveniva a un soldato quale era stato, rammaricandosi solo del fatto che, molto probabilmente, non avrebbe avuto il figlio accanto nell'ora della morte.

Alexios aveva lasciato la città al tramonto, spronando il cavallo al galoppo, pur di mettere quanta più distanza possibile tra lui e la città.

Solo se la morte avesse colto il tiranno, avrebbe potuto far ritorno. Ma almeno in quei giorni, sembrava che gli dei favorissero quell'uomo spietato e crudele.

Fermò il cavallo su una collina: gli ultimi raggi del sole tingevano di arancio l'acropoli. Estrasse la spada dal fodero, giurando che sarebbe tornato per vendicare l'affronto.

Probabilmente, quell'uomo spietato non avrebbe rispettato l'accordo che il padre era riuscito a strappargli in tribunale.

Fino a quel momento, era riuscito a difendere la famiglia dalle angherie del tiranno ma il futuro si prospettava incerto: quello avrebbe avuto la possibilità di perseguitare la famiglia e Alexios, non avendo parenti al di fuori di Ityos, non sapeva dove andare.

Guardò un'ultima volta la città baciata dagli ultimi raggi del tramonto prima di spronare il verso le montagne.

Poggiò la testa sulla criniera del cavallo,  lasciando che l'animale scegliesse la via da seguire mentre le lacrime scorrevano lungo il volto.

Nel corso degli anni si era fatto conoscere come un giovane forte e coraggioso e in giro si diceva che nessuno lo avesse mai visto piangere dopo il decesso del nonno.

In punto di morte, il nonno gli aveva regalato un medaglione che Alexios - a quel tempo appena undicenne - aveva giurato di portare sempre con sé.

Sul retro vi era incisa una frase: con essa, il nonno lo invitava a non piangere e a non abbattersi. Alexios si era affidato a quelle poche parole, facendo di esse la propria filosofia di vita.

Molti si stupirono del suo cambiamento poiché lo conoscevano come un bambino piagnucolone e dalla lacrima facile. Bastava, infatti, che si sbucciasse un ginocchio perché scoppiasse a piangere.

Perso com'era nei ricordi un passato tutto sommato felice, Alexios non si accorse di un ramo più basso degli altri che lo colpì in pieno, facendolo cadere.

Un'imprecazione gli sfuggì dalle labbra mentre si rialzava.

La vegetazione piena di rovi del bosco aveva fatto sì che si fosse ritrovato le braccia e le gambe piene di rovi.

«Potevi anche avvisarmi del ramo» borbottò rivolto al cavallo mentre risaliva in groppa.

Continuò a cavalcare finché non trovò una radura.

Legò il cavallo a un albero, lasciandogli abbastanza libertà di brucare l'erba.

Si sedette vicino a un albero, mangiando una focaccia che la madre gli aveva preparato.

Pensò ai genitori e alla sorella: in quel momento realizzò quanto si sentisse perso senza la risata del padre, senza gli occhi azzurri della madre - così simili ai suoi - carichi d'amore e senza l'energia della sorella.

Si avvolse nel mantello e, rabbrividendo, si addormentò.

 

La mattina dopo, Alexios si svegliò quando sentì qualcosa leccargli il viso.

Aprì a fatica gli occhi e vide il muso di un cane davanti al suo naso. Quello abbaiò scodinzolando e dandogli un'altra leccata sul viso.

«E tu? Appartieni a qualcuno?»

Il cane abbaiò nuovamente, allontanandosi appena da lui.

«Non hai nessuno?» chiese Alexios sbadigliando.

Il cane scosse la testa, come se avesse capito la domanda, mettendo poi in bella mostra la lingua.

«E va bene, ho capito. Verrai con me».

Alexios sciolse il cavallo, salendo poi in groppa. Fece un fischio al cane che iniziò a trotterellare accanto al cavallo.

Dopo qualche ora, giunse al limitar del bosco. La sera prima non si era reso conto che il cavallo aveva imboccato un sentiero che portava verso le montagne: lo capì non appena vide estendersi davanti a lui un altopiano. Poco lontano, si erigeva maestosa la catena del Tunrit. Sapeva che erano un rifugio per banditi e latitanti: sorrise mesto, pensavo che forse avrebbe potuto fare di esse la sua nuova casa.

Il cane corse in avanti, slanciandosi in un campo di grano quasi maturo.

Alexios spronò il cavallo, inseguendo quel cane che, a suo parere, era fin troppo vivace.

Si fermò quasi all'estremità dell'altopiano: il cane gli si sedette accanto, scodinzolando con aria felice.

Alexios si guardò intorno: nella vallata si estendevano campi coltivati, interrotti ogni tanto da alcuni agglomerati di case.

In lontananza, sul fondo della valle, vedeva il profilo degli edifici di Eldynia.

Quando la zona era un regno unito e non un mosaico di città stato, Eldynia era la capitale economica. Ityos, a causa della sua vicinanza, era stata messa in ombra per molto tempo, diventando così un centro di commercio di poca importanza.

Alexios l'aveva visitata solo una volta, quand'era ancora bambino: molti parlavano della leggendaria bellezza dell'acropoli e Alexios, spinto dal desiderio di mettere quanta più strada possibile fra lui e Ityos, nonostante la sete di vendetta, decise di recarvisi. Là avrebbe valutato il da farsi per il futuro.

Scese da cavallo e, tenendolo per le briglie, camminò a lungo tra i campi di grano.

Il venticello fresco gli scompigliò i capelli neri e Alexios rimase a guardare a lungo il paesaggio.

Il cane abbaiò, riportandolo alla realtà e Alexios, sorridendo, lo accarezzò.

Percorse buona parte dell'altopiano, attraversando i campi coltivati. A sera giunse al confine della città vicino. Le due guardie lo squadrarono da capo a piedi con sguardo truce. Il loro aspetto non era dei più rassicuranti e le spade che pendevano dai loro fianchi incutevano paura.

Alexios deglutì e, facendosi coraggio, si avvicinò a esse.

Lo stemma di Eldynia svettava sui loro mantelli: chiunque avrebbe riconosciuto quelle due spighe dorate che s’intrecciavano davanti a un sole al tramonto.

«Chi sei?» gli chiese il soldato di grado più alto. Alexios gli si fermò davanti e, cercando di nascondere la paura, raccontò gli eventi dei giorni precedenti.

«Così giovane e già esiliato» commentò con un certo disprezzo il primo.

«La gioventù di Ityos è sempre più patetica» sghignazzò l'altro.

«Va' per la tua strada, giovanotto. Eldynia offre aiuto a chiunque si trovi in difficoltà. Inoltre, Ityos ed Eldynia non sono le uniche due città del territorio. Troverai un posto in questo mondo, stanne certo».

Alexios ringraziò i due con un cenno del capo e, attraversato il confine, salì a cavallo, dirigendosi verso la città.

Abituato agli stretti e sporchi vicoli di Ityos, Alexios si guardò intorno stupido. Eldynia conservava un ruolo di primo piano nell'economia della regione: al contrario, Ityos, da quando era salito al potere quel tiranno, aveva conosciuto un rapido declino, diventando ben presto una città quasi fantasma. In pochi erano rimasti: la maggior parte era emigrata altrove, alla ricerca di una maggiore libertà e stabilità economica. Altri, invece, erano stati colpiti da condanne all'esilio più o meno lunghe e per i motivi più vari.

Girovagò a lungo tra le vie, osservando la vota che continuava frenetica anche dopo il tramonto. I mercanti urlavano, cercando di attirare l'attenzione degli ultimi presenti al mercato, alcuni ubriachi cantavano a squarciagola vecchie canzoni. Alexios sorrise mesto: quelle parole gli avevano fatto venire in mente una canzone che il padre canticchiava in continuazione.

Si fermò in una locanda, chiedendo ospitalità per la notte. Il padrone, un ometto basso e grasso, ordinò a un servo di prendersi cura del cavallo e mentre serviva la cena ad Alexios, si premurò di lanciare un osso al cane. L'animale ne fu ben felice e l'oste non poté evitare una leccata in faccia.

Non appena il giovane ebbe finito di mangiare, l'oste lo fece accomodare vicino al focolare, servendogli una bevanda calda tipica di Eldynia.

Alexios sapeva quanto gli oste fossero impiccioni ma quell'uomo era davvero logorroico. In pochi minuti era riuscito a cavargli di bocca tutta la sua storia.

«Ah, quel farabutto! Meriterebbe la morte! Ragazzo mio, ti consiglio di andare a Nord. Prima che prendesse il potere a Ityos, quell'uomo spadroneggiava su Nyicia. Sono circa cinque giorni di cammino da qui. Troverai molti giovani che vogliono sbarazzarsi di lui, chiedi il loro aiuto e cerca di riportare Ityos allo splendore di un tempo».

Alexios lo guardò stupito.

«Ma voi come fate a-». L'oste lo interruppe.

«Ah, ragazzo mio! Vengo da Nyicia e in te ho visto la stessa espressione che avevo io quando iniziai il mio esilio. Fui fortunato: vagai solo per dieci anni prima di stabilirmi qua. Ma non compiere il mio stesso errore: cerca aiuto e combatti per ritornare nella tua patria. Solo quando sei esiliato, capisci quanto valga la tua patria».

Alexios annuì.

«Grazie... Vi sono debitore».

«Vai a riposare: il tuo viaggio inizia adesso».

 

Alexios era partito di buon mattino alla volta di Nyicia: l'oste aveva insistito a lungo affinché il giovane non pagasse il conto, ma accettasse le provviste per il viaggio.

Il cane seguiva scodinzolando il cavallo, felice di partire per qualche altra avventura. Alexios era sicuro che quello fosse mosso dalla speranza di ricevere qualche osso senza ricevere bastonate.

Quando arrivò a Nyicia, Alexios fu subito oggetto degli sguardi stupiti della gente. Camminava in silenzio lungo strade lastricate di marmi - la ricchezza di Nyicia era proverbiale - finché non giunse alla locanda del porto indicatagli dall'oste di Eldynia.

Era certo che tutti osservavano la corta e rozza tunica che indossava: le attività principali di Ityos erano l'allevamento di pecore e l'agricoltura e perciò tutti indossavano tuniche adatte a esse. Soltanto per le occasioni più importanti venivano usate tuniche più ricche. Nyicia, al contrario, era un città sul mare, popolata da facoltosi mercanti. Ogni giorno era una gara tra i più ricchi: ognuno sfoggiava gli abiti dalle tinte più esotiche e lussuose.

Entrato nella locanda, si guardò intorno spaesato.

«Alexios? Sei tu?»

Il giovane si voltò.

«Kyros!» esclamò sorpreso.

Kyros, un giovane dai capelli castani e gli occhi verdi, aveva allargato le braccia, aspettando che l'altro lo abbracciasse.

«Finalmente una faccia amica! Ma che ci fai qua?» gli chiese Alexios una volta che l'altro, sfruttando la sua altezza, ebbe finito di spettinarlo.

«Credo quello che ci fai tu. Dai, vieni. Sarai stanco, immagino!»

Alexios annuì, seguendo poi Kyros.

«Ragazzi, lui è Alexios. Mio compagno di giochi e di armi».

«Anche di letto?» chiese uno.

Alexios rise, scuotendo la testa e Kyros volse lo sguardo avvampando.

«Be', Kyros, che ti succede? Ti hanno mangiato la lingua?» sghignazzarono alcuni.

«I-idioti!»

«A me non sembri poi così adatto alle armi» borbottò un uomo con un tatuaggio sulla faccia. Sguainò la propria spada, puntandola contro Alexios.

«Vediamo cosa sai fare, giovanotto. Se ti dimostri un incapace, sappi che non ci penserò due volte prima di buttarti in pasto ai pesci».

Alexios socchiuse gli occhi, conficcando la sua spada nel legno del vecchio tavolo.

«Non lamentarti se poi vieni ferito» sibilò all'uomo.

«Sei solo un ragazzino, non mi fai paura!» sghignazzò l'uomo.

Alexios, con un rapido gesto della mano, riprese la spada e lo ferì al petto.

L'uomo, tenendosi una mano sulla ferita, cadde a terra uggiolando.

Tutti i presenti lo fissarono increduli: soltanto Kyros alzò i pollici in segno di approvazione, con un sorrisetto stampato in faccia. Il moro mise un braccio sulle spalle di Alexios, spettinandogli di nuovo i capelli.

«Sicuro che non ti faccia compagnia anche a letto, Kyros?» sghignazzò un giovane, i cui capelli cadevano in perfetti riccioli rossi sulle spalle.

«Non rispondi, Kyros? Desideri davvero essere posseduto da me?» gli chiese Alexios, facendogli un buffetto su una guancia arrossata.

«Oh, insomma! Basta parlare di queste cose! Non abbiamo una spedizione da organizzare?»

Risero tutti e Kyros desiderò sprofondare sotto terra.

 

***

 

Tornare sotto le mura di Ityos fu un brutto colpo per Alexios: tramite un messaggero era riuscito a far arrivare sue notizie al padre. La risposta l'aveva sconvolto: il tiranno, dopo la sua partenza, aveva mandato una guardia a casa con l'ordine di rapire la sorella di Alexios e uccidere la madre. Il padre, tornato a casa dopo la seduta del senato, aveva trovato il corpo squartato della moglie sul pavimento.

Aveva provato a riportare indietro la figlia ma i suoi sforzi non ebbero alcun successo.

Alexios non era convinto che quel piccolo gruppetto di soldati sarebbe riuscito a vincere il tiranno.

Dalle mura di Ityos, un gruppetto di uomini e donne osservavano con apprensione la pianura che si estendeva davanti a loro. Alcuni rivolgevano preghiere agli dei, scongiurando che quel piccolo gruppo riuscisse a vincere il tiranno.

Nella pianura, Alexios scrutava le fila dell'esercito che il tiranno aveva raccolto. Vi riconobbe alcuni amici d'infanzia e alcuni congiurati che però non avevano seguito il suo stesso destino: condannati alle prigioni, erano stati tirati fuori da esse per impugnare le armi e combattere contro i compagni di un tempo.

Il silenzio venne spezzato dal cozzare delle spade contro gli scudi.

Il padre di Alexios scrutò attentamente la macchia grigia e indistinta che vedeva sotto di lui nella speranza di riconoscere il figlio.

 

Una volta finita la battaglia, la pianura era piena di corpi. L'erba si era tinta di rosso, e persino il piccolo fiume che scorreva lì vicino aveva assunto una colorazione rosata.

Alcuni dei ribelli erano riusciti a fuggire, scatenando l'ira del tiranno e quello uccise personalmente i prigionieri. Quando Ityos piombò nel silenzio, gli abitanti sciamarono fuori dalle porte, portando in città i corpi.

Il padre di Alexios gli osservò ad uno ad uno: lasciò che le lacrime gli bagnassero il viso, dato che la sua pietosa ricerca non aveva dato esiti.

Guardò con sollievo la pianura che si estendeva davanti a lui.

Soltanto un mese prima aveva visto il figlio partire per l'esilio.

«Buon viaggio, figlio mio, ovunque tu sia diretto...»

 

Due anni dopo

 

Sconforto e incertezza avevano dominato l'animo di Alexios nei primi mesi dopo la sconfitta subita sotto le mura di Ityos. Aveva vagato a lungo tra i campi e le montagne, portandosi dentro tutto il dolore. Giurò di non tornare più a Ityos: lì aveva perso ogni cosa.

Tra i compagni sopravvissuti, solo Kyros volle seguirlo nell'esilio, nonostante Alexios lo pregasse del contrario.

Tuttavia, in un giorno d'inverno, Kyros si ammalò gravemente. Un'improvvisa febbre lo uccise in pochi giorni davanti al rogo funebre, solo con i suoi animali, Alexios giurò che a Ityos non ci avrebbe messo più piede.

Alzò lo sguardo verso le montagne, osservando con tristezza le cime coperte di neve.

Quelle sarebbero diventate la sua nuova casa.

Cavalcò per giorni attraverso i campi e i boschi innevati: non aveva la minima idea di dove stesse andando. Sperò solo che il suo viaggio lo portasse il più lontano possibile da Ityos.

Prese un bastone che teneva sempre con sé, estrasse il coltello e vi incise una tacchetta.

Sospirando, lo rimise al suo posto. Dal giorno della fuga, Alexios vi incideva una tacchetta per ogni giorno passato in esilio.

L'abbaiare improvviso del cane spaventò il cavallo che, impennandosi, fece cadere a terra il suo cavaliere.

Quando Alexios si rialzò, vide un uomo piuttosto anziano fermo davanti a lui. Teneva le briglie del cavallo, accarezzandolo dolcemente. Il cane si era seduto accanto a quello, scodinzolando allegramente.

«Ragazzo mio, dovete imparare a tenere bene il cavallo. Avete rischiato di perderlo» disse l'uomo senza voltarsi. Alexios gli si avvicinò, osservando curiosamente il ricco mantello che quello indossava.

«Oh... Grazie del consiglio».

«Cosa ci fa un giovane come te da solo nella foresta di Nyl?»

«Siamo così a Nord?»

L'uomo rise, voltandosi verso Alexios.

«Questa foresta è l'estremo confine di Issat».

«La città sul confine...»

«Esatto. Ma rispondi alla mia domanda: chi sei?»

«Mi chiamo Alexios e vengo da Ityos».

«Hai attraversato molti territori, quindi. Ti sei forse smarrito?»

«No. Ormai vagare è il mio destino e per quanto odi la mia patria, morirò lontana da essa».

«Vieni con me, ragazzo. Resterai a Issat fino all'inizio della primavera. Rischieresti di morire attraversando le montagne adesso».

«Siete molto gentile. Ma come posso sdebitarmi con voi?»

L'uomo si incamminò verso la fine della foresta e Alexios lo seguì.

«Vedo che hai una spada. Sei un guerriero, quindi».

«Sì. Volete che combatta per voi in qualche contesa?»

«No, mio giovane amico. Vorrei che insegnaste a mio nipote le basi del combattimento. Un principe che non sa combattere quale vantaggio porterà alla sua patria?»

«Principe, avete detto?»

«La legge impone di uccidere chiunque venga trovato nella foresta di Nyl senza permesso del sovrano di Issat».

Alexios fu sconvolto da quelle parole.

«Perché mi avete risparmiato?»

«Eri perso nei tuoi pensieri, non prestavi attenzione all'ambiente circostante. Quando ti ho visto, ho capito che non potevi essere uno bandito che si nasconde qua».

«Grazie... Vi devo la vita».

«Non ringraziare me, ragazzo. Ringrazia il tuo cane. Ha abbaiato così all'improvviso facendomi sbagliare mira e la mia freccia ha colpito un albero».

Il cane abbaiò, portandosi in mezzo ai due.

«Quella laggiù è Issat. Spero che tu riesca ad andare d'accordo con il principino. Ha preso il carattere di sua madre. Ha fatto scappare cinque nutrici e due maestri d'armi. Non male per un bambino di dieci anni, vero?»

Alexios deglutì.

«Quindi... Voi siete il fratello del re?»

«Esatto. Ma odio quel titolo quanto mio nipote. Il mio nome è Ruem. Sei il primo che viene salvato dalla foresta, e a mio fratello non piacerà molto: Ityos e Issat sono rivali nella produzione di lane pregiate».

«Un tempo forse. Adesso Ityos è in un periodo buio: governata da un tiranno è caduta in declino rapidamente. Non esportiamo più la lana e-».

«Avremo tempo per parlare della situazione di Ityos ma tu inventati che vieni da Nyicia, la città più neutrale esistente al mondo» gli disse l'uomo facendogli l'occhiolino.

Alexios annuì leggermente spaventato mentre varcavano l'ingresso della città.

 

***

 

Alexios si era ben presto adattato alla vita frenetica di Issat. Città commerciale, era il cuore pulsante dell'economia di una vasta regione. Il re inizialmente l'aveva guardato con sospetto, accusando il fratello di formare un'armata di giovani stranieri per occupare il trono. La verità su Alexios venne fuori nel corso di un processo a carico di Ruem. Il giovane, deciso a salvarlo, raccontò davanti alla corte gli eventi che l'avevano portato a Issat. Il re fu profondamente colpito dalle sue parole e, ammirando il suo coraggio, gli affidò l'educazione del figlio.

Nei mesi successivi, la battaglia sotto le mura di Ityos divenne solo un brutto ricordo.

 

«Sei in partenza, Alexios?»

«Oh, salve, Ruem. Sì, sua maestà mi ha dato il permesso».

«È stato molto contento del tuo lavoro. Hai cambiato il carattere del principino. Tutta Issat ti sarà grata per sempre di questo».

Alexios scoppiò a ridere.

«Non esagerare! È solo un bambino!»

«Un bambino terribile. Ma come hai fatto a fargli imparare le cose?»

«Era un'ottima sveglia. Ma penso che qui a Issat si trovi meglio che in esilio».

«Parli del cane?»

«Nessun bambino può resistere a un cane giocherellone. Lo so per esperienza: mia sorella ha pianto per dieci notti consecutive per convincere nostro padre a comprare un cane al mercato». Alexios ridacchiò, pensando all'espressione dapprima disgustata del bambino quando il cane aveva iniziato a leccargli la faccia. Pian piano, i due erano diventati amici e il principino era riuscito a strappare una promessa ad Alexios: alla sua partenza, il cane sarebbe rimasto lì.

Ruem gli mise una mano sulla spalla.

«La primavera è inoltrata: il regno di Lybor si trova a pochi giorni di cammino da qua. Ti do un consiglio, ragazzo mio. Evita i sentieri troppo in quota: la neve potrebbe giocarti qualche brutto scherzo».

Alexios gli strinse la mano.

«Non preoccuparti. Starò attento».

«Tornerai mai a trovarci?» urlò Ruem mentre il giovane si allontanava a cavallo.

Alexios si fermò e, voltatosi, osservò l'uomo. I suoi capelli neri, ormai tenenti al bianco, incorniciavano gli occhi azzurri in cui Alexios vi aveva letto una scintilla di gioventù mai spentasi.

«Se così vorrà il fato, tornerò con piacere. Altrimenti, se le strade mi porteranno in altri porti e in altri monti, conserverò il vostro ricordo. Addio, Ruem. Che gli dei benedicano le terre di Issat!»

«Buon viaggio, ragazzo mio» urlò agitando la mano mentre la figura del giovane si faceva sempre più piccola all'orizzonte. Il cane si acquattò ai suoi piedi uggiolando e Ruem lo accarezzò sulla testa.

«Mancherà a tutti, quel ragazzo» mormorò sconsolato tra sé l'uomo. In quei pochi mesi trascorsi con lui, Ruem si era affezionato così tanto ad Alexios che lo considerava il figlio che non aveva mai avuto.

 

Per Alexios, gli anni seguenti, trascorsero lenti tra paesaggi sterminati, focolai stranieri e scomodi letti.

Tuttavia, in essi aveva trovato una felicità e una pace che a Ityos non aveva mai conosciuto.

Si era fermato nella capitale del regno di Lybor, offrendosi al sovrano come mercenario. Sapeva che c'era una guerra in corso e Alexios non si era ancora arreso all'idea di morire in un letto di vecchiaia: avrebbe preferito cadere in battaglia trafitto dal nemico.

Finita la guerra, si era stabilito nella capitale, lavorando al servizio di un vecchio proprietario terriero. Quello, in punto di morte, gli aveva affidato la tenuta e la mano della figlia e Alexios non si era sentito di rifiutare.

Tuttavia, per quanto la nuova vita fosse comoda, Alexios sentiva spesso la nostalgia della vita trascorsa in esilio.

Così, senza dire niente a nessuno, una notte riprese l'esilio, abbandonando la capitale e dirigendosi là, dove era possibile sfiorare gli ultimi raggi del sole.

Lybor era prevalentemente pianeggiante e Alexios sapeva che quelle sterminate pianure gli avrebbero offerto rifugio.

 

Yerenia, quarant'anni dopo

 

Seduto sul ramo di un albero, un ragazzino dai capelli rossi osservava la campagna circostante. Poco lontano dalla vecchia quercia vi era una strada lastricata: era ciò che rimaneva del collegamento principale di quando Issat, Ityos, Eldynia e Yerenia facevano parte dello stesso regno. Un tempo trafficata, in quel momento era deserta.

Voltò lo sguardo verso la città, sperando che giungesse qualche ignaro mercante cui giocare uno scherzo.

Gli s’illuminarono gli occhi quando vide un uomo avanzare verso di lui. Si appoggiava a un bastone e indossava un logoro mantello.

Il ragazzo decise di non fargli scherzetti: non portava con sé niente di speciale e far prendere paura a un povero vecchio non era un comportamento rispettoso. Scese velocemente dall'albero, sedendosi sul ciglio della strada.

«Venite da lontano, signore?»

«Vengo da lontano, sì, ma anche da un posto molto vicino».

«E dove state andando?»

«A Ityos».

Il ragazzino lo osservò stupito per un attimo, scoppiando poi a ridere.

«O venite da molto lontano o siete davvero stupido. Ityos ormai è un cumolo di macerie. La città è stata conquistata dal nostro esercito. Rimane solo il nome adesso!»

Alexios sorrise: ancora una volta, fino alla morte, le strade sarebbero state la sua casa.

 

   
 
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