La penna del destino
La
vittoria è loro.
Di
nuovo.
Ancora
una volta diventeremo schiavi di uno dei regni vicini.
Non
possiamo fare altro, eccetto pregare: prima gli dei, poi gli invasori.
Una,
due, tre, innumerevoli ondate di nemici hanno invaso i nostri confini per
conquistare il tesoro della fortezza di Irr.
Un
tempo questa era una terra ricca, potente e temuta.
Ma
adesso... adesso non sappiamo nemmeno più cos'è l'onore. Strisciamo a terra, ai
loro piedi, come vermi. Perché è questo che siamo: vermi pieni di arroganza che
combattono fra loro, incapaci di reagire contro gli invasori. Ci nascondiamo
sotto terra, evitando volontariamente il destino.
Il
tesoro è perduto, diviso tra nazioni cui non dovrebbe appartenere.
Nessuno
vuole tentare di riprenderlo: che senso avrebbe, dopo anni passati a lottare
fra noi, coalizzarci per conquistare qualcosa che non ci appartiene più?
Nessuno.
A leggere quelle poche righe,
tracciate sicuramente in fretta, un sorriso mi si allunga sul volto: in fondo,
chiunque le abbia scritte, ha detto la verità. Siamo un covo di vermi
arroganti, a Irr. Soltanto la parte più debole prova pietà. I più forti
ricercano zuffe e tafferugli. È l'unico modo per passare il tempo in questa
landa desolata. Ed io appartengo a questa seconda categoria.
Fa
male pensare questo.
Fa
male vedere la tua città in rovina, data in pasto alle fiamme.
Fa
male pensare che lo splendore di Irr, seppure così recente, sia solo un lontano
ricordo.
Ripenso a quelle ultime righe: dovrei
piangere? Piangere come hanno fatto loro, gli abitanti di Irr? Eppure, il mio
sorriso si trasforma in un ghigno. Provo quasi una gioia nel vedere tutto quel
sangue scorrere sotto ai miei piedi. È strano, lo so, ma non posso fare a meno.
Lancio i fogli sul pavimento: si sparpagliano, ma una cosa mi salta agli occhi:
su uno di essi, in un angolo, vi è il simbolo di una famiglia nobile decaduta
anni or sono. Adesso sono poveri, o meglio, lo erano, ma ciò non ha impedito
all’ultimo capofamiglia di onorare Irr.
Accarezzo il tavolo, dirigendomi
poi verso la porta. Rivolgo un'ultima occhiata alla stanza: la confusione regna
sovrana, sembra quasi che ci sia passata quella casinista della dea
responsabile di ogni disordine al mondo.
Fogli e oggetti sono sparsi
ovunque, i mobili rovesciati. Sospiro, chiudendomi poi alle spalle la porta con
un tonfo.
Le fiamme si alzano ancora alte
in cielo e tra non molto anche quelle stanze a soqquadro saranno divorate dalle
fiamme.
Probabilmente sono l’unico essere
ancora vivo in questa desolazione.
Ogni strada è attraversata da un
rigagnolo rosso: i cadaveri sono ovunque, la maggior parte donne e bambini.
Posso solo guardare, senza
poterli aiutare.
Un vecchio ha gli occhi sbarrati:
avvicinandomi, noto il terrore della morte ancora impresso sul suo viso.
Continuo per la mia strada:
provare pietà è inutile. I morti sono morti, non possono tornare in vita: è
bene lasciarli dove sono, sotterrati tra le macerie, con i corpi orrendamente
mutilati e quasi irriconoscibili.
Si
conoscevano tutti, a Irr.
La città è piccola, arroccata su
un monte. Ma ciò non l’ha protetta dalle invasioni: è stata conquistata e
distrutta più volte, il tesoro depredato fino alla sua completa scomparsa. Ma
ogni volta è stata ricostruita.
Alzo gli occhi al cielo: il drago
che custodiva il tesoro insieme al suo cavaliere ha sorvolato la città per
l’ultima volta prima della battaglia. Poi è sparito, diretto verso i cieli
dell’Est, verso la terra degli avventurieri.
Continuo a camminare senza una
meta, ma i miei passi vanno verso la grotta in cui era custodito il tesoro.
L’ho visitata già in passato: me
la ricordo piena d’oro, con gemme preziose che straboccavano da ogni parte.
Mi fermo sull’ingresso: la veste
macchiata di sangue si muove appena, sospinta dal vento. Mi volto appena e noto
che una tempesta si avvicina all’orizzonte: se niente potrà lavare i nostri
peccati, l’acqua almeno pulirà le strade dal sangue.
Raccolgo una moneta, forse
l’unica rimasta, e la osservo controluce: gli ultimi raggi del tramonto la
illuminano, lanciando bagliori sulle pareti scure di roccia.
Siamo soli: io e lei, uno spirito
e una moneta, testimoni – e forse responsabili silenziosi – di una strage.
Chiudo gli occhi: nelle orecchie
sento ancora il clangore delle spade, negli occhi continuo a vedere i duelli.
La battaglia si è finita da poche
ore, ma la piana è coperta di cadaveri e il fiume è tinto ancora di rosso.
Il sangue di Irr è stato versato
un’altra volta.
Le pietre intorno alla rocca sono
impregnate del nostro sangue: guerre civili e scontri con i popoli vicini le
hanno nutrite di un cibo infame. Alcuni dicono che la particolare colorazione
rossiccia delle rocce sia dovuto a questo. Chissà che non sia vero: d'altra
parte, all'inizio, questa città era conosciuta come Irr la Bianca proprio perché era costruita di marmo bianco. Ed io
me lo ricordo bene quello splendore accecante. Erano gli anni migliori di Irr,
ma quelle ricchezze portarono alla lenta e irreversibile rovina della città e
degli animi.
Stringo la moneta nella mano.
La nebbia si è ormai diradata:
stamattina avvolgeva entrambi gli eserciti e solo a tratti gli stendardi erano
visibili dalla torre della rocca. Ero lassù, da solo. Avrei voluto essere
protagonista della battaglia, non spettatore.
Un brivido mi attraversò la
schiena: paura mista a rabbia e delusione. Erano tanti, i sentimenti che si
agitavano nel mio animo.
Alzai la testa, osservando il
drago allontanarsi verso Est, abbandonandoci al nostro destino.
Senza la sua protezione, Irr
sarebbe crollata presto. E così è stato.
È stato uno squillo di tromba a
dare inizio alla battaglia: ha squarciato il silenzio e quelle note hanno
vibrato nell'aria a lungo.
Poi è giunto il cozzare delle
spade sugli scudi.
Osservavo quasi divertito le
donne ammassarsi sulle merlature, lanciando grida e strappandosi i capelli.
Avrei dovuto proteggere gli
abitanti di Irr, tuttavia godevo nel vedere la loro sofferenza alzarsi fino al
cielo.
Non c'era vento e solo a tratti
potevano cercare di scorgere i loro amanti, mariti, figli, fratelli nella
mischia.
Si vedeva solo un'indistinta
massa grigia che andava sfumando in rosso.
È facile immaginare come si
sentissero i combattenti: stremati dalla stanchezza e impauriti dalla morte.
Poi, la nebbia si è alzata e per
un attimo tutto è stato silenzioso.
Ma è durato poco.
La rosa nera in campo dorato,
simbolo di Irr da tempi immemorabili, giaceva – e giace tutt'ora – insanguinata
sul terreno. A vederla, solo per quello, mi si strinse il cuore. La mano, da
tempo immobile sull'impugnatura della spada, si chiuse su di essa finché le
decorazioni dorate non si conficcarono nella carne. Il giallo dell’oro si
macchiò così di rosso. Strano destino: sembrava che ricalcasse quello della
rosa.
Tutt'intorno, ci sono cadaveri
orrendamente mutilati e squarciati. L’aspetto della piana e quella della città
adesso è lo stesso.
Dopo aver buttato giù la porta, i
nemici hanno avuto strada facile per arrivare fino alla rocca. Nessuno ha
opposto resistenza.
Ho osservato la strage: la mia
spada era addormentata nel fodero e doveva restare immacolata. Avrei voluto
combattere, ma la volontà di obbedire agli ordini ha vinto. Sarò anche un
guerrafondaio testardo e impulsivo, ma sono ligio al dovere. Gli ordini sono ordini
e se arrivano dall'alto non vanno messi in discussione. E quando è il padre di
tutti gli dei a ordinarti di restare immobile a osservare la distruzione della
tua città c’è poco da fare. Mi ero chiesto se fosse possibile ingannare il
destino: adesso ho la risposa.
No.
Non è possibile. Ciò che è stato deciso non può essere cancellato. La penna del
fato traccia una linea diretta verso il futuro.
Tutti quelli che hanno incontrato
sul cammino – donne, vecchi e bambini – sono stati passati da parte a parte con
le spade.
Grida angoscianti si solo levate
ben presto: tuttavia, in quel dolore restavo impassibile.
Ero un fantasma tra loro, lo sono
sempre stato. Li vedevo, ma loro non scorgevano me. Li ho osservati: conoscevo
ogni gesto, ogni aspetto del carattere di ognuno.
La mia tunica si sporcò ben
presto di sangue: gli schizzi di quella strage mi macchiavano, anche se non ero
io a volerla o a compierla.
Fronteggiare la morte, pur
sapendo di non poter morire, mi è sempre piaciuto. Chissà se oggi giungerà
anche per me il momento della temuta ultima
ora.
Ogni colpo mortale ricevuto dagli
abitanti di Irr feriva anche me, ma non in modo grave.
Ma altre macchie più scure e meno
visibili, andavano allargandosi sulla mia anima.
Agli innumerevoli sbagli che ho
compiuto, si aggiunge questo. Se avessi disobbedito agli ordini e fossi sceso
in battaglia a fianco dei miei soldati, probabilmente adesso sarebbe Adir
quello che s’interroga sul destino, piangendo i suoi morti.
Faccio dondolare le gambe nel
vuoto mentre gioco con la moneta: la lancio per aria, facendola atterrare sul
palmo o sulla veste.
“Sapevo che ti avrei trovato
qui.”
Stringo la moneta nella mano,
reclinando poi la testa all’indietro, in modo da vedere chi è arrivato.
Non era difficile indovinarlo:
anche se il suo esercito se ne è andato, era molto probabile che lui, Adir,
fosse rimasto qui a Irr.
Non è cambiato molto dall’ultima
volta che ci siamo incontrati: lunghi capelli viola e occhi arancioni.
Come per me, o come per tutti
coloro che incarnano lo spirito di una città, l’aspetto rimanda allo stemma
cittadino. E lui, avendo come simbolo due stelle arancioni su campo viola, è
normale che sia in quel modo.
Questa zona è sempre stata divisa
in città stato: Adir ha sempre avuto molto interesse verso il tesoro di Irr.
Forse troppo, ripensandoci adesso. O forse il tesoro era solo una scusa per
invadere i confini e arrivare a me. Lo sanno quasi tutti che tra noi non c'è
solo odio. È una faccenda tra me e lui, non tra le città: se i popoli si odiano
a morte, le loro rappresentazioni non disdegnano appartarsi da qualche parte e
scambiarsi baci.
Penso che l’intento di Adir sia
uccidermi: tiene la spada sguainata, poco importa che sia ancora macchiata con
il sangue dei miei soldati. Noi spiriti possiamo morire solo se nessuno è
rimasto vivo in città. In questo modo scompariamo per sempre, poiché nessuno
può ricostruire la città. E non penso che a Irr sia sopravvissuto qualcuno. Un
brivido – è paura, questa? – mi
percorre la schiena.
Mi si siede accanto, posando il
braccio che regge l’arma sul ginocchio. L’altra dondola nel vuoto.
“Non ti ho visto prima, laggiù
nella piana. È strano vederti lontano dalla mischia, Irr.”
“Ordini superiori. Dovevo
assistere, non combattere.”
“Che assurdità tenere lontano un
guerrafondaio come te dalla battaglia. Il padre degli dei deve avere delle
ragioni serie” sghignazza Adir.
Annuisco ridendo.
Gli abitanti di Irr sono sempre
stati pronti a scannarsi: che fosse tra di loro o con qualche popolo vicino
poco importava. Bastava vedere il sangue scorrere ed io non facevo certo eccezione. E il fatto che nessun umano
potesse vedermi ha sempre reso i giochi più interessanti.
Rimaniamo in silenzio, osservando
con aria distratta l'orizzonte.
Poi, all'improvviso, Adir getta
la spada nel vuoto: l'arma rimbalza su alcuni speroni di roccia, finendo poi in
un precipizio.
Lo guardo allibito. Adir non si
sarebbe separato mai dalla sua arma preferita.
“Che c'è? Ti chiedi perché abbia
buttato via la mia amatissima spada?”
“Sì” rispondo secco.
Adir scoppia a ridere – devo
ammetterlo: mi mancava la sua risata calda – per poi abbracciarmi di slancio.
Mugolo appena per la botta
ricevuta alla schiena.
“L'ho raccolta sul campo di
battaglia. Volevo solo spaventarti a morte. E a quanto pare ci sono riuscito:
la tua espressione terrorizzata era a dir poco fantastica!”
Gli tiro un leggero pugno sul
petto, cercando di farlo smettere di ridere.
“Ti odio” borbotto incrociando le
gambe e dandogli le spalle.
Adir mi abbraccia da dietro,
iniziando a lasciare una scia di baci sul collo. Rabbrividisco: odio
ammetterlo, ma sa come farmi capitolare.
Poi, come ogni volta, succede
tutto troppo in fretta.
I nostri corpi sudati sono
avvinghiati, le mie unghie conficcate nella sua schiena tesa mentre la mia s’inarca,
intanto che il piacere avvolge entrambi.
Una sua mano mi accarezza i
capelli con estrema dolcezza, soffermandosi a lungo su quel ciuffo ribelle che
si alza sulla nuca.
Gemo il suo nome, avvinghiandomi
sempre di più a lui: mi fa impazzire ogni volta con quei movimenti lenti e
precisi.
Tra gli ansimi, sussurra
qualcosa.
Il loro significato mi distoglie
dall'oblio del piacere.
“Non sei solo, a Irr.”
Cosa?
“Durante l'invasione ho nascosto
un neonato. È sulla torre della rocca, dove ti ho visto per un attimo.”
Eh?
Ma stai scherzando? Sono morti tutti.
“Ho ottenuto il permesso di farti
venire con me ad Adir. Sarai il mio prigioniero personale, nessun altro ti
toccherà.”
Questo
potevo benissimo immaginarlo.
“Ma dato che anche Adir è
prossima al crollo, quel bambino sarà la salvezza di entrambi.”
Adir...
Non dire idiozie. La tua città è la più ricca e importante della zona.
D'accordo, avrà molti nemici, ma le sue torri resisteranno per secoli...
“Sarà nostro figlio, Irr.”
Quelle ultime parole mandano a
puttane ogni mio pensiero logico.
Un
bambino... Un figlio adottivo. Il nostro.
Gli prendo il viso tra le mani e
lo bacio fino a farci mancare il fiato.
Adir non dice niente quando mi
stacco da lui: si limita a stringermi a sé, trasmettendomi quel familiare senso
di protezione.
Sono io a rompere quel silenzio
surreale che avvolge Irr.
Mai, mai è stata così silenziosa.
“Perché?”
“Perché non potrei sopportare la
tua scomparsa.”
Il vento si fa improvvisamente
più violento, segno che la tempesta è ormai prossima.
“Adesso andiamo.”
Adir si alza, risistemandosi i
vestiti; faccio lo stesso e, mano nella mano, ci incamminiamo verso la rocca.
Solo adesso mi si riempie il
cuore di tristezza a vedere le case bruciate. Ora c'è il fumo che sale alto nel
cielo, ultimo testimone della strage.
Arriviamo sulla torre e la prima
cosa che noto è un fagottino in un angolo.
Lascio la mano di Adir, correndo
verso di lui. Lo prendo in braccio, stringendolo al petto.
Una, due, tre lacrime mi scendono
lungo il viso.
Non è il figlio del re o di un
nobile. Suo padre era povero, ma nella battaglia ha dimostrato un grande
valore. Non è fuggito, non ci ha nemmeno tentato. Alcuni l'hanno fatto, ma sono
stati raggiunti dalle frecce. Lui, suo padre, è stato tra gli ultimi a cadere.
Ha amato la sua città come pochi: tra le bende ho trovato un piccolo medaglione
con inciso un simbolo. Lo stesso era disegnato in un angolo dei fogli che ho
trovato in quella casa prima che fosse bruciata. Quell’uomo ha detto la verità
su Irr.
È un circolo vizioso: l'amore di
un padre per il figlio è pari a quello di un cittadino per la patria. Né io né
quel bambino possiamo uscirne.
Gli accarezzo il viso,
guardandolo dolcemente.
Adir sghignazza.
“Chi l'avrebbe mai detto che un
guerrafondaio come te si commuovesse davanti a un bambino?”
Non gli rispondo nemmeno, anche
se so che mi prenderà in giro per anni per quel sorriso da ebete che ho
stampato in faccia.
Adir mi si avvicina, mi abbraccia
da dietro e appoggia il mento sulla mia spalla. Non lo guardo nemmeno, continuo
solo ad accarezzare quel bambino.
Il vento soffia violento,
scompigliando i capelli e facendo svolazzare vesti.
Non ci interessa della pioggia
che sta iniziando a cadere: siamo soli, noi tre, contro la forza della natura,
contro il destino.
Possiamo solo continuare a
tracciare la nostra linea d’inchiostro verso la fine del foglio, senza curarci
né degli errori passati né di quelli futuri.