Serie TV > The Vampire Diaries
Segui la storia  |       
Autore: everlily    18/09/2015    14 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Prima di lasciarvi alla lettura.

A chiunque mi abbia mai chiesto che intenzioni avessi per la fine delle mie storie, in generale, qui come altrove, ho sempre risposto la stessa cosa: non credo nell’happy ending a tutti i costi, così come non credo nel non-happy ending tanto per fare l’alternativa. Credo nei finali che sappiano dare compimento ad un percorso, che diano “chiusura” ai personaggi e a chi li legge, ed ho sempre cercato di lasciare che anche SL prendesse da sola questa strada, senza forzare la mano.

Ho iniziato questa storia due anni fa, nell'agosto del 2013. Avrebbe dovuto essere una mini-long senza troppo impegno, circa una decina di capitoli, rapida e indolore. Beh, non esattamente indolore, but still: non doveva prendere troppo tempo. Solo che poi ha preso vita. I suoi personaggi, dai protagonisti ai personaggi secondari e fino alle comparse minori, mi hanno preso le dita e la testa. Più io li scoprivo, più loro avevano cose da dire.

Penso però che mi sia stato chiaro più o meno fin da subito, che questa non era mai davvero nata come una storia d’amore tra due persone. Era forse più la storia di tutto quello che ci sta intorno; dei conflitti e delle circostanze personali che ci definiscono; delle scelte, giuste o sbagliate, che per amore (tutti i tipi di amore) si fanno; di opportunità mancate così come di seconde possibilità.

Credo che la sua chiusura abbia senso alla luce di tutto questo, e per me questa è stata la cosa più importante. Non l'ho scelta io. Come sempre, l'hanno scelta loro.

Anche se in breve (per adesso), voglio solo ringraziare, dal più profondo del cuore, tutte le persone che ci sono state fin qui: chi c'è da sempre, chi si è perso per strada, chi è tornato, chi ha lasciato mille ipotesi analisi e riflessioni, chi anche solo un pensiero, chi l'ha fatto sempre e chi solo una volta. Soprattutto ringrazio l'entusiasmo che in questi due anni mi avete dato, e che ha reso la scrittura un'attività molto meno solitaria di quanto altrimenti sarebbe stata.

Insomma, solo … grazie.


ever


23.

Lovers' eyes


- But do not ask the price I paid,
I must live with my quiet rage,
Tame the ghosts in my head,
That run wild and wish me dead.

Should you shake my ash to the wind
Lord, forget all of my sins
Oh, let me die where I lie
'Neath the curse of my lover's eyes. -

(Lovers' Eyes - Mumford & Sons)


Damon


Tre mesi fa


"… e questo, Jack, è il motivo per cui hai bisogno di noi."

Finisco con sicurezza il mio discorso al tipo in completo e camicia di fronte a me, che ho appena passato l'ultima ora e mezza a convincere del fatto che le superiori capacità di programmazione di Ric sono esattamente ciò che gli serve per la nuova piattaforma di pagamenti online che ha intenzione di lanciare. Lui appoggia il mento sulle dita e rilassa appena le spalle, tutte piccole spie che mi dicono che ce l'ho quasi fatta a portarlo dentro. Ha solo bisogno di quella leggera spintarella finale.

"Ok. Quanto mi costerà?"

Il mio telefono vibra contro la superficie del tavolo, gli lancio un'occhiata. E' lo stesso numero sconosciuto che mi sta chiamando per la terza volta. Scambio uno sguardo con Ric seduto accanto a me, lui annuisce e, senza una parola, esce dalla meeting room per prendere la chiamata al posto mio.

Mi sporgo in avanti, incrocio le dita tra di loro. "Diecimila di anticipo. Altri cinquanta a fine lavoro."

Lui fischia, fa l'esagerato.

"Oh, non essere un idiota," replico. "Quel tipo è un genio, e lo sai anche tu."

Ric riappare sulla porta, che tiene aperta con una mano, ma non rientra. "Damon? Questa la devi prendere."

Mi alzo, getto un altro sguardo al nostro potenziale nuovo progetto. "Pensaci. Torno subito."

Mentre sfilo il telefono dalle mani di Ric con un'occhiata interrogativa, lui mi dice solo, a bassa voce, "Tuo fratello."

Rientro nel nostro piccolo ufficio, sgraffigno la pallina anti-stress di Ric dalla sua scrivania e la tiro in aria con una certa soddisfazione per come sta andando l'incontro, mentre mi appoggio contro il bordo e rigiro il telefono tra le dita per portarlo all'orecchio.

"Sarà meglio che ne valga la pena, Stef."

"Si tratta di papà."

Non è per via del tono. Sono abituato a quel tono in bocca a mio fratello, quel tono grave che è capace di usare anche per quando sono finiti i cereali. E' il modo diretto e senza giri di stronzate in cui lo dice, a far scivolare via all'istante i residui del vago sorriso che avevo fino ad un attimo fa.

"Ti sto chiamando dall'ospedale. Questa mattina, dopo che … Il suo cuore … Damon, è stato tutto così veloce, i-io … non ho potuto …"

Le mie dita allentano la presa sulla pallina, mentre il mio battito corre più veloce ed io lo so già, lo so e basta, anche prima che la voce distante di Stefan incespichi ancora un po' su dettagli sconnessi che non ascolto e finisca di rompersi.

"Papà non c'è più."

Guardo di fronte a me. E aspetto, aspetto che la vera realizzazione si depositi, che sia in una qualche sensazione che sbuca sul fondo del petto, o nella palla anti-stress che scivola via dalla mia mano. Ma la pallina resta lì tra le mie dita, meno stabili ma non del tutto, e l'unica sensazione che ho sul fondo del petto è solo questo teso pulsare che non dice poi niente, in fin dei conti.

"Damon?" Stefan mi chiama, incerto, dopo lunghi secondi di silenzio. "Sei lì? …"

Sbatto lentamente le palpebre, torno a rimettere a fuoco le cose. Poso con attenzione la pallina di nuovo al suo posto.

"Sì," dico. "Sì."

"Forse potresti-"

"Devo andare, Stef."

Lascio abbassare il braccio che si è fatto più pesante, premo il tasto che pone fine alla chiamata. Lo fisso per qualche istante, e poi faccio scivolare il dito più in su, spengo il telefono del tutto. Lo appoggio sulla scrivania, accanto alla pallina. Lo lasciò lì, mi dirigo di nuovo verso la meeting room.

"Quindi," dico, tornando alla mia sedia. "Jack, dove eravamo rimasti?"

***


Adesso


Elena mi osserva disorientata. Sbatte appena le ciglia, come se pur avendo sentito ciò che le ho appena detto non riuscisse del tutto a mettere a fuoco il concetto.

Non c'è niente che vorrei di più che attirarla verso di me, e baciarla con la stessa fierezza con cui lei ha appena pronunciato quelle due parole che avevo quasi smesso di sperare di sentirle davvero dire, e restituirgliele un altro migliaio di volte, ma come provo a sfiorarla di nuovo, lei si scosta immediatamente.

Cerco altre parole, qualcos'altro da aggiungere, ma non riesco a trovarne nessuna. Dopotutto, in quanti possono dire che, di fronte alla più dolce e perfetta dichiarazione, quella che stanno aspettando da una vita intera, tutto ciò che costretti dalla loro coscienza riescono a rispondere è, "Ehi, ti ho mai detto di quella volta che ho messo incinta la mia moglie malvagia?"

Fanculo a me, solo io ho certi privilegi.

"Katherine …" Elena mi cerca con gli occhi di un cerbiatto smarrito. "Lei … ? Insomma, c-come …?"

Quando i nostri sguardi si incrociano, so che nessuno di noi vuole davvero mettersi ad approfondire troppo la risposta a quella domanda.

"No, dimentica che io l'abbia chiesto," infatti aggiunge subito, scuotendo con forza la testa come per scacciare via l'immagine. Con piacere. "Io non … Voglio dire … Oh mio dio," deglutisce. "Penso di aver bisogno di un momento."

Fa per alzarsi in piedi, ed io d'istinto allungo una mano per fermarla, ma lei mi blocca sollevando un palmo nella mia direzione.

"No. Penso che un momento per assimilare la cosa sia una richiesta del tutto ragionevole, dato che mi hai appena detto che stai per avere un figlio da un'altra donna."

Che? Scatto anche io su in piedi come uno di quei pupazzi a molla che escono dalle scatole.

"Whoa, aspetta un attimo, io non ho mai detto niente riguardo al-"

"Tu cosa?!"

Sia io che Elena ci voltiamo verso quello squillo acuto, uno squillo da Caroline, che è appena arrivato dalla porta alle nostre spalle, dove la mia bionda "sorella" di prossima acquisizione mi sta fissando con la bocca che tocca terra, insieme a Stefan lì accanto a lei che invece si limita a cimentarsi in un accigliamento confuso.

"Stai scherzando?!" prosegue in altro stridio acuto, rimbalzando lo sguardo incredulo tra me ed Elena. "Come diavolo è potuto succedere?"

"Oh, cristo santo," mormoro passandomi entrambe le mani sulla faccia, prima di sbottare esasperato. "Possiamo per favore bandire completamente questa domanda dalla questione? Penso che siamo tutti piuttosto familiari con la procedura. Grazie."

Elena, accanto a me, deglutisce un'altra volta con ancora più sforzo di prima, si volta per riprendersi la piccola borsa che aveva appoggiato sopra il divano. "E' meglio se me ne vado."

"Aspetta, Elena, non-"

Mi ferma con una sola occhiata. Non arrabbiata, non del tutto perlomeno, ma un'occhiata abbastanza intensa da farmi sapere, senza aggiungere altro, che devo darle il suo spazio in questo momento. Ed anche se mi costa tutto ciò che ho - la sola idea di tutti i modi diversi in cui questa notte sarebbe potuta andare, e ancora di più quella di lasciarla andare quando fino a solo qualche attimo fa non era mai stata tanto vicina - annuisco appena per farle sapere che non glielo impedirò.

Mi ritrovo da solo con il doppio sguardo giudicante di Stefan e Caroline.

Lei scuote sconsolata la testa.

"Oh dio," sospira. "Sei proprio un coglione."


***


"Benvenuti nella mia casella vocale. Se non rispondo è perché ho di meglio da fare, oppure non vi voglio parlare. Se è il primo caso, lasciate un messaggio e forse potrei richiamarvi. Se è il secondo, non fare neanche lo sforzo, Damon."

Chiudo la chiamata con un altro "Fanculo, Katherine" che mi rimane stretto tra i denti, nonostante lo sapessi già in partenza quanto fosse vano tentare di nuovo di parlarle.

Katherine se ne è andata da qui due sere fa. Praticamente subito dopo quel nostro incontro per il divorzio che non è mai andato in porto, con tanto di granata che mi ha gettato addosso, impacchettando in fretta e furia le sue cose per portarle al bed&breakfast più vicino. Se solo lo avessi immaginato, di cosa c'era bisogno per farla sloggiare. Ma da come è andata a finire la mia richiesta di incontrarci per parlare ieri sera, alla festa di fidanzamento di Stefan e Caroline, dubito che abbia alcuna intenzione di discutere ulteriormente la questione. Ed in effetti non lo so nemmeno io cos'altro ci sia da dire, o perché non lascio perdere e basta, invece di continuare a sbatterci inutilmente la testa.

Elena, invece … Non ci provo neanche. Almeno due o tre volte, da quando mi sono svegliato, sono arrivato fino al punto di avere il suo nome e numero sul display, pronto per essere chiamato, ma quel pulsante verde non l'ho mai premuto. Ogni volta, ho rivisto lo sguardo con cui mi ha fermato e chiesto di lasciarla andare ieri sera, e dato che niente è cambiato, mi costringo a lasciarle lo spazio di cui ha bisogno, anche se starle lontano in questo momento è pura sofferenza fisica che, combinata con tutto il resto che mi sta passando per la testa, ha come unico risultato quello di rendermi un derelitto, fottutamente incasinato, sacco di depressione.

"Avanti," sussurra pungolante una voce dietro di me. "Vai."

"Cosa? Perché?" replica un altro sussurro.

"Perché è così da quando ci siamo svegliati, sembra miserabile! Ed è tuo fratello, non mi va di lasciarlo così." Una piccola pausa. "Però io ho un matrimonio da organizzare, quindi vediamo di sbrigarci."

Faccio roteare gli occhi al soffitto, scivolo più in basso con la nuca contro la base del divano ed appoggio un piede sopra il tavolo. "Posso sentirvi, idioti."

"Vai e basta!" sento Caroline sussurrare di nuovo, prima che mio fratello sospiri ed incespichi contro il tappeto, come se fosse appena stato spinto in avanti dalla sua adorabile fidanzata.

L'attimo dopo, entrambi mi compaiono davanti.

Stefan si siede sul bordo del tavolino, Caroline invece mi afferra la caviglia e mi costringe con un'occhiataccia a togliere il piede da lì. Sbuffo infastidito, ma obbedisco.

"Ora che c'è?" domando scocciato.

Caroline non si perde in tanti preamboli. Allunga una mano e mi schiaffeggia con forza sul retro della nuca.

"Che cavolo?!" esclamo allibito scattando a sedere, massaggiando con una mano il punto dolorante che ha appena colpito.

"Questo è per non aver usato il preservativo!"

"Ho usato il preservativo!" ribatto offeso. Anche se … "Beh, più o meno. Insomma, ero davvero ubriaco, e potrei non … Sentite, possiamo non farlo? Per favore?"

"E invece sì che dobbiamo farlo!"

"E invece no. Non ho diciassette anni e tu non sei mia madre - grazie a dio. Cosa vuoi, farmi la ramanzina e stare a dirmi la gigantesca cazzata che ho fatto? Grazie, ma non ce ne è bisogno, lo so perfettamente anche da solo."

Stefan solleva lo sguardo, mi osserva serio.

"Andiamo, Damon. Non è la fine del mondo."

"Non è la fine del mondo?" domando sarcastico. "Ho praticamente procreato l'anticristo. Come la chiameresti tu, se non la fine del mondo?"

Lui e la bionda si scambiano una lunga occhiata.

"Vuoi farlo tu?" domanda lei.

Stefan mi indica con un gesto della mano, concede cortesemente. "Prego. Fai pure."

Caroline mi assesta un altro deciso ceffone sulla nuca.

"La vuoi smettere?!" sbotto frustrato.

"E tu smettila di fare l'idiota. Non hai procreato l'anticristo."

"Viene da Katherine. E da me. La genetica non è chiaramente dalla sua parte." Ci rifletto per qualche secondo. "Credi che verrebbe fuori con tre teste?"

Alzano entrambi gli occhi al cielo, in sincrono perfetto, doppia dose di seccatura, doppiamente insopportabile. Se penso che adesso si sposano pure … L'umanità è praticamente spacciata.

"Ma sei almeno sicuro che sia tuo? Che non se lo stia inventando per trascinartici dentro?" prosegue Caroline.

Stefan le lancia un'occhiata di traverso. Lei con le labbra gli mima un innocente, "Cosa? E' una domanda legittima!"

Mi passo una mano tra i capelli, sospiro, mi accascio ancora più in basso e ancora più depresso lungo il tappeto. Pensa davvero che quella non sia stata una delle prime cose a passarmi per la testa, ciò a cui mi sono aggrappato per auto-convincermi che Katherine stava solo facendo la Katherine con l'intento di fregarmi e ricavarne qualcosa? E' stata la discussione che abbiamo avuto ieri sera, quella dopo che le sono corso dietro (Ahah. Io che corro dietro a Katherine. Qualcosa che non avrei mai pensato potesse più succedere neanche nei miei incubi peggiori) non appena l'ho vista apparire alla festa di fidanzamento di questi due, a farmi scoppiare tra le mani anche quella debole illusione.

"Cosa voglio da te?" mi aveva sibilato in faccia, prendendo la mia domanda e risputandomela addosso con stizza. "Voglio non essere incinta del tuo stupido bambino!"

"Non è detto che sia mio!"

"Sul serio?" aveva replicato, un lampo di ferimento a balenarle nello sguardo che mi aveva quasi fatto sentire un po' uno schifo per averglielo detto. "Pensi davvero che andrei a letto con qualcuno in questa stupida città di provinciali? Ho degli standard. Anzi, no, lo sai cosa? Credi pure quello che ti pare. Non me ne frega niente. Ho già preso appuntamento per liberarmene quindi, in ogni caso, non ha nessuna importanza."

Aveva allargato la mani come per sottolineare che per lei la questione era finita lì, ed io non so perché mi fossi sentito tutto insieme un tale idiota, né tantomeno perché, quando si era girata per andarsene, invece di lasciarglielo fare l'avevo afferrata per il polso per farla voltare di nuovo.

"Non dovremmo …" Avevo esitato, avevo davvero esitato, costretto ad ingoiare con difficoltà attorno ad un nocciolo duro appena spuntato nel mezzo alla gola. "…. Non dovremmo almeno prima parlarne?"

"Parlare?" Katherine aveva riso, di quella risata leggera e cristallina che un tempo avevo adorato, macchiata però questa volta di un sottotono più amaro, appena prima di strattonarsi via dalla mia presa e liberarsi di me. "Vuoi parlare di qualcosa, fallo con il mio avvocato."

Sì, lo so. La rivincita è una stronza, quando se la prendono gli altri, e ancora di più quando risponde al nome di Katherine Pierce.

Ma rivincita o no, era lì che lo avevo saputo, al di là di ogni dubbio che ancora avrei voluto avere. Per rispondere a Caroline, scuoto la testa.

"Non mi sta trascinando dentro a niente. Conosco Katherine. Se era a questo che puntava, se la sarebbe giocata fin dall'inizio molto diversamente. Penso che in realtà non volesse neanche farmelo sapere, lo ha fatto solo per gettarmi addosso qualcosa perché in quel momento era incazzata per non aver avuto il divorzio che voleva. Voglio dire, non lo vuole neanche tenere. Che è una buona cosa, alla fine. Insomma, problema risolto." Annuisco per imprimere ancora più convinzione all'ultima frase. Guardo entrambi. "Giusto?"

C'è un momento di troppo di silenzio, nel quale Caroline annuisce leggermente con le labbra serrate appena prima di spostare lo sguardo sullo status della propria manicure, e Stefan fissa qualcosa oltre le mie spalle, ed io sospiro passandomi entrambe le mani tra i capelli, senza sapere perché se il problema è risolto io mi debba sentire un tale schifo al riguardo.

"E' tutto sbagliato," mormoro tra me e me. "Non dovrebbe stare accadendo a me. Ho sempre pensato che sarei stato lo zio figo, no? Quello che viene e va e che può avere tutte le parti divertenti senza realmente dover rimanere incastrato con la … cosa. Quello dovresti essere te, Stef."

Il silenzio che segue è così immobile che sollevo di nuovo la testa solo quando sento il rumore di tacchi sul pavimento. Caroline si è alzata, si schiarisce la voce evitando il mio sguardo.

"Mi sta … suonando il telefono. Deve essere il fioraio. Devo andare."

Non è vero che il telefono le sta suonando, ma sono davvero troppo un totale imbecille per realizzare cosa ho appena detto fino a che Caroline non si affretta a lasciare la stanza ed io non incrocio ciò che passa negli occhi di mio fratello mentre la guarda andare.

"Merda," mormoro, premendo due dita contro la radice del naso, maledicendomi per non far funzionare il cervello prima di parlare. "Merda. Mi dispiace, non volevo …"

"Va bene," mi ferma lui.

Non va bene per un cazzo.

Mi sporgo in avanti fino a posare i gomiti sulle ginocchia, ingoio attorno allo stesso nocciolo duro che non se ne è più andato da ieri sera, senza riuscirci davvero. Lo faccio suonare come una qualche specie di scusa, non so se più verso di lui o verso me stesso.

"Non posso avere un figlio. Non posso … e basta."

Quando incontro il suo sguardo, mio fratello mi studia in silenzio per un lungo istante.

"Allora è un bene che non lo voglia tenere."

Lo è? Cazzo, non lo so. Non so più un cazzo di niente. Il modo in cui lo guardo in risposta è molto più che implorante. Lui lo nota, perché subito fa di nuovo roteare gli occhi al soffitto prima di riportarli su di me.

"Cosa ti aspetti che ti dica, Damon?"

"Non lo so! Una di quelle …" Agito vago una mano nell'aria. "… cose da Stefan. Lo sai, quelle noiose, ragionate, in cui mi dici quale è la cosa migliore da fare … Cose da Stefan."

"Beh, scordatelo. Non ho intenzione di farlo," dice alzandosi in piedi, verso la direzione da cui Caroline è appena uscita. Mi posa brevemente una mano sulla spalla. "Non questa volta."


Stefan stava dormendo. Era sempre bianco come un fantasma, un terreo alone viola sotto agli occhi che sarebbe stato perfetto per una festa di Halloween ed una vaga smorfia sofferente a contrargli il volto che mi si attanagliò dritta attorno al petto. Rimasi lì qualche minuto, sulla soglia della camera d'ospedale, senza ancora decidermi ad entrare, stordito dal dolore pulsante alla testa che mi perseguitava dal primo momento che avevo aperto gli occhi.

Non che fosse stato male come risveglio. Lì nel letto di Elena, così circondato dal suo odore da ritrovarmi con indurimento mattutino che era perfino doloroso, mentre premeva contro il materasso, ma di un dolore così squisito che quasi cancellava l'altro, quello sordo e persistente diffuso nelle ossa e nella testa dall'incidente della notte prima.

L'incidente. Stefan. La cena dal governatore. Mio padre.

Tutte quelle cose erano da sole bastate a farmi martellare le cervella ancora più pesantemente. E neanche il bozzolo piacevole dell'odore di Elena era riuscito a tenere la realtà fuori troppo a lungo.

Realtà ovvero mio fratello steso in un letto d'ospedale con un organo di meno; mio padre che si stava costruendo una carriera politica sulla rovina della famiglia della ragazza che amavo; la ragazza a cui avevo detto di amarla nella notte, che non era più lì al mattino.

Era sembrata una buona idea, nel buio, sul momento, buttare fuori ciò che avevo in egual misura desiderato e temuto dirle da così tanto tempo. Al risveglio, non sapevo più se lo fosse stata davvero. La nota positiva era che lei mi aveva baciato (dio se mi aveva baciato, cosa su cui anche la mia erezione concordava). Quella non così positiva era che da parte sua prevedibilmente non c'era stata, in effetti, nessuna presa di posizione sulla cosa. E per quanto ci provassi, non riuscivo a smettere di pensare che forse non voleva davvero dire niente, che magari si era solo lasciata trasportare dal momento, insieme ad un po' di compassione per lo stato in cui mi trovavo, per poi pentirsene non appena si era svegliata ed era tornata a ragionare con lucidità.

Neanche la nota scribacchiata su un pezzetto di carta che avevo trovato sul pavimento mi aveva aiutato granché a far pendere la bilancia dall'una o dall'altra parte. Quelle parole le avevo lette non so più quante volte, in ogni diverso tipo di tono o accentazione, come se uno di essi potesse essere quello giusto per risolvere il mistero di cosa le stesse davvero passando per la testa.

Anche mio padre mi aveva lasciato un messaggio, un sms stringato sul cellulare.

Torna a casa, così possiamo parlare.

Quello invece lo avevo cancellato senza pensarci due volte.

Casa. Parlare. Non era difficile immaginare dove volesse andare a parare: il mio comportamento indecente della sera prima, mio fratello che quasi ci rimane perché io ero troppo ubriaco per essere responsabile, i suoi piani per il bene superiore che non potevano essere disturbati dall'insignificante dettaglio che a me importasse qualcosa di chi ci finiva preso nel mezzo. Un'altra litigata, un'altra battaglia, che mi avrebbe soltanto lasciato svuotato, sbattuto, ed ancora più incazzato di quanto già non fossi.

Quindi fanculo. Poteva aspettare.

Avevo ingoiato una manciata degli antidolorifici con cui ero stato dimesso la sera prima ed ero andato da mio fratello.

Stefan ce ne mise di tempo a svegliarsi. Dalla poltroncina accanto al letto in cui mi ero spostato mentre aspettavo, abbozzai un mezzo sorriso.

"Buongiorno, fratello."

Si passò una mano sulla faccia per scacciare via lo stordimento delle medicine. Quando infine mi mise del tutto a fuoco, disse solo, "Hai un aspetto di merda."

"Oh, beh, grazie," replicai. "Pure tu sei un fiorellino."

Sorrise, ma venne fuori più come una smorfia.

Gesù, non sapevo neanche da dove cominciare.

"Mi dispiace, Stef. Non avrei dov-"

"Smettila," mi interruppe. "Non sono un bambino, ok?" Cercò di tirarsi su a sedere più dritto, come per rafforzare il suo punto, ma riuscì solo a lasciar uscire un'altra smorfia e a riaccasciarsi sui cuscini. "Ero io a guidare. Mi sono distratto. Ho fatto una cazzata. Non puoi sempre prendertene il merito tu, ok? Lasciane un po' anche a me."

Curvai le labbra, Stefan fece una pausa. "Sono solo contento che tu stia bene. Dal momento che, sai com'è … ti ho distrutto la macchina."

Scossi la testa. E' vero, il mio cuore piangeva un torrente di lacrime all'idea della Camaro tutta storta e devastata in un deposito rottami, ma l'avevo sistemata quando era stata in condizioni peggiori, si sarebbe potuto sistemare anche questo.

"Va bene."

"No, non va bene," ribatté. "Te la ripagherò."

Alzai gli occhi al cielo. "Non essere ridicolo."

"Volevi venderla, no? Avevi detto che ti servivano i soldi. Bene, allora la compro io. Lo so che ne avresti ricavato di più se l'avessi venduta in perfette condizioni, ma te lo prometto. La rimetterò a posto."

"Stef. Stai zitto, per favore."

Questa volta ci riuscì a mettersi seduto.

"Voglio farlo," replicò, con gli occhi allargati in un'espressione così supplichevole e determinata che fui io a zittirmi. "Così saprò che avrai un motivo per tornare, per vedere che la stia trattando bene."

Maledizione a te, Stefan. Stupido, sentimentale, snervante, Stefan.

Ebbi un distinto ricordo lampo della nostra conversazione della notte prima, che arrivò un po' ruvida e un po' livida esattamente come erano entrambe le nostre facce in quel momento. Tornare. Andarmene. Erano mesi che mi gingillavo con quell'idea, e settimane che insieme ad Enzo pensavo a come metterla in pratica. Racimolare abbastanza soldi per avere un po' di base di partenza, e lasciarsi tutto alle spalle. Fino a ieri, era un piano. Oggi invece c'era Stefan troppo bianco in ospedale, e c'era la consapevolezza di cosa si provasse ad avere Elena avvolta stretta tutto intorno a me. Ed anche senza sapere se davvero significasse qualcosa o meno, soltanto l'accenno, soltanto la possibilità di poterla tenere ancora in quel modo, era quel genere di cosa capace di prendere i migliori piani e trasformarli in fumo.

"Va bene," dissi vago. "Vedremo, ok?"

Restammo entrambi in silenzio, finché Stefan non alzò di nuovo la testa.

"Papà è tornato a casa un paio di ore fa. Ha detto di fartelo sapere, quando fossi passato a trovarmi, che lo puoi trovare lì."

"Bene, così adesso so che posto evitare."

Stefan sbuffò. "Non puoi lasciar perdere? Almeno per una volta?"

Scossi la testa, mi alzai di scatto in piedi. "Non si tratta di lasciar perdere."

"E allora di cosa?" mi domandò, confuso ed esasperato come ogni volta che si trovava ad assistere a certe situazioni.

"Non lo so, io …" mi interruppi da solo, incapace di spiegargli cos'era davvero, tutto ciò che non potevo lasciar perdere.

Stefan non avrebbe mai capito. C'era Elena, è vero. Ma c'era anche il nodo nero di rabbia e frustrazione che si era tessuto, ingarbugliato in quel modo che, a cercare di tirarlo via, finiva solo per stringersi inevitabilmente ancora di più.

E la cosa più ironica è che fu proprio Stefan a darmi involontariamente l'idea, quando uscii dall'ospedale e passai dalla sede degli uffici della Salvatore's&Associates, a prendere la sua auto rossa che aveva lasciato parcheggiata lì dalla sera prima e che aveva insistito che io usassi finché non avessi potuto recuperare la Camaro. Aveva detto che papà lo avrei trovato a casa, quindi sapevo per certo che non sarebbe stato lì.

In mia difesa, non avevo intenzione di fare chissà che. Volevo solo sapere cosa avesse davvero in mente, quali fossero nel dettaglio i suoi piani, fino a che punto avrebbero danneggiato Elena, sapere se c'era anche solo un minimo appiglio che avrei potuto usare per fargli cambiare idea, o qualcosa da usare per dare una mano ad Elena quando gliene avessi parlato - perché gliene avrei parlato. Non sapevo neanche io davvero cosa. Qualsiasi cosa.

In mia difesa, non era mia intenzione fare davvero seri danni.

In mia difesa, forse un po' lo era.

***


Sono infine costretto ad alzare il culo dal mio confortante e deprimente posticino alla base del divano e togliermi gentilmente dalle scatole.

I due futuri sposini non solo hanno deciso di dare tutto un più profondo significato all'espressione "non perdere altro tempo", gettandosi in frenetici preparativi di un matrimonio messo su a tempo di record, ma vogliono fare la cerimonia qui, in questa stessa casa. E così, nel giro di poche ore, la villa e tutto il suo acro di terra circostante sono stati rapidamente invasi da un circo danzante di ogni genere di delirio matrimoniale, tra un incessante suonare di telefoni e campanello, servizi catering intenti ad esaminare la cucina, giardinieri a falciare il prato. Mentre scendo al piano inferiore dopo una doccia veloce, mi trovo perfino a dover a sorpassare sulle scale alcuni musicisti, intenti ad accordare i propri strumenti in vista di un'audizione con Caroline.

Ric mi risponde al secondo squillo.

"Vai a cercarti uno smoking e metti il culo su un aereo. Sabato andiamo ad un matrimonio."

"Che matrimonio? Di che diavolo stai parlando?"

"Il mio fratellino si sposa. Sembra una puntata di Bridezillas da queste parti." Evito al volo e all'ultimo secondo un trombettista che mi è appena strisciato accanto precipitandosi verso l'uscita, non so se perché ha dimenticato qualcosa o perché ha appena preso la decisione più intelligente di tutta la sua vita e sta scappando via di qui. Lo invidio. "Anzi, vieni prima di sabato. Magari mi aiuti a sopravvivere. E poi …" Tiro su un angolo delle labbra in un sorrisetto che è forse il primo in tutta questa cavolo di giornata. "… Addio al celibato, baby."

"No, fermo un attimo. Pensavo che si fossero lasciati. Non eri tornato perché si erano lasciati?"

"Già, e adesso si sposano. Tra quattro giorni."

"Penso di essere davvero confuso."

"Benvenuto nel club delle follie Steroline."

"Che vuol dire Steroline?"

"E' questa nuova creatura che stanno diventando. Una specie di mostro orripilante che viene fuori dalla fusione del peggio di entrambi … Ne ho avuto un primo assaggio questa mattina." Non dico in relazione a cosa. La notizia della progenie di satana è già arrivata a fin troppe orecchie, ed io non sono così crudele da dargliela per telefono. O così masochista da attirarmi un'altra paternale pure da lui. Quindi sorvolo, breve e conciso. "E' terrificante, lo giuro. Quindi, vieni?"

Domanda retorica. Lo sa anche lui non c'è altra alternativa che una risposta positiva.

Come chiudo la chiamata, vengo raggiunto da voci animate nel bel mezzo di una accalorata discussione. Sbircio verso l'interno della sala, dove Caroline sta inveendo intensamente contro mio fratello.

"E' Time after time! Lo sai perfettamente, è la canzone del nostro primo appuntamento!"

"Sì, ma la canzone che ti rappresenta dovrebbe essere qualcosa di più significativo di un primo appuntamento!"

Lo sguardo di Caroline è un raggio laser letale.

"Oh, quindi il nostro primo appuntamento non era significativo, è questo che stai dicendo?"

Uh-oh. Cazzo, Stefan, ti sei messo davvero nei guai qui. Mi appoggio con una spalla contro lo stipite della porta e mi fermo per guardare, perché è davvero tutto troppo divertente. Peccato non avere dei popcorn.

"Non è quello che ho detto, e lo sai. Sto solo dicendo che la nostra canzone dovrebbe essere All about loving you, perché è quella con cui ti ho detto che ti amo per la prima volta."

"Ma Time after time è venuta prima!" Non molla lei. "Non puoi decidere su due piedi quale è la nostra canzone, viene fuori da sé, è così e basta!"

"Ma è Bon Jovi! E' un classico!"

"Anche Cindy Lauper è un classico!"

Stefan sbotta allargando le braccia frustrato, ed è in questo momento che mi vede. Mi indica con la mano.

"Damon, diglielo anche tu. Diglielo di quando ti ho detto che era quella la nostra canzone!"

Mi porto pensoso una mano sulle labbra davanti al vivido ricordo di uno Stefan ubriaco perso intento ad ascoltare Bon Jovi e a blaterare qualcosa del genere, quella volta in cui si erano mollati durante gli anni del college - qualcosa per cui non ho mai sprecato l'opportunità di prenderlo per il culo, data l'occasione. Poi però vedo lo sguardo di Caroline.

"Nope," scuoto la testa. "Non riesco a ricordare niente del genere."

Caroline incrocia le braccia sul petto e si volta verso di lui con un sorrisino vittorioso. Stefan socchiude gli occhi minaccioso.

"Traditore."

Indico Caroline con il mio pollice sinistro ed abbasso la voce ad un finto sussurro, "E' che a volte lei mi fa davvero paura."

Il campanello suona un'altra volta, e Caroline scuote la testa con un'alzata di occhi al cielo, passandomi davanti per andare ad aprire alla porta.

"Questa me la pagherai," borbotta Stefan, venendomi incontro.

"Lei me l'avrebbe fatta pagare di più," replico dandogli una consolatoria pacca sulla spalla. "E poi, andiamo, davvero pensi ancora di avere una minima possibilità di vincere una qualsiasi discussione con lei? E sto parlando da qui a fin che morte non vi separi."

Stefan sta per ribattere, ma poi la sua faccia cambia di colpo espressione. Indica l'ingresso. "Aspetta. Hai sentito?"

Mi volto per ascoltare le due voci che arrivano da lì, ed anche la mia di espressione cambia all'istante, quando quel femminile "Oh mio dio, ma guardati, sei così adorabile!" rende chiaro, a me come a Stefan, che chi ha appena suonato il campanello non è soltanto un altro ragazzo delle consegne.

"Cazzo …" mormoro lentamente, girandomi poi verso la reazione mio fratello.

"Non lo ha fatto," dice lui con la mascella tesa, scuotendo la testa, in pieno denial con giusto una punta di panico. "Ti prego dimmi che non l'ha davvero chiamata per dirle di venire qui."

Oh, sì. Lo ha fatto. Stefan si porta una mano sulla fronte e si lascia sfuggire un'imprecazione sottovoce, mentre Caroline ritorna sottobraccio ad una sorridente Charlotte, come due migliori amiche di lunga data. E meno male che le spose non vanno d'accordo con le proprie suocere.

Se poi si tratta di Caroline più nostra madre?

Mi sporgo per bisbigliare a mio fratello. "Sei troppo fottuto."


"Che diavolo ti è saltato in mente?"

"Come cosa mi è saltato in mente? E' tua madre!"

"Non significa che dovevi invitarla alle mie spalle!"

"Vuoi dirmi che non volevi invitarla al matrimonio?"

"Voglio dire che avresti dovuto parlarmene prima!"

Charlotte si rigira nervosamente tra le mani la tazza di caffè che le ho appena porto, prima di sedermi davanti a lei al bancone della cucina, facendo finta di non stare ascoltando gli stralci della discussione tra i due fidanzatini che sta andando avanti nella sala accanto. Ma non sta fingendo poi così bene, come dimostrano le sue sopracciglia increspate in una linea più irrequieta, o le labbra che si fanno più sottili.

Erano mesi che non la vedevo. E' ancora più esile di come me la ricordassi, sempre con quel non-so-che per cui sembra che possa dal niente dissolversi nell'aria, e pur restando splendida da fare invidia a gente con vent'anni in meno dei suoi, è la prima volta in cui le vedo sul viso linee più provate che non c'erano fino a qualche mese fa.

Si mette a frugare con dita nervose dentro la borsa, ne tira fuori una sigaretta, mi getta uno sguardo. "Posso?"

"Fuori," le faccio segno. Alzo le mani in aria. "Regole di Caroline, non mie."

Annuisce, fa per alzarsi, ma poi ci ripensa, torna a sedersi, picchietta incerta la sigaretta sul bancone.

"Pensi che sia stata una pessima idea?" mi chiede, alzando apprensiva lo sguardo su di me. "Forse non vuole davvero avermi qui …"

"Lo vuole," le dico, pensandolo sinceramente. "Ha solo bisogno di fare un po' la primadonna al riguardo."

Charlotte annuisce e mi rivolge un abbozzo di sorriso, come per auto-convincersi di crederci anche lei. Una volta mi ha detto che era arrivata ad accettare la scontrosità con cui Stefan la tratta da sempre, il fatto che sotto sotto lui non l'abbia mai davvero perdonata per essersene andata e tutto il resto. Stronzate. Ogni volta che lui fa così, lei si sente uno schifo. Ogni volta che lei si sente uno schifo, Stefan segretamente ci gode ad avere un'occasione in più per mettere su la sua faccia da parte lesa. E' il modo in cui si relazionano. E poi sono io, quello con problemi.

"E' che sono stata così felice quando Caroline mi ha dato la notizia … E' una ragazza incantevole, non credi anche tu? Un matrimonio! Penso che ne avessimo bisogno tutti, di qualcosa di così bello, di un po' di karma positivo dopo il lutto."

Charlotte sbircia la mia reazione a quella parola, ed io annuisco vago, già pronto a schivare al volo il proiettile dell'argomento con un veloce cambio di direzione che porti il discorso su qualcosa di banale tipo chiederle come è andato il viaggio, ma lei mi anticipa, ancora più rapida, allungando una mano per posarla sopra alla mia.

"Come stai, tesoro? Intendo, veramente. Non abbiamo ancora avuto davvero occasione di parlarne, della morte di tuo padre. Ho provato a telefonarti, ma tu non hai mai richiamato, così ho pensato che magari avessi bisogno di un po' di tempo per-"

Tiro via la mano, sulla difensiva.

"Sto bene," la taglio corto. "Davvero. Sto bene."

Lei si sporge un po' titubante verso di me, abbassa la voce ad un tono quasi furtivo.

"Hai pianto?"

"Cosa?" replico con una smorfia infastidita. "No."

"Non c'è niente di male, sai," prosegue raddrizzando la schiena e prendendo un piccolo sorso di caffè. "Anche gli uomini possono piangere. E' liberatorio. Infatti, stavo proprio di recente leggendo questo saggio di questo mio amico professore di psicologia, e sai lui è davvero aperto sui suoi sentimenti, e sostiene che-"

"Diamine, Charlotte," la interrompo secco. Cristo santo, come se non avessi già abbastanza cose a fottermi la testa, ci mancava solo questa. "Non ho bisogno di piangere. Lascia perdere."

Lei rimane in silenzio qualche istante, a rigirarsi la sigaretta spenta tra le dita, sovrappensiero.

"Ci sono alcune cose di cui dobbiamo parlare, Damon," dice infine. "E ti prometto che lo faremo."

Fortunatamente, non dobbiamo farlo adesso, perché Stefan è appena comparso sulla soglia della cucina. Charlotte si volta e lo guarda con aria carica di attesa, come un imputato che aspetta di sentire di che condanna deve morire. Lui però fa scivolare lo sguardo su di me.

"Vado in ufficio a rivedere alcune cose per la riunione del consiglio di domani. Meglio assicurarsi di nuovo che sia tutto in ordine e prepararsi ad ancora più opposizione, dato che presumo Elijah non sia troppo felice del fatto che ti sei portato a letto la sua fidanzata."

Charlotte torna a voltarsi verso di me, inclina la testa di lato per gettarmi uno sguardo incuriosito. Congedo la questione con un vago cenno della mano.

"Ex-fidanzata," lo correggo. Piccole soddisfazioni dove me le posso prendere. "Ma va bene."

Mio fratello si infila impacciato le mani fin sul fondo delle tasche.

"Charlotte," dice. "Care sarebbe molto felice se tu potessi darle una mano con la scelta della musica e del gruppo al posto mio." Sospira per lo sforzo, la primadonna. "E ne sarei felice anche io."

Charlotte si allarga in un sorriso raggiante, sbrigandosi a fare cenno di sì, e si alza per chiuderlo in un abbraccio al volo al quale lui rimane rigido, con le mani affondate in tasca e la faccia vergognosa di un dodicenne che non vuole farsi vedere dai compagni di scuola.

"Tu vieni?" mi domanda, quando infine Charlotte lo lascia andare per raggiungere Caroline.

Ma invece di rispondergli, vengo distratto dal tintinnio di un nuovo messaggio sul mio telefono. Corrugo la fronte, un grumo rigido torna a chiudermi la gola. Katherine.

Va bene. Vediamoci prima che io cambi idea.

Scatto in piedi così velocemente che faccio quasi cadere la sedia all'indietro.

"Dopo," getto là distrattamente. "Devo andare."


***


"Ce ne hai messo di tempo," mi saluta Katherine con una vaga smorfia.

"Ce ne hai messo di tempo a rispondere," ribatto io, sedendomi di fronte a lei.

Rotea gli occhi al cielo, posa il mento sulla mano. La studio brevemente, nei pochi secondi di silenzio che seguono, alla ricerca di un qualsiasi indizio su che genere di offensiva debba aspettarmi arrivati a questo punto. Ma se il posto che ha scelto - uno dei tavolini esterni del Grill, in un angolo all'ombra che è abbastanza appartato ma ugualmente circondato di gente - è di qualche indicazione, posso perlomeno supporre che non abbia intenzione di fare scenate. Anche se, dopotutto, non è mai stato un po' di pubblico a fermare Katherine, quindi sono di nuovo al punto di partenza.

Quando non dico niente, Katherine sospira infastidita.

"Ok, ascoltami bene, voglio essere chiara. Questa è l'ultima volta che ne parliamo, ok? Poi la chiudiamo qui. Ho già sprecato fin troppo tempo con te."

Senza aspettare una risposta, tira fuori dalla borsa una cartellina con dei documenti e la spinge verso di me.

"Questo è il tuo divorzio. E' tutto firmato. Lo firmi anche tu, e poi puoi gentilmente andare a farti fottere. Torno a Los Angeles, da mia sorella, domani notte, e prima che tu lo chieda, no, non ho bisogno che tu venga a tenermi la mano. Prego, non c'è di che."

Poso titubante le dita sui fogli che mi ha messo davanti, sollevo lo sguardo su di lei.

"Dov'è la fregatura?"

"La fregatura?" mi fa eco acida. "Oh, fanculo, Damon, sei incredibile! Prima mi molesti con qualcosa come trenta chiamate in un'ora, poi quando ti dico che non devi vedermi mai più, mi chiedi dov'è la fregatura?"

"Voglio dire …" Butto giù saliva acre, troppo densa per passare giù come si deve. "E il bambino?"

"E' quello il punto," mi dice allungando le braccia in avanti, visto che chiaramente sono troppo lento a capire le cose. Scandisce bene ogni parola. "Non ci sarà nessun bambino. Diamine, non avrei neanche dovuto dirtelo. Andiamo, dovresti esserne felice! La maggior parte degli uomini lo sarebbe. Ti sto sollevando da qualsiasi obbligo. Quindi, fammi un favore, vedi di mettere da parte tutta questa ritrovata morale e lasciami in pace."

Porto entrambe la mani sulla bocca e mi abbandono all'indietro contro lo schienale della sedia, lasciando uscire un profondo respiro.

"Cazzo, Katherine, non è morale."

"E allora cos'è? Uh?" chiede ironica. "Che per caso davvero lo vuoi?"

"Diavolo, no, sto solo dicendo …" Butto fuori altro fiato, mi passo una mano tra i capelli, scuoto la testa. Non lo so neanche io cosa cazzo sto dicendo. "Non lo so, che forse dovremmo fermarci almeno un attimo a pensare prima di prendere una decisione."

Katherine non risponde. Non immediatamente, almeno, fissando un punto sulla superficie del tavolo per alcuni istanti, prima di riportare lo sguardo su di me.

"Pensi che io non lo abbia fatto?" mi domanda, questa volta senza nessuna traccia di sarcasmo. "Perché l'ho fatto. Sicuramente più di quanto lo abbia fatto tu."

Sollevo la testa, sorpreso da quell'intonazione più umana che le traspare nella voce, un'intonazione che quasi avevo dimenticato che suono potesse avere in bocca a lei.

"Ok, senti," prosegue con un sospiro. "Siamo realisti, ok? Non ho mai voluto una cosa del genere. E tu nemmeno. L'unico motivo per cui ti ho sposato è perché sei sexy, e sembrava divertente, e per far incazzare mia madre. Sopratutto, per far incazzare mia madre. E sì, magari ho pensato, perché non tirare fuori qualcosa da questo divorzio, ma …" Si ferma, arriccia un po' il naso." …beh, credimi che non era questo quello che avevo in mente. Tu mi odi. Io ti detesto. Saremmo dei genitori terribili, ancora peggio che terribili. E' soltanto un gigantesco sbaglio, perché una notte mi sentivo sola e tu eri troppo ubriaco per mettere un cavolo di preservativo come si deve. Andiamo, Damon," mi dice con un piccolo, quasi impercettibile, brillio implorante nello sguardo. "Sono solo una ragazzina, lo sai anche tu. E non perché ho ventidue anni, ma perché … lo sono. Vuoi figli? Bene, vai a farli con la tua barista con gli occhi da principessa Disney. Ma lasciami fuori. Non chiedermelo perché non cambierò idea."

Non so cosa dire. Ed anche se lo sapessi, non so se riuscirei a dirlo comunque perché, invece di alleggerirsi, tutto ciò che mi blocca si è fatto solo più pesante, più amaro, più duro da mandare giù.

"E' meglio così, ok?"

Per un attimo, ho l'impressione che stia per allungarsi e farmi pat-pat sul dorso della mano, ma poi per fortuna anche lei si rende conto di cosa sta per fare e ritira velocemente la propria mano, osservandola inorridita come se il suo posto fosse stato preso da un alieno tentacolare e adesso stesse per rivoltarlesi contro da un secondo all'altro. Il momento è piuttosto imbarazzante per entrambi, quindi ci sbrighiamo tutti e due a distogliere lo sguardo da quella oscenità appena scampata.

Si riprende la borsa, si alza in piedi. "Fammi sapere del divorzio."

"Kath," la chiamo, la voce appena roca. Lei si volta, inarca un sopracciglio. "Allora cosa ti ha fatto cambiare idea, sul fatto di parlarmi?"

Si stringe nelle spalle.

"Non è stato poi tutto così male, sai. Almeno per un po'." Scuote la testa, torna in sé. "O forse sono questi fottuti ormoni che mi rammolliscono. Comunque sia … Addio, Damon."


***


Stefan cammina su e giù per il corridoio, con il naso e la testa tutti immersi tra gli appunti del nuovo piano che presenterà al consiglio nel giro di qualche minuto. Me lo immagino mentre mentalmente passa al setaccio ogni dettaglio, ogni virgola, ogni pausa, rimettendo mano a parole, frasi e tono di voce, dozzine e dozzine di volte, anche se è tutto già perfetto così.

Io siedo sul bordo di fronte ad un'ampia finestra che guarda sul centro di Richmond. La sala riunioni alla mia destra, dove tutti gli azionisti con anche solo un minimo di voce in capitolo decideranno se dare fiducia a me e mio fratello, sta già iniziando a riempirsi. Sono contento che sia lui a doverli convincere, e non io. Non solo perché é evidentemente più bravo e più gradito di me nel gestire queste persone, ma anche perché io, in questo momento, ho la testa da tutt'altra parte.

"Stai bene?" mi domanda Stefan, sollevando la testa dai fogli.

"Sto bene," butto là poco convinto, seguendo con lo sguardo due degli azionisti, un uomo ed una donna, che si scambiano convenevoli e sorridenti strette di mano.

Quanto cazzo odio tutto questo.

Stefan si siede accanto a me.

"Sei ancora turbato da quello che ti ha detto ieri Katherine."

"Non sono turbato," replico con una smorfia. "Ha ragione. E quando è Katherine ad avere ragione, e a dover essere razionale … Beh, prepara il rifugio anti-atomico perché la fine è davvero vicina."

Stefan posa gli avambracci sulle ginocchia, arrotola gli appunti in un cono.

"A volte le cose non sono sempre razionali."

"E' questa la tua perla di saggezza del caso?"

Si stringe nelle spalle. "Ne volevi una no?"

Sospiro e mi lascio andare all'indietro, appoggio la nuca contro il vetro e guardo verso il soffitto.

"Mi sento uno schifo anche solo a parlarne con te. Sono qui a piagnucolare, quando so che per te e Barbie non è neanche una possibilità."

"Ah, ma falla finita. In caso non lo avessi notato, sono perfettamente felice così," sorride come un bambino. "Schifosamente felice."

Piego la bocca all'insù, gli do un colpetto con la spalla.

"Vedi di non mandare le cose a puttane, con quella lì."

"Ehi," ribatte, con la faccia da schiaffi. "Non sono mica te."

Gliela lascio passare solo per il modo affettuoso in cui lo dice.

"A proposito," dice corrugando la fronte e lanciando un'altra occhiata rapida verso la sala dove la riunione comincerà a minuti. "Credo di aver bisogno di un testimone. Niente di che, in realtà, mi accontento anche di qualcuno che invece si è sposato alle mie spalle senza farmi sapere niente. Sai a chi posso domandare?"

Questa invece no, che non gliela lascio passare.

"Oh, sparisci", gli dico, dandogli una spintarella per farlo alzare. "Sono vivamente indignato che tu lo debba chiedere. Io lo davo per scontato."

Mi alzo per seguirlo ed entrare anche io, ma rallento il passo quando vedo Elijah gettare uno sguardo nella mia direzione, finire di salutare una persona e venire verso di me.

"Damon," mi ferma, una sottile nota insofferente nel modo in cui pronuncia il mio nome che non c'era fino a qualche giorno fa. Comprensibile, immagino. "Una parola?"


"Vuoi prendermi a pugni?" domando mentre entriamo in una saletta laterale al momento vuota, lontano da occhi e orecchie indiscrete. Socchiudo la porta alle mie spalle, già pronto ad arrotolarmi su le maniche della camicia. Magari togliergli un po' del palo che ha in culo mi aiuta in qualche modo a sentirmi meglio per tutta quella storia con Katherine. "Perché, nel caso, ti devo avvertire. Lo posso capire se ti consideri la parte lesa per via di quel che è successo con Elena, ma onestamente non sono mai stato a bravo a fare il martire o prenderle passivamente, perciò-"

"Ho detto che era per lavoro," mi interrompe con una smorfia, che non so se attribuire di più al fatto di aver offeso la sua dignità suggerendo lotte tra cani, o allo stoico sforzo che sta facendo per rivolgermi la parola. "Lo intendevo."

Posa la valigetta sul tavolo, ne tira fuori un foglio, me lo porge.

"Le mie dimissioni."

Lo prendo perplesso, corrugando lo sguardo prima su di lui e poi su ciò che mi ha messo tra le mani. Mentre io inizio a leggere la lettera in cui annuncia di rinunciare alla sua carica di direttore finanziario per "differenze inconciliabili con la gestione", Elijah prosegue, "Lo renderò ufficialmente noto al consiglio durante la riunione. Come proprietario della quota di maggioranza, sta a te accettarle o meno. Ti chiederei di farlo, se non ti spiace."

Metto via la lettera, sul tavolo alle mie spalle. Elijah è serio, risoluto, forse con appena una sfumatura di disprezzo persistente al di sotto di tutta quella compostezza che, lo ammetto, mi lascia quasi deluso. Quest' uomo è stato la mia cavolo di nemesi fin dal giorno in cui ho rimesso piede negli uffici della compagnia e lui si è fatto avanti per stringermi cordialmente la mano, il memento ambulante di tutto ciò che sarei dovuto essere e che non sarei stato mai. Quello che aveva la ragazza e che camminava benedetto nelle grazie di mio padre. Quello che ho ostacolato perché lo detestavo, e quello che ho detestato perché dovevo ostacolarlo.

Ma adesso … quasi mi domando cosa l'ho detestato a fare.

"Tutto qui? Ti dimetti e basta? Wow," commento, sinceramente colpito. "Piuttosto anti-climatico, non trovi?"

Elijah scuote la testa, fa scattare la chiusura della valigetta ed accenna un sottile sorriso amaro.

"Lo so che tu non lo hai mai creduto, ma ho sinceramente avuto a cuore sempre e soltanto i migliori interessi di questa compagnia. Tutto quello che ho fatto, tutto ciò per cui ho lavorato … è stato perché sapevo quanto fosse importante per tuo padre. Era un uomo davvero brillante, lo sai vero?"

Mi getta un'occhiata laterale, che mi sfida a contraddirlo e che implicitamente sottintende che lo stesso non si possa dire del sottoscritto. Non so se veramente si aspetti una risposta, certo io non lo degno della soddisfazione di riceverne una.

Sembra che sia finalmente sul punto di andarsene a fanculo, ma invece no, all'ultimo momento cambia idea e si volta a fronteggiarmi.

"Lo sai almeno, Damon, il motivo per cui adesso sei in questa posizione?" mi chiede con un luccichio soddisfatto nello sguardo, avanzando verso di me. "Perché ti sei ritrovato con la fetta più grande di torta? Te lo sei mai chiesto? Te lo dico io perché. Qualche mese fa, stavamo per ricevere dei fondi che richiedevano un cordone collaterale di garanzie. Dovevamo presentare un piano di trasferimento che servisse da riserva nel caso tuo padre non fosse stato in grado di tenere fede all'accordo. Avevamo lavorato fino a tardi, bevuto un paio di bicchieri, e tutto d'un tratto lui se ne esce fuori con «Dovrebbe andare a mio figlio». Pensavo parlasse di Stefan, naturalmente, ma «no, l'altro mio figlio». Non sapevo neanche che ce l'avesse, un altro figlio."

L'ultima frase la dice con una sfumatura vagamente sprezzante, come se il fatto che non ne avesse mai parlato la dicesse piuttosto lunga su cosa mio padre pensava davvero di me. Così adesso sono io ad avere voglia di prenderlo a pugni, per quello che sta insinuando. E perché ha ragione. E' vero che la dice lunga.

"Mi ha spiegato cosa intendeva. «Dato che è stato lui il primo a mettermi nei casini, se lo meriterebbe di essere quello che ne paga le conseguenze»."

Inspiro bruscamente, Elijah lo nota. Ma la cosa lo incita soltanto a continuare.

"Vedi, il fatto è che, a volte, non ci si riprende mai del tutto da un'accusa di frode. La superi, certo, ma in qualche modo rimane lì. Gli investitori si tirano indietro, dei progetti vengono abbandonati. Ti macchia la reputazione, piano piano ti porta a fondo. Uomini con meno acume probabilmente non sarebbero durati un anno, nella situazione in cui si era trovato.

"In ogni caso, ho pensato che dicesse sul serio, così ho preparato la proposta. Quando lui l'ha vista, è scoppiato a ridere. Letteralmente, come con una buona barzelletta. Solo che avevamo poco tempo per mettere in piedi qualcos'altro, ed un sacco di altre cose su cui concentrarci, quindi mi disse di lasciarla così per il momento, avremmo pensato a qualcosa di più serio non appena ne avessimo avuto la possibilità. Ma non c'è mai stata la possibilità. Non si aspettava certo di morire.

"Quindi, capisci Damon, che l'unica ragione per cui ti trovi qui, l'unica ragione per cui pensi di averne diritto, non è perché tuo padre avesse davvero intenzione di affidarti qualcosa, o perché anche solo lontanamente pensasse che tu potessi tirarne fuori qualcosa di buono. E' per via di una battuta, niente più di una battuta fatta dopo un bicchiere di troppo. E' sempre stato solo e soltanto questo. Ma non preoccuparti, non ti starò più tra i piedi mentre ne fai ciò che vuoi. E per rispondere alla tua domanda," aggiunge, mentre io non riesco a fare altro che rimane impietrito sul posto, con ghiaia ruvida a riempirmi la bocca e mangiarsi qualsiasi replica, "No. Non voglio prenderti a pugni."

Prende la sua ventiquattrore, tre passi decisi, ed è fuori dalla porta. Io allungo una mano dietro di me, verso il bordo del tavolo che tasto in cerca di supporto.

Non mi ha preso a pugni. Mi ha squartato dritto nello stomaco, cazzo.


***


Tre aspetti devono essere provati per stabilire la colpevolezza in un misfatto.

Mezzi. Movente. Occasione.

L'occasione si presentò quando scivolai nell'ufficio di mio padre, blaterando alla sua preoccupata segretaria che volevo solo sonnecchiare un po' sul suo divano. Impietositi dalla notizia dell'incidente, bastò quello per assicurarmi di essere lasciato in pace.

Stefan mi aveva detto una volta che mio padre cambiava le sue password di accesso circa ogni tre mesi, ma che non se le ricordava mai e per questo aveva preso l'abitudine di scribacchiarle tra le note a margine degli appunti, confondendole in mezzo al resto. Bastava sapere dove guardare. Ne provai tre, prima di trovare quella giusta.

In tutta onestà, volevo davvero solo ficcanasare. Passai in rassegna tutto ciò che si potesse ricollegare al progetto di cui l'avevo sentito parlare la notte prima: piani e cianografie di ristrutturazioni dal valore di migliaia e migliaia di dollari, contratti, registri, scambi di email. Non era neanche una cosa futura e possibilistica. Era già in moto. Eccetto ovviamente per il dettaglio di quel bar che se ne stava in mezzo a tutto, e che stava andando a fondo sotto ad una gestione pessima, ma senza decidersi davvero a togliersi dalla scena. Una doppia ipoteca non era certo una roba che il signor Gilbert potesse recuperare in poco tempo. Ma la stessa cifra era una nocciolina per mio padre, che aveva preso quel debito e lo stava usando come leva per intentare una procedura fallimentare.

Solo che mio padre davvero era bravo in quel che faceva. Se si metteva in testa una cosa, non avevo dubbi su che squalo potesse essere. Ma era anche uno squalo estremamente preciso, ed estremamente corretto. Giocava secondo le regole, pur sfruttandole a suo piacimento, cosa che conoscendolo non era certo un sorpresa. Sfortunatamente per me, ciò voleva anche dire che in mano non avevo niente, neanche la più piccola cosa, per fargli fare anche solo un minimo di retromarcia.

A meno che le cose non fossero giusto quel poco un tantino meno immacolate.

Ora, il movente. Quello era facile. Un po' di carte arruffate qua e là avrebbero rallentato le cose, magari dato al padre di Elena un po' di tempo per smetterla di fare il cazzone e darsi una sistemata.

Per quel che riguarda i mezzi … Su una cosa mio padre aveva ragione: avevo sempre avuto un cervello fin troppo sveglio per il mio stesso bene. Non ci impiegai tanto, in tutto quel ficcanasare, a capire come l'intero progetto funzionasse. Un paio di ore, e non c'era un bilancio, una riga o una colonna, che non avesse ricevuto una piccola rettifica.

Il vero problema fu che mi riuscì bene. Fin troppo bene.


Quando me ne andai, un formicolio pulsante aveva iniziato a circolarmi tra le dita. Era iniziato lì, sulla punta dei polpastrelli, e si era preso le braccia, il petto, mescolandosi con il battito veloce sotto alle mie costole ed un leggero, strisciante, improvviso senso di nausea.

Lo scrollai via attribuendolo agli effetti residui della commozione, mi dissi che in un secondo sarebbe passato.

Ero passato dal Grill per parlare con Elena di questo. Beh, non di tutta la storia su mezzi, movente e occasione, chiaro. Ma almeno per farle sapere qual era la situazione, perché perfino io - nella mia totale inesperienza in termini di relazioni sane - avevo un po' la sensazione che, qualsiasi cosa ci fosse tra noi, in qualsiasi direzione stesse andando, iniziare con il tenerle nascosto il fatto che mio padre aveva intenzione di farli chiudere non era il massimo come premessa.

Solo che poi, proprio mentre stavo per farlo, mi aveva preso la mano e mi aveva guardato e mi aveva trascinato via. E da lì in poi, non ne ero stato più in grado.

Solo una cosa rimane di quel pomeriggio, solo una cosa capace di far andare via anche quel fastidioso, insistente formicolio.

Elena, sull'erba, mia.

Non per via del sesso, no. Per il modo in cui l'avevo sentita ridere. Per il leggero accenno di rossore con cui mi aveva detto che sapeva come erano andate le cose con la collana. Per l'impaziente, dolce, esitante, modo in cui mi avevo toccato e cercato per essere toccata a sua volta. Per lo sguardo scuro e intenso con cui aveva guardato in su, da sotto di me, mentre mi muovevo in lei e mi sentivo scoppiare via il petto.

L'avevo lasciata andare a dir poco controvoglia, fuori dal Grill, sotto ad una pioggia così fitta da non vedere mezzo metro in fronte a te. Controvoglia, con un bacio ed un promessa che non avrei mantenuto.


Naturalmente, mi aspettavo di trovare mio padre furioso. Era quello che volevo, dopotutto. Mi aspettavo di trovarlo pronto a confrontarmi, con quello sguardo gelido e fuori di sé di quando era seriamente, estremamente incazzato.

Ma fu chiaro non appena arrivai a casa, che ciò che invece mi trovai davanti era piuttosto diverso dalle mie aspettative.

Mi stava aspettando dentro la depandance. Seduto sul divano, appena chino in avanti, lo sguardo intento su un punto davanti a sé che non stava davvero vedendo.

Fu seguendo quello sguardo che vidi un paio dei miei borsoni gettati sopra il tavolo, riempiti fino all'orlo. Dando un'occhiata attorno, vidi anche che tutto ciò che c'era di mio, era sparito.

"Che succede?" domandai, appena con una leggera nota preoccupata a trasparire dalla voce.

Mio padre si alzò lentamente in piedi. Indicò le sacche.

"La maggior parte della tua roba è lì. Ti voglio fuori di qui. Una volta per tutte. Stasera."

Rimasi congelato sul posto, incapace di muovermi. Sì, di minacce simili ne aveva fatte così tante, sopratutto nel mezzo di discussioni accanite, che avevo perfino perso il conto. Ma erano sempre finite nel niente, non aveva mai davvero fatto sul serio. Lo guardai, cercando la stessa cosa. Cercai la rabbia, l'ostinazione, la voce forte, qualcosa. Quella calma innaturale, quel tono svuotato, quelle spalle curve, il modo in cui guardava fuori dalla finestra invece che verso di me, niente di tutto ciò era davvero lui. Fu quello a farmi tornare violento il pizzicore sotto la pelle, un peso duro sul petto.

Contrassi involontariamente la bocca in un mezzo sorriso. "Stai scherzando, vero?"

"No," disse nella stessa voce atona. Corrugò appena la fronte, lo vidi nel riflesso del vetro. "Non hai bisogno di chiedere perché, giusto?" Non aspettò una risposta. "No, infatti. Lo immaginavo."

In quel momento riconobbi il formicolio, la nausea, per quello che erano. Colpa. Era una strana, nuova sensazione, dal sapore così diverso, infinitamente peggiore, di tutta la rabbia che avrei mai potuto provare, dolciastro e marcio.

"Ok, senti," dissi, avanzando di qualche passo, le mani alzate. "Se è per quei documenti, volevo solo fare un po' di scompiglio innocente. Lo risistemo se-"

"Innocente?" mormorò voltandosi verso di me con lo stesso accigliamento indecifrabile. "Hai sovrascritto tutto. Ho passato l'intero pomeriggio al telefono con un avvocato perché tu hai, innocentemente, simulato una frode. Non appena questa cosa viene fuori, ne dovrò rispondere. Ci sarà un'inchiesta. Avremmo potuto parlarne. E' … è …" Annaspò alla ricerca di parole, ci rinunciò, scosse la testa. "Cosa c'è di innocente in questo, Damon?"

Non alzò la voce nel chiederlo, non si mostrò arrabbiato. Solo così …  triste. Mi lasciò stordito, incapace di capire che cosa avrei dovuto fare, o dire, con questa sua versione. Per favore incazzati, mi ritrovai a pensare, incazzati e basta.

"Sono sicuro che hai delle copie da qualche parte," abbozzai alzando le spalle. "Devi solo tirare fuori quelle, non ti faranno niente."

"Certo che ho le copie. Pensi che abbia importanza? Pensi che importi il risultato finale, una volta che la cosa viene fuori?"

"Allora se è questo dirò che sono stato io," replicai, con un nota più acuta nella voce che non mi piaceva per niente. "Che è stata una bravata e-"

"Giusto. Perché mio figlio che cerca di fottermi invece fa tutta un'altra impressione."

Chiusi la bocca, mentre lui si lasciava andare contro il davanzale interno della finestra e ne afferrava i bordi, guardando il pavimento. Il silenzio ticchettò via insieme al ritmo della pioggia ed in quel silenzio mi sentii soffocare.

Volevo dire che mi dispiaceva. Non sapevo se perché lo intendessi davvero o solo perché non riuscivo a sopportare, neanche un solo secondo più, di dover vedere questo sconosciuto accasciato che avevo creato io. Ma poi parlò di nuovo, in una voce ancora più incerta.

"Perché mi odi così tanto?"

Deglutii, ma risposi sinceramente. Fu a malapena un mormorio.

"Non lo so."

Rimase in silenzio per altri lunghissimi secondi, guardando lontano. Infine annuì, lentamente.

"Bene allora," disse, rialzandosi in piedi. Il cambiamento fu sottile. Ma ci fu. "Questo è tutto per me. Prendi tutte le tue cose e vattene, adesso."

Mi passò accanto, diretto verso la porta, ed io mi girai, sentendomi uno schifo.

"Papà, possiamo-"

"No, Damon, non possiamo proprio niente," mi fermò. Quando si voltò, tutto in lui era affilato, fatto solo di schegge taglienti. "Non lo so se era esattamente questo ciò che volevi, tutto questo tempo. Liberarti di me, spingermi oltre il punto di rottura. Non penso neanche che abbia davvero importanza. Non stai ascoltando, neanche adesso. Non so più cosa fare con te, non so più cosa dirti, non so più come guardarti. Ti sto dicendo di sparire dalla mia vista, da questa casa, da questa città, per farti un ultimo favore. Perché mi conosco, fin troppo bene, e se ti vedo di nuovo, lo so che mi assicurerò personalmente che tu sconti le conseguenze di tutto, e che le sconti nel peggiore dei modi. Ti sto dicendo di sparire, perché dal momento in cui esco da quella porta, tu sei come morto per me."

Avevo soltanto ghiaccio, nello stomaco e nei polmoni, quando si girò, tirò a sé la porta e la richiuse deciso dietro di sé.

Mi sedetti sul tavolo, floscio come uno straccio, e quando la realizzazione prese forma, di cos'era appena successo, fu la prima vera volta, in tutta la mia vita, che mi sentii davvero perso.


***


Potrei non aver reagito bene. Ma dopotutto, non è che io sia esattamente un maestro nel saper reagire bene.

Stefan ci prova a dissuadermi, a farmi cambiare idea. Mi ha intercettato davanti agli ascensori,  dopo che è uscito a cercarmi a riunione già iniziata quando non mi aveva visto arrivare.

Ho passato almeno venti minuti buoni in quella stanzetta dove Elijah si era preso la sua rivincita, con il petto a rintronare di un battito furioso e il cervello a roteare in un nugolo di razionali, mature e sensate reazioni davanti alla consapevolezza bruciante di aver soltanto perso tempo cercando di dimostrare qualcosa ad un uomo morto che ce l'ha avuta con me fino alla fine del suo ultimo respiro. Solo che tutte quelle razionali, mature e sensate reazioni che ho passato in rassegna, finivano un po' tutte allo stesso modo: con me che entravo in quella sala riunioni e rompevo ogni osso della faccia di Elijah.

Ma non volevo davvero rompere la faccia a Elijah. E non perché probabilmente non avrebbe fatto granché una buona impressione, davanti a tutti quei culi stretti riuniti là dentro. No. Non volevo davvero rompergli la faccia, perché quel povero cazzone alla fine non c'entrava neanche niente. Prendersela con lui sarebbe stato solo l'ultimo atto in una lunga serie di mettersi a sfasciare il dito quando il cazzo di problema è sempre stato il cielo.

Così ho fatto quello che avrei dovuto fare mesi e mesi fa. Ho mollato.

"Non puoi mollare," mi ferma Stefan, con lo sguardo sgomento ed una mano a bloccarmi la strada verso la porta dell'ascensore. "Damon, non-"

"Certo che posso. Ho chiuso con tutto questo. Non hai neanche la più pallida idea, di quanto io abbia chiuso. Ecco, tieni," strappo un pezzo di carta dagli appunti che sta ancora tenendo stretti in una mano, prendo la penna che ci ha appuntato sopra, ed uso il muro come base per scribacchiarci al volo la mia decisione. Lo firmo con una tale decisione da perforare la carta. "Con questo me ne tiro fuori e ti lascio tutta la mia quota senza chiedere niente in cambio. E' valido, non ti preoccupare. O almeno credo."

Ci prova, di nuovo, a farmi cambiare idea. Con quel pezzo strappato di carta tra le mani e tutte le sfumature di smarrito, furente, implorante, ragionevole. Mi dice che facendo così sto solo dando a tutti la soddisfazione di vedermi uscire dalla porta. Mi dice di fare la persona migliore, quella matura che ci passa sopra. Ma io non sono una persona migliore. Non lo sono mai stato. E la verità è che, in tutta onestà, non me ne frega neanche un cazzo della soddisfazione che certa gente ne può ricavare. Se la prendano, e ci facciano ciò che vogliono.

"Non lasciarmi da solo," dice infine, con gli occhi appena lucidi. "Non ti azzardare. Ti ho lasciato correre un sacco di cose negli ultimi tre mesi, ti ho lasciato correre il fatto di avermi riattaccato in faccia quando avevo appena perso mio padre e non sapevo cosa cazzo fare, ti ho lasciato passare di non esserci stato al funerale, e ti ho lasciato passare ogni singola volta in cui ti sei rinchiuso in questo dannato atteggiamento menefreghista, te l'ho lasciato fare anche se avevo un disperato bisogno di condividere tutto con te. Ti ho lasciato passare tutto perché lo so che sei un cazzone egocentrico riguardo a qualsiasi menata tu avessi con papà, ma maledizione, Damon, non puoi lasciarmi da solo anche adesso, non anche in questo."

"Hai ragione," gli dico, mandando giù tutti i frantumi appuntiti in cui si sono appena trasformate le sue parole nel momento in cui mi hanno raggiunto lo stomaco. "Sono stato un fratello schifoso per te, e mi dispiace. Mi dispiace di non averlo potuto piangere con te, e mi dispiace di averti, in quello, lasciato da solo. Ma non qui, non in questo caso, Stefan. Non hai mai avuto bisogno di me per sapere quello che stavi facendo, non ce l'hai neanche ora. Sei tu che sei migliore di me, e anche di tutto il resto delle persone che stanno là dentro. Quindi vai, per una maledetta buona volta vai, e prenditi quello che è tuo."

Quando le porte dell'ascensore si chiudono sulla sua faccia allibita, mi sento solo appena un po' in colpa al riguardo. Ma solo un poco. Si riprenderà, mi dico. Si riprenderà e gli passerà e nel giro di un paio d'anni sarà un altro manager sveglio e di successo in una lunga linea di uomini Salvatore svegli e di successo.

Quando sono di ritorno a Mystic Falls, c'è il sole che brilla alto nel picco della sua giornata, una calda, colorata, effervescente giornata di fine estate con giusto quel sottinteso festoso promesso dal folle circo pre-matrimoniale che invade la casa.

Lancio la giacca sul letto, mi allento la cravatta e ne sciolgo il nodo con stizza. Mi metto a rovistare nell borsone disfatto per metà che giace aperto sul pavimento della camera, gettando magliette all'aria e per terra, fino a che non trovo ciò che stavo cercando.

Vado a sedermi sulla rientranza interna della finestra e la dispiego lentamente, un angolo alla volta, finché non è tutta aperta di fronte a me, con il sole intenso a farne brillare il fitto inchiostro blu. Con un'amarezza incandescente ancora lì a pulsarmi nel petto, ci chiudo il pugno attorno, accartocciandola e pressandola e schiacciandola nel mio palmo fino a che non è niente più di una palletta di carta che vale meno di un cazzo. La lancio energicamente fin dall'altro lato del prato. La guardo volare, quella fottuta lettera, fino a che non scompare e rotola via tra sedie pieghevoli lasciate per terra ed i pezzi di un gazebo bianco montato per metà, un altro pezzo di spazzatura pronto per essere raccolto e gettato via dagli Umpa Lumpa matrimoniali nella loro operosa preparazione.

Sento una voce che conosco provenire dal corridoio, rimbalza morbida e cristallina al di là della porta, e passi che si avvicinano, ed una maniglia che gira. Mi volto immediatamente, di scatto, sorpreso, con il petto più sottosopra.

"Oh," sussulta appena Elena, quando mi vede, immobilizzandosi con una mano ancora sulla maniglia.

Ha addosso un vestito rosa chiaro che le fruscia morbido ed un po' troppo lungo attorno ai piedi. Non posso farne a meno. Percorro con lo sguardo la curva morbida del fianco che si intravede lì sotto a tutti quei drappeggi, il modo in cui le si avvolgono intorno alla vita. Ma incontro serie difficoltà a tornare a guardare altrove, quando arrivo al bordo che si apre sopra la rotondità del seno, che sbircia fuori e viene su grazie al movimento delle sue braccia, stracariche di un mucchio di vestiti colorati. Con gli occhi scivolo più su, incontro i suoi. Elena rimane lì, imbambolata, una punta più arancione sulle guance. Uno dei vestiti inizia a scivolare di lato e a sfuggirle di mano.

"Mi dispiace, stavo solo … stavamo …" Si affretta a cercare di afferrare il vestito pendente. "Caroline ha detto che potevamo usare questa stanza. Oh, cavolo!" esclama quando, nel suo tentativo di recuperare il vestito, è riuscita a farne cadere un altro, e poi un altro, fino a che tutta la sua piramide modaiola non finisce per terra.

Mi alzo per andarla ad aiutare a tirare su tutti quei vestiti setosi e scivolosi. Nel farlo, le tocco inavvertitamente la mano, lo sguardo di Elena scatta su. Quasi lo sento fisicamente, quel palpito incerto con cui restiamo a guardarci, inginocchiati sul pavimento tra vestiti da sera e le dita a tre millimetri di distanza.

Non credo che si renda davvero conto di quanto vorrei baciarla in questo momento. Baciarla come non sono riuscito a fare due sere fa, baciarla con ancora più disperazione, baciarla come se potessi davvero prenderle tutto quello che era sul punto di darmi ed affogarmici dentro. Ma quel momento è andato, perso, come molti altri che ho sprecato.

Così mi schiarisco la voce, la indico con un mezzo cenno della testa.

"Molto elegante, come look mattutino."

Elena lascia uscire una risatina leggera, solo appena tesa, si alza per lisciarsi il vestito. "Stavamo scegliendo gli abiti per le damigelle. Ero venuta a mettere via quelli che sono stati scartati."

"Felice di aiutare come posso," annuisco, alzandomi anche io.

Elena curva le labbra in un leggero sorriso, ed io mi rendo conto che il vestito che ha addosso non è del tutto chiuso sulla schiena, perché una spallina le cade lenta di lato. Con le dita le scosto i capelli dalla spalla, gliela tiro su, solo una banale patetica scusa per poterla sfiorare. Quando lo faccio, il sorriso le scivola via, sostituito da qualcosa di molto, molto più carico.

"Anche se," dico piano, davvero incapace di tirare via le dita da sotto quella spallina troppo lenta, dal contatto caldo con la sua pelle, "Non ci trovo niente di sbagliato, in questo vestito."

"Sì?" mormora lei. E' un passo, minuscolo, inevitabile, uno da parte sua ed uno da parte mia, a far sì che quel mormorio finisca ad un soffio dalla mia bocca. "Caroline invece sì."

Inclino appena la testa. "E cosa ne sa lei?…"

"E' la sposa, può riscrivere le leggi dell'universo se le va."

Ci troviamo per un altro rapido sorriso. Elena riduce ancor più le distanze, posa la fronte contro la mia, le mani sul mio petto. Chiude gli occhi, inspira. Io la inspiro ancora di più.

"Non avresti dovuto essere qui," sussurra, aggrappandosi alle estremità aperte della cravatta lasciate aperte intorno al collo, come lacci che non dovrebbero farmi scappare via.

"Neppure tu," dico altrettanto piano, con la voce più roca. "Cosa ti salta in mente, farti trovare nella mia camera, con un vestito già mezzo aperto …"

Sottolineo la mia frase tornando a farci scorrere le dita, sotto a quella spallina che vuole rendermi la vita difficile perché proprio non ce la fa a restare su.

"Non l'ho fatto di proposito …"

"Dio, Elena," esalo posando una mano sul lato del suo viso, respirando lei e la sua presenza ed il modo incerto in cui, pur volendolo da matti, nessuno dei due se la sente di annullare quegli ultimi maledetti millimetri che ancora rimangono.

Il silenzio si estende per qualche secondo.

"Come stai?" mi chiede infine.

"Potrei stare meglio. Non è stata una gran giornata," rispondo. "Beh, almeno finché non sei entrata tu in questa stanza."

Lei sorride appena, per la mia frase sdolcinata, e fa scivolare le dita su e giù sopra la cravatta sciolta.

"Mi dispiace."

"Non c'entri tu."

"No, io … Mi dispiace di essermene andata in quel modo l'altra sera," dice tutto d'un fiato. Scuote appena la testa, il suo naso inciampa contro il mio. "Insomma, mi dispiace per il modo in cui reagito, ho solo … ho perso un attimo la testa."

"Va bene. Non ti ho gettato addosso una cosa da poco."

"Già," concorda piano. Giocherella ancora più nervosamente con i lembi che si attorciglia intorno ai polpastrelli, si acciglia un po'. "Tu …?"

C'è una domanda incombente lì alla fine di quella frase, ma di che domanda si tratti non ho tempo di scoprirlo. Un paio di colpetti sulla porta rimasta socchiusa la interrompono, ci fanno sussultare, separare di un passo.

"Damon, ti ho visto rientrare e …" Charlotte si ferma, il suo sguardo si sposta rapido su Elena. "Oh. Ciao," le dice, un ammaliante ed incuriosito sorriso à-la-Charlotte che si stende rapidamente sulle sue labbra.

"Madre," la apostrofo sarcastico. "Tempismo perfetto."

Elena fa un ulteriore, incerto, passo indietro.

"Salve, signora …" si blocca, probabilmente prima di dire ‘Salvatore’, che in effetti in questo caso non si applica granché.

"Oh no," la anticipa lei con un gesto della mano, che scaccia quelle formalità. "Chiamami Charlotte. Scusate, non volevo interrompere, solo …" Si produce in un altro sorriso estasiato. "Scusate."

"Va bene," dice Elena, indicando il corridoio. "Io … Caroline probabilmente mi rivuole indietro in ogni caso."

Elena si allontana in fretta, gettandomi però uno sguardo, tra l'imbarazzato e il divertito, al di là della spalla, prima di sparire oltre la porta.

Charlotte la guarda andare e la saluta con la mano, sempre con lo stesso sorrisetto stampato sulla faccia, lo stesso che poi volta su di me, aggiungendoci giusto un tocco più ficcanaso che sembra domandarmi se per caso non si debba aspettare a breve un secondo matrimonio.

La tronco lì con un sospirato, "Cosa volevi, Charlotte?"

"Oh, niente di che," si stringe nelle spalle. "Ti ho visto tornare, e dato che stavo andando in un posto, volevo che tu mi accompagnassi." Mi fa cenno con la mano, e lo sguardo, di seguirla. "Vieni?"


"Oh, ma per favore," sbotto scocciato, quando mi è chiaro cos'è che Charlotte aveva in mente.

Getto un'occhiata all'arcata di ferro battuto che si apre su un'area di terreno irregolare, una distesa di erba smeraldina inframmezzata da pioppi, betulle e tombe grigie. Le rivolgo una smorfia. "Seriamente? Che diavolo ci facciamo qui?"

"Lo sai benissimo cosa," replica lei, sospingendomi in avanti.

"Senti," le dico, fermandomi al limitare dell'ingresso. "Di tutti i giorni, di tutti i momenti che potevi scegliere, questo è davvero il peggiore. Oggi come non mai non ho nessuna intenzione di farlo, parlare di papà. In un cavolo di cimitero, per di più."

Anche nel bel mezzo di una perfetta giornata estiva come questa, questo posto riesce a risultare così deprimente che è quasi ridicolo.

"Finiscila," controbatte, con un fare che non accetta obiezioni e che quasi la fa suonare come una madre vera. "Non c'è un giorno peggiore di un altro. E non ho detto che devi parlare, puoi anche solo … ascoltare." Mi prende per un braccio. "Cammina con me, ok?"

Soffio fra i denti, ma la lascio fare. Charlotte cammina lentamente, come se di proposito non volesse affrettare le cose, o come se di proposito volesse prolungare la mia tortura.

"Era venuto a trovarmi," dice infine, scostandosi una ciocca bionda dal viso, prima di infilarla la mano nella tasca dei pantaloni verde pallido. "A New York, intorno a marzo dello scorso anno."

Corrugo appena la fronte e mi volto a guardarla, ma lei continua come se non lo avesse notato.

"Ero nel mezzo di una presentazione e firma di copie del mio libro, quando lo vedo comparire," sorride appena tra sé e sé, nel dirlo. "Elegante. Affascinante. E' stato come se non fosse passato un solo giorno."

Arriccio le labbra in una vaga smorfia stranita, perché Charlotte che sospira sognante su mio padre è un po' l'ultima cosa sia che mi aspettavo, sia che ho voglia di stare a sentire.

"Ma davvero?" domando sarcastico. "Quello che per vent'anni non ha voluto neanche sentirti nominare."

"Sì," risponde, del tutto immune al mio tono. "Lui. Siamo andati a prendere un caffè. Dopo il caffè siamo andati a cena. Dopo la cena siamo andati a bere qualcosa in questo piccolo e intimo bar che dà sull'Hudson. E dopo … Beh," si limita a dire, schiarendosi la voce ed interrompendosi da sola.

Non ha chiaramente intenzione di condividere cosa c'è stato dopo il bar, e per fortuna aggiungerei io, dato che altrettanto chiaramente neanche io alcuna voglia di sentirglielo dire. Quindi mi sbrigo a troncare lì quella possibilità.

"Ok. Cosa voleva?"

Chissà perché, dubito che mio padre sia andato fino a New York e vent'anni nel passato per qualcosa che non ha mai avuto problemi a trovarsi vicino casa.

"Parlare." Esita. "Di te."

Mi fermo, sui miei passi. Cade un silenzio così irreale che pare si fermi anche il fruscio delle foglie. Da parte mia perché ho i polmoni più rigidi tutto d'un colpo, da parte sua perché ha adesso in faccia quell'espressione distante di quando si perde in un mondo tutto suo e si dimentica perfino di ciò che stava facendo. Poi mi tira in avanti, riprendiamo a camminare. Non ho intenzione di chiedere, cazzo che no. Ma i secondi che impiega a continuare sono un'eternità.

"Abbiamo parlato tutta la notte. Di te, di Stefan … Sai, immagino che, quando hai dei figli con qualcuno, quel tipo di legame … Non se ne vada mai del tutto."

Serro le labbra, non dico niente.

"Perché lo avrebbe fatto?" chiedo poi, odiando la voce più incerta che mi esce fuori. "Così, dal niente."

"Perché ne aveva bisogno," risponde semplicemente. "E poi non penso che fosse davvero qualcosa uscita dal niente. Forse più … non lo so, questo peso che cresce lentamente, fino a che non diventa qualcos'altro e non lo puoi sopportare più. Forse stava invecchiando. Ma mi aveva detto di aver iniziato a conoscere questa ragazza, a cui una volta eri vicino, che per tutta una serie di cose si era ritrovato a pensare a te."

Ho la bocca come cemento, lo stomaco come un puntaspilli.

"Anzi, no, non è esatto," prosegue lei, sempre persa in un filo di pensieri tutto suo. "Non ha mai smesso di pensare a te. Pensarci in modo diverso, magari. Qualunque fosse il motivo, credo che avesse bisogno di condividere alcune cose, farle uscire, con qualcuno che potesse capire. Non solo quella volta lì. Ce ne sono state altre, dei weekend, e telefonate, altri … weekend. Sai, era piuttosto difficile riuscire a smettere."

Devo fermarmi un'altra volta, perché tra tutti i pensieri e concetti e stati d'animo che mi vorticano impazziti per la testa, quello è forse il più difficile di tutti da afferrare.

"Mi stai dicendo …" Mi sento come quei ragazzini che scoprono per la prima volta cosa si prova a beccare a letto insieme i propri genitori. Non è una bella cosa. "… che avete avuto una tresca?"

"Ti sto dicendo," ribatte, appena spazientita. "Che so come si sentiva riguardo a te."

Si gira, allunga le mani per togliermi via pelucchi invisibili dalla spalla. "Che gli piaceva sentirmi raccontare di ogni volta che ti sono venuta a trovare, e sapere come te la stavi passando. Che aveva un sacco di rimpianti. Che non sapeva se tu lo volessi di nuovo nella tua vita, ma che non riusciva a decidersi di scoprirlo. Dopotutto, sei venuto su bene anche senza di lui." Si ferma appena, sull'ultima frase. "Era piuttosto fiero."

Chiudo un attimo gli occhi e devo prendere un profondo respiro. Quando lo rilascio, però, tutto ciò che ne esce fuori è una breve risata amarognola, che fa vibrare e sferragliare tutti i pezzi taglienti che ho dentro.

"Ecco, vedi, è qui che stai esagerando. Non era poi così fiero, se l'unico motivo per cui mi ha lasciato in mano la sua compagnia era per ribadire il fatto che ero stato io a rovinarla tanto per cominciare."

Charlotte increspa le sopracciglia confusa.

"Chi ti ha detto questo?"

Replico con una smorfia. "Il suo direttore finanziario."

Lei mi guarda, perplessa, qualche secondo. Poi scoppia improvvisamente a ridere.

"Sembra proprio qualcosa che Giuseppe avrebbe fatto!"

Davanti all'espressione accigliata con cui la sto guardando, che silenziosamente le chiede se pensa così di farmi sentire meglio o solo di prendermi per il culo, lei mi dà un colpetto sul braccio.

"Oh, andiamo! Probabilmente ha pensato che ne avresti saputo apprezzare l'ironia. Cielo, che temperamento che aveva. Lo amavo per quello."

Charlotte si passa un dito sotto alla palpebra, per asciugarla, con la risata sempre sulle labbra. Scuoto la testa. Il gusto amaro che ho in bocca ancora non se ne va.

"Ah sì? Eppure lo hai lasciato lo stesso. Lui e noi."

Non è davvero un'accusa, quanto un ultimo testardo tentativo di contraddirla in ciò che sta dicendo. Beh, forse un po' un'accusa lo è.

Il suo sorriso si fa più triste, inclina appena la testa di lato.

"Avevo diciannove anni quando ho scoperto di te, Damon. Avevo tutti questi sogni e tutti questi progetti, tutte le cose che avrei potuto fare e vedere. Volevo viaggiare, volevo ballare, volevo … Forse troppe cose. Ed ho visto sparire tutto così, in un solo istante. L'unica ragione per cui ho pensato che avrei potuto farlo, sposarmi e avere dei figli, è stato perché era lui. E per favore, tesoro, non prenderla nel modo sbagliato. Non è che non amassi te e Stefan, perché vi ho sempre amato tanto, e ci ho provato, davvero ci ho provato, ad essere quella persona, quella che mette gli altri prima di sé, ma … Non ero davvero brava a fare la moglie e la madre. La mia testa era … sempre altrove, persa in altre cose. E così sono arrivati i litigi, e i tradimenti, e … l'amore non conta in certi casi, finisce solo per trasformarsi in qualcos'altro. A volte, penso che abbiamo solo avuto un pessimo, davvero pessimo, tempismo."

Charlotte si schiarisce la voce, adesso più incerta, più spezzata. E' quando vedo altra umidità spuntarle lì tra le ciglia, anche se la tira via in fretta, che mi ritrovo a domandarmi quanto il sottile cambiamento che l'ha resa ancora più esile e che le ha lasciato linee più profonde abbia a che vedere con la tomba che è qui adesso davanti a noi.

"Quindi," dice, sollevando il mento. "Io vado adesso. Ma tu se vuoi rimani qui, ok?"

Ho ancora la bocca pesante, ma riesco lo stesso a chiederle.

"Perché?"

Semplicemente, dice, "Perché ne hai bisogno."


***


Non sto a dire cosa mi è passato per la testa, cosa c'è stato tra me e quella tomba. Tutte le gradazioni di rabbia, sofferenza, senso di colpa, e del sapore amaro del rimorso. Ma sì, il lutto l'ho sentito. Tre mesi, otto anni, che mi sono piombati addosso tutti insieme, artigliandomi le interiora, torcendomi l'addome, soffocandomi alla gola. Niente a che vedere con quelle conversazioni silenziose che si vedono nei film, in cui sistemi quel che devi sistemare e finalmente trovi pace. Non ho sistemato niente, non ho trovato nessuna pace. Quando infine volto le spalle e me ne vado, però, alcune cose le ho capite.

Cose che ho bisogno di far uscire, con qualcuno che possa capire.


(Run - Snow Patrol)

La mattina era grigia e sbiadita e innaffiata di altra pioggia.

Sapevo che l'avrei trovata a casa perché era così presto da essere a malapena l'alba. Le scrissi in un messaggio di scendere e di uscire sul portico, mi sedetti sui gradini, li trovai bagnati, mi rialzai, camminai - una sequenza di azioni dettata solo dal non saperlo neanche io, che cosa mi stesse davvero passando per la testa.

Avevo passato la notte sul divano di Enzo. Una notte insonne e lunga di sigarette, ancora più anti-dolorifici, e pessime scelte.

Non appena lo shock stordito di mio padre che aveva smesso di essere mio padre aveva iniziato a depositarsi e darmi modo di pensare, qualcos'altro l'aveva scacciato e ne aveva preso il posto. Rabbia. Un sacco di rabbia. Rabbia come non ne avevo mai provata - fredda, distruttrice, protettiva.

Se l'era cercata lui. Lo aveva voluto lui. Per ogni volta in cui mi aveva voluto vedere come quello che non ero, per ogni volta che non aveva ascoltato, per ogni volta che non era stato ciò che io avrei voluto.

Enzo l'aveva fatta facile. "Bene, allora, andiamocene, prima cosa domani mattina."

La palla stretta di rabbia gridava di sì. Fanculo lui, fanculo questa città, fanculo lui. Se non voleva più vedermi, poteva starne certo che neanche io avrei più voluto vedere lui.

Ma poi ero anche rimasto a fissare imbambolato ogni singola delle chiamate senza risposta di Elena. Cosa le avrei detto? Cosa avrei fatto con lei? C'era solo un enorme, gigantesco nulla in risposta a quelle domande.

Perché non potevo restare. Non adesso, dopo tutto quel che era successo.

Perché non potevo sopportare l'idea di lasciarla. Non adesso, non dopo tutto quello c'era stato.

Sentii aprirsi la porta, il petto prese a battermi furioso. Come mi voltai, Elena si bloccò.

Lo seppi che c'era qualcosa di diverso fin da quel momento. Non avrei saputo dire cosa, o perché, ma c'era. C'era nell'espressione che aveva, tesa, distante, stanca, quando mise piede sul portico; c'era nel modo in cui si irrigidì stringendosi la felpa al petto.

"Cos'è successo?" domandai.

Elena strinse le labbra, tremarono appena.

"Dov'eri, Damon?"

"Io …" Scossi la testa. "Sono stato preso da alcune cose."

"Ti ho chiamato."

"Lo so, mi dispiace, io …" Non fui in grado di finire.

I suoi occhi non mi stavano guardando, ma erano andati oltre, dietro la mia spalla, verso Enzo sul sedile del guidatore della sua auto che soffiava denso fumo biancastro di sigaretta fuori dal finestrino.

Vidi l'esatto momento in cui quel fatto si infiltrò nella sua espressione. Torno a voltarsi verso di me, lo sguardo più largo. Non lo disse come una domanda.

"Te ne stai andando."

"Elena," avanzai verso di lei, le presi il volto tra le mani, gli occhi nei suoi.

Ci vidi dentro un intento delicato ma fermo, come se da un lato stesse cercando di leggermi addosso quali fossero le mie intenzioni, eppure da un altro le avesse già decretate da sola.

"Ho solo … Ho solo bisogno di cambiare aria per un po'". Le dissi esattamente ciò che avevo detto a Stefan solo pochi momenti prima, mentre gli mettevo in mano le chiavi della Camaro. Le sapevo ormai quasi a memoria, quelle frasi, da quanto ci volevo credere. "Non per molto. Solo finché non sistemo alcune cose, e poi-"

"Te ne stai andando," ripeté, facendo un passo indietro.

Non glielo permisi, ma serrai le mani ancora di più intorno al suo viso.

"No," dissi, con un nodo alla gola. Perché non lo stavo facendo. Avevo un piano. Ovvero lasciare che mio padre sbollisse, che tutto quel casino passasse nel giro di un paio di mesi, chiamarla ogni giorno, inventarmi qualcosa. "No, io non-"

Elena prese la mia mano nella sua e la scansò, con gentilezza e decisione, dal suo viso.

"Certo che lo stai facendo," disse, con un piccolo sorriso ed una voce altrettanto piccola. Annuì, mentre si passava due dita sotto alle ciglia. "Va bene."

"No," ribattei fermo. "Non va bene. Tra un po'-"

"Tra un po' cosa?" mi interruppe, indietreggiando e mettendo ancora più le distanze, alzando appena il tono. "Tu non vuoi restare qui. Non lo hai mai voluto. Tu …"

Inciampò sulle parole, si coprì la bocca con una mano. Riafferrò i bordi della felpa e la richiuse, ancora più stretta attorno alla vita, davanti ad un soffio più freddo di vento.

Avrei voluto afferrarla e tirarla a me, solo perché adesso sapevo cosa si provasse a tenerla stretta quel modo completamente diverso, solo perché volevo che lo provasse anche lei, solo perché volevo poterlo fare almeno un'altra dannata volta.

Ma lei continuava a ritrarsi, di poco ma lo faceva, ad ogni minimo movimento con cui mi tentavo di riavvicinarmi a lei.

"Quante volte lo hai detto, Damon? Non hai niente a tenerti qui."

Quella cosa non era mai stata così vera. Eppure così sbagliata.

"Ho te."

"Me?" mi fece eco, più amara. "Che cosa avresti con me?"

Questa volta, non le permisi di sottrarsi. La raggiunsi sul bordo del portico dove si era ritratta e dove gocce più spesse cadevano dalla grondaia, pesanti contro i nostri fianchi. Intrecciai le dita tra i suoi capelli, le sfiorai con il pollice la guancia, le cercai lo sguardo.

"Tutto."

Una breve pressione della sua guancia contro il mio palmo, un sorriso triste, e si era ritratta di nuovo.

"Tu vuoi andartene," ribadì.

"Solo perché ne ho bisogno in questo momento!" replicai con più forza, frustrato dalla sua testardaggine, dal suo non voler vedere. "Ma è solo per adesso, in un paio di mesi, o un anno, come avevamo detto, quando tu …"

"Ma io non posso farlo!" ribatté con altrettanta intensità. "Non lo capisci? Non in un paio di mesi, o in un anno, o in alcuni! Non posso essere come te, Damon, non posso, i-io…"

"Ok, allora! Allora vorrà dire che tornerò da te non appena avrò-"

"Perché?" gridò. "Perché mai dovresti volerlo fare quando non è quello che vuoi, perché-"

"Perché ti amo, dannazione!"

"Beh, io non amo te!"

Smettemmo di urlarci contro a quella frase. Tutto si fece immobile, e quieto, solo con un vago eco persistente in cui quella frase era rimasta appesa, sparata come un colpo di pistola partito all'improvviso e che lascia nell'aria soltanto l'odore acre di polvere da sparo.

"E' quella la ragione?" proseguì lei, con un luccichio all'angolo dell'occhio che non sapevo se era di lacrime o di sfida. "Io sono la ragione? Allora non farti problemi, perché non ce n'è bisogno. Io non ho mai … detto, o … Non voglio, non ho … m-mai voluto … non …"

Aveva iniziato ad incespicare sulle parole, a balbettare solo sconnessi "non" e "mai" che ero troppo frastornato per mettere in un vero contesto, perché tutto ciò che in me si rifiutava di crederle era troppo schiacciato tra tutto ciò che invece ci aveva creduto e, ancora una volta, non avrebbe mai dovuto. Quante volte, eravamo arrivati a questo? Quante volte mi aveva tirato a sé solo per spingermi via con ancora più forza di prima? E quante altre volte lo avrei dovuto rivivere, prima di imparare la lezione con lei?

Elena, sull'erba, mia non lo era poi davvero mai stata.  Ed il giorno prima era adesso uno squarcio in mezzo al petto che desiderai non fosse mai avvenuto. Chiusi gli occhi un momento, per riprendere fiato. Ma dovevo sentirmelo dire da lei.

"E ieri, Elena?" domandai con la gola che sotto a quelle parole finiva di spaccarsi. "Che cos'è stato allora ieri?"

"Un momento," rispose alzando le spalle, guardando altrove. "Solo … un momento. Mi dispiace se hai pensato … Non avrebbe … dovuto … i-io…"

Non lo sapeva neanche lei cosa stesse dicendo. Nè io sapevo cosa stessi davvero ascoltando.

"Maledizione, Damon!" mi gridò addosso, in un singhiozzo, o un'esasperazione, o un altro schiaffo in faccia. "Vattene, ok? Vattene e basta e lasciami in pace!" finì di urlarmi contro, voltandosi in uno scatto di spettinati capelli scuri, elettrici di pioggia, e di un portone sbattuto.

Fu l'ultima cosa che vidi di lei.

Arretrai sui gradini, stordito, fradicio, a pezzi.

Era tutto lì. Era tutto lì ed io, in un solo attimo, non avevo più niente.


Inizio a parlare che ho malapena varcato la sua soglia di casa. Inizio a parlare, ed Elena sbatte velocemente le palpebre, disorientata, una mano ancora sulla porta.

Inizio a parlare in fretta, perché la storia non l'ho mai ammessa e non l'ho mai confessata, e nel momento in cui inizio a farlo viene fuori da sola, vivida come se fosse ieri, acerba come il sapore che non ha mai perso.

Elena mi osserva sorpresa, turbata, smarrita, nel tentativo di starmi dietro, di mettere insieme dei pezzi che non del tutto, nel modo in cui vengono fuori, riescono ad avere un senso compiuto.

"Stai dicendo …" mi dice infine, aggrottando appena le sopracciglia. "… che hai cercato di non far risultare i debiti di mio padre?"

"No." Mi passo una mano sulla faccia e mi lascio cadere sul suo divano con un sospiro amareggiato. "Cazzo, no. Lo avrei fatto se avessi potuto, ma no. Ci vuole qualcosa di più di qualche documento falsificato per quello."

"Beh, lo so," risponde lei seria, sedendosi accanto a me. "Mio zio John ha rilevato quel debito, a condizione che mio padre iniziasse a vedere gli alcolisti anonimi. Non che sia durato tanto, quelle prime volte, ma comunque … " Elena posa una mano sulla mia. "Damon. Cosa vuoi dire?"

"Voglio dire che," deglutisco, a fatica, intreccio le dita alle sue. "Voglio dire che ho fatto una cazzata, che non avevo la minima di che conseguenze avrebbe avuto. Ero così fottuto nella testa in quel momento, e non sapevo cosa fare, e … Non avrei mai voluto lasciarti."

Elena prende un respiro incerto, mentre sposta lo sguardo sulla sua mano chiusa sopra la mia e la stringe ancora di più. Piega appena le labbra in un sorriso, che però poi svanisce in qualcosa più distante.

"L'ho sempre pensato, sempre saputo, che prima o poi te ne saresti andato. Che tu volessi altro, fare a modo tuo. Ma poi ho capito che ci avresti rinunciato per me e, Damon, io non sarei andata da nessuna parte." E' quasi convulso il modo in cui mi tiene strette le dita. "Non avrei mai lasciato mio padre e mio fratello, non in quella situazione, non in un anno, non in cinque. Non volevo toglierti qualcosa, solo perché io non lo potevo avere."

Sollevo lo sguardo sul suo viso, vedo ciò che vede anche lei. Che siamo stati così incastrati in tutto ciò di cui avevamo paura da non vedere niente al di là di quello. Reciproco la sua presa salda, entrambi accenniamo un sorriso.

Elena mi tira a sé, posa la fronte contro la mia.

"Quindi sono stata io," sospira. "Sono io il motivo per cui non hai più parlato con tuo padre, perché-"

"No, Elena," la fermo, scuotendo la testa. "Non sei mai stata tu. No, era tutto lì da prima, e per così tanti motivi che … che non li saprei più neanche io. Voglio dire, forse è vero, è quello ciò che mi sono detto al tempo, che lo stavo in qualche modo facendo per te, ma  … la verità? L'ho fatto perché volevo farlo incazzare. Perché sapevo che l'avrebbe incasinato alla grande ed era quello che volevo. Perché volevo fargli dal male. Ed è stato così, gliel'ho fatto. Non per il problema che gli ho creato, o quelli che ne sono seguiti. Ma perché gli ho fatto credere di odiarlo." Mi sento bruciare per tutta quella rabbia di difesa che si rompe, si logora, e lascia solo il vuoto. "E non ho mai avuto la possibilità di sistemare le cose, e adesso non ce l'avrò più. Perché non era vero che lo odiavo, Elena. Non davvero, non era vero."

Non ho più niente in gola, consumata dal non riuscire a trovare altre parole. Elena mi stringe, avvolge un braccio attorno alla mia testa, posa piano la guancia contro il mio orecchio.

"Lo so, Damon. Lo so."


Charlotte è destinata a rimanere estremamente delusa, perché no, non ho pianto. Non che non abbia sentito un vago pungere negli occhi, o una presa stringente tra le costole. Non è neanche che non volessi farlo. Non ho potuto e basta, perché non c'era niente di liberatorio, né mai davvero ci sarebbe stato.

Ma Elena lo ha fatto per me, se può contare qualcosa. L'ho sentito nei baci salati che mi ha posato sulla guancia, e sul lato della testa, e l'ho sentito in quella gocciolina che le è scesa lungo il mento dove stavo appoggiando il volto, con le sue dita intrecciate tra i capelli e la sua testa sopra la mia spalla.

E per questa cosa, l'ho amata. Beh, sai che scoperta, insomma, ho sempre amato Elena, da quando era una ragazzina con le gambe troppo lunghe e i comportamenti troppo cocciuti. Ma in quel preciso istante, l'ho amata in modo diverso, senza niente a trattenermi, niente dietro cui ripararsi, perché lo aveva visto davvero quanto fossi pieno di stronzate eppure era ancora lì, ad avvolgermi di Elena e riempirmi di Elena, e se una volta pensavo di non poterla amare di più, da lì ho saputo che mi sarei sempre sbagliato a quel riguardo.

Non gliel'ho detto, naturalmente. Le mie frasi sdolcinate le lascio per il flirt quando tento di sedurla.

Non gliel'ho detto in parole come non ho fatto mille altre volte, ma gliel'ho fatto sapere nel modo in cui l'ho tirata verso di me, e posato le labbra su quella gocciolina di lacrima scesa lungo il mento, e su verso la guancia, su verso la bocca. E, come mille altre volte, lei ha capito cosa volessi dire, e lo ha messo tutto nella presa ferma alla base del mio collo con cui ha fatto scontrare la mia bocca sulla sua.

L'ho amata e non gliel'ho detto lì sul pavimento ai piedi del divano, tirandole via di dosso i vestiti con una delicatezza macchiata dall'impellenza, in ogni bacio lento e febbrile con cui sono sceso su di lei, in ginocchio per lei, la gonna tirata frettolosamente su e spiegazzata tra le mie mani. L'ho amata e lei l'ha capito in ogni sospiro che le ho preso e in ognuno di quelli che mi ha tirato fuori, con le mani sul mio petto a tenermi giù, e quel suo modo diabolico di muovere i fianchi, e quello amorevole di accarezzarmi la schiena. L'ho amata come l'avevo amata la prima volta, e come avrei fatto l'ultima. E quello sì, che è stato liberatorio.

La tengo tra le braccia, mentre lei rannicchiata tra le mie gambe posa il retro della testa sulla mia spalla, con una mano attorno alla sua vita ed il peso morbido del suo seno contro l'avambraccio. Sollevo la testa dalla leggera, lenta traccia di baci che le stavo lasciando lungo il collo, e vedo cosa c'è lì davanti sul tavolo.

"Come è andato quel tuo incontro con quel consulente studentesco?" le domando.

"Mmh?" replica, distratta, alzando appena la nuca e tornando ad aprire gli occhi. Vede ciò che le indico con un cenno della testa, quei moduli per l'ammissione sparpagliati sul tavolo. "Oh, sì. Sì, è andato bene. Le ammissioni per le università aprono solo in primavera, quindi per ora si tratta sopratutto di capire in cosa mi interessa specializzarmi davvero. Posso iniziare da un community college per cui le iscrizioni sono aperte tutto l'anno, e nel mentre preparare una domanda di trasferimento, oppure usare questi mesi per capirlo."

"Mi sembrano entrambi ottimi piani," dico, posandole un altro bacio sopra la spalla.

Elena giocherella con le mia dita intrecciate sul suo fianco.

"Ed i tuoi di piani?" chiede esitante. "Cioè, con Katherine e …"

"… il mini-anticristo, vuoi dire?"

Elena si volta di scatto, esterrefatta, ammonendomi con lo sguardo.

"Scusa," mi affretto a dire. "Scusa. Ho promesso a Caroline che avrei smesso di chiamarlo così."

Sospiro, scrollo le spalle. "Non lo so. Insomma, cosa dovrei fare? Katherine è stata molto chiara sul fatto di non volerne sapere, quindi … Immagino che sia tutto qui."

"E a te sta bene? …" prosegue lei, passandomi il pollice sul dorso della mano. "Che sia tutto qui?"

Poso il mento sulla sua testa, il mio petto si contrae.

"Sinceramente, Elena? Non lo so cosa mi sta bene, o cosa dovrebbe starmi bene. Voglio dire, non è che lo volessi, con Katherine per di più, e se uno guarda alla situazione in modo razionale lo so che dovrei provare un gran senso di sollievo. E' solo che … non è proprio così. Continuo ad aspettare che faccia effetto, tipo quegli antidolorifici a scoppio ritardato, ma …" Mi fermo, devo prendere un altro respiro che rilascio sopra i suoi capelli. "… Non lo so, non ne esco davvero fuori."

"Damon," dice, allacciando le dita tra le mie. "Tu lo vuoi questo bambino?"

Mi rendo conto, mentre me lo chiede, che è la prima persona a domandarmelo davvero, senza né sarcasmo né tanti giri di parole. Le bacio la tempia, la stringo di più a me.

"Perché dovrei volerlo?" le dico. "L'ultima cosa di cui ho bisogno è ritrovarmi ad avere un figlio. Andiamo, guarda la mia vita, è perfetta così. Ho comprato da poco un appartamento favoloso che è fatto per soli adulti, neanche nel lavoro ho nessuno che mi dica cosa fare, e adesso potrei stare con te, neo-studentessa che è davvero abbastanza pazza da pensare di cercare un college dall'altro lato del paese per stare con me. E potremmo davvero, seriamente, avere buona possibilità di far funzionare le cose. Perché mai dovrei voler rinunciare a tutto questo? Sappi che non ho nessuna intenzione di farti una cosa del genere. Tirarti nel mezzo a crescere il figlio di qualcun altro proprio adesso che per la prima volta hai la possibilità di fare qualcosa solo per te stessa."

"Questo lo so." Quando si volta a guardarmi, c'è un accenno appena rattristato nel suo sorriso. "Ma lo vuoi lo stesso, non è vero? Ti conosco troppo bene, Damon Salvatore, per credere alle tue bugie."

Resto in silenzio ed Elena posa una mano sulla mia guancia. Lascio andare il viso contro il calore del suo palmo, mentre lei mi osserva per un lungo istante.

"Forse, ecco cos'è," dice soltanto. "La tua possibilità di sistemare le cose."

Non aggiunge altro, e non lo faccio neanche io. Ma sto ancora pensando a cosa ha detto quando infine ci decidiamo a raccogliere i vestiti sparsi sopra il pavimento, e getto uno sguardo al display del telefono e so che Katherine non se andrà prima di un'altra ora, ed un pensiero completamente, assolutamente, non razionale inizia a prendere forma nella mia testa.

"A proposito," Elena riattira la mia attenzione, si tira su la zip laterale della gonna. Prende la sua borsa e ne tira fuori un pezzo di carta spiegazzato, macchiato, pestato, che è stato lisciato e ripiegato attentamente a metà, per quanto tutti quei segni lo potessero permettere. Me lo passa tenendolo tra due dita. "L'ho calpestato quando ho lasciato casa vostra questo pomeriggio. Ho smesso di leggere quando ho capito di che si trattasse, ma … Non so, ho pensato che potessi rivolerla indietro."

Ci sono una nuova chiazza d'erba e diversi segni di ghiaia, ma la riconoscerei dovunque, quella maledetta lettera che ancora mi perseguita. Non so se piangere o ridere. La seconda, a quanto pare.

"Cosa?" mi chiede lei davanti alla mia risata, con l'abbozzo di un sorriso smarrito di chi si è appena perso il senso della barzelletta.

Me la riprendo, la piego un'altra volta e la infilo nella tasca dei jeans nell'alzarmi in piedi.

"Niente. Stavo solo pensando, che ne avrebbe apprezzato l'ironia."


——————————————————————


Ps. Manca l'epilogo, sì - ovvero il fiocco (rosa o blu?) per chiudere il pacchetto. Ma credo che quello arriverà quando la sappy sentimentale che sono sarò pronta, del tutto e per davvero, a dire addio.

   
 
Leggi le 14 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The Vampire Diaries / Vai alla pagina dell'autore: everlily