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Autore: Slappola    28/08/2015    8 recensioni
«La mia casa è in subbuglio, un ricettacolo di giornali di psicologia e giardinaggio sparsi e ormai datati, un ammonticchio di vestiti da lavare, di riccioli di polvere nera sotto mobili, dietro le porte. Ma i miei pazienti lo sanno. Sono abituati a vedermi così, trasandato, nel mio studio privato disfatto, in cima alle scale a chiocciola, in quella stanzetta che dà sul terrazzo
Prima Classificata al contest "Ombre del passato - Quando dimenticare è impossibile" di _Vintage_
Prima Classificata al contest "V'è un piacere nello... scrivere" di Chloe R Pendragon e Amahy.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Quando si è soli nel corpo e nello spirito si ha bisogno di solitudine, e la solitudine causa altra solitudine."
Francis Scott Fitzgerald


 




La sigaretta che stavo fumando fino ad un attimo fa si sta divorando da sola, là, sul posacenere. Si consuma poco a poco, lenta, lasciandosi dietro pezzi di cenere scura e ancora calda, rigurgitando quel suo fumo che s’avvita verso l’alto, in una spirale d’ovatta.

L’ho abbandonata a se stessa perché hanno suonato alla porta.

Una, due, tre volte.

So già chi è ancor prima di controllare la mia agenda, ancor prima di ciabattare fino all’entrata e rispondere al citofono.

Una, due, tre volte.

Sei in totale, come da prassi.

La mia casa è in subbuglio, un ricettacolo di giornali di psicologia e giardinaggio sparsi e ormai datati, un ammonticchio di vestiti da lavare, di riccioli di polvere nera sotto mobili, dietro le porte. Ma i miei pazienti lo sanno. Sono abituati a vedermi così, trasandato, nel mio studio privato disfatto, in cima alle scale a chiocciola, in quella stanzetta che dà sul terrazzo.

Ce ne hai messo di tempo, mi dice lui entrando.

Si guarda attorno, storce il naso.

C’è puzza di sigaretta, mi dice con rimprovero.

Sempre la solita storia.

Gli rispondo che ora la spengo, gli chiedo se nel mentre posso offrirgli qualcosa, un succo d’arancia, un bicchiere d’acqua, un caffè forte.

Glen Grant non ne hai?

Non si è ancora tagliato i capelli, li tiene unti e legati all’indietro con una fascetta. La barba è sfatta e indossa ancora la stessa casacca sdrucita della scorsa seduta.

Gli dico di no, di Glen Grant non ne compro più.

O forse l’hai appena finito.

Sorride. Una sfilza di denti marci, gialli, con una strana patina sopra.

Lo faccio accomodare di sopra indicandogli la scala, ricambiandogli il sorriso con circostanza.

Dopo di te, ribatte.

Ho lasciato la portafinestra aperta nello studio. Sta arrivando il temporale, un vento forte mi ha sollevato tutti i fascicoli e sparso i fogli alla rinfusa, svuotato i portapenne dalle matite.

Un cimitero di matite, commenta lui senza darsi pena di calpestarle. Con chi hai fatto a botte?

Si crede simpatico, ha queste manie di protagonismo che ogni tanto fatico a sopportare.

Gli dico che donna Carmen è tornata in Venezuela perché la madre non sta bene, che è per questo che è tutto sottosopra. E subito dopo mi chiedo perché io stia a giustificarmi con lui.

In effetti donna Carmen sa raccogliere le matite molto bene, è giusto che lo faccia lei.

Gli sorrido di nuovo, socchiudendo gli occhi, fingendomi divertito. Poi mi accomodo sulla poltrona in pelle, di fronte a quella dove è seduto lui, e accavallando le gambe apro l’agenda, scrivo nome e data.

Gli chiedo come sta oggi.

Lui si gratta la barba, sotto il mento, e si agita sul posto osservando a destra e a sinistra, smuovendo la puzza da scarsa igiene che si porta appresso.

Per cosa usavi questa stanza prima?

Penso che gli aumenterò le dosi di Leponex.

È tutta rosa, hai notato che è tutta rosa?

Lo appunto sull’agenda.

Da quando in qua uno studio è rosa? Sembra piuttosto la stanza di una bambina.

Lo sottolineo tre volte.

Ma non c’avevi una figlia, tu?

Faccio un solco talmente calcato da bucare il foglio e finire a due giorni dopo.

Gli chiedo nuovamente come sta oggi.

Ma lui si alza, non ce la fa proprio a stare seduto. Va in giro per lo studio, osserva i quadri appesi, le foto di famiglia in quelle cornici pacchiane. Ne raddrizza una, la più sbagliata.

T’oh, questa qua. La indica, ci batte il suo dito sudicio contro. Questa qua non è tua figlia?

Gli chiedo, lo supplico di tornare a noi, alla sua seduta, non la mia.

T’assomiglia, è per forza tua figlia.

Gli dico di evitare di venire, di pagarmi, se tanto poi non vuole parlare di sé. Cerco di mantenere il tono calmo, di non far vedere che sto sudando.

E qui c’è tua moglie. Si gira verso di me. Dov’è finita tua moglie?

Devo alzarmi, è ora che lo faccia. In due falcate sono da lui con una voglia irrefrenabile di mettergli le mani addosso, di disincrostarlo dalla mia vita. Ma lui continua a tamburellare le fotografie, con insistenza, ad attirare maledettamente la mia attenzione su di loro.

Allora le guardo, ma senza vederci nulla. Ci sono solo delle cornici vuote, una parete di foto bianche, anonime, sfocate.

Non sei manco andato al loro funerale.

A quel punto io urlo, gli urlo tutto addosso. Ormai si finisce sempre così con lui, ormai non so più cosa voglia dire professionalità.

Gli urlo di tacere, che non sa nulla, che non è nessuno.

È tanto più facile ubriacarsi, spararsi robaccia nelle vene. Lui, dal canto suo, è calmissimo. Lo so, perché lo faccio anch’io.

Gli ordino di andarsene, la seduta è finita. Scatto alla scrivania, scarabocchio sopra una ricetta e gliela schiaffo sul petto. Via, deve andare via.

Lui l’appallottola e me la tira addosso.

Niente potrà riportarle indietro, impedirti di alzare il gomito la sera del compleanno della piccola, fare un incidente mortale. Niente ti ridarà il tuo lavoro, la tua sanità mentale.

Quando afferro il tavolino e glielo rivolto contro lui è già sparito. Di nuovo. Quando scivolo piano al suolo, tra quel cimitero di matite, stretto nella mia casacca lurida, sto già piangendo.

Voglio essere lasciato solo, solo con le mie voci, le mie sensazioni, le mie pasticche.

Voglio la mia solitudine, voglio marcirci dentro.

Raccatto il foglio della ricetta e lo srotolo.

C’è ancora una bottiglia di Glen Grant sotto il letto, dice.

La vita che stavo vivendo fino ad un attimo fa si sta divorando da sola, là, sul pavimento. Si consuma poco a poco, lenta, lasciandosi dietro pezzi di carne putrida e ancora calda, rigurgitando quella sua anima che s’avvita verso l’alto, in una spirale d’ovatta.

L’ho abbandonata a se stessa perché me lo merito.

Perché sono un assassino.






Note di Slappola:

Questa storia ha partecipato al contest di  _Vintage_, "Ombre del passato - Quando dimenticare è impossibile", classificandosi prima.
Inoltre partecipa al contest di Amahy e Chloe R Pendagon, "V'è un piacere nello... scrivere", da cui ho preso spunto per stendere la trama.
Grazie a chiunque leggerà e recensirà :3

 

  
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