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Autore: Ivola    02/09/2015    3 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Mi rendo conto che questo è il capitolo più lungo e intenso della storia. Ed è anche l'ultimo. Ne vado stranamente soddisfatta, anche se probabilmente ad alcuni risulterà un po' pesante da leggere, ma... ehi, dopo l'epilogo non vi romperò più le scatole con Blur, sarete finalmente liberi da tutto questo angst gratuito. Non mi dilungherò a spiegare quanto mi abbia fatto soffrire fisicamente scrivere la conclusione effettiva, mi dedicherò ai ringraziamenti e alle mie emozioni e intenzioni riguardo questa storia nell'epilogo, che cercherò di postare la settimana prossima. Non ho voglia di allungare il testo ancora di più.
Ringrazio vivamente Marty per il supporto datomi in questo capitolo e per avermi suggerito alcuni passi che trovo stupendi. Ringrazio anche i miei genitori per avermi portata al mare in un posto meraviglioso, che mi ha conferito l'ispirazione necessaria per scrivere questo difficilissimo capitolo di Blur.
Infine, vorrei soltanto aggiungere che so perfettamente che ad alcuni questo finale risulterà deludente, mentre altri probabilmente ne saranno felici. Sappiate soltanto che era tutto calcolato sin dal principio, che non ho mai "parteggiato" nessun personaggio e che la vicenda doveva andare esattamente così, perché la storia di questi tre ragazzi risultasse un ciclo completo. La loro psicologia e le loro azioni hanno condotto a questo: hanno fatto tutto da soli, io mi sono semplicemente limitata a dare loro vita e a muoverli. 
Questa storia è parte di me, ormai, spero sul serio che l'abbiate apprezzata. Se vi va di lasciarmi un parere per questo capitolo, naturalmente, ve ne sarei più che grata. 
Mi sto già dilungando ed emozionando troppo.
Ps: il "never" è come l' "always" della Rowling per Blur :°

Come sempre, nel caso voleste seguirmi su facebook, vi linko la mia pagina QUI.

Buona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene dall'omonima "Underwater" di Mika.
Durante il capitolo, invece, sarà citata "Hoodoo" dei Muse, ovvero la canzone che un po' racchiude tutta la storia (da cui viene anche il misterioso "Tied to a railroad" sotto il titolo).

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Blur

(Tied to a Railroad)






033. Thirty-third Chapter – Underwater.

 


Il salone dei Bridge era sempre vuoto a quell'ora. 
Klaus, vivendo in quella casa da ormai più di quattro mesi, aveva imparato ogni abitudine, o quasi, delle persone che vi abitavano. A quell'ora, in un momento imprecisato tra le due e le tre del pomeriggio, Erzsébet, Klaudia e Benjamin riposavano. La donna portava la bambina in camera con sé e la faceva addormentare, mentre il ragazzo si chiudeva nella propria stanza, inaccessibile a chiunque tranne che al proprietario. Quando Ben era fuori, la porta era sempre rigorosamente chiusa a chiave e Klaus non aveva indagato più di così: pochi giorni dopo il suo trasferimento, aveva preso coraggio ed era entrato nella camera di London, restando in silenzio a contemplare i mobili che erano appartenuti alla ragazza che lui si era sempre detto di odiare – un periodo distante anni luce da quel giorno, la loro adolescenza. Era stato un momento estraniante, in cui non era riuscito a pensare a nulla che non fosse la presenza di una London sedicenne che camminava e viveva in quell'ambiente accogliente dai colori tenui. Gli era sfuggito un sorriso; si era domandato, poi, se la stanza di Benjamin gli avrebbe potuto fare lo stesso effetto. Ma non aveva mai trovato l'occasione di entrarvi. 
Erano state rare, in quei mesi, le volte in cui avevano parlato, anche per un breve scambio di parole. Una parte di Klaus era ancora pervasa dall'odio ossessivo, ma un'altra, la ormai dominante, si era rassegnata agli eventi, lasciandolo vivere con i propri silenzi e i propri ricordi lontani, sfocati.
Klaus l'avrebbe chiamata apatia, ma era al momento la sensazione che preferiva, perché era riuscita a dare un freno al dolore che aleggiava ogni giorno nel suo petto.
A volte si sentiva solo, altre pensava che Klaudia fosse l'unico appiglio che lo tenesse ancorato a quella vita, altre ancora credeva che fosse la rabbia sopita a spingerlo ad andare avanti, aspettando di esplodere e distruggere ogni cosa intorno a sé. 
A volte Klaus smetteva di pensare e basta. Prendeva un libro dalla biblioteca o una vecchia chitarra appartenuta ad Alfons e provava a leggere o suonare, solo in quel grande salone elegante, solo con la propria mente. Cercava di dare un senso ad ogni cosa, senza mai riuscirci.
A volte rifletteva sul fatto che ogni cosa sarebbe potuta andare diversamente se lui avesse amato Ben e non London sin dal principio. Se ne dava la colpa, più di quanta ne avesse realmente, più di quanta ne meritasse.
Se io lo avessi amato, anche solo per un secondo...
A volte cantava a bassa voce canzoni che ricordava, canzoni della zona ovest, canzoni del distretto. Non gli piaceva cantare, ma gli veniva spontaneo quando imbracciava la chitarra.
Come to be, how did it come to be, tied to railroad, no love to set us free, watch our souls fade away and our bodies crumbling-
Aveva imparato a suonare, aveva imparato ad ascoltarsi mentre pensava ai gemelli Bridge anche senza volerlo. Erano parte della sua vita, dopotutto, erano il perno intorno cui era girata tutta la sua esistenza fino a quel momento. E Klaus li riconosceva in alcune melodie, in alcune parole. Riusciva a riconoscere persino se stesso in quella sofferenza che dilagava nella sua disperata voglia di soffocare tutto con un po' di musica.
-And I had recurring nightmares that I was loved for who I am and missed the opportunity to be a better man.
Klaus avrebbe soltanto voluto essere un uomo migliore.
A volte sapeva perfettamente di non essere solo in quel salone. A volte il gatto nero di Klaudia – trovato da lei con Erzsébet nei pressi del vecchio mercato – gli saltava sulle gambe e pretendeva di essere accarezzato, altezzoso come solo un felino potrebbe essere, ma non era la sua presenza a turbarlo.
Una volta era seduto sul divano, si era girato e l'aveva visto, lì, appoggiato alla porta aperta con un'espressione indecifrabile, mentre lo fissava intensamente, proprio come se stesse osservando un'opera d'arte in cui era riuscito ad immedesimarsi. Benjamin lo stava ascoltando. Forse lo ascoltava sempre, senza che lui se ne accorgesse.
Da quel giorno aveva fatto finta che lui non ci fosse, anche se, effettivamente, il salone dei Bridge non era mai davvero vuoto a quell'ora.


 
*


Quella notte trovò particolarmente impossibile chiudere occhio. Pensava più del solito, si rigirava tra le lenzuola più del dovuto, sudato, come se fosse una notte d'estate e lui non riuscisse a prendere sonno per il caldo asfissiante.
Ma non era estate. E non faceva caldo.
Alla fine Klaus si arrese e si alzò dal letto, frustrato, e uscì in corridoio per dirigersi al bagno per darsi una rinfrescata. Eppure lungo quella breve strada qualcosa lo bloccò. Gli bastò un istante per accorgersi che qualcosa era fuori posto... che la porta di Benjamin era socchiusa
Un'intensa sensazione di stupore e curiosità si diramò dentro di lui, sostituendo l'angoscia dell'insonnia. Lo considerò un invito esplicito, come se Ben stesso gli avesse suggerito di entrare nella sua stanza quella notte.
Aprì ancora un po' la porta, giusto quanto bastava per passare. La mano poggiata sulla maniglia gli sudava incredibilmente. Si sentiva come se stesse per entrare in una tana di serpenti.
Ben dormiva sul proprio letto. Fu la prima e ultima cosa normale che notò.
Cercò di restare in assoluto silenzio per non svegliarlo, ma non poté impedirsi di rimanere a fissare con shock quello spettacolo così macabro.
Una piccola luce rimasta accesa sul comodino era tutto ciò che illuminava l'ambiente, ma a Klaus bastò per vedere quello che non avrebbe mai dovuto vedere.
Si era sempre detto che quella fosse solo una stanza e non capiva perché Ben non facesse entrare nessuno, tanto meno sua madre. Ora invece comprendeva. Ora sentiva il peso di quelle mura, ora sentiva l'aria farsi più pesante nei suoi polmoni.
Mobili graffiati, frammenti di vetro sul pavimento, tende strappate, scritte raccapriccianti e soprattutto disegni. Disegni alle pareti, a terra, sugli oggetti. Klaus rimase al contempo affascinato e disgustato quando riconobbe i soggetti.
Io e London.
Klaus e London dipinti ad abbracciarsi, baciarsi, a volte morti, a volte senza qualche arto, a volte separati, con fattezze sovrannaturali, dipinti di rosso cremisi. Klaus per un momento si chiese se la pittura non fosse sangue. 
Quello del sangue era l'odore che regnava sovrano in quella camera, dopotutto.
Rimase senza fiato a contemplare quell'ordinato disordine, specchio della sua mente, e a raccogliere tutti i dati sensoriali che riusciva a percepire – come ad esempio la totale assenza di suoni all'infuori del respiro regolare di Ben.
Klaus si avvicinò a lui lentamente, per osservarlo meglio. Per qualche strano motivo dormiva tranquillo, come se finalmente avesse preso sonno dopo mesi di incubi ad occhi aperti. Aveva qualche ciuffo di capelli albini a coprirgli la fronte, la bocca leggermente schiusa e un'espressione quasi rilassata.
Non provò odio nel guardarlo, non quella volta. Solo curiosità. Una tremenda e insaziabile curiosità.
Individuò subito quella che aveva l'aria di essere un'agenda stropicciata sul comodino, accanto a un pacchetto di pillole non identificate e un bicchiere vuoto. Non seppe perché, ma sentì lo spasmodico bisogno di leggere quelle pagine, di leggere quello che Ben pensava realmente.
La prese tra le mani e, in un primo momento, si sentì in colpa ad invadere la sua privacy, ma un momento dopo non gli importò più. Il diario era pieno di fogli e appunti inseriti disordinatamente tra le pagine. 
Cominciò a leggerne l'inizio. "Mamma stamattina mi ha detto di essere un bambino forte e speciale. Ho solo dieci anni, lo so, ma sarò bravo e ce la metterò tutta per guarire da questa specie di malattia. Non ho capito bene di cosa si tratta, ma mamma e papà hanno detto di non dire niente a London per il suo bene. Io voglio il suo bene."
Klaus sentì una mano invisibile graffiargli il cuore violentemente. Voleva il suo bene... Non ce la fece a continuare quella parte della sua infanzia. Sfogliò le pagine, fino a leggere di sfuggita il proprio nome più di una volta.
Si fermò in una pagina macchiata di inchiostro. "Non credo che London sappia o abbia capito. Le ho detto di amarla e le è bastato. Non credo che a Klaus basterebbe, se glielo dicessi. Ma no, no, no, lui non lo saprà mai. Sono convinto che mi riderebbe in faccia se gli dicessi cosa provo, se gli dicessi che mi piace... anche se, beh, 'mi piace' è riduttivo. Maledizione, cosa mi sta succedendo? Klaus e London sono promessi, non posso intromettermi, non posso deludere mamma e papà. E poi si vede lontano un miglio che l'odio di Klaus è tutta una finzione. Vorrei non essermene accorto."
Klaus cominciò a respirare più velocemente, inquieto per tutti i segreti che avrebbe potuto violare leggendo quel diario. Ma non riuscì a fermarsi.
"Ho questo diario da moltissimo tempo, eppure mi sono accorto solo ora di non aver mai scritto 'Caro diario'... mi sento in colpa, è strano. E' successa una cosa, comunque... mi tremano le mani mentre scrivo... non riesco neanche a dirlo. No, anzi, non riesco neanche a realizzarlo. Sono stato a letto con Klaus. Oddio. Non ricordo neanche com'è successo. Eravamo in un bar della zona ovest ed è degenerato tutto... è stato... è stato il momento più bello della mia vita. E' vero, ho perso la verginità con London, ma con lui... è stato diverso. Non so cosa scrivere, di preciso. So solo che vorrei che s'innamorasse di me. Ma non accadrà mai. Non deve accadere. Klaus deve sposare London. Klaus ama lei, anche se non vuole ammetterlo."
Ricordò che Ben gli aveva chiesto se fosse innamorato di London innumerevoli volte, ma lui aveva sempre mentito o non aveva risposto, da buon codardo qual era. Non sarebbe cambiato nulla se Benjamin avesse saputo la verità, certo, ma ciò non aiutava Klaus a non sentirsi uno sporco e meschino bugiardo.
Proseguì la lettura, nervoso, controllando che l'altro stesse ancora dormendo. "Li ho convinti. Alla fine si sono sposati. Doveva andare così, era tutto programmato sin dall'inizio. Non c'è spazio per me. Non c'è spazio per un po' di felicità. No. Tocca a loro essere felici. London sarà felice, lo so. Supereranno ogni difficoltà, insieme. Forse capiranno di... di essere fatti l'uno per l'altra."
Gli si bloccò il respiro in gola. Benjamin aveva previsto tutto, o quasi. Aveva previsto che avrebbero cominciato ad amarsi, un giorno. Perché lui sapeva. Lui vedeva. Vedeva la loro attrazione, vedeva la verità in ogni bugia, vedeva sentimenti positivi in quell'odio che tanto decantavano da ragazzi. E invece Klaus era stato così cieco...
Sfogliò qualche altra pagina, soffermandosi su una particolarmente disordinata – non era nel suo stile. Era sgualcita, bagnata di lacrime ormai asciutte. "Klaus gliel'ha detto... ha detto a London della nostra notte di luglio. Gliel'ha detto. Abbiamo litigato, io e lei, lei e lui, lui ed io. Abbiamo litigato. Perché gliel'ha detto...? Ha rovinato tutto! Come faccio ad amare una persona così superficiale? Come?"
Klaus smise di leggere per qualche secondo. Quelle parole gli stavano perforando il cervello. Si sentiva estremamente a disagio nel ripercorrere tappe della propria vita da un'altra prospettiva. Si sentiva il cattivo.
"Oggi è nata Klaudia. Sono così felice... E' nata prematura, ma è bellissima e in salute, ci somiglia tantissimo. Spero che le nostre famiglie non sospettino niente. Dobbiamo ricominciare da capo. Questo è un punto di svolta, nient'altro deve andare storto. Ora London e Klaus potranno essere una vera famiglia, con Klaudia. Io resterò solo, ma non importa, sapevo che questo sarebbe stato il mio destino. Va bene così. Va bene. Starò meglio. Smetterò di tagliarmi, continuerò a prendere le pillole. Starò meglio. Sono felice. Sono felice che London lo ami, sono felice che anche Klaus ami lei. Sì, sono felice. SONO FELICE."
Klaus provò un brivido nel leggere quelle lettere in maiuscolo. Era tutto così... falso. Sembrava tanto che Ben stesse mentendo a se stesso.
Da quel punto una sezione del diario si chiudeva, per lasciare spazio ad altre pagine, completamente diverse. Appunti sui medicinali, numeri, calcoli, macchie incrostate di sangue.
Poi i suoi pensieri riprendevano, più sconnessi e confusionari di prima. "Nella mia vita ho desiderato cose orribili. Ho desiderato che lei non esistesse, oppure semplicemente che non l'avesse mai incontrato. Così lui avrebbe visto... avrebbe visto che esistevo anch'io. Ma è la mia sorella gemella. Non dovrei neanche pensare queste cose. Lei è il mio unico raggio di luce, voglio che sia felice. Sono un pessimo fratello."
Al respiro di Benjamin si aggiunse il suono delle pagine che Klaus stava sfogliando velocemente, inquieto. Altro sangue. Alcune parole erano illeggibili.
"Se ne sono andati. Se ne sono andati per proteggere Klaudia. Sono al sicuro. Ho provato a suicidarmi, ma ho fallito. Non faccio altro che fallire."
I pensieri divennero molto più brevi e radi, intervallati da altri appunti e fogli aggiuntivi. Poi scomparivano anche quelli.
Pagine bianche, pagine vuote.
"Ho smesso di prendere le pillole. Voglio restare solo con il mio dolore. Voglio essere normale. Perché nessuno lo capisce? Senza pillole mi sento più me stesso. Mi sento meglio e peggio contemporaneamente. Mi sento...  giusto."
Altre lunghe pause.
"Papà è morto."
Pause asfissianti, molto più intense dei pensieri stessi.
"Perché sono ancora vivo? Non posso continuare a vivere così. Non posso continuare a vivere e basta. Devo morire. Devo."
Il diario sembrava terminare così. Klaus sentiva il cuore pulsargli con violenza nel petto, come se volesse essere liberato dalla gabbia toracica. Voltò un'ultima pagina, credendo di non trovare più nulla. 
"CHI SEI?"
Una scritta nera, enorme, che ricopriva tutta la pagina, nera e sporca. A seguire, schizzi crudeli, bozze macabre su corpi torturati e dilaniati. Non c'erano più parole. 
Klaus aveva voglia di urlare, ma si trattenne. Quel viaggio nella mente di Benjamin l'aveva lasciato annientato, terrorizzato. Spostò lo sguardo su altri oggetti della stanza, notando che quella scritta era riportata un po' ovunque, ma soprattutto sullo specchio a muro in fondo alla camera. Era rotto – probabilmente i frammenti di vetro venivano da lì – ma la scritta, minacciosa proprio come quella nel diario, era ancora leggibile. Si immaginò Benjamin che la leggeva ogni volta che si specchiava o che incrociava il proprio sguardo nel riflesso. Chi sei? Forse nessuno poteva davvero rispondere a quella domanda. 
Klaus sentì un dolore improvviso al dito indice e lo ritirò di scatto, tagliandosi più profondamente. Dalle sue labbra fuoriuscì un'imprecazione spontanea: tra le pagine del diario era nascosta una piccola lama rettangolare, quasi come se fosse un segnalibro o un promemoria.
Sentì un movimento in direzione del letto e quindi alzò lo sguardo su di Ben, che stava aprendo gli occhi. Quell'esclamazione l'aveva svegliato.
Klaus non ebbe il tempo di fare nulla, neanche di posare il diario, che Benjamin, nel riconoscerlo, si alzò di scatto dal materasso, impugnando un coltello che teneva sotto il cuscino.
« Come sei entrato? » biascicò velocemente, la lama puntata contro di lui e gli occhi spalancati dal panico. Il suo sguardo viaggiò velocemente dal volto di Klaus al diario che teneva tra le mani. Il suo viso impallidì di botto. « Come sei entrato?! » ripeté, stavolta gridando e tendendo di più il coltello.
Klaus fece un passo indietro, non sapendo come giustificarsi. « Ben... », alzò le mani in alto, « la porta era aperta. » 
Ben cominciò a respirare più velocemente e a tremare. Digrignò i denti. « Vattene subito. »  
« Ascolta, io- » 
« Klaus, ti farò del male se non te ne vai subito. Ti ucciderò. VATTENE! » urlò, di nuovo, con il panico evidente che gli attraversava le iridi lucide.
Klaus spostò lo sguardo sul coltello, che tremava come la presa del proprietario. Notò che la lama era sporca di sangue rappreso. Notò che Ben aveva cominciato a sudare freddo. « Uccidermi? » disse, senza abbassare le mani. « Sarebbe la volta buona. Non l'hai fatto una volta, adesso hai la tua occasione. »   
« Potrei farlo davvero se non te ne vai! » gridò l'altro, avanzando di qualche passo, sull'orlo di una crisi di nervi. « Lasciami solo, esci! » 
« Hai detto che non volevi più stare da solo, no? » insinuò Klaus, porgendogli il diario.
Ben lo ignorò. « Non ti voglio qui. Non avresti nemmeno dovuto vedere tutto questo. Non faccio entrare neanche mia madre » mormorò velocemente, accavallando le parole. « Prendi anche quel maledetto diario, non mi importa, ma esci immediatamente! »   
Klaus lo guardò negli occhi e non riuscì a vedere altro che panico e paura. Aveva invaso il suo spazio. « Non ho paura di te. Non adesso. » Erano quasi pari.
A Ben sfuggì un singhiozzo isterico. « Non voglio farti del male... » disse, ma senza smettere di minacciarlo con il coltello, « ma devi andartene! Per favore! » Sferzò un fendente nell'aria e Klaus ebbe appena il tempo di tirarsi indietro prima che lo ferisse al braccio.  
Era vero che non aveva paura di lui. Anzi, quel momento aveva tutta l'aria di essere una resa dei conti. Dolore per dolore. Supplicami..., avrebbe voluto dirgli. Non ho sentito bene, supplicami.
Alla fine rinunciò. Klaus non era Benjamin. Klaus non era Emil. Non provava piacere nel vederlo soffrire. Si allontanò dopo un ultimo sguardo, chiudendo la porta di quella stanza degli orrori dietro di sé e lasciandolo finalmente – di nuovo – solo.


 
*


Caro Klaus,
a dire il vero non so nemmeno da dove cominciare. Alla fine l'avevo imparato il tedesco, visto? Commetto ancora qualche banale errore di trascrizione, ma nel complesso questa lettera dovrebbe essere leggibile. L'avevo imparato anni fa per te. Per sembrare migliore ai tuoi occhi. Ma non te l'ho mai detto. Ci sono molte, troppe cose che non ti ho detto e adesso sto cercando di rimediare. E' tardi, lo riconosco, ma un tentativo non mi farà male. Hai il diritto di sapere. 
Probabilmente quando leggerai questa lettera sarò già morto. Mi toglierò la vita. Sono ansioso di abbandonare questo mondo. Per favore, non sentirti in colpa. Assicurati che anche London non conviva con il rimorso, perché, lo giuro, non è colpa vostra. All'inizio, per giustificare il dolore della mia solitudine, mi ero detto che la causa di tutte le mie sofferenze eravate voi. Poi ci ho riflettuto meglio, a lungo, e sono giunto alla conclusione che la colpa di questa situazione non deve essere attribuita a nessuno all'infuori di me. 
Sono nato sbagliato. Sono malato. Ho bisogno delle mie pillole e delle mie medicine per sopravvivere, per restare il Benjamin che tutti hanno imparato a conoscere. Se smettessi di prenderle... non so chi o cosa potrei diventare.
Ho smesso di prenderle da qualche giorno. Volevo provare ad essere normale, volevo convivere da solo con il dolore causato dalla vostra improvvisa partenza. So che adesso siete lontani, so che siete fuggiti per tenere Klaudia al sicuro, ma so anche che un giorno troverai il modo di leggere questa lettera. 
L'ultima pillola che ho preso, mercoledì scorso, era un antidepressivo. Ne sento la mancanza. Me ne accorgo perché ho più voglia di morire del solito e finalmente... finalmente potrò accontentarmi. Credo che questo sia l'ultimo momento di lucidità che mi è concesso, prima dell'oblio.
London non sa nulla della malattia, delle pillole, della depressione. So esattamente cosa proverà quando lo verrà a sapere. Siamo gemelli, uniti nella mente. Soffrirà. Forse soffrirà più di me. Voglio che tu la sostenga, che le resti vicino. Solo con te potrà superare la mia morte. Non te lo perdonerei mai se tu la abbandonassi... ma sono sicuro che non lo farai, vero?
Klaus, credo di essermi innamorato di te dalla prima volta in cui ti ho visto. Allora non sapevo neanche lontanamente cosa fosse l'amore, ovvio. Eri così diverso da me, così ribelle, audace, affascinante. Eri il mio esatto opposto, così vicino a tutto ciò che sarei voluto essere ma che non sono mai potuto diventare per non deludere la mia famiglia. Sembra assurdo, ma credo di aver scoperto la mia omosessualità così, pensando a te prima di andare a dormire, sognandoti, desiderando ogni singola volta di essere al posto di London. 
London è l'unica donna della mia vita. Sono stato con altri uomini per fare esperienze, soprattutto dal punto di vista sessuale, ma le sono rimasto fedele sempre. Lei è ciò a cui tengo di più al mondo, è l'altra parte di me, la parte che non avrebbe mai dovuto soffrire. Io vivo in funzione di lei. Vivo per renderla felice. La sua felicità è il mio fine ultimo. E ho sempre saputo che sarebbe potuta essere realmente felice solo con te. So benissimo che non ha un carattere facile, che non ti confesserà mai ciò che prova. Ma tu devi fidarti di me: London ti ama. 
Per questo motivo l'ho lasciata andare. Vi ho lasciati andare. Vi ho convinti io a sposarvi, ricordi? Perché possiate essere felici, senza alcun intralcio, senza di me.
Dite a Klaudia che le voglio bene, proteggetela e fatela crescere in un mondo sereno e lontano che non comprende la presenza del suo vero padre.
Sarei voluto restare in vita per lei... ma non posso. E' giunto il mio momento. 
Avrei voluto un'altra vita, un altro amore, un altro dolore, lo ammetto. Ma non mi pento di nulla. Sono pronto. Vi amo.
Ti amo.
Addio,

 
Benjamin

 
*


Alla fine Klaus aveva tenuto il diario. Se l'era portato in stanza, senza alcun motivo apparente. Non aveva letto altre pagine, l'aveva semplicemente posato sul comò. Tuttavia, nel poggiarlo lì, due fogli erano caduti delicatamente sul pavimento, fluttuando.
Erano due lettere: una indirizzata a lui e una a London – quella per la sorella scritta in una lingua sconosciuta a Klaus.
Klaus aveva letto la propria. L'aveva letta più di una volta. L'aveva... soppesata. Alla fine, non aveva più dormito quella notte. Era rimasto a fissare il soffitto con le lettere, ormai stropicciate e malridotte, strette in pugno e un terribile groppo fermo in gola.
Era l'alba e Klaus non sapeva più cosa fare o pensare; era così confuso che avrebbe potuto tranquillamente rimettere tutto ciò che aveva mangiato la sera prima – ma aveva davvero mangiato? Non ricordava.
Non ricordava neanche le poche cose che aveva sognato in quel breve momento di dormiveglia verso le tre del mattino. London? Christina?
Stranamente, non voleva saperlo. Voleva solo togliersi quel peso. Doveva parlargli a tutti i costi.
Si ritrovò davanti alla porta della stanza di Benjamin, proprio come quella notte. Non sapeva se avrebbe trovato il coraggio di bussare. Non sapeva che reazione avrebbe avuto. E ne era spaventato, in effetti.
Dopo qualche secondo di immobilità, Klaus bussò, senza insistenza. Due colpi contro il legno della porta. 
« Benjamin? » 
Ci furono lunghi e pesanti istanti di silenzio. Klaus sapeva che Ben era dentro. Sapeva che l'aveva sentito.
Gli aprì dopo qualche minuto.
Lo sguardo di Klaus si ritrovò già all'altezza degli occhi dell'altro.
« Cosa c'è adesso, Klaus? » domandò l'albino con un sospiro stanco.
Klaus sapeva che guardarlo negli occhi era l'unica arma che gli era rimasta, l'unico potere che aveva ancora su di lui. Si chiese se questa volta – come la maggior parte delle volte – Ben avrebbe distolto lo sguardo. Nonostante tutto era sempre troppo umile, troppo fragile all'apparenza. Klaus non riusciva a capirlo quasi mai. Era un'enigma troppo complicato. Inafferrabile.
In quel momento sembrava che si fosse sistemato alla meno peggio, con i capelli albini ancora leggermente scompigliati e... un piccolo taglio sul braccio che forse aveva appena smesso di sanguinare.
« Scusa » disse. In realtà non voleva neanche dirlo, lui non si scusava mai, né aveva motivi per scusarsi con Ben. Forse.
Gli mostrò le lettere, alzando il pugno che le teneva strette in una morsa. « Perché non me le hai fatte leggere prima? »  
Ben distolse lo sguardo. Klaus sapeva che l'avrebbe fatto. Era giusto così, che non si guardassero, che non guardassero dentro l'altro, che non condividessero qualcos'altro oltre alle parole strettamente necessarie. Klaus in realtà sperava che fosse sempre Ben a distruggere quella catena che si creava tra i loro occhi, perché sapeva che poter guardare ancora quella meravigliosa e particolare sfumatura grigioverde – iridi perfette e imperfette al contempo – lo dilaniava. Eppure era un dolore che entrambi, in fondo, bramavano più di ogni altra cosa. Perché era rimasto solo il dolore, non c'era nient'altro, quasi non esisteva sentimento più concreto di quello. Solo un distruttivo dolore di cui entrambi avevano bisogno per sopravvivere. Un meccanismo che si era instaurato in loro: dolce, crudele, insostituibile masochismo.
Klaus non aveva più segreti per Ben. E probabilmente ora neanche lui ne aveva. Si erano completamente spogliati di loro stessi. Klaus aveva letto quella lettera, gli aveva strappato i pensieri più nascosti del suo inconscio.
Ora siamo quasi nella stessa condizione, pensò con fredda ironia.
Le mani di Ben tremarono per un brevissimo secondo prima di rispondere. « Non avresti nemmeno dovuto sapere che esistevano, o almeno, non con me vivo. Vedo che hai letto anche quella di London e... e mi domando come, visto che è in un'altra lingua. Forse guardarla ti avrà dato l'illuminazione necessaria » disse, riuscendo a controllare il tremito che aveva intravisto.
Per un momento Klaus si sforzò di stringere i denti e non ribattere nel modo più scortese che poteva – dannazione, era sua sorella, ma non poteva permettersi di nominarla ancora tanto facilmente. Non così. Come se pronunciare il suo nome avrebbe attutito il conflitto tra loro due. Non poteva e basta. Non era un suo diritto. 
Posso solo immaginare quello che c'era scritto, Benjamin, avrebbe tanto voluto dire. Il tuo sconfinato desiderio di morire, di non essere mai nato, il tuo amore per lei. Perché, allora, non sei morto al posto suo?
Klaus notò che fissava le lettere spiegazzate strette nel suo pugno e per un riflesso involontario si sentì in dovere di allentare la presa, ma comunque non gliele riconsegnò. Tecnicamente erano destinate a lui, ora che le aveva lette erano sue, non aveva senso farle ritornare nelle mani del mittente.
Sospirò, prima di replicare, esattamente come aveva fatto lui. « Non voglio sapere cosa le avevi scritto. Voglio solo capire... perché. Aiutami a capire. Aiutami e forse le cose andranno meglio. O forse no, ma è l'ultimo maledetto granello di speranza che mi resta. » 
L'occhiata che gli riservò fece capire a Klaus che Ben non voleva aiutarlo a capire. Non voleva fargli capire cosa voleva dire vivere la sua vita o avere a che fare con la sua testa. Non importava quante volte avesse letto quelle lettere, nessuna rispecchiava appieno ciò che si portava dentro. Klaus pensava di sapere cosa volesse dire soffrire, cosa significasse provare dell'autentico dolore, non solo fisico. Ma forse Benjamin era di un'altra convinzione. 
« La spiegazione 'ho problemi mentali e dovrei essere rinchiuso in un qualche istituto psichiatrico, ma nessuno lo fa' ti soddisfa? » sbottò, esasperato. « Perché questa è l'unica risposta che posso darti. La mia vita mi fa ribrezzo. Cos'altro c'è da capire? »  
Klaus rimase senza parole. Forse non ne aveva mai avute davvero per quel momento. Voleva capire, certo, ma avrebbe potuto aspettare per parlargli. Aspettare e prepararsi un discorso coerente. Aveva una vita intera e vuota davanti, avrebbe dovuto aspettare. E invece eccolo lì, di fronte a lui, annientato di ogni pensiero.
Notò che Ben aveva cominciato a grattarsi il polso, arrossando una delle cicatrici più recenti, che avrebbe presto ripreso a sanguinare. L'istinto lo spinse ad afferrargli la mano, in uno scatto, per farlo smettere. Non voleva vedere altro sangue. Tutto quello che aveva già visto gli bastava.
Toccare la sua pelle congelata gli causò un brivido lungo la colonna vertebrale. Aveva centinaia di cicatrici su entrambi i polsi e le braccia, sottili e simmetriche, ordinate, come tutto ciò che faceva parte di Benjamin. Klaus, nel toccarlo, ne percepì alcune, lisce al contatto con la propria pelle. Sei stato tu, sei stato tu, è colpa tua, sembravano sussurrare, in una bassa cantilena.
Si chiese se Ben provasse le stesse sensazioni quando pensava alle sue, di cicatrici, la stessa frustrazione, lo stesso rimorso. Si chiese se gli facessero male e bruciassero allo stesso modo. Si chiese se avesse anche lui paura di toccarlo.
Gli ci volle un'enorme forza di volontà per distogliere lo sguardo da quelle cicatrici – così diverse dalle proprie, così... giuste – e riagganciarlo a quello di Ben, sperando di trovare altre risposte, risposte a domande che neanche conosceva.
« Ti giuro... » disse, scavando tra le parole meno rudi che riuscisse a trovare in quel momento, « ti giuro che io non ho mai voluto il tuo male. Ti giuro che non avrei mai voluto farti soffrire. Se tutto questo è davvero in parte anche causa mia, sappi che non avrei mai voluto che accadesse niente del genere, che avrei preferito mille volte non sposare London e restare solo tutta la vita. Se solo avessi saputo... se tu mi avessi detto tutto ciò che c'era in quelle lettere... prima... lei... lei magari sarebbe ancora qui, capisci? Con te, Klaudia, Erzsébet... con me. »  
« Quelle lettere erano destinate ad essere lette quando sarei stato morto! Morto » c'era rabbia in quella replica, una rabbia fredda e scorticante. « Dovevo essere io a morire, tempo fa. Io volevo morire! Io voglio morire. »  Stava trattenendo il respiro. « Ma il pensiero di aver ucciso mia sorella non mi lascia andare. London non vorrebbe mai che lasciassi te e Klaudia da soli... è per questo che non mi posso suicidare come ho sempre sognato di fare. Se questo pensiero non mi tormentasse ogni secondo della mia vita non ci penserei due volte a tagliarmi la gola con quel coltello! » Bruciò con uno sguardo glaciale la mano di Klaus, quasi a volergliela staccare. « Le cose non sarebbero potute andare diversamente, lo sai benissimo. Ho provato a suicidarmi poco tempo dopo aver scritto quella lettera, ma ho fallito. Poi mio padre è morto e non potevo lasciare mia madre da sola, in balia delle minacce di Capitol... è curioso, ma sembra che a un certo punto tutto il mondo abbia bisogno di me, ma quando sono io ad aver bisogno di qualcuno tutti si dimenticano della mia esistenza. Infine, quella... quella personalità che io chiamo Emil ha preso il controllo di me e io non sono stato più cosciente delle mie azioni... ho provato a combatterlo in tutti i modi, e tuttora cerco di eliminarlo completamente dalla mia testa senza alcun risultato, ma sono riuscito a prevalere su di lui quando ha cercato di uccidervi entrambi. Mi ha messo di fronte a una scelta. Tu o London o entrambi. »  Rilasciò il fiato che aveva trattenuto, molto lentamente. « Sai già com'è andata. Sai già qual è stata la mia decisione e perché. Adesso lasciami. » 
Klaus, nell'ascoltare il tono arrabbiato e ferito dell'altro, non riuscì a restare calmo. Non ne era ancora capace, c'erano ancora milioni di sentimenti negativi che ribollivano in lui come fuoco vivo, come se fosse proprio Ben il tizzone che li faceva ardere in continuazione. Lui avrebbe persino voluto aiutarlo – stava cercando di metterci tutta la buona volontà del mondo –, gli avrebbe dato un sostegno per riceverne in cambio... era l'unica possibilità che avevano per vivere e sopravvivere insieme. Aiutarsi. Ma per il momento nessuno dei due sembrava ancora disposto a farlo.
Gli strattonò il polso, facendo un passo in avanti, ancora più vicino a lui, e assottigliò lo sguardo, riprendendo a fissarlo in maniera aggressiva, sebbene una piccola parte di sé stesse ancora cercando di trattenersi per non esplodere – l'aveva già fatto una volta, era quasi impazzito di rabbia quando aveva scoperto di Christina.
« Perché ti sei innamorato di me, eh, Benjamin? Hai detto che l'unico scopo della tua vita era farla felice. Avresti dovuto proteggerla, invece hai fallito. Anche io ho fallito. Anche io avrei dovuto proteggerla, e invece ti ho concesso di ammazzarla! » Prese una pausa per enfatizzare le sue parole. « Se tu sei qui adesso è perché London ha voluto che tu fossi ancora in vita. Stai rendendo vana la sua morte facendoti del male e commiserandoti così. Stai facendo del male a tutti quelli che ti circondano, senza neanche rendertene davvero conto! Ancora! »  
Klaus si rese conto l'istante successivo che quel discorso non aveva senso. Che quelle parole erano vane. Non sarebbe mai tornato indietro nel tempo, non poteva aggiustare le cose, doveva farsene una ragione. Ma non ci sarebbe riuscito finché la rabbia avrebbe continuato a pervadere la sua mente. Doveva sfogarsi. E la sua ultima possibilità per farlo era mettere a Benjamin la cruda realtà davanti agli occhi.
« Come fai a chiedermi perché mi sono innamorato di te dopo aver letto quella lettera? » mormorò l'albino, stavolta con tono quasi disperato. Una lacrima scappò dalle sue ciglia, involontaria, e lui non fece niente per impedirle di rigargli la gota e poi scomparire oltre il mento. « Io non ho mai voluto fare realmente male a qualcuno, eccetto me stesso. Non ho mai voluto niente di tutto questo. Volevo solo... volevo solo rendere felici le persone che amavo, senza recare fastidio, senza essere ingombrante. Ma tutto è andato storto! Quel Benjamin Bridge che tu ricordi non esiste più. Non puoi sperare di riportarlo... di riportarmi indietro. E' inutile. Sono solo un deposito di medicine che cammina, adesso. » 
Klaus s'irrigidì. Fece un passo indietro, turbato, abbandonando definitivamente il contatto fisico, con la paura che, più fosse stato vicino, più la personalità crudele di Ben sarebbe potuta tornare a galla. Aveva colto della lucida follia in quelle intime confessioni, aveva sentito il desiderio di ferire e di ferirsi, aveva sentito quella stessa voglia di non essere mai esistito che stava accompagnando anche lui da mesi, dopo gli eventi della prigione.
Fu quell'inaspettata e indesiderata chimica di pensieri che lo spinse a non biasimarlo del tutto per ciò che stava facendo. Si sentì male per la compassione che stava provando nei suoi confronti: avrebbe voluto dirgli che ammazzarlo era l'unica cosa che desiderava davvero in quel momento, che non lo faceva solo per amore di London e Klaudia, ma avrebbe anche voluto consolarlo e, malsanamente, affondare le dita tra i suoi capelli per appoggiargli la nuca contro il proprio petto e stringerlo a sé, tenerlo vicino fino a quando non sarebbero morti del dolore che loro stessi si erano causati, o forse fino a quando il mondo non sarebbe finito, sgretolato intorno a loro.
Klaus stirò le labbra e lo fissò con sguardo spaesato. Dopodiché, spostò lo sguardo sull'ambiente circostante, soffermandosi sui disegni alle pareti, sulle scritte sul pavimento e sulle boccette di pillole aperte sulla scrivania. Scosse la testa, tra sé. Non voleva lasciar dilagare la sua rabbia ancora una volta. Voleva soltanto trovare... un modo. Un modo per smetterla di soffrire, o almeno per convivere con quella sofferenza. Un modo per ricominciare.
« Non m'importa di chi sei o chi dici di essere » mormorò. « Voglio solo che tu provi a collaborare. Sto rinunciando al mio odio nei tuoi confronti per ricominciare a vivere. Sto rinunciando a qualsiasi cosa, anche se ormai non ho più niente. » Si rese conto che le sue mani erano ancora strette a pugno e decise di distendere le dita. Provare rabbia non aveva più alcun senso a quel punto. Stava cominciando a realizzarlo solo adesso. Se avessero continuato a discutere per sempre, la loro vita non sarebbe assolutamente cambiata.
Dolore moltiplicato per anni, odio accumulato, insulti, discussioni irrisolte, sguardi accusatori e lacrime salate. Klaus non voleva più nulla di tutto ciò. Era stanco.
« Benjamin » proseguì, « ti prego... »    
« Mi preghi? » domandò l'altro con un tono basso e vibrante. « Che senso ha pregarmi? Non sono più un torturatore, Klaus. »  
« Ti prego di smettere di amarmi » precisò il moro. « Non fa altro che peggiorare le cose. »  
Il viso di Ben si contrasse in un singhiozzo inudibile. « Non puoi... non puoi chiedermi questo... » sussurrò con voce ormai spezzata. Altre lacrime caddero dai suoi occhi umidi, piccole e crudeli perle sul suo volto pallido. Non riuscì a fare altro che rifugiarsi tra le braccia di Klaus, affondando il viso nella sua maglietta, all'altezza della spalla. « Io non volevo ucciderla... » pianse, « io non volevo ucciderla, Klaus, te lo giuro... te lo giuro... »  
Klaus rimase paralizzato. Si sarebbe aspettato di tutto da lui: uno sfogo, delle urla, una risata isterica, ma non un abbraccio. In un primo istante non ricambiò la stretta, restando inerme e inerte, con lo sguardo verso un punto impreciso ben oltre la spalla dell'albino. Poi chiuse gli occhi, stanco, provato, arrendevole, e si abbandonò in quell'abbraccio, attirando l'altro ancora di più a sé e appoggiando la tempia contro i suoi capelli bianchi. Ne inspirò l'odore, lontano anni luce dal profumo di London, ma pur sempre incredibilmente e dolorosamente familiare.
Si lasciò inebriare da quella sensazione, si lasciò trasportare da quel remoto desiderio di abbandonarsi agli eventi, di lasciarsi andare, di perdonare momentaneamente ogni cosa pur di vivere davvero per qualche altro piccolo istante.
« Lo so » riuscì a sussurrare.
Tutto ciò che voleva era rivivere ogni cosa che aveva perso. Non importava come.


 
*


Le magliette erano già a terra, le cinture slacciate.
Ben aveva la pelle d'oca mentre Klaus lo baciava, lo spogliava, lo disarmava. Si rese conto che quella era la prima volta in cui si ritrovavano in quella situazione entrambi completamente lucidi. Si stupì di quel pensiero: Klaus lo stava facendo suo ed era del tutto cosciente. 
Eppure, in un angolo remoto della sua mente, sapeva perché tutto quello stesse accadendo. 
Pensa che io sia solo il riflesso di London, si disse, accarezzando la sua barba sottile nell'afferrargli il viso. Ma non importa
Tuttavia le parole si fecero strada tra le sue labbra da sole. « Klaus... sai bene che io non sono lei. Non dovrei... non dovremmo... » 
Klaus lo zittì con un'occhiata penetrante. « Ho bisogno di te. Ho bisogno di questo per sopravvivere. » 
« Ma tu non mi ami... » mormorò, abbassando la testa, consapevole dei sentimenti di entrambi, così diversi e complementari.
L'altro lo indusse a non distogliere lo sguardo. I suoi occhi scuri e intesi erano come una calamita fatale in quel momento. « Ha importanza? » 
« Dovremmo fermare il dolore, non assecondarlo » disse lui, lasciando scorrere l'indice sulla sua guancia. « Così non faremo altro che nutrirlo. »   
Klaus avvicinò di nuovo le labbra alle sue, ma senza baciarlo. Respirò sulla sua bocca, prima di parlare, respirò il suo stesso respiro. « Mi sono reso conto di aver bisogno del dolore. Voglio che tu mi faccia soffrire. Ne ho bisogno. » 
A Ben risultò difficile respirare, invece. La presenza di Klaus lo comprimeva. 
Forse sarebbero riusciti a vivere anche senza respirare, un giorno, come in apnea, sott'acqua. Purché fossero insieme, l'uno nelle mani dell'altro.
« Non voglio farti ancora del male... » mormorò Ben, chiudendo gli occhi. 
Klaus catturò di nuovo la sua bocca famelicamente, costringendolo a stendersi sul letto, sotto di lui. Gli afferrò entrambi i polsi sfregiati e glieli bloccò sopra la testa, premendo per non farlo fuggire. Ben non era sicuro che si sarebbe lasciato trasportare fino a quel punto se Klaus non l'avesse inchiodato così. Era sbagliato.
Sbagliato.
Come me.

Eppure Ben aveva sempre dovuto imprigionarsi per essere libero – quale contraddizione, quale paradosso. Adesso non era meno diverso: una prigione di piacevole dolore per accantonare momentaneamente ogni errore commesso nella sua vita. 
Non riusciva a trattenersi e si odiava per questo. Klaus aveva ancora troppo potere su di lui e ne avrebbe sempre avuto. 
Il suo corpo parlava chiaro, era un libro aperto in quel momento. Brividi intensi, cuore martellante nel petto e respiro accelerato. Klaus lo osservava, lo osservava e capiva.
Mi osserva per trovare qualsiasi dettaglio che possa ricordargli London. Pensieri cattivi, insinuazioni fastidiose e distruttive. Ben non voleva andare avanti per quello, perché sapeva esattamente ciò che Klaus stava cercando.
Un'imitazione.
Un verso a metà tra un sospiro e un gemito gli fuoriuscì dalle labbra quando Klaus cominciò a scendere con la bocca, baciandogli prima il mento e poi percorrendogli con la lingua il tratto dal collo allo sterno, prima senza guardarlo, poi alzando di nuovo gli occhi su di lui. A Ben sembrò tanto che volesse guardare le sue reazioni, che non volesse perdersi neanche un secondo del suo corpo in conflitto.
Quello sguardo – che era stato causa delle sue torture mentali sin da ragazzino – era fiammante, arrabbiato e deciso. Sembrava voler dire "che cosa sto facendo?" e "guardami, guardami mentre ti distruggo" al contempo. La sua stretta virile abbandonò i suoi polsi affinché le sue mani si dedicassero alla lampo dei pantaloni.
Benjamin reclinò la testa all'indietro sul cuscino, lasciandolo fare, reprimendo con tutta la concentrazione possibile un fremito d'eccitazione. L'autocontrollo lo stava abbandonando.
Klaus gli sfilò i pantaloni velocemente, lasciando poi scorrere le dita sulle sue gambe tese.
Ben pensò che il moro fosse ansioso di proseguire, ma Klaus si stava semplicemente limitando a fissarlo. Non ancora soddisfatto – lo sarebbe mai stato davvero? – di quell'ingenua tortura psicologica si rialzò da quella posizione e ritornò faccia a faccia con lui, reggendosi con le braccia sul materasso. « Sei stato con altri uomini, quindi? » 
Ben per un secondo rimase spiazzato da quella domanda. Poi ricordò che lui aveva letto le lettere e il suo diario. « Sì » rispose a bassa voce.
« Quanti? »  Un'altra domanda secca, diretta.
« ... abbastanza, Klaus, perché? » disse, lasciando vagare gli occhi sul suo volto per cercare di decifrare quell'espressione seria.
« Erano... » parve tentennare, corrugando le sopracciglia scure, « erano come me? »   
L'ombra di un sorriso fece capolino sulla bocca di Ben. « No. Nessuno è come te. » Ed era vero, dannatamente vero: nessuno sarebbe riuscito ad eguagliare Klaus, per lui. Klaus era un universo a parte, distante, irraggiungibile. Lo sarebbe sempre stato. Perché ogni volta che provava ad avvicinarsi, lui faceva almeno tre passi indietro, metaforicamente.
Anche in quel momento Klaus era irraggiungibile. Non lo avrebbe mai avuto davvero, non sarebbe mai stato realmente suo.
Il moro non ribatté, continuando a osservarlo e afferrando avidamente i dettagli del suo viso, contratto in un'espressione di crescente desiderio.
A che cosa stai pensando?
A che gioco stai giocando?
Perché mi guardi...
così?
Il ventre di Klaus era premuto contro il proprio e Ben pensò che se fosse rimasto per qualche altro secondo in quella posizione non avrebbe resistito oltre.
Voleva baciarlo. Voleva possederlo. Ora. Subito. Tra gemiti strozzati e sensi di colpa. Mentre gocce di sudore gli scendevano lungo il collo. Mentre morivano dentro, ancora una volta. Mentre la libidine cancellava ogni ricordo.
Si sporse per catturare le sue labbra, ma Klaus si scostò, lasciandogli intendere che doveva essere lui a dirigere il gioco. 
Vuole essere lui a decidere quando baciarmi, quando toccarmi. Vuole comandare. 
... bastardo.

Ben allungò una mano verso il suo volto, accarezzandogli prima la mandibola in una muta preghiera, poi scendendo sul collo lentamente. Era una carezza quasi violenta, ruvida. Fece pressione con la dita, sentendo il battito del suo cuore attraverso l'arteria carotide. Avrebbe potuto strangolarlo, se avesse voluto.
Si figurò Emil che prendeva di nuovo il controllo, che lo scaraventava sul pavimento, salendo a cavalcioni su di lui e soffocandolo con entrambe le mani.
« Vuoi ancora uccidermi » constatò Klaus, ma senza scostare la sua mano dalla propria gola. Forse voleva vedere fin dove si sarebbe spinto. « So che lo vuoi. »  
« Ho preso le pillole » disse lui, risalendo con le dita tra i suoi capelli ormai corti – nonostante qualche ciuffo ribelle gli ricadesse ancora sulla fronte. « Te l'ho detto, non ti farò più del male... adesso... adesso riesco a controllarmi. » 
« Non ti credo. » 
Solo quell'affermazione gli sarebbe bastata per fargli perdere il controllo, se non avesse ingerito le pasticche prima che Klaus gli bussasse, quella mattina. Ringraziò il cielo di averle prese.
« Voglio vedere quanto riesci a mantenere il controllo » continuò. « Voglio portarti al limite. Voglio punirti, vederti soffrire per ciò che mi hai fatto. »
Ben deglutì. « La verità è che sei tu a volermi uccidere, Klaus. Ammettilo. » 
Il bacio che seguì fu come una conferma. Era il suo modo di ammetterlo, il suo modo di vendicarsi. E Benjamin lo adorava, adorava quel vortice di dolore misto alla passione. Se ne sarebbe drogato, se avesse potuto, per accantonare il passato nelle viscere della sua mente.
Era una vendetta dolce, l'unico modo che Klaus aveva per riscattarsi.
Non erano gli stessi baci che riservava a London, no. Lei era stata sicuramente trattata come una regina da lui – immaginava quanto l'avesse fatta godere, quanto l'avesse amata con tutto il proprio corpo, e la invidiava, la invidiava terribilmente anche se ora era morta, perché lei sarebbe stata per sempre l'unico amore di Klaus – e Benjamin non avrebbe mai avuto il privilegio di provare le sue stesse sensazioni, di capire che cosa volesse dire essere amati da una persona che avrebbe preferito morire pur di tenerti in vita.
Ma si sarebbe accontentato. Si sarebbe accontentato di quell'odio bruciante, di quella rabbia che aleggiava costantemente nello sguardo di Klaus. Si sarebbe accontentato di tutto, per lui. Non poteva fare altrimenti.
Klaus riprese la sua discesa verso i suoi boxer e Ben schiuse le labbra in un sospiro limpido.


« Non mi perdonerai mai, vero? » 
Un sottile sussurro nella notte, che però spezzò il silenzio con violenza.
Klaus rimase girato dall’altro lato, sveglio e cosciente, incapace, stavolta, di guardarlo negli occhi.
Una pugnalata al petto, l'ennesima. Ben non sapeva distinguere cosa fosse peggio: che lui lo guardasse oppure no. Nel primo caso lo faceva sentire maledettamente sbagliato, colpevole; nel secondo, invece, sentiva la mancanza fisica di quegli occhi roventi fissi sul proprio corpo. 
Non davi le spalle a London quando andavate a letto insieme, non è così?
Non portavi neanche la fede quando eri con lei...

Ben sapeva che, da quando Klaus era tornato al distretto, la prima cosa che aveva recuperato era stata l’anello, perché non l’aveva mai indossato e adesso più che mai simboleggiava il loro legame. Non se l’era più tolto, neanche quella notte.
Da un lato era stato un gesto che l'aveva ferito profondamente, ma dall’altro riteneva che fosse giusto così.
« No, mai » rispose Klaus chiaramente. 
L'altro annuì, mesto. « Lo sapevo. » Lo sapeva, lo sapeva che non sarebbe mai stato in grado di perdonarlo o giustificarlo, anche se avesse imparato a comprendere le sue ragioni.
Gli accarezzò una spalla, sfiorandogli poi, con lentezza, ogni cicatrice che lui stesso aveva lasciato mesi addietro. Klaus tremò al suo tocco, ancora vittima della paura che lo legava a Benjamin e a quelle cicatrici. Tremò, ma non disse niente.
Erano cicatrici sconnesse, pallide, sparse su tutta la schiena e le braccia, e si sovrapponevano a quelle causate dalla frusta di Frantz Wreisht e a quelle dei Giochi. Si domandò come facesse a sopportarle, dal momento che non se l'era procurate da solo come invece aveva fatto lui... era un'umiliazione troppo grande, troppo pesante. Se pensava che la maggior parte di quelle cicatrici era opera sua gli si bloccava il respiro in gola.
Aveva rovinato quel corpo così bello e imperfetto, quella schiena tesa e pronta, quelle braccia salde e forti, ma al contempo l'aveva reso una meravigliosa opera d'arte.
Rabbrividì a quel pensiero. Era come se il Klaus attuale fosse stato completamente forgiato dalle sue mani e dalle sue torture. Doveva vergognarsene.
Ben lo abbracciò da dietro, lasciando che il suo petto incontrasse la fredda e martoriata schiena di lui. « Non mi amerai mai abbastanza. » Non era una domanda, ma una lucida e triste constatazione. Mai abbastanza. Fermarsi al "mai" sarebbe stata una frase troppo distruttiva per entrambi, anche se si sarebbe avvicinata di più alla realtà.
Klaus non rispose e si lasciò accarezzare in silenzio, nonostante la pelle d'oca che aveva cominciato a pervadergli le spalle. 
Ti lasci trattare così dal tuo nemico, Klaus?
Nemico. Cognato. Aguzzino. Amante.
« Perdonami » sussurrò Ben, bagnandogli la spalla di lacrime gelide e inattese, « ... perdonami... »
Klaus ignorò quella supplica, perdendosi in pensieri che non gli era dato conoscere o interpretare. Poteva soltanto immaginarli, e si dannava per questo.
Stai fingendo che io sia London, che non sia un uomo? Stai pensando a lei? 
« Siete diversi... » mormorò Klaus, chiudendo gli occhi nel buio.
Ben se l’aspettava, una constatazione del genere. « Lo so. Lo siamo sempre stati. » Non sapeva bene cosa dire, in realtà, stava cercando di essere sincero. Sentì le sue membra irrigidirsi e allora tentò di farlo rilassare baciandogli le scapole, e poi il collo. « Tu sei la persona migliore che abbia mai conosciuto... » gli confessò, tenendolo stretto, quasi possessivamente. Sembrava una frase assurda, considerato che di certo Klaus non era mai stato una brava persona. Ma per Ben non esisteva qualcun altro in grado di accantonare il dolore come aveva fatto lui. Non esisteva nessuno migliore di così.
Klaus si liberò della sua stretta, alzandosi a sedere sul materasso e dandogli ancora le spalle. Alla luce della notte – fievole, quasi inesistente – l'albino poté ammirare meglio quell'intricato e ipnotico disegno di cicatrici.
Klaus si alzò e si avvicinò alla porta-finestra della stanza del maniero in cui era ospitato, appoggiando una mano vicino al vetro e osservando il cielo stellato. Era una notte limpida e serena, con una mezzaluna che brillava nel buio.
Ben ammirò il suo profilo nudo ed esposto, ricordandosi che una scena simile l'aveva già vissuta in sogno, ma da un'altra prospettiva. Lo trovò bellissimo e... drammatico. 
Klaus, dopo qualche secondo di staticità, cominciò a raccogliere i propri vestiti e indossarli nuovamente. Si rivestì in silenzio, accendendosi una sigaretta e infilandosi i pantaloni scuri, mentre l'altro lo osservava, rapito dalle sue movenze. Trovava che fosse affascinante in ogni cosa che faceva, anche quando sbuffava il fumo o si appuntava la cintura.
«Già vai via?» Parole che gli sfuggirono contro la sua stessa volontà; non avrebbe voluto neanche pronunciarle con un tono così dispiaciuto.
Klaus si girò verso di lui con la testa, per un attimo, con la sigaretta che pendeva ancora dalle sue labbra sottili eppure così espressive ed eccitanti. Aveva uno sguardo vacuo, adesso, come Ben aveva sospettato. Il rosso tabacco che bruciava gli illuminava gli occhi di un'ombra ardente, quasi sovrannaturale. Annuì, alla fine, e Ben seppe che non se ne sarebbe mai andato davvero, che sarebbe tornato da lui ogni volta che gli avrebbe fatto comodo, che l'avrebbe considerato lo specchio di sua sorella fino a quando non avrebbe fatto i conti con la realtà.
Sarò l'eterno secondo, per te.
Ma non importa. Tutto questo mi basta.

Delle lacrime gli appannavano ancora gli occhi grigioverdi, mentre si attirò le ginocchia contro il petto, appoggiandosi allo schienale del letto, in un gesto di autoprotezione. Tutto ciò che voleva era una conferma. Una conferma per tutto. 
Gli serviva soltanto un'ultima risposta.
« Klaus » lo chiamò, con voce leggermente incrinata, attirando di nuovo la sua attenzione, « posso farti solo una domanda su di lei? » La sua occhiata lo spinse a continuare. « L'hai mai odiata davvero, come hai sempre detto di fare? » 
Klaus s'infilò la propria maglietta nera, fece un'ultimo tiro dalla sigaretta, poi la spense nel posacenere sul comodino. « Mai » rispose. 
 
 
 
 
 










   
 
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